di Romano Maria Levante
Due mostre, curate da Marco di Capua e organizzate dalla Galleria Russo nello stesso periodo, esplorano un tema intrigante, anzi tre temi strettamente legati: “Linea di confine – La natura, il corpo, le città”, al Museo Bilotti dal 24 aprile al 21 giugno 2015, e “Tommaso Ottieri – La funzione del nero” alla Galleria Russo dall’8 al 30 maggio 2015, che rappresenta in un certo senso un “ingrandimento” di una parte della prima mostra, cui partecipa lo stesso Ottieri con due opere, mentre nella personale ne espone 45 sugli esterni cittadini visti nel nero della notte. Alla “linea di confine” altri 16 artisti ne presentano un paio ciascuno, salvo dei plurimi, soprattutto sulle città, ma anche su corpo umano e natura. I due cataloghi delle mostre sono di Palombi Editore
Il curatore Marco Di Capua definisce così la collettiva al Museo Bilotti, per la quale ha selezionato opere di 17 artisti collegate tematicamente: “Linea di confine è una mostra-periscopio: affiora e lentamente si guarda intorno. Ciò che vede e ci fa vedere sono le città e i nostri corpi, i nostri volti. Ciò che vede e ci indica, ancora, con un gesto quasi sproporzionato nella sua apparente, così necessaria, inattualità, è la natura”. E precisa che il confine è la linea che “divide cosa da cosa, e nella separazione le illumina, ma anche la linea che unisce”. In questo caso i tre soggetti dell’esposizione, corpi e volti, natura, città.
Sulla personale alla Galleria Russo, Capua scrive: “Qualsiasi idea uno si possa fare della pittura che va in città, seguendo lo sguardo di Ottieri la strada presa diventa fluente e ogni luogo è percepito come peripezia mobilissima, fornace avventurosa, viaggio planetario turbolento… Così, anche l’architettura nei suoi dipinti cessa di presentarsi come un’immobilità di forme certe e appare come un brulichio di particelle preziose, un’agitazione tutta flash, urti e rimbalzi di molecole”.
La “linea di confine” tra corpi e volti, natura e città
“Una casa, una faccia, un albero? Stessa sostanza, lo sappiamo bene…”, afferma Di Capua nel collegare i tre temi della mostra collettiva in cui presenta opere che definisce “importanti, imponenti”, alcune lo sono anche per le dimensioni; ha evitato i linguaggi incomprensibili per “un massimalismo figurativo che in assetto anche spettacolare superi il mood ormai universalmente diffuso di ‘sensazioni’, stimolazioni ottiche” con un intento preciso: “Che invece susciti, con chiarezza di rappresentazione e di narrazione l’impatto con temi non necessariamente circoscrivibili al nostro dannato ombelico, con scene maggiori e immagini e simboli che campeggiano e lampeggiano qui, e ora”. Descrizione coraggiosa del rifiuto di un modernismo esasperato autoreferenziale per una scelta aperta alla comprensione più vasta.
Cominciamo dalle Persone, per poi passare alla Natura e quindi alla Città.
Roberta Comi presenta i primi piani dei suoi volti esotici di grandi dimensioni, gigantografie pittoriche quanto mai intense curate nei dettagli in un realismo coinvolgente : “L’uomo e la città” e “Osessere”, appartengono ad uno dei filoni prediletti della artista di cui ricordiamo le intense rappresentazioni dell’Inferno dantesco.
Dopo i grandi volti dipinti, le piccole teste di gesso di Christian Leperino, “The other myself”, autore anche della grande pittura murale di 10 metri per 7, “Landscape of Memory” , l’artista di recente ha coniugato la ricerca sul corpo ai luoghi in cui si manifesta la condizione umana.
Corpi filiformi scuri sono invece nel “Muro del pianto” di Massimo Giannoni, mentre nella “Biblioteca di Mantova” non si vedono persone ma si intuiscono, la scala di legno appoggiata agli scaffali attende di vedervi salire un addetto, il tavolo di accogliere i lettori; è uno stile molto personale di denso impasto materico.
La scena torna all’esterno in una serie di fotografie di Sandro Maddalena che documentano la crisi ucraina, con civili e soldati in spazi desolati teatro di guerra.
Desolazione, di altra natura, e soprattutto solitudine, anche nelle “Attese” di Alice Pavese Fiori, fotografie analogiche di figure immerse nell’alienazione urbana, resa da ambienti spettrali. .
La Natura la troviamo nel grande pannello di 4 metri per 3 “Alberi”, con 121 riquadri che sembrano moltiplicarli all’infinito, cui si contrappone, in un certo senso, “Fabbrica”, in 40 riquadri in dimensioni minori.
Alberi con i tronchi in primo piano e non più il fogliame in Giovanni Frangi, “Dauntsey Park”. 2012.
Stessa atmosfera nella “Crocifissione” di Bernardo Siciliano, che Di Capua definisce “la medesima solitudine dei calchi dei volti degli immigrati morti in mare”.
Volti dell’umanità ridotti a maschere quelli di Stefania Fabrizi, in “Il disegno nella mia mente”.
Concludiamo questa rassegna sulla natura con “la meravigliosa indomita Montagna di Paolo Picozza – sono parole del curatore – la sua presenza massiccia come preludio, o custodia, di un’assenza, la sua calma distante”; suo anche “Piazza Augusto Imperatore”, nel quale la natura è presente con il folto gruppo di alberi che si riflettono sul selciato. Dell’artista, scomparso prematuramente a quarant’anni, ricordiamo la grande mostra retrospettiva curata da Achille Bonito Oliva nel dicembre 2013, sempre a Roma, al Macro Testaccio.
E siamo alle rappresentazioni della Città, iniziando dalle 25 stampe di Adelaide di Nunzio, “La città nascosta”, 2014-15, tra desolazione e immagine iconiche.
La città visibile è quella delle vaste panoramiche dipinte da Giorgio Ortona, “Cantieri a Torrevecchia” e “Roma nord”, 2014, e da Bernardo Siciliano in “Dumbo”; e delle imponenti visione prospettiche dipinte da Marco Petrus, “Upside down”, 2003, che ci ricorda le riprese fotografiche oblique di Rodcenko, e “Palazzina San Maurizio”, 2010, con i forti chiaroscuri dati dalle strutture architettoniche.
Avvicinandoci ancora abbiamo lo scorcio di una strada in “Bipantheon”, 2009, di Thomas Gillespie, di cui è esposto anche “Unsound (Safe of Houses”), esterno ripreso da vicino che ci ricorda a sua volta le immagini fotografiche di Wender.
E poi ci sono le vedute spettacolari di Tommaso Ottieri, “New York Stabat Mater”, 2015, e “Istanbul”, 2014, che Di Capua vede “come sorvolata da un drone curioso, magneticamente attratto da sciami luminosi, costellazioni radenti il suolo, spettacoli notturni”.. Ma su questo artista c’è molto altro da dire nel commentare la sua mostra personale alla galleria Russo.
Ottieri e “la funzione del nero”.
Sull’artista vanno innanzitutto spiegati due ossimori, uno visivo, l’altro concettuale.
Quello visivo riguarda “la funzione del nero”, e quella che Di Capua definisce “lucente nerezza”: perché “l’oscurità è attraversata, sfidata e vinta ma per un pelo, per una manciata di punti luminosi, in un incendio che arrossa il cielo e che se si spegne buonanotte, finisce tutto “. Quindi il nero della notte e le luci dell’illuminazione in un'”unica scintillante trama dove tutto è connesso. E’ un po’ come guardare la terra al modo in cui l’uomo delle origini osservava il cosmo: una spruzzata di costellazioni per orientarsi meglio, prendere decisioni, direzioni. Ottieri lo fa con il nostro sguardo: lo muove”.
L’ossimoro concettuale lo troviamo nel fatto che nelle sue spettacolari immagini notturne delle città non c’è gente, neppure un passante, a differenza dei dipinti dell’inizio ‘900 molto affollati. “La città 2.0, dice Di Capua, è invece quasi sempre un deserto, un pianeta metallico, petroso, un po’ ostile, forse pericoloso”. E’ dov’è l’ossimoro? In questa visione in contrasto con le affermazioni dell’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre”. Così il curatore spiega l’apparente contraddizione: “Qui l’uomo è lontanissimo, o proprio non c’è. Come se, crediamo tuttavia a Tommaso, per raccontarlo meglio fosse necessaria la sua omissione, coglierlo per assenza, incastonarlo in una metafora gigantesca: ciò che ha costruito”.
Di tutto questo l’artista dà una rappresentazione spettacolare: vasti panorami da lontano e imponenti visioni da vicino, con il brulichio delle luci dalle strade alle finestre,in un’atmosfera che dal nero vira al celeste al giallo a seconda dei casi. Nella composizione, una meticolosa attenzione ai dettagli, che fa concludere così Di Capua: “E quanti particolari puoi contare, profusi dalla mano di uno che evidentemente non si stanca mai del numero, non di quello delle tantissime finestre di un’intera città, né di quello delle sedie che servono a riempire la navata di una chiesa, forse perché inconsapevolmente convinto che, per dirla alla Kundera, davvero ‘la felicità è ripetizione'”.
Il curatore si riferisce evidentemente alla chiesa del “Gesù”, 2015, vuota ma con tutte le sue sedie allineate pronte ad accogliere il popolo dei fedeli, mentre gli altri interni sono teatri con le loro poltrone, sempre vuote, dipinte con precisione. Anche queste immagini sono spettacolari per sontuosità ed eleganza, illuminate da una luce calda dorata con toni rosseggianti: del 2015 “Opera Vienna” e “Lisbon Opera”, “Opera Garnier” e “San Carlo”, quest’ultimo con l’eccezione che i palchi sono affollati mentre la platea è vuota, analogamente a due dipinti sullo stesso tema del 2013 e 2014, anno nel quale in un altro dipinto ha escluso gli spettatori anche dai palchi; mentre la “Scala” è ripresa completamente senza spettatori – a parte il dipinto che mostra in primo piano il grande lampadario e ne fa intravvedere un gruppetto in platea – come “Celeste Fenice” e “Cagli”
Toni gialli dorati anche in alcuni panorami cittadini del 2015, da “London Bridges” a “New York Q Bridge”, da “Paris Garnier” a “Paris SG”, fino a “Medusa” ; e del 2014, da “Paris Plages” a “Paris night”, da “London” a “Montecarlo”, da “Prague night” a “Istanbul”. .
Visioni dorate più ravvicinate sono quelle di “Paris Notre Dame”, 2013, e , ancora di più in crescendo, “Metropolis”, 2015, “Atlas” e “London Canary Warf”, 2014, “Genova”, 2011, fino a “Interno oro”, 2014.
Poi si vira al celeste-blu nei vasti panorami del 2015 di “Paris Hotel de Ville Blue”, e “Paris night” con il grande incrocio abbacinato di luce, e nei più ravvicinati “Swan Lake”, 2014, e “Madrid”, 2011, fino alle visioni frontali di “Gerolomini”, 2015, e “Giudizio Universale”, 2011.
Infine il nero prende il sopravvento nelle visioni “New York Stabat Mater”, 2015, con il grattacielo che svetta con la punta verso il cielo del Waldorf Astoria illuminato nell’oscurità della foresta pietrificata che si profila tutt’intorno, e “New York”, 2014, grattacieli parallelepipedo fortemente radicati alla terra senza il senso di elevazione che dà l’altro appena citato. “Donnanna Prima Notte”, 2015, “Atlas” e “Parigi”, 2013, rendono visivamente la “funzione del nero”, interrotto soltanto da un leggero chiarore che rischiara appena alcuni contorni, mentre in “Venezia Stabat Mater”, 2015, il Ponte dei Sospiri spicca come un faro al centro dell’immagine.
C’è anche un dipinto, l’unico, in un tonalità rosa intenso, le finestre scure e non più illuminate: è “Corso”, 2011, sarà l’aurora che arrossa le facciate e i tetti della città dopo le ombre notturne?
E’ un’eccezione rispetto all’ampia galleria che abbiamo citato, della quale Di Capua dice: “Non c’è sensazione stabile, ma un ombroso cocktail di energie convergenti, un raccogliersi sparso di frammenti attorno a quei fulcri e incroci di diagonali e di vie iridescenti che li possano strappare alla loro deriva, dopo (ma quando era stato?) un silenzioso big bang di luci.
Tutta luce, ma il nero non è meno importante, anzi la precede nella creazione, come dice l’artista osservando che all’inizio della vita sul pianeta “la luce non c’era. O meglio, non c’era la visione di essa”. C’era il buio, l’oscurità, il nero, ma ora “occorre che il nero venga lasciato indietro, e resti soltanto tutto attorno perché si possa cercare la luce. Ma senza nero non la definiremmo mai”. Ne esistono “tantissimi tipi”, con tonalità caldo-rossastre o bluastre, come abbiamo visto. “esistono tanti modi per rappresentare l’oscurità, ma ogni buio è solo uno strumento”. E per la luce aggiunge: “La verità della luce che cerchiamo di dipingere resterà un mistero per noi. Ed un mistero cercheremo sempre di rappresentare”.
Eloquenti le sue affermazioni strettamente personali, confidenze intime pari a confessioni: “Quando dipingo le città mi sembra di avere dei modelli in carne ed ossa che posino di fronte al mio cavalletto. Le guardo cambiare posa, assumere atteggiamenti, prendersi delle pause. Ho imparato a conoscere gli umori, gli effluvi e quanto di organico le città possono produrre”. Perché sono state costruite da operai, per cui l’elemento umano è fondamentale, ne è alla base, ed è quello che interessa l’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre. E, per quel che ho capito, è l’unica cosa che mantiene in vita una città”.
Ma perché gli piace dipingere la città notturna? “Di notte tutto cambia: il nero non è più ombra ma diventa di nuovo il contorno che ci è servito per definire la luce”. E qui una riflessione filosofica che fa pensare: Al buio attribuiamo il mistero e l’ignoto, ma esso non è che la realtà principale delle cose. Il mistero che portiamo dentro è invece nella luce che fin da bambini dobbiamo costruire. I nostri occhi devono impararla, e poi imparare difendersi da essa”.
L’effetto della luce sulla città è descritto in modo suggestivo da Di Capua: “E poi l’avete vista una città di notte mentre si sta per atterrare: migliaia di lucine, una rotante galassia non più stagliata in cielo ma sdraiata sulla terra. La rivedete adesso nei quadri di Ottieri, o è un’immagine che le va molto vicino. Insomma, dico, una meraviglia così, ma dove altrimenti?”. E conclude: “A pensarci bene la città, oltre che un mucchio di altre cose, è il più vasto, mutevole e spettacolare congegno estetico che la specie umana abbia inventato. Senza paragoni”. D’altra parte, “se Dio ha creato il cielo e la terra, l’uomo ha creato le città… Esistono, stanno lì a fronteggiare timidamente il nulla, l’inumano”.
Alle immagini pittoriche di Ottieri, che indica anche i pigmenti e gli antichi procedimenti utilizzati, avviciniamo le immagini fotografiche di Bergamini realizzate con accorgimenti tecnici innovativi, per analogia di temi e affinità di effetto visivo per l’osservatore. Alle une e alle altre si possono applicare le parole conclusive dell’artista: “Quello che si impara dipingendo queste scene è che se una bellezza esiste, essa è sempre nell’insieme delle cose. Le belle e le brutte, le chiare e le scure. Non è vero che ne conosco dieci. Non si arriva mai a capire la bellezza”.
E’ un pensiero filosofico che ci sembra il migliore coronamento del viaggio fantastico in lungo e largo per il mondo tra le ombre e le luci di tante città e i fulgori dei più celebri teatri. Dalla funzione del nero al senso della vita, nella sua espressione più elevata, legata alla bellezza. Dobbiamo essere grati agli organizzatori della mostra per queste riflessioni così edificanti.
Info
Mostra “Linee di confine”, Museo Carlo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, viale Fiorello La Guardia. Da martedì a venerdì ore 10,00-16,00, sabato e domenica 10,00-19,00, ingresso gratuito, ammesso fino a mezz’ora dalla chiusura. Catalogo “Linee di confine”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, pp. 110, formato 22 x 22. Mostra “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, Galleria Russo via Alibert 20, Roma, Catalogo “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, aprile 2015, pp. 80 formato 22 x 22.Tutti i giorni dalle 10,00 alle 19,30 esclusi il lunedì dalle 16,30 alle 19,30 e la domenica chiuso, ingresso gratuito. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito “Bergamini, il digitale pittorico al Museo Crocetti” 6 dicembre 2013; “Rodin, disegni dell’Inferno; Roberta Comi, dipinti sul I Canto” 20 febbraio 2013; in “www.fotografarefacile.it” “Roma. Le foto di Wim Wenders sulla solitudine urbana” giugno 2014, “Roma. In mostra le fotografie di Aleksand Rodcenko” e “L’altro Rodcenko al Palazzo delle Esposizioni” entrambi il 27 dicembre 2011; in cultura.inabruzzo.it “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e “I disegni di De Chirico e la magia della linea” 27 agosto 2009. I due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su questo sito prossimamente.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo Bilotti e alla Galleria Russo, si ringrazia la Galleria e la direzione del museo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Roberta Comi, “L’uomo e la città”, 2015; seguono Massimo Giannoni, “Muro del pianto” , 2012, e Alice Pavese Fiori, “Attese”, 2012; poi “Manueo Felisi, “Alberi”, 2015, e Giovanni Frangi, “Dauntsey Park“, 2012; quindi, Paolo Picozza, “Senza titolo”, 2010, e Marco Petrus, “Upsite down”, inoltre, Thomas Gillespie, “Unsound (Safe of Houses)”, 2010; infine, di Tommaso Ottieri, “Paris Hotel de Ville Blu”, “Gesù”, “Opera Vienna” e, in chiusura, “Venezia Stabat Mater”, tutte 2015.