di Romano Maria Levante
Nel presentare la prossima mostra della Fondazione Roma sul ‘700 inglese, “Howart, Reynolds. Turner. Pittura inglese verso la modernità”, al Palazzo Sciarra, al Corso dal 15 aprile al 20 luglio 2014, il presidente Emanuele ricorda la mostra della stessa fondazione dedicata in passato al ‘700 romano, “Roma e l’antico nel ‘700″, dal 30 novembre 2010 al 6 marzo 2011, che portò il Parnaso nello spazio espositivo di Palazzo Sciarra, inaugurato nell’occasione. Nell’imminenza della mostra sul ‘700 inglese, dunque, ci sembra interessante il resoconto predisposto allora, nell’immediatezza, della mostra sul ‘700 romano, per corrispondere alla continuità e completezza del percorso culturale-espositivo della Fondazione che ha esplorato, con varie mostre, i profili dell’arte presente a Roma.
In occasione della prossima mostra della Fondazione Roma “Hogarth, Reynolds e Turner. Pittura inglese verso la modernità, sul ‘700 inglese, dal 15 aprile al 20 luglio 2014, continua la nostra rievocazione della mostra, della stessa Fondazione, dal 30 novembre 2010 al 6 marzo 2011, su “Roma e l’Antico nel ‘700”. Dopo le prime 3 sezioni della mostra concernenti la resurrezione dell’Antico unita a restauri invasivi, falsificazioni e copie, concludiamo con le ultime 4 sezioni, dalle botteghe di restauro e le Accademiealla decorazione degli interni e agli artisti dell’epoca in emulazione e sfida con l’Antico, nella cavalcata tra le 140 opere che fanno rivivere il fervore artistico e culturale nel “secolo dei lumi” reso e analizzato nella mostra con un impegno meritorio.
Dalla resurrezione alla contraffazione e integrazione dell’antico
Troviamo un’opera di Mengs anche nella 3^sezione della mostra, Giove bacia Ganimede, affresco staccato riportato su tela dipinto nel 1760, ritenuto il falso più celebre del XVIII secolo perché fu fatto passare come una pittura romana antica ritrovata in una grotta presso Bolsena: ingannò anche Wincklelmann e Goethe che ne parlarono in termini entusiasti il primo nella sua “Storia dell’arte antica” (eliminandolo nell’edizione del 1766 per i dubbi sorti) , il secondo nel “Viaggio in Italia”. La biografia diMengs del 1760 lo dichiarò un falso originato non da motivi commerciali bensì dalla volontà di cimentarsi “nel rispetto dello spirito wincklelmanniano dell’imitazione”, scrive Ilaria Sgarbozza, anche se poi il suo percorso fu da contraffazione.
Nello spirito di rispettosa imitazione, questa volta dichiarata, si colloca il dipinto di Cristoforo Unterperger intitolato Apollo affida il proprio figlio Esculapio al centauro Chirone, che si rifà all‘Apollo del Belvedere al quale si era ispirato anche il già citato Parnaso diMengs.Le figure sono classicheggianti, il tono della composizione è arcadico. E avendo parlato dell’Apollo del Belvedere notiamo la piccola statua in bronzo esposta con tale nome, non quella classica originaria di Giuliano della Rovere, prima che divenisse papa Giulio II, ma una delle tante imitazioni, molte delle quali dello studio Zoffoli con un patina che copriva le giunture e dava il senso dell’antichità.
Abbiamo accennato ai falsi, e ce n’era una grande quantità per rispondere alla domanda di antichità da parte di italiani e stranieri del Grand Tour. Come avvenuto per il falso di Mengs – abbiamo citato la grotta presso Bolsena – per spacciarli con maggiore facilità venivano fatti “ritrovare” in occasione degli scavi. E’ emblematico il busto in marmo di Sabina, apparentemente di epoca classica, esposto in mostra, che il celebre pittore inglese David Hamilton spacciava come rinvenuto negli scavi di Lanuvio, mentre si ritiene sia stato realizzato tra il 1760 e il 1774, come mostrano dei particolari che renderebbero estremamente improbabile datarlo nell’antichità romana. La “Galleria dei Busti” del museo Pio-Clementino, alla quale appartiene Sabina, ne ha molti altri consimili.
Non sempre, tuttavia, opere di stampo classico non antiche del ‘700 vanno considerate dei falsi, c’erano le repliche, come nell’Apollo Belvedere, per riprodurre dichiaratamente un’opera irripetibile, tanto più imitata quanto più ammirata. E poi c’era il cosiddetto “lavoro all’antica”, un’opera nuova non ricalcata pedissequamente su modelli originari ma ispirata liberamente ad essi adottando per nuovi soggetti la tecnica e lo stile antichi. C’erano anche i calchi per la produzione in serie in gesso o in bronzo, con i quali si potevano moltiplicare le riproduzioni anche per l’estero.
E’ un pozzo di San Patrizio l’antichità romana nella realtà e nella visione del ‘700, e la mostra ce ne disvela il contenuto fino in fondo, portando tutto allo scoperto. Fino ad assumere come proprio emblema, come accennato all’inizio, la Minerva d’Orsay realizzata con un evidente trapianto di testa, braccia e piedi in marmo bianco e di un’egida in agata su un torso in onice dorato di età adrianea che non riguardava minimamente la dea romana, con un panneggio di qualità eccezionale nel pigmento dell’onice anch’esso straordinario: veramente affascina la vista del visitatore..
Non è un caso isolato, tutt’altro, la mostra ce ne dà conto esponendo due grandi statue marmoree, alte oltre 180 centimetri, raffiguranti Apollo citaredo:la prima in origine raffigurava Pothos, nel restauro fu trasformato in Apollo con il trapianto della testa e delle gambe, peraltro antiche, oltre che l’innesto delle braccia e della lira; la seconda statua nasce dal rinvenimento a piazza San Silvestro del torso e di una porzione di braccio, mano e frammento di lira, avvenuto nel 1785, con identificazione in Apollo e successivo restauro integrando i pezzi mancanti.
Sono esposte anche Musa appoggiata a un pilastro (Polimnia), copia romana del 50-90 dopo Cristo da un originale tardo ellenico del II secolo avanti Cristo e la gigantesca Atena Lemnia, tipo “Dresda Bologna”, alta oltre due metri, entrambe con analoghi innesti e qualche variante di parti del corpo compresa la testa.
Invece i busti di marmo bianco del II secolo dopo Cristo Ercole tipo “Genzano Lansdowne” e Marc’Aurelio presentano interventi molto meno invasivi: il primo integrazioni, non innesti, al busto, naso e bocca, mento e orecchie, il secondo soltanto delle “levigature” a tempi e guance, labbro e collo forse ad opera di F.A Fontana. Il busto di marmo bigio morato Serapide, copia romana dell’età di Adriano di originale alessandrino, reca aggiunte di frammenti alla capigliatura.
La galleria della 3^ sezionedella mostra rivela dunque il fervore di attività nel ‘700 sia per soddisfare l’incontenibile domanda di antichità ricorrendo a sotterfugi e contraffazioni, sia per dare sfogo all’emulazione dell’antico per spirito di rispettosa imitazione; e anche per riportare all’antico splendore i reperti rinvenuti mutili anche gravemente con innesti antichi o di restauro: operazione oggi ritenuta arbitraria e inammissibile, che ci ha dato pezzi manomessi ma pur sempre recuperati.
Due ritratti ci mostrano dei protagonisti immersi in questo fervore dell’antico. Autoritratto con al cavalletto l’abbozzo di Apollo e Marsia, della fine del ‘700, di Francisco Bayeu y Subias, sullo sfondo l’opera allegorica della vittoria dello spirito sulle passioni opera e soprattutto la dimostrazione dell’importanza dell’immersione nella classicità per un grande ritrattista come lui. L’altro è il Ritratto dell’antiquario Thomas Jenkins, dipinto di fine ‘700 di Anton von Maron, formatosi alla scuola del già citato Mengs; il soggetto è uno dei più noti e intraprendenti antiquari operanti a Roma nella seconda metà del secolo, intervenuto in operazioni quale quella della Minerva d’Orsay, di cui curò le confuse e complesse trattative di acquisto.
Ci fa entrare di più nel clima dell’epoca nel quale ci immergiamo totalmente con l’altro dipinto esposto in questa sezione, La visita dall’antiquario, di Jacques Sablet. E’ uno spaccato di un’economia che puntava molto sui viaggiatori del Grand Tour e sui loro acquisti, e la diversa estrazione sociale dei visitatori faceva soddisfare le esigenze più varie, anche minime sotto il profilo economico e artistico-storico.
Ma è anche uno spaccato di umanità, la scena dipinta – visitatori patrizi nella bottega dell’antiquario con i suoi “compari” tra busti esposti e velati – non potrebbe essere descritta meglio di come fa Federica Giacobini: “L’inganno appena appena accennato dal gesto del mercante che pesta il piede del compare. Insieme a un terzo socio, essi offrono ai turisti un torso femminile panneggiato che sembra appena giunto da una delle innumerevoli ‘cave’ condotte a quel tempo dentro e fuori la città”. E conclude, su un piano più generale: “Del resto fu anche grazie alla vivacità di un mercato in grado di offrire ogni genere di manufatto legato all’antico, dai preziosi originali alle copie, alle riproduzioni, alle imitazioni e riduzioni in ogni misura e materiale, nonché naturalmente ai falsi, che la passione per le antichità ebbe la più larga diffusione in tutta Europa, e fu in grado di influenzare in maniera capillare il gusto contemporaneo”.
E’ una sintesi di quanto abbiamo cercato di indicare sul fervore per l’antichità nel ‘700, anche nei suoi aspetti che sembrerebbero regressivi. Entreremo ancora di più in questo mondo così dinamico e vitale raccontando prossimamente lavisita alle ultime quattro sezioni della mostra: dalle botteghe definite “la fabbrica dell’antico”, alle Accademie, dalla decorazione degli interni che porta il gusto dell’antico nelle abitazioni alla “sfida” degli artisti dell’epoca ai loro modelli da cui traevano ispirazione. Così completeremo “realtà e visione dell’antico” nel ‘700, il “secolo dei lumi”.
Abbiamo terminato il racconto delle prime tre sezioni soffermandoci sul dipinto “La visita dall’antiquario” di Sablet come espressione del clima dell’epoca riguardo all’arte antica, con la ricerca delle scorciatoie mercantili per far fronte all’elevata domanda di opere che ricorrevano alle copie più o meno dichiarate fino a diventare falsi di cui veniva millantato il ritrovamento negli scavi anche da personaggi del settore: come lord Hamilton e Jenkins visto nel ritratto di von Maron
Ma non si deve generalizzare, c’erano botteghe del restauro di qualità e i dettami dell’epoca sul restauro creativo, diremmo additivo, con l’innesto delle parti mancanti nei reperti mutili, fosse anche la testa – e lo abbiamo visto commentando la 3^ sezione – davano semmai ulteriori responsabilità perché si trattava di adattare nel modo più omogeneo possibile parti di reperti diversi e anche di crearne di apposite per integrare la scultura rinvenuta. Spiccano due botteghe, quella di Bartolomeo Cavaceppi e di Giovanni Battista Piranesi.
La fabbrica dell’Antico di Cavaceppi e Piranese
Sono venti le opere esposte nella 4^ sezione della mostra per illustrare con esempi particolarmente efficaci l’intensa attività delle due importanti botteghe di restauro. Prima di descrivere la specifica attività di ciascuna con le rispettive opere, ancora qualche notizia in generale.
La si può trarre da una celebre visita a una bottega di restauro così rievocata da Chiara Piva: “Quando, nel dicembre del 1779, Antonio Canova visitò il laboratorio di Bartolomeo Cavaceppi, insieme alla ricca collezione di dipinti e disegni non mancò di osservare la quantità di terracotte, gessi e sculture antiche, ma apprezzò particolarmente la qualità delle copie ‘così bene condotte che sembrava impossibile poter lavorare il marmo così bene'”.
Sculture antiche e copie, gessi e terracotte: quattro parole che riassumono la complessa attività non solo di quella visitata, ma di tutte le botteghe e dei laboratori dei musei, come il grande Pio-Clementino del Vaticano. Era il periodo in cui i restauri implicavano il ripristino totale dell’opera antica rinvenuta quasi sempre danneggiata e mutila, mediante integrazioni e accessioni anche notevoli, come per gli innesti di testa ed arti sul mero tronco originario. Inoltre negli innesti i musei e i collezionisti chiedevano sempre più, e controllavano, il rispetto delle interpretazioni date all’opera per cui il lavoro aveva una parte di analisi storica oltre che estetica preliminare all’intervento operativo. Quanto più il lavoro era impegnativo tanto più si traduceva in bozzetti e poi copie anche in serie in gesso e marmo.
Il bozzetto in terracotta di misura ridotta era la prima fase, affidata al titolare della bottega, come dimostrano i ritratti del caporestauratore – i due che descriveremo, e anche Albacini, D’Este e Pacetti – visti sempre con in mano la stecca che modella la creta e non con lo scalpello; oltre che costume dei restauratori, era anche degli scultori fare bozzetti in terracotta messi poi in collezione.
La seconda fase era il modello in gesso con il calco “a cera persa”, sul quale avvenivano poi le integrazioni in gesso nel restauro dell’opera antica preservandola fino alla fase degli innesti diretti. Vedendo il calco la committenza poteva verificare le intenzioni dei restauratori e proporre varianti.
Era un’operazione delicata svolta da specializzati molto richiesti, per la quale occorrevano permessi. Il calco veniva conservato nelle “casseforme” così da poterne fare copie anche in seguito.
Dal gesso al marmo si passava con una complessa procedura a base di telai in legno di forma quadrata, detti “telai metrati”, per le proporzioni e di fili a piombo per gli interventi da fare in rilievo sulla figura mediante trasposizione dal gesso al marmo, dalla superficie piana allo spazio.
Bartolomeo Cavaceppiera un’autorità, nel discutere con il committente il calco della scultura antica da restaurare arrivava a proporre varianti se si trattava di una replica romana non fedele di un originale greco; così si rivolgevano a lui anche per valutare la qualità di copie antiche e per le datazioni di integrazioni per restauri pregressi. Era pronto allo sfruttamento commerciale con copie a grandezza naturale delle sculture per le quali gli veniva affidato il restauro Se è consentito un paragone irriverente, è quanto avviene oggi con i prodotti di moda affidati a lavoranti anche a domicilio cinesi e non solo che, oltre a produrre per il committente, tengono copie per uso proprio.
Introduce al suo laboratorio un’incisione in mostra tratta dal suo “Raccolta d’antiche statue”, del 1768 con riprodotto lo Studio di Bartolomeo Cavaceppi : sotto le arcate la galleria con le sculture e quattro restauratori ben visibili immersi nel loro lavoro. Non si trattava di un vano unico in cui le statue esposte erano insieme elementi di arredamento e opere da museo; risulta anche dai testi dell’epoca che c’erano due gabinetti con riproduzioni particolari, un’ampia camera e/o un “cammerone” con copie a grandezza naturale decorato da un bassorilievo di gesso.
Vediamo esposti due busti femminili presumibilmente uno di Giunone, d’invenzione, e un Ritratto di signora, su commissione; e due busti maschili, Settimio Severo, e Cicerone, copia il primo da originale del III secolo dopo Cristo. E poi tre statue dell’altezza di circa mezzo metro, copie in piccolo della Pudicizia e Venere (o Musa), entrambe con un panneggio dalle pieghe fitte, a parte il nudo della parte superiore nella seconda, e Marc’Aurelio, mutila di un braccio e una mano: e due statue più grandi superiori al metro, Flora Capitolina e Musa, Tutte copie della seconda metà del ‘700, in terracotta o gesso o marmo di Carrara. Invece Fortuna, alta circa 80 cm, in marmo bianco, è frutto di un restauro dall’antico del I secolo dopo Cristo, con integrazioni di testa e collo, braccio e cornucopia, mano e piede: un esempio di quanto si è detto sui restauri invasivi con innesti.
Ma passiamo alla bottega del veneziano Giovanni Battista Piranesi, definito “artista mercante” o “mercante d’arte e d’antichità” piuttosto che restauratore: era incisore e architetto e venditore di opere di terzi. Vende anche quadri o disegni di artisti come il Guercino. Nell’antichità classica tratta opere dell’età repubblicana e dell’impero e anche etrusche ed egizie, spesso nelle copie romane, in particolare crateri e candelabri, sculture e rilievi a tutto tondo. Svolge un’intensa attività nei “Frammenti”, sia provvedendo al restauro con integrazione delle parti mancanti sia inserendo i pezzi antichi in elementi decorativi moderni come in candelabri e camini.
Per il restauro si affidava a specialisti riservando a sé l’ideazione e la direzione, integrando con materiale di scavo e antichizzando. Fonti del suo lavoro l’acquisto di collezioni dismesse dai patrizi o da vendite pubbliche e anche, si insinuava, accordi con i trafugatori; ma è certo che avesse anche una fonte diretta negli scavi da lui stesso operati, spesso insieme al già citato Hamilton. I suoi clienti sono tra i più esigenti collezionisti italiani, fra loro i cardinali e i Pontefici della seconda metà del ‘700, e i facoltosi stranieri del Grand Tour, che facevano tappa fissa al “museo Piranesi” posto in zona residenziale centralissima.
Oltre che nelle “tavole incise e antichità” – di cui parla nel suo “Ragionamento Apologetico”, citato da Paolo Coen, nel ricostruirne l’attività – opera nel settore dell’arredamento e del design, inserendovi i frammenti antichi che vennero così valorizzati mentre prima si riconoscevano solo i reperti statuari, divenuti sempre più rari; questi sviluppi furono portati anche dagli inglesi. L’attività così concepita include mobili, pitture e oggetti decorativi come i candelabri, il tutto documentato da incisioni di cui era maestro, e che davano visibilità commerciale e insieme prestigio istituzionale.
Le opere in mostra, a conferma di quanto esposto, si differenziano del tutto da quelle di Cavaceppi: nessuna statua o scultura, ma acqueforti, disegni e incisioni a stampa; vasi e oggetti di arredamento. Tra i primi Capriccio architettonico e Veduta di Villa Albani, dai tratti marcati, e due Camini con disegnati eleganti fregi decorativi stilizzati di origine egizia, etrusca e greca. Tra i vasi l’imponente Vaso colossale con i frammenti di cui si è detto, inseriti per decorare, dei secoli I avanti Cristo e I e VIII dopo Cristo, il Vaso in pietra d’Istria e il Vaso Warwick risultanti da restauri “fantasiosi” di Piranesi da originali rinvenuti in frammenti nella seconda metà del ‘700.