Gianni Testa, l’espressionismo onirico, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

A Roma nella Sala Giubileo del Vittoriano, lato Fori Imperiali, la mostra “Gianni Testa. Antologica” espone, dal 12 settembre al 12 ottobre,  40 oli di un maestro dell’arte contemporanea che è un testimone della  nostra epoca pur con opere ispirate alla classicità e al mito oltre che all’attualità. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, responsabile della mostra Cristina Bettini, curatore  Claudio Strinati che ha curato anche  il Catalogo di Gangemi.

Entrando nella Sala del Giubileo si è avvolti da forti masse materiche in una sinfonia di colori che delineano forme spesso sfuggenti che colpiscono ed emozionano. Le parole di Giosuè Allegrini fanno capire questo effetto: “La sua pittura è governata dal fascino vibrante del colore da intendersi quale rappresentazione interiore, struttura sintattica evocatrice di stati d’animo, pensieri, emozioni. Una matrice espressionista, calata nella spiritualità dell’essere, che può essere decifrata solo  attraverso l’impiego di un costrutto onirico”.

Le  ali del sogno, dunque, tema cui fu dedicata la grande mostra di Perugia, “Il teatro del sogno“. E pur essendo  la materia  la base della sua pittura,  l’osservatore è portato “al di là della mera fisicità delle cose umane verso una realtà immaginifica, di rara bellezza”. In che modo? “Talune volte esalta plasticamente la forza espressiva del colore, donandogli vigore, energia vitale guizzante e inebriante, talaltre lo rende opulentemente flessuoso, voluttuoso e rasserenante”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_148e0ca9e85.jpg

L’11 settembre, la verità e il fuoco

All”inaugurazione della mostra, il giorno 11 settembre, Claudio  Strinati ha sottolineato come la data ricordi  l’attentato alle Torri Gemelle al quale Testa ha dedicato un intenso dipinto.  Il  curatore ne prende lo spunto per alcune considerazioni sulla produzione dell’artista, iniziando dal  rapporto tra il vero e il verosimile: “Non sempre ciò che è vero è verosimile o ciò che è verosimile è vero, c’è un’ambiguità nelle vita di tutti,  la verosimiglianza delle volte non ci fa percepire la verità”. 

Il dipinto mostra le due torri divorate dalle fiamme, come sarebbe verosimile per l’impatto dell’aereo, “stanno scomparendo perché bruciano ma non è vero”; dopo l”esplosione nella sommità colpita c’è stato il loro collasso, sono implose su se stesse senza incendiarsi,  “un mistero nel mistero”. L’artista ne fa “una lettura poetica”, utilizzando “le fiamme come metafora di energia, distruttiva in questo caso, vitale come nei cavalli che sembrano animati dal fuoco”.

Strinati  insiste sulla caratteristica del fuoco di distruggere e far balenare, per cui le immagini è come se apparissero e sparissero, lo stesso avviene per le nuvole: “L’arte di Gianni Testa è, effettivamente, una sorta di metaforica fiamma che invade lo spazio della pittura e forgia tutte le cose in maniera sintetica e unitaria, conferendo a tutto ciò che rappresenta lo stesso afflato e la stessa energia”.

L’artista utilizza la materia e i colori in un magma dal quale trae le composizioni, come Tiziano nelle ultime opere, come Michelangelo nella scultura che “tirava fuori la forma da una materia informe, la massa cromatica nel caso del pittore, il blocco di marmo nel caso dello scultore”.

Il pittore ha una vasta esperienza come scultore e utilizza la materia di partenza in modo analogo ma valorizzandone la maggiore versatilità: “Talvolta Testa sbozza l’immagine con grandi campi di colore per cui sembra di vedere alternarsi sulla tela una tendenza a sfumare e una a definire, contigue ma inseparabili”.  E ancora: “Il colore appare come un vento cromatico che spinge delle foglie, che sono le pennellate stesse, a coagularsi in forme di figure, mentre altre volte si nota un sorprendente contrasto tra una potente accensione della cromia e un altrettanto esplicito incupimento della materia pittorica”. Un cromatismo materico spettacolare che colpisce l’osservatore con forti stimoli sensoriali, oltre che intellettivi.

La formazione, dal restauro alla pittura

La matrice si trova nella formazione, alla quale  il curatore si è richiamato per sottolineare alcuni aspetti centrali della sua arte. Dopo l’interesse iniziale per l’architettura, ha frequentato la scuola di restauro alla Galleria Borghese con la guida illuminata della prof.ssa Della Pergola, e ha approfondito le tecniche delle varie epoche per interpretare la realtà e rappresentare i sentimenti, aspetto che Sttrinati  ha sottolineato, aggiungendo la nota personale di aver  iniziato anche lui con la Della Pergola.  Testa ha lavorato da restauratore per un decennio prima di dedicarsi alla scultura con la guida del maestro Bartolini. Il lavoro del restauro lo ha fatto  entrare nello spirito dei maestri dell’antichità, ma questo non vuol dire imitare l’antico, ma diventarne profondi conoscitori e, nella  espressione artistica personale essere interpreti del proprio tempo, come facevano gli artisti antichi, con la capacità di coglierne i segni esprimendo ciò che la maggioranza percepisce  confusamente.

Dopo il restauro e la scultura,  si è dedicato  alla pittura incoraggiato da Carlo Levi che nel 1962 lo fece esporre in una collettiva con i già affermati Quaglia e Guttuso, Mazzacurati e Purificato, che lui stesso frequenta, con Pericle Fazzini. Esponente  della “Scuola di Via Margutta”, erede della Scuola Romana, ha svolto un’attività artistica intensa con notevoli riconoscimenti, le partecipazioni alla Biennale di Roma dal 1968 e alla Triennale di Milano e Quadriennale di Roma dal 1975, premi in concorsi nazionali fino al Premio alla carriera consegnatogli da Vittorio Sgarbi.

 L’approccio maieutico tra il reale  il fantastico

Allegrini vede nella sua ricerca artistica il superamento delle due direttrici che hanno “ingabbiato” l’arte contemporanea, quella che presenta “l’aspetto razionale-concettuale della creatività umana” e quella che rappresenta “la componente più gestuale-emozionale, sia essa a matrice figurativa piuttosto che informale”. Le supera “attraverso una tensione emotiva verso il ricordo, la memoria, il mito che vive e si rigenera attraverso contaminazioni figurative  a matrice onirica espressionista, pervase da una forte dinamicità intellettiva”.

La sua ricerca  “trae la propria linfa vitale dalla dicotomica differenziazione tra luce e materia”, alla quale il critico associa “il dualismo tra il corpo e l’anima, la materia e lo spirito, tra l’immanente e il Trascendente”. E riesce a trovare “una porta d’accesso, un varco sensoriale tra il reale e il fantastico” con un “approccio maieutico” che lo mette “in grado di rendere estremamente palesi e reali i sentimenti e gli stati d’animo dell’uomo moderno: le ansie, le angosce, le speranze ma anche i sogni, le fantasie e tutto quanto la realtà quotidiana non offre, ma semplicemente induce”.

Ecco come questo si traduce  nelle sue forme espressive: “Ogni elemento della composizione vive, nell’opera di Testa, in funzione di una profonda tensione intimista retta da risalti cromatici chiaroscurali, di matrice caravaggesca”. Cromatismi la cui “ambivalenza”  rappresenta il fascino intrigante della sua arte: “Da un lato esplicano la profonda inquietudine dell’essere umano, dall’altro ne determinano la possibile soluzione”. L’inquietudine nasce dalle irrazionalità del mondo da cui bisogna allontanarsi per trovare la pace, la soluzione va trovata nella fantasia e nel sogno “quale basilare medicamento terapeutico dell’anima”, il farmaco unico dell’artista dopo il “tetrafarmaco” del filosofo.

Vediamo come i motivi sottolineati dalla critica si rivelano all’osservatore nella visione delle sue opere, che spaziano su alcuni grandi temi: la Divina Commedia e il Sacro, i Cavalli e i Paesaggi, le Natura morte e i Ritratti e figure.

L’inferno dell’11 settembre e la commedia dantesca, il sacro

Iniziamo con il quadro raffigurante le Torri Gemelle avvolte dalle fiamme –  scena verosimile ma non vera, come ha detto Strinati – il viaggio tra le opere di Testa esposte al Vittoriano: viaggio che richiede pochi passi tra il primo ambiente e la grande Sala Giubileo ma richiama quello virgiliano, tale è la differenza tra i cromatismi rosso fuoco e quelli in cui predomina il celeste o comunque tinte più fredde. Si passa dall’Inferno al Purgatorio e al Paradiso non solo nelle opere sulla “Divina Commedia”, con il virare dei cromatismi dal rosso cupo a tinte chiare, fino a divenire  sideree.

Ma cominciamo con “Undici settembre”, 2001: le fiamme lambiscono anche il cielo e giungono fino alla  base delle due costruzioni, che emergono nel loro biancore spiccando sui primi piani scuri dei piccoli edifici di contorno e delle acque della baia. Una metafora infernale che colleghiamo ai suoi dipinti danteschi sull’Inferno, canti “XI” e “XII  e “I Giganti”, un rosso cupo e corrusco, commisto al nero, un’atmosfera da incubo che rende bene il clima di disperazione, Sono del 1999, due anni dopo l’inferno in terra delle Torri Gemelle, stessi colori,  incubo e disperazione. Per mera associazxione di idee ricordiamo, sullì’Inferno,  i disegni di Rodin e i dipinti di Roberta Comi.

Dello stesso anno i dipinti sul Purgatorio, primo tra tutti “Dante e Beatrice”, il rosso corrusco c’è ancora, ma inquadra un cerchio luminoso su  cui si stagliano le due figure, Beatrice tutta in bianco. E  poi i Canti XX,  le figure che sipiccano tra esseri in volo, il Canto XXIII e il Canto XXVI in cui c’è anche il verde e il blu. In alcuni dipinti su questa cantica, scrive Strinati, “la materia cromatica sembra scagliata dentro il quadro”, come se “una specie di astronave di luce o di meteorite infuocato precipitino dentro il dipinto innervandolo di energia e, letteralmente, di quel tumulto emotivo che guida la mano del maestro”.

Il blu diviene una costante nel Paradiso, stemperandosi nel celeste, lo vediamo per i  Canti V, XVI e XVII..  Allegrini scrive: “Dal rosso-fuoco carnale dell’Inferno, all’azzurro cinerino nel quale si percepiscono i tenui bagliori di luce del Purgatorio, al celeste declinato in tutte le sue molteplici espressioni mistiche e coinvolgenti del Paradiso”.

Al “sacro” è dedicata una sezione, spicca “Crocifissione”, 2007, un olio le cui piccole dimensioni (40×40)  sono inconsuete per questo soggetto da grandi pale, dalla notevole forza drammatica. La sagoma del Crocifisso si intravede anche nel molto più grande “Mana Hata”, 1999, quasi uno studio preliminare, tutto in un blu che sembra rifletta la frase “ti porterò con me in Paradiso”.

Il recentissimo “Il Calvario”, 2014, lega al sacro le immagini predilette dei cavalli, soprattutto i due in primo piano, bianchi e  scalpitanti, sembrano ribellarsi ai cavalieri presi come sono dalla tragedia del Cristo riverso sotto la pesante croce. Anche in “La caduta di Paolo” il cavallo è dominante  come nel Caravaggio, figurarsi se l’artista dei cavalli non ne faceva il protagonista con il santo.

Le altre due opere del “sacro” che vediamo esposte sono quasi simmetriche, con tre figure viste di schiena in primo piano, e delle arcate architettoniche di fronte, i soggetti sono opposti; “La pace”, 1979, mostra le tre figure in ginocchio in preghiera come dietro un altare immerso nel biancore con un affresco sotto l’arcata, mentre in “Inquisizione”, 1982, l’atmosfera cupa è di attesa del verdetto.

I  cavalli e le figure umane, i  ritratti

Ma è ora di tornare ai cavalli, che finora abbiamo visto solo in “Il Calvario”. Per l’artista “i cavalli riproducono la singolarità dell’indole umana,  e ognuno è diverso dall’altro perché rappresenta l’attimo fuggente che sottende ogni variazione delle emozioni personali”. Allegrini li vede “ammantati della luce inafferrabile dell’eroico furore che diventa metafora ed allegoria della vita” e li paragona a “raffinate proiezioni mentali, sinonimo di quella libertà immaginifica e intellettuale da sempre anelata dall’essere umano, consciamente o inconsciamente”.

Ebbene, dinanzi ai cavalli di Testa si è circonfusi da una sorta di sinfonia animale, li vediamo sempre scalpitanti, in alcuni casi rampanti, spesso di un biancore che spicca sul rosso e in molti casi vira sul celeste. “E pur galoppando, in volute, in abbaglianti giochi e movimenti di criniere al vento –  esclama Alberto Giubilo – ti appaiono insieme leggeri e forti, come i cavalli sono e sempre saranno. Più che l’occhio è lo spirito che ti prendono, in un coinvolgimento insieme di sensi e di poetica estasi”.  Sin dal 1966 li vediamo protagonisti della sua pittura, di tale anno “Gli stalloni”, tre che si impennano, poi i “Bradi liberi”, 1976, quasi una danza di bianchi destrieri, li ritroviamo in “Il sogno di Agamennone”, 1982;  prima c’è “Incontro”, 1978, in una sorta di antropomorfismo in cui a una figura femminile è accostata la testa di un cavallo che sembra lanciare un forte nitrito.

Con il secondo millennio i cavalli nel mondo dell’artista si moltiplicano. Dai sei destrieri con gli occhi allucinati di “Bufera sulla città”, 2000, alla moltitudine di quadrupedi nella mischia di “Battaglia”, 2005,  tra il bianco e il rosso. Poi i prediletti cavalli bradi, da “Bradi nella notte”, 2009, a “Lotta di  bradi”, 2011, fino a “Bradi festosi”, 2013: è impossibile renderne a parole la vitalità, il cromatismo e soprattutto le posizioni arrembanti che ne fanno figure prorompenti. In “Giostra notturna” e soprattutto “Pegaso”, entrambi 2009, diventano addirittura figure mitiche.

Per Raffaele Nigro,  “i cavalli sono dappertutto, rendendo possente ed epica la sua pittura”. Ciò fa sì che “la visionarietà dei suoi colori, l’inquietudine esistenziale che lo avvicina a Carena, Savinio e De Chirico non sia statica o estatica, di attesa, di contemplazione, ma sia furente, appassionata, agitata da forze saettanti”.

Dopo il dinamismo sfrenato dei cavalli, che sottende i profondi contenuti espressi dai critici citati, quello più misurato della danza, che  ritroviamo negli anni. Le opere esposte vanno da “Balletto notturno”, 1979,  con le ballerine in varie posizioni,   e “Danza”, 1980,  un’immagine  scultorea intorno a una fontana,  al rutilante “Danzatrici”, 1990, una danza multipla con il celeste dominante  e a “Danza orientale”, 2000, una danzatrice  sola che spicca come un fiore nel suo vestito rosso. 

I ritratti sono come un “fermo immagine” in tutto questo dinamismo; anche il cromatismo si attenua molto  come vediamo nel doppio “Ritratto di Maria Grazia”  nel 1971 in un carboncino bianco e nero, e nel 1975 in un olio a dominante bianco-nera con qualche macchia rossa al centro; lo stesso per il “Ritratto di Lidia Ceccarelli, dove però il rosso sia pur discreto, è  in tutto il quadro; in“Peppa” e “Garibaldi” tale colore fa da sfondo alle figure con ampie zone di bianco e celeste..

Degli altri ritratti vogliamo sottolineare i forti contrasti cromatici in “Ragazza peruviana”, 1977, e “Marilyn Monroe”, 1987; ricordiamo per inciso che della grande attrice Warhol ha resa famosa la riproduzione di una fotografia, fatta segno di colpi di pistola da una fanatica, il celebre “marilyn shot”: Poi l’intensità di  “Anita e Garibaldi”, 1886, seguito a distanza di sei anni da “Anita e la donna”, 1992, dai forti bagliori in un ambiente molto scuro;  il trepido “Ritratto di Chiara”, 1988, dopo l’intrigante “Alchimia”, 1986; e, sul piano religioso, la radicale differenza tra la positura solida e il volto energico di “Cardinale Sabbatani”, 1980, e la figura cadente  che si appoggia al pastorale di “S.S. Giovanni Paolo II”, 2000: sono  le due chiese, quella del potere e quella  della sofferenza unita alla santità. Strinati ha scritto che il papa santo “guarda verso di noi da una ancestrale distanza. Qui veramente l’impatto della materia cromatica che si trasforma in immagine nettamente riconoscibile si incide nella memoria con forza estrema e rifulge all’occhio dell’osservatore”.

Nature morte e paesaggi

Vive e vitali come ritratti ci sono apparse le sue “nature morte”, una di queste, del 2012,  la chiama “Natura silente”, alla De Chirico; dello stesso anno “Uva”, la stessa brillantezza degli acini che li fa sembrare veri che abbiamo visto, nella stessa Sala Giubileo,  nei grappoli di Orlando Ricci, ma qui non siamo nell’iperrealismo, eppure l’effetto è simile; un effetto che abbiamo riscontrato anche nello spettacolare  “Natura morta”, 1979, e in “Autunno”, 1982,in  una bella continuità dopo  trent’anni.

Non solo uva ma anche “Cesto di pesche”, 1973, e pesci in “Manolite”, 1975, questi ultimi quasi guizzanti. La prima “Natura morta”, 1962, con vaso e brocca, fiori e frutti, non era così ben definita, mentre “Natura nel blu“, 1984, riunisce una serie di elementi, dall’uva alle pesche, ad altri frutti, immergendoli in uno spettacolare cromatismo blu.

E’ un blu che ritroviamo nella sezione sui “paesaggi“, soprattutto nelle visioni urbane della città natale di Roma, che sembrano delle apparizioni, evocatrici di una realtà amata. Scrive Strinati che in certe visioni urbane “lo sguardo si rischiara e la tensione emotiva espressa dal maestro pare placarsi nel nome di momenti meditati e sereni”.

Dai dipinti in tinte chiare, come “Sintesi di Roma”, 1967, a quelli a fondo scuro, come “Ruderi di notte”, 1968, e “La vela rossa”, 1988.  Con “Venezia d’estate”, 2009, si affaccia il blu, che esplode con tonalità miste di azzurro e celeste in “Veduta di via del Corso da piazza del Popolo” e “Piazza Navona”,  2000, “Piazza di Spagna”, 2000, e “Piazza del Popolo”,  2012″, i primi due quasi astratti, gli altri ben definiti. 

Secondo Allegrini, l’Urbe capitolina, da lui prediletta, “in cui la figurazione tende a sublimarsi nell’astrazione, come nel  caso del ciclo delle ‘vedute monocrome blu’, non è soltanto lo sfondo celebrativo di molti suoi quadri ma anche luogo elettivamente barocco, come egli desidera che sia la propria pittura, oltre che archetipo della propria indagine concettuale”.

Nei suoi paesaggi ci sono anche le marine: dal piccolo scuro e magmatico fino all’astrazione “Velieri”. 1970, di 24 x 34 cm, al grande “Velieri”, 2000, di 70 x 190 cm, trent’anni dopo l’immagine è spettacolare,  nel blu intenso è immersa una visione di straordinaria luminosità.

Ripensiamo ai suoi quadri del Paradiso, dove questo colore dà la svolta della spiritualità. Ebbene, ci viene di concludere che  nelle piazze più amate della Roma verace, come nella marina incantata, l’artista trova il suo paradiso. E rende partecipi tutti noi di questa favolosa sublimazione.

Info

Complesso del Vittoriano, via san Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, compresa domenica, dalle ore 9,30 alle 19,30, accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura, ingresso gratuito. Tel. 06.6780664. Catalogo “Gianni Testa. Antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2014, pp 112, formato 24 x 28; dal Catalogo, e dalla presentazione orale dell’11 settembre,  sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito  per le mostre  su Warhol con “Marilyn shot” il 15 e 22 settembre 2014, sull’iperrealismo di Orlando Ricci  il 27 giugno 2014, su opere ispirate all’Inferno di Dante, con i disegni di Rodin e i dipinti di Roberta Comi il 20 febbraio 2013, su “Guttuso” il 25 e 30 gennaio 2013, sull’“Astrattismo italiano”   il 5 e 6 novembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” su de  Chirico e la ‘natura silente’” l’8, 10 e 11 luglio 2010,  in particolare il terzo, “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, sulla mostra di Perugia  “Teatro del sogno”  il   30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010, sulla mostra di  Caravaggio  alle Scuderie del Quirinale, il 5 e 11 giugno 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese nella Sala Giubileo del Vittoriano alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, in particolare il maestro Testa al quale va un ringraziamento particolare per aver accettato di farsi ritrarre davanti alle sue opere, In apertura, il maestro Testa davanti a due suoi dipinti di “Bradi”; seguono ,“Undici settembre”, 2001, e “Piazza di Spagna”, 2000, poi “Inquisizione”. 1982, e “Ragazza peruviana”, 1987, quindi “Mana Hata”, 1999, e “Lotta di bradi”, 2011; inoltre “Alchimia”, 1986, e “Monolite”, 1975, infine “Marilyn Monroe”, 1987; in chiusura, un gruppo di dipinti sulla “Divina Commedia”, 1999.