di Romano Maria Levante
Termina la nostra visita alla mostra “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, al Palazzo del Quirinale nella Galleria di Alessandro VII dal 10 settembre al 9 ottobre 2016 che va da un’opera di contenuto umano e spirituale come “Spes contra Spem”, ad opere su temi religiosi, biblici ed evangelici in un percorso che culmina con la “Crocifissione”, il grande dipinto del 1940-41 a cui è dedicato questo terzo articolo conclusivo. Organizzata dagli “Archivi Guttuso”, con “Civita”, ne sono curatori Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli Archivi e Crispino Valenziano, presidente della Accademia Teologica ‘via pulchritudinis’; hanno curato pure il Catalogo di De Luca Edtori d’Arte. Di Crispino Valenziano anche il libro “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio” , De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, sulle opere viste in chiave biblica ed evangelica e interpretate in base agli scritti dell’artista e alle sue confidenze.
Dopo aver ripercorso l’itinerario artistico, civile e umano di Guttuso, anche in prospettiva religiosa, e aver commentato le opere presentate nella mostra, con la variante di essere partiti da “Spes contra Spem” che nella visita si incontra al termine dell’esposizione, siamo giunti al culmine. La rappresentazione biblica ed evangelica, dalla Creazione, Adamo, Caino e Abele al legno della Croce, dalla fuga in Egitto all’ingresso a Gerusalemme, dalla conversione di Saulo alla Passione di Cristo, deriso e flagellato, non poteva che concludersi con la “Crocifissione”.
La sua gestazione è stata tormentata, come ha affermato l’artista. Prima aveva pensato di ambientare la scena altamente drammatica in un luogo affollato, poi cambiò idea e si orientò su un luogo chiuso, una stanza di tortura metafora di “come si uccide nel tempo moderno”, realizzando in conformità di tale visione gli studi preparatori del 1935 che abbiamo commentato in precedenza. Infine la decisione finale, un luogo aperto ma non affollato, con il Cristo crocifisso quasi compresso dalle croci dei due ladroni poste in prospettiva ravvicinata, tra le “tre Marie” e gli aguzzini con i loro cavalli. Lui stesso lo spiega così: “Cambiai idea, pensai ai torturati, ai martiri, agli anni della guerra”, non più come tormento individuale ma collettivo, universale, “infine mi venne l’idea di piantare la croce all’aperto”.
I nuovi “Studi per la Crocifissione”, dopo gli studi del 1935, preparano la sua visione definitiva, ma gradualmente. Infatti, nei due studi appena tratteggiati del 1939, che non sono in mostra, in uno c’è in primo piano il cavallo bianco con cavaliere che troveremo, in diversa positura, nell’opera finita; nell’altro la sola figura del Cristo in croce isolata dal contesto, di foggia michelangiolesca, con sullo sfondo il motivo del paese bombardato dietro un ponte, presente nell’opera finita.
Nei due studi molto elaborati e a colori del 1940, che vediamo esposti, l’intera composizione si va delineando, in uno di essi figurano sia pure con varianti di positura e forma, i principali elementi, le tre croci quasi giustapposte con Cristo e i due ladroni, il cavaliere a torso nudo sul cavallo bianco e l’altro sul cavallo scuro, la donna nuda protesa verso la Croce.
Siamo giunti così all’opera clou della mostra e anche della visione cristiana di Guttuso, strettamente collegata alla sua sensibilità umana verso la sofferenza e alla sua ribellione all’ingiustizia comunque e dovunque perpetrata, anche al male derivante dalla natura. Nell’accingersi a un’opera così emblematica ebbe a dire: “Questo è tempo di guerre, gas, forche, decapitazioni. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena d’oggi… Simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio,carcere, tortura per le loro idee… Le croci, le forche… i soldati, le donne scarmigliate, discinte piangenti”.
L’assimilazione, qui implicita, è resa esplicita venti anni dopo nello “Studio per condannati a morte“, 1960, anch’esso esposto, in cui il Crocifisso di Cristo è bene in vista ma confuso tra immagini di esecuzioni e torture di ogni tipo, dalle forche con gli impiccati in alto a sinistra alle sedie elettriche al centro, o almeno sembrano tali in una moltiplicazione quasi alla Warhol, alle fucilazioni con i corpi che cadono in avanti, ai torturati e massacrati ammucchiati a terra. Una versione precedente è del 1956, anno in cui abbiamo “Cristo zolfataro”, immagine di un crocifisso senza croce ma con le braccia aperte in alto e il volto di un povero minatore qualunque.
La Crocifissione, un forte simbolismo che suscitò scandalo
Ed eccoci alla “Crocifissione” , 1940-41,nella versione finale, una grande composizione di 2 metri per 2, che, a differenza degli studi preparatori, è molto netta e precisa nei contorni e nei colori contrapposti. Non solo la scena si svolge all’aperto, ma in lontananza in alto a sinistra è delineato l’abitato di una città, sembra bombardato, separato dalla scena del supplizio da un ponte, dalla cui sagoma si riconosce il Ponte dell’Ammiraglio della sua Palermo, quasi a volerla separare dal crimine ma nel contempo a volerne marcare il coinvolgimento come vittima degli orrori della guerra. Dell’iniziale idea dell’interno resta il tavolino in primo piano con gli strumenti di tortura.
Colpiscono i corpi nudi di quasi tutte le figure della composizione, ad eccezione della Madre, semicoperta da un cavallo, con le mani sul viso. Sono nudi i due carnefici, uno sceso da cavallo con la tunica rossa davanti, nella sinistra tiene la lancia con cui ha trafitto il corpo di Cristo, l’altro in groppa a un cavallo blu con nella destra una canna verde forse emblema di comando; delle “tre Marie” solo la Madre di Cristo ha addosso uno “straccio” celeste, le altre due – una delle quali è la Maddalena – sono nude, una a braccia alzate, semicoperta dalla croce di un ladrone, l’altra in piedi, protesa versa la Croce, che asciuga il sudore e il sangue dal corpo di Cristo crocifisso.
Perché questi nudi che suscitarono tanto scandalo quasi fosse una volontaria profanazione di un momento di così intensa drammaticità, il più alto nell’iconografia cristiana? E’ facile rispondere, avendo a mente che Guttuso ha voluto dare un valore simbolico al sacrificio di Cristo come espressione di tutte le ingiustizie e le sofferenze, le sopraffazioni e i mali del mondo: le vesti avrebbero limitato il riferimento a un determinato periodo storico, spogliati dei vestiti con i loro corpi si identificano nell’umanità senza tempo e senza luogo, nelle sue opposte espressioni, il sacrificio e la pietà da un lato, la barbarie e l’ottusa violenza dall’altro.
Guttuso ha raccontato la genesi dell’opera, e riguardo ai nudi dice chiaramente: “Pensai che i personaggi non dovessero vestire costumi, né storici (romano/palestinesi) né contemporanei (Amleto in frak!). Per dare alla scena atemporalità in modo che fosse antica e contemporanea insieme le figure seminude o semicoperte da qualche accorgimento”: così sono universali.
Dall’ostracismo religiose e politico alla svolta di Paolo VI
All’epoca, l’opera che ebbe il secondo riconoscimento al IV Premio Bergamo del 1942 suscitò scalpore, il puritanesimo e certa ottusità clericale si saldava con le faide fasciste accesesi tra il Premio Cremona, caro a Farinacci perché in linea con la mistica fascista e la propaganda di regime, e il Premio Bergamo, che lasciava autonomia agli artisti e per questo sostenuto da Bottai fautore della libertà dell’arte. Si parlò di “scandalo fino al sacrilegio” e di “oscenità”, eppure nel 1931 Guttuso era stato premiato alla “Mostra Internazionale d’Arte Sacra Cristiana” a Padova, per due opere di quell’anno, “Flagellazione” e “San Sebastiano”, cosa che rende ancora più aberrante tale reazione scomposta. La vicenda viene fatta rivivere da Fabio Carapezza Guttuso nella sua accurata ricostruzione “La Crocifissione. La vita di un quadro”, una cronaca precisa di fatti che oggi sembrano paradossali, eppure sono veri, fanno parte dell’album di famiglia del nostro paese.
Vengono citati, tra gli altri, due articoli dell'”Osservatore Romano”, l’organo vaticano: in uno si parlava di “orrenda e oscena figurazione”, nell’altro, dell’arcivescovo Celso Costantini presidente della Pontificia Commissione per l’Arte Sacra, di “baccanale orgiastico”; e alcuni articoli della stampa laica che prendevano di punta le figure femminili, sulla Maddalena, la rivista “Architrave” parla di “sensualità ingrata”, la “Stampa” di “pesante carnalismo nudo”, nel “Giornale d’Italia” di nuovo interviene l’arcivescovo Costantini sulle “tre Marie ritratte nell’adamitica realtà della modella di posa”. In più, oltre all’accusa di oscenità, quella di “irriverenza” nel relegare in secondo piano il Cristo e nel rappresentarlo senza aureola, nel posizionare le croci una a ridosso dell’altra e non allineate a distanza, nell'”offensiva di colori, il contrario del lutto”, secondo l’espressione di Ugo Ojetti, peraltro critico interessato in quanto sostenitore del Premio Cremona, tutti elementi ritenuti così gravi da suscitare indignazione nei benpensanti e “una sorta di scomunica” ecclesiale, equivalente a una messa all’Indice.
A livello politico, sull’apertura di Bottai prevalse l’intransigenza ideologica di Farinacci sotto la spinta delle pressioni clericali, e la manifestazione fu chiusa in anticipo; seguì addirittura la fine del Premio Bergamo, che dopo quattro anni di regolasre svolgimento da quell’anno non fu più ripetuto.
Né l’ostracismo si arrestò, dieci anni dopo, nel 1952, il Patriarca di Venezia Agostini intervenne perché il quadro non fosse presentato alla Biennale nella sala dedicata a Guttuso, il quale lamentò che fu rimosso poco prima dell’apertura, nel 1959 per intervento del Vaticano fu escluso dall’8^ Quadriennale di Roma, mentre nessuna opposizione ci fu a Milano da parte del cardinale Montini all’esposizione alla galleria “Il Milione”.
Montini, divenuto papa Paolo VI, incontrò Guttuso nel 1973 all’inaugurazione della Collezione Religiosa di Arte Moderna ai Musei Vaticani, cui l’artista donò tre opere e non la Crocifissione che sarebbe stata accolta ma previa copertura del nudi, cosa inaccettabile per l’artista che rifiutò di essere il “braghettone di me stssso”, e per l’arte. Già prima di questo incontro che coincise con la coraggiosa apertura del papa all’arte moderna, c’erano state prese di posizione nuove del mondo cattolico, da quella dell’intellettuale Testori, che respingendo le critiche moralistiche aveva definito l’opera “un’unica, sussultante spianata espressiva”, a quella di padre Turoldo che nel 1969 aveva parlato di “Guttuso come un narratore biblico, di una Bibbia in fiamme mai finita che è la nostra storia”.
L’ulteriore evoluzione nei rapporti e nell’ispirazione artistica
Rievocate queste vicende, non possiamo non ricordare che l’artista, sebbene avesse una notevole vis polemica e non si tirasse mai indietro dalle discussioni quanto più accese fossero, non reagì come era solito fare dinanzi agli attacchi, tanto più scriteriati come quello alla “Crocifissione”. Si risentì piuttosto del dolore arrecato a sua madre fervente religiosa dal prete del paese che le aveva presentato la filippica dell’ “Osservatore Romano”, mentre da parte sua scontava ancora la gestione travagliata dell’opera, che ha poi definito “quadro ibrido come ibridi e incerti erano i miei sentimenti in quel momento”, ma aggiungendo: “Il quadro fece urlare i vescovi che ci videro un sacrilegio, c’era caso mai il contrario”. Ne fanno fede i suoi intenti sinceri: “Io avevo inteso presentare il supplizio di un uomo giusto, dando stile e sentimenti moderni a quella rappresdentazione…. La nudità dei personaggi non voleva essere intenzione di scandalo”.
Nell’unica intervista di quel periodo disse: “Il mio quadro certo non va d’accordo con i canoni della iconografia religiosa. Ma non per questo è meno religioso, nego poi assolutamente che sia un quadro empio. Ho lavorato con serietà su un tema alto e difficile, ma pochi hanno tenuto conto di ciò”.
Dopo che Paolo VI lo ebbe accolto così benevolmente, e con lui l’arte moderna sui temi religiosi, il segretario del pontefice, mons. Macchi, diventò frequentatore abituale di Palazzo del Grillo, e sulla sua scia vi si recarono autorevoli visitatori come i cardinali Lercaro e Pappalardo, mons. Valenziano, che gli affiderà l’illustrazione dell’Evangeliario, il cardinale Angelini che fu stabile frequentatore domenicale della sua casa dove celebrò addirittura una messa, su richiesta dell’artista, nel dicembre 1986, l’anno in cui Guttuso predispose due nuovi “Studi per la Crocifissione”, esposti in mostra.
Sono ben diversi dagli studi preparatori del 1935, 1939 e 1940, che abbiamo commentato in precedenza: si vedono poche figure assorte nel nuovo studio a colori acrilici, con il Crocifisso isolato al centro appena tratteggiato, una verde vallata di sfondo; mentre lo studio in inchiostro di china delinea le immagini con segni sottili, le due croci come tronchi contorti con i corpi dei suppliziati protesi verso l’alto, e due figure femminili, una in piedi tra le due croci, l’altra seduta come in attesa, sullo sfondo il lontano orizzonte appena delineato. Tanta pacatezza e serenità, nessun simbolismo ribelle e angoscioso, il raggiungimento forse della pace interiore, l’estasi dopo il tormento. Purtroppo non ha potuto creare la nuova “Crocifissione” come sembra delineata da questi ultimi studi, e del resto non ha mai abbandonato quella così travagliata del 1940-41.
Guttuso morirà il mese dopo aver assistito alla messa di Angelini “sotto quel quadro”, rivela Carapezza Guttuso riferendosi alla “Crocifissione”; di qui le illazioni sulla conversione.
E pensare che il vescovo Bernareggi aveva vietato nel 1942 “a tutto il clero della diocesi e a quello di passaggio” di visitare la mostra del Premio Bergamo, annunciando che se lo avessero fatto sarebbero stati sospesi “a divinis”! Guttuso dirà: “Fui molto dispiaciuto e mortificato. Avevo dipinto la Crocifissione con animo realmente religioso che avevo trasmesso attraverso un immenso rispetto per la figura del Suppliziato… Nonostante ciò mi piombò addosso una sorta di scomunica”. E ancora: “La mia ispirazione era religiosa. Ho dipinto questo quadro con animo religioso… Per questo mio pensiero religioso fui accusato di oltraggio alla religione”. Amarezza, non polemica.
Un’analogia significativa, in cui gli estremi si toccano
Una vicenda per molti versi analoga era stata vissuta da Gabriele d’Annunzio per il suo “Martirio di San Sebastiano” – che ispirò anche l’opera di Guttuso del 1935 – quando prima dello rappresentazione a Parigi il 22 maggio 2011 e della stessa pubblicazione giunse la pronuncia del vescovo della capitale francese, mons. Amette che proibiva ai cattolici di assistere allo spettacolo musicato da Debussy, dopo la messa all’Indice di tutte le opere del Poeta avvenuta l’8 maggio. D’Annunzio fu molto colpito dalla condanna, e dichiarò: “Nessuna opera è più propriamente mistica e più semplicemente ortodossa della mia… vi è continua la presenza invisibile di Cristo”. Per poi aggiungere: “Ed ora, proprio quando il mio spirito si volge al cristianesimo, quando sto realizzando il mio sogno, accarezzato per molti anni, di esprimere tutta la mia fede, ora si vieta il San Sebastiano”.
Ai divieti ecclesiastici seguirono condanne dei benpensanti per i due grandi personaggi del nostro ‘900, opposti sul piano politico e umano, ma accomunati nell’incomprensione della loro arte altamente ispirata da parte di chi conservava una visione oscurantista e ristretta della religione, chiusa alle allegorie e ai simbolismi; e accomunati dal fatto che se il cardinale Angelini visitò Guttuso nell’ultima fase della sua vita, il parroco di Gardone Riviera don Fava sulla morte di D’Annunzio disse “io corsi al Vittoriale ‘chiamato'”. Per entrambi vi fu il funerale religioso, tra l’altro le immagini di quello di D’Annunzio con i preti in cotta bianca e ostensorio davanti al feretro recante impressa la croce furono a lungo nascoste. Comunque anche per Guttuso valgono le parole che disse Piero Bargellini a questo proposito per D’Annunzio: “Un mistero che l’uomo si è portato nella morte”.
Ricordiamo, collegandoli a questo mistero, gli “Studi per la Crocifissione” del 1986, segno che intendeva realizzarne un’altra, “in limine mortis”, e questa volta, lo abbiamo visto dai bozzetti esposti in mostra, senza gli arditi contenuti simbolici delle prime Crocifissioni. La scena è di grande compostezza e purezza calligrafica, pervasa di serenità forse rassegnata ma pacata, come se dai dubbi e dai contrasti dei dipinti tra il 1935 e il 1940 l’artista dopo mezzo secolo avesse raggiunto una chiarezza mentale e una serenità spirituale, passando dal tormento esistenziale all’estasi contemplativa.
La religiosità dell’opera d’arte e dell’artista
Siamo al termine di questa carrellata sulle opere in tema religioso, con il viatico di Crispino Valenziano, impagabile non solo sul piano spirituale e artistico ma anche sul piano della testimonianza diretta delle confidenze, quasi confessioni, dell’artista che si unisce a quella di Fabio Carapezza Guttuso.
Alla fine del nostro percorso non possiamo non ricordare che lo stesso Guttuso mette in guardia implicitamente sull’interpretazione da dare a tali opere dicendo: “Che cos’è un tema religioso? Un tema tratto dalla storia sacra, dall’Antico e Nuovo Testamento non dà necessariamente luogo a un’opera d’arte religiosa… La religiosità di un’opera d’arte è frutto non tanto del sentimento individuale, quanto della partecipazione a una generale [culturale/ecclesiale] concezione del mondo, della presenza nell’opera d’arte, del riflesso di questa concezione”.
E più direttamente: “E’ la rispondenza naturale tra l’opera e quel che l’artista ha pensato e creduto; ma non soltanto: non esiste contenuto artistico che non sia storico, e cioè vivente, cioè pienamente rispondente alle idee e ai sentimenti dell’artista, e alle idee e ai sentimenti, alla concezione generale del mondo di cui l’artista partecipa”. E aggiunge: “Se un artista riesce a dare la sensazione di qualcosa che si nasconde dietro a ciò che si vede, compie un’operazione religiosa in sé”.
Queste due condizioni si realizzano nella sua arte. La sua concezione di vita, come abbiamo visto ripercorrendone l’itinerario, è animata da quei valori civili per i quali si è sempre battuto e ha tradotto in opere di denuncia di straordinario vigore pittorico, collimanti con la visione cristiana della vita, e l’impegno a cui il credente è chiamato. Inoltre il suo realismo sociale ha cercato sempre di andare oltre l’apparenza, anche mediante la “deformitas” contro i falsi abbellimenti.
Essendovi queste condizioni, è logico che lui dica: “Io ho un senso religioso dell’arte e della vita… Vuol dire che io credo nel mistero che pervade ogni cosa, la vita e il mondo”. Ma quando si passa alla affermazioni sulla fede interviene la ragione: “Non potrei mai dire che sono ateo, perché mi sembrerebbe sbagliato affermarlo, Non potrei mai dire, tuttavia, che sono certo dell’esistenza di Dio”. Conclude così: “E però ogni volta che tento di dire di non credere mi sento preso da un grande sgomento”, e e ripete “sono ateo, io non lo dirò mai. Non ne ho il coraggio e non troverei la forza per farlo”.
Sono confessioni che vanno anche oltre il “credeva di non credere” con cui Valenziano riassume la sua visione interiore volta alla religiosità.
Grande merito della mostra, e del notevole approfondimento di mons. Valenziano, è aver riproposto anche questo lato nascosto di un grande artista e grande protagonista del ‘900.
Info
Palazzo del Quirinale, piazza del Quirinale, Roma, Galleria di Alessandro VII. Martedì-mercoledì, da venerdì a domenica, chiuso lunedì e giovedì, ore 10-16, ultima entrata ore 15, ingresso gratuito su prenotazione al sito del Quirinale. Catalogo “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Crispino Valenziano, De Luca Editori d’Arte, Roma, agosto 2016, pp. 72, formato 21 x 23. Sul tema è stato pubblicato anche il libro di Crispino Valenziano, “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio”, De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, Roma, agosto 2016, pp. 150. Da questo libro e dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 2 e 4 ottobre 2016. Sempre in questo sito, cfr. i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano nel centenario della nascita dell’artista, 25 e 30 gennaio 2013; i nostri 6 articoli sulla religiosità di D’Annunzio il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013 e, su tale tema, il nostro libro-inchiesta “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, dicembre 1996, pp. 528.
Foto
Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne “Studio per Crocifissione” 1935 e “Crocifissione in una stanza” presi dal libro di Valenziano, testi fornitici cortesemente da Fabio Carapezza Guttuso che ringraziamo. In apertura, “Crocifissione”, 1940-41; seguono, “Cristo deriso”, 1938, e “Studio per Crocifissione”, 1935; poi, “Crocifissione in una stanza”,1940, e “Mano del Crocifisso”, 1965; quindi, due “Studi per la Crocifissione”, 1940-41; inoltre, “Studio per Centomila Martiri”, 1960,e “Studi di Crocifissione”, 1986; in chiusura, “Autoritratto”, 1975, ripreso da Romano Maria Levante nella mostra del centenario.