di Romano Maria Levante
Alla Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, la mostra “Hogarth, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità”, dal 15 aprile al 20 luglio 2014, espone oltre 100 opere provenienti dalle maggiori istituzioni museali britanniche e non solo – prestatori anche gli Uffizi – di artisti inglesi del ‘700, con i tre principali in evidenza, che partendo dai valori della classicità hanno ricercato una visione autonoma, anzi autoctona. Curatori della mostra Carolina Brook e Valter Curzi, che hanno curato anche il Catalogo Skira, con testi che ripercorrono criticamente la pittura inglese del ‘700, oltre ad una documentata iconografia. .
Il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele si è ricollegato alla mostra del 2010-11 alla Fondazione, “Roma e l’Antico. Realtà e visione nel ‘700”, sul rilancio artistico di Roma nel ‘700 operato valorizzando l’eredità dell’antico.
L’Inghilterra aveva assorbito i valori della classicità, tanto che Joshua Reynolds ebbe a dichiarare nel 1774: “”Dai resti delle opere degli antichi le arti moderne trassero nuova vita ed è per mezzo di loro che esse devono conoscere una nuova nascita”.
Su questa solida base il paese si proiettava anche nell’arte verso la modernità, con lo slancio innovativo che investiva il campo politico, economico e sociale di una nazione al centro di un vasto impero. Londra era il cuore di fiorenti attività commerciali, industriali e finanziarie e divenne sede degli artisti – vi andò anche il Canaletto – e delle maggiori committenze, non solo quelle aristocratiche orientate verso l’arte italiana, ma quelle della nuova borghesia urbana che intendeva celebrare nell’arte il ruolo preminente assunto nell’economia e nella società attraverso lo spirito d’iniziativa che portava al successo individuale e collettivo.
Le linee innovative del ‘700 inglese, ritratto e paesaggio
Emanuele spiega che “attraverso il pennello di Hogarth, Reynolds, Wright of Derby, Zoffany e Fussli, le figure emergenti di industriali, scienziati, esploratori, oltre che di artisti, musicisti, attori e sportivi, diventano le protagoniste del percorso espositivo”. La mostra è, quindi, “una carrellata che intende illustrare le numerose articolazioni presentate nel campo del ritratto, dal mezzo busto alla figura intera immersa nel paesaggio, ai gruppi, i conversation pieces, in cui famiglie o circoli di amici trovano un’originale forma di rappresentanza”. E’ un’inedita varietà di formule compositive.
In questo contesto, si collocano le incisioni di Hogarth nelle quali, secondo i curatori Brook e Curzi, “i temi di vita quotidiana, ‘soggetti morali moderni’, diventano l’occasione per promuovere un’arte che, al di fuori della gerarchia accademica, recupera la sua vocazione educativa, rivolgendosi a un pubblico di diversi livelli sociali con un linguaggio realistico e incisivo. Infine sarà intorno al nome di Shakespeare, padre riconosciuto dell’identità britannica, che si coaguleranno gli artisti, una schiera di Shakespeare’s Painters”, tra i quali spicca lo svizzero Fussli.
Mentre Reynolds è il ritrattista che ebbe maggiore successo “per aver conferito a questo genere i tratti del grande stile”, commenta Emanuele. “Al paesaggio – conclude – vengono dedicate le ultime tre sezioni, nelle quali si può osservare l’evoluzione di questo genere in direzione della modernità”.
L’innovazione dell’acquerello ha permesso di dipingere all’aperto cogliendo le variazioni di luminosità nel paesaggio, un “en plein air” che anticipa gli impressionisti naturalmente in forme molto diverse. Gli acquarellisti – che si svilupparono fino a costituire, all’inizio dell’800, la “Society of Painters in Water Colours” riprendevano il paesaggio in presa diretta “in loco”, oppure rielaboravano nell’atelier gli schizzi presi all’aperto. La mostra, sottolineano i curatori, presenta “la doppia natura della rappresentazione ‘moderna’ del paesaggio, ora affidata alla percezione emozionale e mnemonica, ora impostata sulla recezione razionale ‘sviluppando la logica dell’organizzazione delle sensazioni’, come avrebbe scritto Paul Cézanne a distanza di un secolo dalle opere di Towne”, un paesaggista che restava fedele al contatto diretto con la natura.
Nei dipinti ad olio, “il paesaggio italianizzante, di matrice pastorale e classicista, continuò a mantenere per tutto il Settecento un primato nel mercato britannico – precisano i curatori – e mai venne meno in Inghilterra la passione per il paesaggio storico ed eroico, a cui ricollegare specifici valori identitari di una classe aristocratica che vanta una particolare familiarità con la letteratura latina e greca”. Ma l’originalità dei pittori britannici risiede nella visione della campagna inglese che sottende, “con la presenza di contadini e pastori impegnati in diverse mansioni, quell’etica protestante del lavoro che cancella, un po’ ingenuamente, ogni tipo di fatica e di conflitto sociale”, e anche nel paesaggio “non antropizzato”, inserisce soggetti di “una mitologia tutta britannica”.
In questa visione autoctona, se Gainsborough rinunciò addirittura al viaggio di formazione in Italia, Stubb visitò il nostro paese nel 1754 senza esserne influenzato mentre Wright of Derby scoprì la pittura del paesaggio nel viaggio in Italia del 1774-75, tra “percezione ed emozione”, tra “il pittoresco e il sublime”, per la “coscienza della fragilità dell’esistenza umana di fronte all’immensità dell’universo”.
La mostra scavalca il ‘700 e nell’ultima sezione entra nell”800 con le pitture all’aperto di Constable di paesaggi britannici e con i paesaggi di Turner, dedicati anche a soggetti italiani come Roma e Venezia, la cui pittura è “prima ancora che restituzione del dato naturale, un fatto mnemonico e insieme concettuale: la capacità cioè di fissare, anche a distanza di tempo, il lato affettivo dell’esperienza personale di un paesaggio o di una città e di consegnare tale esperienza alla forza probante della storia”.
Sono parole dei curatori, la migliore premessa per la visita a una mostra così promettente. E l’allestimento accresce l’interesse, creando l’ambientazione giusta per far respirare il clima del ‘700 con le architetture classiche che riprendono quelle della sala dorica di Harewood House.
Le vedute di Londra e le effigi dei ceti emergenti
In apertura della mostra l’ambientazione diventa pittorica, nella 1^ sezione sono esposte le vedute della Londra del ‘700, la cui popolazione cresceva in modo impetuoso mentre la città assumeva l’aspetto di metropoli lanciata verso la modernità: il Tamigi e i suoi ponti in primo piano.
Ecco, di Samuel Scott, “Veduta di Wesminster con il ponte in costruzione”, 1742, e “La piazza e il mercato di Covent Garden”, 1747-48, e di William Marlow “Fresh Warf, London Bridge”, 1762 e “Veduta di Adelphi dalle rive del Tamigi” con le ciminiere di un’industria che emettono fumo. Mentre di Joseph Michael Gandy e Van Assen “Veduta del Consols Trasfer Office nella Bank of England”, 1799, un interno con una grande cupola e suggestivi effetti di luce.
C’è anche il Canaletto, pittore degli scorci architettonici e lagunari veneziani che dipinge inquadrature spettacolari del Tamigi nel 1747 dallo stesso ponte di Scott: “La City di Londra vista attraverso un’arcata di Westminster Bridge”, 1747, e “Westminster Bridge in costruzione visto dalla sponda di Sud-Ovest”, suo anche l’“Interno della Rotonda di Ranelagh”, 1751, rappresentata come un grande teatro, un interno che accostiamo a quello di Gandy altrettanto imponente. Nel Catalogo si trova un’accurata analisi di Sergio Marinelli su “la Venezia degli inglesi, l’Inghilterra dei veneziani”, troveremo in seguito i paesaggi italiani nei pittori britannici come quelli londinesi in Canaletto e in altri pittori italiani.
Sono esposti anche degli acquerelli di Paul Sandby con i pittoreschi frequentatori delle zone popolari della metropoli: London Cries, “ Lavandaia” e “Lustrascarpe”, “Pescivendolo” e “Venditore di muffin”.
Dalla metropoli in crescita con queste figure caratteristiche, alle classi emergenti in una ritrattistica di tipo nuovo, con le effigi del ceto emergente di commercianti e industriali, viaggiatori e scienziati, attori e musicisti, perfino uomini di sport. Attraverso i protagonisti i dipinti celebrano i settori verso i quali va l’interesse collettivo: dallo sviluppo economico e produttivo alle scoperte della scienza, dalle scoperte degli esploratori, nel mondo che si apre, ai successi degli sportivi. Tutto ciò alimenta per la prima volta un mercato dell’arte diffuso, in un nuovo rapporto con la crescita culturale: nascerà una scuola artistica nazionale con stile e contenuti autoctoni.
La 2^ sezione riflette il “mondo nuovo” nel quale gli esponenti del ceto medio si affiancano alla vecchia aristocrazia sia nel prestigio di censo sia nel mecenatismo verso gli artisti per celebrare lo status acquisito. Joseph Wright of Derby raffigura “L’industriale Richard Arkwright”, 1790, 20 anni prima aveva dipinto un “Filosofo che tiene una dissertazione sul planetario”, 1768; William Hodges presenta “Il capitano James Cook”, e “Tahiti rivisitata”, 1775-76, mentre John Hamilton Mortmer “Il boxeur Jack Broughton”, 1767, e Thomas Gainsbourough “Jonhatan Sebastian Bach”.
Del grande Joshua Reynolds vediamo “Autoritratto”, 1775, mentre di Johan Zoffany “Autoritratto con cappello piumato”. C’è anche “L’ascesa della mongolfiera Lunardi”, dipinta da Julius Caesar Ibbetson.
La pittura teatrale e il ritratto inglese
Nelle opere che portano alla formazione di una scuola artistica nazionale si riflettono i mutamenti nella società e i modi in cui si esprime la vita sociale, tra cui lo spettacolo teatrale molto diffuso nell’epoca che diede luogo a opere che vi si ispiravano.
E’ il contenuto della 3^ Sezione della mostra, che si apre con tre dipinti di Creti, Besoli e Ferraroli su altrettante “Tombe allegoriche”, di Joseph Addison, Robert Boyle, Lord Torrington, 1722-29, vivaci scene di vita dinanzi alle tombe monumentali.
La vita sociale la vediamo nelle incisioni del 1797-1801 di William Hogarth e Thomas Cook, in particolare nel ciclo “Marriage a-la-mode” e nell’“Election Day”, che sono rappresentazioni di tipo teatrale. Una vena di umorismo è nei personaggi che animano la scena del “matrimonio alla moda”, il “Contratto” e “Poco tempo dopo il matrimonio”, “La visita del ciarlatano e “La levée della sposa”; mentre c’è il senso del tragico in “La morte del visconte” e “Il suicidio della contessa”. Molto animate le scene dell'”Elezione”, dal “Banchetto elettorale” alla “Sollecitazione dei voti”, dalla “Votazione” ai “Deputati portati in trionfo”. Sono veri teatrini le due incisioni degli stessi autori “Analisi della bellezza”, 1798, e altrettanto teatrale l’olio “Il ballo” del solo Hogarth, 1745, quindi mezzo secolo prima delle incisioni. .
Il teatro vero e proprio è evocato da Johan Zoffany, i cui lunghi soggiorni in Italia – a Roma a 17 anni dal 1750 al 1757, a Firenze dal 1772 al 1779 – lo presero al punto da fargli dipingere opere classiche da “David con la testa di Golia” a una “Madonna con Bambino” non esposte nella mostra. Ma come fu influenzato dal contesto in Italia così lo fu tornato in Inghilterra, per cui, nota Anna Maria Ambrosini Massari, “giunto a Londra il suo percorso, soprattutto tenendo presenti gli antefatti, risulta addirittura rivoluzionario”. Per questo “Zoffany è preciso come uno scienziato in ogni dettaglio delle sue opere, dove si vedono persone, oggetti e luoghi reali, mai generici”. In questa sezione vediamo una scena del “Macbeth”, due personaggi che si muovono con ampi gesti.
Il teatro ispira soprattutto Johann Henrich Fussli, di cui sono esposti 5 dipinti con soggetti shakespeariani e mitologici, figure di tipo classico, conturbanti ed evanescenti. L’artista più che riprodurre scene autentiche, le reinterpretava nella sua immaginazione. A differenza di Fussli, l’ideatore del genere, Hogarth, ritraeva attori teatrali molto noti e scene autentiche: nel 1730 dipinse una scena del“Falstaff” e nel 1945 una di “Riccardo III” raffigurato come Laocconte.
Robin Simon parla del rapporto tra attore teatrale e pittore, che con Hogarth ha segno opposto rispetto al normale riferimento del pittore alla performance teatrale, con lui l’attore Garrick si ispirava anche ai suoi dipinti oltre che a disegni e stampe, in una proficua sinergia tra generi artistici. E aggiunge: “Howart è spesso definito artista tipicamente inglese, insulare e istintivamente avverso a qualsiasi suggestione europea”, precisando che sebbene sia soggetto all’influenza dell’accademia “in modo del tutto caratteristico crea qualcosa di nuovo e profondamente legato alla tradizione inglese”. Può attingere a due culture, e segnò la ritrattistica che nei dipinti di soggetto teatrale univa “un certo grado di autorevolezza accademica” a un dato essenziale, “l’accurata e realistica rappresentazione degli attori ritratti”, in modo da essere riconoscibili dal pubblico.
Il ritratto, cui è dedicata la 4^ sezione, si sviluppa notevolmente, anche perché la religione protestante escludeva i temi religiosi; inoltre gli veniva attribuito il ruolo di tramandare i valori dei protagonisti dell’epoca. Si tratta anche di generali e nobildonne, oltre ai personaggi eminenti, in una sorta di autocelebrazione individuale che diventa collettiva per il ceto emergente. E’ definita “età eroica”, ne sono esponenti due “vedette” della mostra e altri artisti già incontrati.
Di Hogarth vediamo “Ritratto di gruppo con Lord John Hervey”, 1738-40, una scena con sei soggetti aristocratici ripresi come nei ritratti e“Ritratto maschile in rosso”, 1741, intenso primo piano aristocratico.
Mentre di Joshua Reynolds c’è una galleria di 5 ritratti: dal busto di “Lo scultore Joseph Wilton”, 1752, con il viso che emerge dall’ombra, mentre guarda altrove, alle due figure sedute, “L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette”, fino ai due ritratti in piedi a figura intera per “Lady Bampfylde” e “Il luogotenente generale John Manners”, tutti tra il 1770 e il 1777.
“Nessun artista nell’Inghilterra del Settecento ebbe più assistenti nel corso della sua carriera di Sir Joshua Reynolds”, scrive Brian Allen, e ricorda come sia pervenuto molto materiale sulle sedute di posa per i ritratti, che seguivano un preciso rituale: “Spesso i modelli si recavano nello studio dell’artista insieme a membri della famiglia, così la pratica potenzialmente noiosa della seduta di posa si trasformava in un’occasione sociale”.
Guarda altrove, come lo “scultore” di Reynolds, anche “William Wollaston”, 1759, di Gainsaborough, di cui vediamo pure il precedente “Coppia in un paesaggio“, con l’abito della dama che si confonde con il terreno, tra il 1753 e il 1750. Di questo artista Allen cita un’affermazione sullo sforzo richiesto per dipingere rispetto alla remunerazione: “Mentre il pittore di ritratti è assediato fino allo sfinimento, il pittore di panneggi sta comodamente seduto e guadagna cinque e seicento all’anno, e ride sotto i baffi”.
Lo sguardo rivolto altrove è una caratteristica anche del “Ritratto di Richard Kinchant nel costume da caccia”, di John Russel, 1790, grande pastello su carta, e di “St. Charles Watson”, 1775, di Pompeo Baroni, mentre fissano invece l’osservatore con aria impettita “”Miss Janet Sharp” e “Julia Hasell, di Allan Ramsay, tra il 1749 e il 1750.
Ritroviamo Zoffany con “La famiglia Sharp”, un’allegra brigata di 15 persone, e “Ritratto di Fra Giovanni Poggi”, dall’espressione arguta e ammonitrice, tra il 1777 e il 1781.
Il paesaggio e le sue variazioni
Abbiamo detto che il ritratto era uno dei grandi temi, l’altro è il paesaggio, che troviamo nelle sezioni finali della mostra. Nella 5^ Sezione è di scena il “Paesaggio on the spot”, ad acquerello, di cui abbiamo indicato le principali caratteristiche, qui vediamo le relative opere pittoriche.
Sono esposte le rappresentazioni di castelli e case padronali nella celebrazione parallela al ritratto, e di abbazie, come i due acquerelli di Paul Sandby, “Yorkshire, Roche Abbey”, 1770, “Shopshire Wenlock Abbey, 1779. Poi un sorpresa: nei successivi acquerelli troviamo paesaggi italiani, molto sfumati fino a sembrare evanescenti, senza presenza umana: tali le “Vedute” di John Robert Cozens, dei ” Colli Euganei” e del “Castel Sant’Elmo a Napoli”, 1782-90, i 5 paesaggi di Francis Towne, l’“Arco Oscuro a Roma e il Tevere”, il “Giardino di Villa Barberini” e le “Terme di Caracalla”, fino al “Monte Bianco”, 1780-81. Sono abbozzati come per evocare ricordi lontani.
Torna il colore più intenso, pur se non brillante, con gli oli della 6^ Sezione, sulle “Variazioni del paesaggio”, anche qui quasi tutti paesaggi italiani. Vi sono piccole figure in un ambiente naturale che nella sua vastità è il soggetto del dipinto nel “Paesaggio con chiusa, contadini e animali al pascolo”, 1753, di Gainsborough, nelle 2 vedute diRichard Wilson, “Tivoli, le Cascatelle e la ‘Villa di Mecenate'”, e “Il lago di Agnano con il Vesuvio in lontananza”, 1770-75, e nella “Veduta delle mura vaticane”, post 1783, di Thomas Jones, sua anche una “Marina in tempesta”, 1778.
Senza presenza umana i 3 dipinti di Wright of Derby, sul “Vesuvio in eruzione”, una “Grotta nel Golfo di Salerno”, e “Snowdon al chiaro di luna”, 1774-92, con suggestivi effetti luminosi. Iniziò da ritrattista, come abbiamo visto, e continuò a dipingere ritratti fino all’ultimo, ma nel paesaggio fu innovativo, come sottolinea Martin Postle: “Si può affermare che con queste opere di Wright l’arte paesaggistica britannica entrò in una nuova fase, poiché esse, abbandonando il regno augusteo delle generazioni precedenti, inaugurarono l’epoca romantica di Turner e Constable”.
Sono proprio i due artisti con i quali la mostra passa nell’800 nella 7^ e ultima sezione, c’è Turner, la terza “vedette” della mostra: i loro dipinti mostrano come l’approdo dell’evoluzione settecentesca sia stato un nuovo linguaggio figurativo aperto alla modernità, tipicamente inglese.
John Constable fissa il paesaggio con colori netti, che diventano sempre meno decisi e più sfumati con il passare del tempo: i più netti in “La valle dello Stour con Dedham” e “Vallata di Dedham, sera”, 1800-05, mentre sfumano in “La vallata di Deham” e “Malvern Hall da sud-ovest”, 1809-14, maggiormente nel “Canale presso il mulino” e “Hampstead Heath, lo stagno di Branch Hill”, 1814-21, fino a “Paesaggio con nuvole” e “La cattedrale di Salisbury”, 1820-31, quest’ultimo dal tocco pre-impressionistico.
Cercò di conciliare la spontaneità del dipingere all’aperto con i grandi formati del dipinto in studio. Scrive al riguardoPostle:”Era desiderio di Constable di conservare nei dipinti finiti la spontaneità e l’intimità degli studi eseguiti di getto nelle sessioni di pittura en plein air” . L’artista non lasciò mai l’Inghilterra e si ispirò molto ai paesaggi della terra natia al punto di dire: “Associo ‘la mia spensierata giovinezza’ con tutto quanto è visibile sugli argini del fiume Stour; questi paesaggi hanno fatto di me un pittore, e sono loro grato”.
Con Joseph Mallord William Turner, che invece si ispirò soprattutto ai numerosi viaggi in Inghilterra e in Europa, il paesaggio resta sfumato, reso da macchie cromatiche poco contrastate, nessun colore brillante: si ispira ai maestri classici e alla tradizione topografica per cui inserisce elementi precisi nei suoi paesaggi “esotici e maestosi – commenta ancora Postle – montagne, mari in tempesta, tramonti e cataclismi naturali di ogni genere”. Alcuni paesaggi esposti sono vedute con castelli, “Chateau St. Michael, Bonneville, Savoia”, e “Lowter Castle, Westmorland”, 1802-10, o con altre strutture, come “Il porto di Londra” e “Il faro di Eddystone”, “Il Danubio con la cattedrale di Ratisbona” e “Gloucester”, 1824-40. Le altre opere, 4 su 10, sono paesaggi italiani, del 1727-28: “Tivoli, cascatelle” e “Paesaggio con Ulisse e Polifemo”, “Nepi” e “Catania”, vediamo accentuato l’aspetto delle macchie dense senza ricerca figurativa, quasi l’addensamento nella memoria di quanto rimasto impresso nel viaggio in Italia, che sia pure nello slancio verso la modernità e la ricerca di un’espressione autonoma ed autoctona, restava una costante nella formazione e non solo di questi artisti, salvo alcune esplicite rinunce cui abbiamo accennato.
Si conclude così un percorso , all’insegna di un rigore espositivo che ha saputo ricreare l’atmosfera settecentesca in clima britannico. La sfilata di effigi, ritratti e paesaggi si imprime nella mente e negli occhi dell’osservatore, l’allestimento fa il resto. Ancora una volta l’arte riesce a riprodurre un mondo che viene così affidato alla memoria. È questo il miracolo della cultura.
Info
Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22 , Roma. Lunedì ore 14,00-20,00; dal martedì al giovedì e domenica 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-21,00. Il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura.Tel. 06.69205060; http://www.fondazioneromamuseo.it/, http://www.pitturaingleseroma.it/. Catalogo. “Hogarth Reynolds Turner. Pittura inglese verso la modernità”, a cura di Carolina Brook e Valter Curzi, Skira e Fondazione Roma Museo, aprile 2014, pp.306, formato 24×28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la precedente mostra della Fondazione su “Roma e l’Antico nel ‘700”, cfr. in “www.antika.it”, i nostri 3 articoli “Il Parnaso a Palazzo Sciarra”, “Dal Parnaso alla fabbrica dell’Antico”, “Dal Parnaso alla sfida all’Antico”, il 3, 4, 5 marzo 2011; su Cèzanne citato nel testo, cfr., in questo sito, i nostri 2 articoli sulla mostra al Vittoriano, il 24 e 31 dicembre 2013.
Foto
Le immagini sono state cortesemente fornite dalla Fondazione Roma Museo che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, William Hogarth, “Ritratto di gruppo con Lord John Hervey”, 1738-40; seguono Samuel Scott, “Veduta di Westminster con il ponte in costruzione”, e William Hogarth, “Ritratto maschile in rosso”, 1741; poi Thomas Gainsborough, “Coppia in un paesaggio”, 1753, e Joshua Reynolds, “L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette”, 1772-73; quindi Wright of Derby, “Grotta nel golfo di Salerno al tramonto”, 1780-81, John Constable, “La cattedrale di Salisbury”, 1829-31, e Joseph Mallord William Turner, “Paesaggio a Nepi, Lazio, con acquedotto e cascata”, 1828; in chiusura, Canaletto, “La City di Londra vista attraverso un’arcata di Westminster Bridge“, 1747.