Il cattolico Giovagnoli, l’ebreo Di Segni, il mussulmano Redouane in una tavola rotonda sull’apporto delle religioni all’Unità d’Italia che ha celebrato i 150 anni sotto un profilo di particolare interesse tanto più in una sede come il Vittoriano, l’Altare della Patria il cui nome, è stato osservato, mutua una terminologia religiosa per l’identità e le istituzioni di un popolo al di là delle confessioni e fedi professate. In questo senso la tavola rotonda “Preghiere per l’Italia”, il titolo dato all’incontro del 24 novembre 2011, è stato come un rito laico. Ci sembra che i temi e gli argomenti trattati siano così rilevanti e tuttora validi, da meritare di tornarci dopo un anno e mezzo dal convegno.
Non si è trattato, naturalmente, di un dialogo interreligioso, anche se è stato evocato, ma culturale: un confronto sui rispettivi apporti all’Unità nazionale non tanto nel senso epico-risorgimentale, quanto come formazione di una coscienza comune nella condivisione dei valori della nazione. Il moderatore Marcello Pizzetti, direttore scientifico del museo della Shoah di Roma, ha di volta in volta stimolato i tre partecipanti con sapienti siparietti nel passare il testimone, da commentatore e insieme “starter” pronto e avveduto.
I cattolici nella costruzione dell’identità unitaria
“Cosa dobbiamo noi italiani alla religione e alla cultura cattolica, è stato un apporto di coesione nazionale o meno?” questa la domanda che il moderatore ha posto in apertura ad Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore. Il docente cattolico ha cominciato con il dire che il contributo delle religioni è innanzitutto di natura culturale: “Sono forze profonde che esprimono tensioni ideali, attingendo anche a questo patrimonio si è costruita l’Unità nazionale”. Il Risorgimento nasce su un forte disegno istituzionale, ma quando si va nella comunità, le varie componenti si fondono sul terreno della cultura. Prima del 1861 ci fu elaborazione culturale, una fucina di idee improntata a una visione unitaria di identità nazionale, dalle opere letterarie di Leopardi e Manzoni, a quelle musicali di Verdi, ai pittori del Risorgimento; e qui vogliamo richiamare la mostra alle “Scuderie del Quirinale” che fu dedicata appunto ai “Pittori del Risorgimento”, con le visioni belliche dei pittori-soldato e quelle simboliche dei pittori- patrioti.
In questa dimensione si colloca l’apporto della religione cattolica, che si è fuso con quello delle altre religioni, in particolare l’ebraica nella comune matrice cristiana, e con l’apporto della cultura laica. Elementi culturali diversi si sono intrecciati nell’immaginazione collettiva: “La nazione è stata una comunità pensata prima di essere realizzata”, coagulando valori unitari sin dalla prima metà dell’800. Il contributo della religione cattolica al modello di nazione è risultato fondamentale, considerando che “da noi il cemento unitario non è stato di natura etnica, cioè nei costumi e simboli, tradizioni e origini comuni; anzi, dal punto di vista etnico gli italiani sono diversi”; non a caso erano divisi in tanti piccoli stati in base a tale specifica identità. Il cemento unitario non è stato neppure di natura economica o politica, ma si è basato sull’identità culturale, quindi anche sulla componente religiosa; intesa non come confessione ma come insieme di valori che riguardo alla cultura cattolica hanno permeato da sempre l’intera società.
La presa di coscienza della propria identità in base ai valori della libertà è resa da Manzoni in “Marzo 1821”, che richiama la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto mediante il cammino comune verso l’obiettivo unitario, la terra promessa. Si tratta di un’identità non etnica ma di vocazione storica, del tutto originale rispetto ad altre nazioni europee, che la rende compatibile con altre identità nazionali. Ogni popolo ha la sua storia, anche se non così straordinaria, e riesce ad affermarla in tutte le vicende. E quando la forza identitaria non deriva dalla struttura statuale come in Francia né dall’isolamento geografico come in Inghilterra, come acquisirla?
Per l’Italia deriva dalla storia comune, e quando Mazzini inserisce la Giovane Italia nella Giovane Europa lo fa sulla base di un’identità nazionale non naturale, ma spinta dalla volontà di stare insieme per scelta, riconoscendosi in una cultura comune. Sembrerebbe un’identità debole, invece è fortissima perché non scalfita dalle diversità, che sono evidenti e costituiscono una ricchezza, aggiungiamo; e non è minata da una storia che è una successione di errori e tradimenti pur nella prospettiva risorgimentale, ma come nella Bibbia trova la composizione nel percorso comune: la formazione di una comunità culturale che unisce le religioni tra di loro e con il mondo laico.
Giovagnoliha concluso collegando a questa visione il problema della cittadinanza agli immigrati, nella drammatica contrapposizione tra lo “ius sanguinis” in vigore e l’aspirazione allo “ius soli” che assimilerebbe automaticamente tutti coloro che nascono in Italia, magari con dei tempi di residenza pregressa dei genitori. “La nostra cultura indica che il ‘sangue italiano’ non esiste, né come appartenenza genetica né come ideologia”, esiste invece il comune sentire sul piano dei valori, e questo è anche patrimonio degli stranieri che vivono nel nostro paese e i cui figli, nati in Italia, in nulla si distinguono dagli italiani propriamente detti.
La partecipazione degli ebrei al processo unitario
Anche per Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la costruzione dell’Unità nazionale – con la liberazione dell’Italia dal giogo straniero – richiama il modello biblico degli ebrei affrancati dalla schiavitù in Egitto che Giuseppe Verdi ha tradotto in musica nel “Va pensiero” del Nabucco. Gli ebrei italiani si identificano in questo modello e costruiscono la casa comune nell’Italia unita sebbene sembri contraddittorio rispetto a Sion e alla terra promessa. Le nuove idee di libertà sono state assimilate immediatamente, la popolazione di ebrei è urbana e non contadina, con strati di miseria proletaria ma con un nucleo intellettuale molto dinamico; al tempo dell’Unità si stima che l’85% del totale della popolazione fosse analfabeta, tra gli ebrei italiani invece la percentuale corrispondente era del 10%. Questo dava la possibilità di raggiungere i vertici della società e delle istituzioni ma loro non cercarono di prevaricare. E anche dopo le leggi razziali “il dramma è stato metabolizzato, non c’è comunità più nazionalistica per l’Italia di quella ebraica”.
“Tutto ciò nasce dalla condivisione dei valori di una stessa comunità culturale, e a tal fine non basta nascere in una famiglia italiana né sul suolo italiano – afferma entrando anche lui nel terreno minato dello “ius sanguinis” e “ius soli” – è necessario avere la consapevolezza che esiste una comunità culturale e la volontà di farne parte”. Racconta la storia incredibile, che risale al 1850, del giovane ebreo al quale fu negato l’accesso all’università per motivi razziali; e rivendica la reciprocità nel senso che l’Italia viene sentita come patria nel momento in cui attraverso di essa si arriva alla parità dei diritti: “Il processo unitario è prima di tutto un processo di libertà. poi anche senso di appartenenza”. Gli ebrei pregano per il ritorno a Sion, ma con il luogo dove vivono, nel caso l’Italia, “hanno un legame molto stretto, un insieme di affetti e di cultura condivisa; un ebreo italiano in Italia è un ebreo, in Israele è un italiano, l’anima di ogni ebreo è una mescolanza di identità, e questo rappresenta la vera ricchezza”.
Anche sul terreno pratico il contributo degli ebrei italiano al processo unitario è stato notevole, mediante la partecipazione alle battaglie risorgimentali, dove hanno combattuto in prima fila e in gran numero, cita per tutte Curtatone e Montanara. E richiama le parole di Gramsci secondo cui “gli ebrei hanno partecipato alla costruzione dell’Unità nazionale come i romagnoli”. Riconosce che non c’è stata unanimità in questo processo, e tra le opposizioni cita quella dei Rotschild a Napoli: ricostruiscono una comunità e la sinagoga, e non vogliono avere nulla a che fare con i portatori delle istanze risorgimentali che considerano sovversivi. Con la guerra coloniale di Libia del 1897 nacquero gruppi che concepivano il sionismo come filantropico e ne facevano un fatto identitario; a quel punto esplosero i contrasti sull’identità che si accentuarono con la prima guerra mondiale quando gli ebrei diedero un contributo di eroismo più in Italia che altrove. I momenti di crisi si aggravarono con il fascismo, allorché fu posta l’alternativa di stare con l’Italia fascista o non essere considerati italiani, secondo il ben noto “o con noi o contro di noi”. Nel 1929, 9 anni prima delle leggi razziali, una grave crisi attraversò il processo unitario, gli ebrei non erano più considerati cittadini. “Oggi la comunità ebraica in Italia ha almeno 100 anni, con interessi cosmopoliti, e gli ebrei si sentono cittadini del mondo, con salde radici in questa terra e l’orgoglio di difenderne l’identità nella sua Unità”.
I sentimenti della comunità mussulmana
Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, ha portato “la voce del mondo islamico e mussulmano, ma d’Italia”, ha tenuto a sottolineare. “Questa comunità è recente – ha proseguito – non ha partecipato all’unificazione, ma considera l’incontro al Vittoriano un ‘battesimo irrituale’ per accompagnare le celebrazioni del 150°”. Sente di far parte del “tessuto sociale dell’Italia che ha mille anime e la comunità islamica costituisce una di queste anime. Partecipare alle celebrazioni rende onore all’anima che vi partecipa e cerca di comprendere il passato nel quale non era presente”. Ha sottolineato come il Vittoriano sia il monumento-simbolo del compimento dell’Unità nazionale e ha ricordato che il processo unitario si concluse alla fine della prima guerra mondiale con le terre irredente riunite alla patria; “chiamarlo Altare della Patria dimostra come i laici usino un linguaggio religioso”, ha detto, citando poi la Moschea di Roma di Monte Antenne, la più grande d’Europa.
Dopo questi riconoscimenti all’Italia con riferimenti alla sua storia, ha parlato degli incontri interreligiosi degli ultimi anni improntati al dialogo per contribuire a un percorso di pace duratura tra i popoli. E’ un itinerario di grande importanza data l’inquietudine del mondo di oggi e la speranza in un mondo pacifico, l’opposto dello scontro di civiltà. L’Italia è un sistema complesso in cui gli italiani di fede cristiana interagiscono con i nuovi italiani anche mussulmani: “Oggi le società sono multietniche e devono riconoscere le diversità, che fanno parte della ‘società plurale’ e non possono degenerare in avversità”. Con lo sviluppo del dialogo le religioni offrono il loro contributo per superare i contrasti e dare un nuovo sviluppo alle realtà presenti, che sono tre: “La prima è lo Stato in cui dimorano, la seconda la società in cui vivono, la terza lo spazio in cui pregano”.
In questa visione lo Stato di cui si fa parte è la prospettiva ideale e materiale da condividere con gli altri, in modo da produrre consenso e unità e comporre i dissensi. “La religione può assecondare lo Stato senza prevaricare le autonomie, Dio ha dato all’uomo la religione come fonte di conforto e sicurezza, e come mezzo per realizzarsi in rapporto ai propri simili”. L’Islam ha nella radice del proprio nome la pace tra gli uomini che discende da Dio. “Shalam vuol dire pace ed è anche il modo con cui si invoca Dio. I credenti sono cittadini che si alimentano di fede, e questo non è un fatto confessionale. Le religioni devono svolgere un ruolo pacificatore nel rispetto reciproco”.
Redouane ha concluso con una lezione di vita: “Vivere insieme è complesso ma è meno arduo se ognuno si fa carico della propria parte di responsabilità. L’organizzazioni interna e l’assetto della società civile è importante ma resta fondamentale il ruolo delle religioni”. Il dialogo interreligioso è un momento di riflessione e meditazione e va visto come preghiera corale: “La religione non è un edificio di dottrine ma il confrontarsi continuo di tutti sul mondo, sulla vita, sui grandi interrogativi dell’esistenza. Dialogare è interrogarsi insieme e porsi domande su presente e futuro”.
E se i musulmani d’Italia si sentono come un’anima dell’Italia – ha commentato Pizzetti – la loro presenza anche massiccia non può portare a uno scontro di civiltà, che farebbe sentire tutti come minoranze minacciate. Ma allora, come si devono migliorare le forme di convivenza, perché si possa costruire insieme la società dell’integrazione? A questa domanda ancorata sull’oggi hanno risposto Giovagnoli e Redouane.
I pericoli e le risposte dell’oggi
Secondo Giovagnoli, i pericoli sono reali, tuttavia di fronte alla minaccia di frammentazione le religioni reagiscono: così i musulmani, gli ebrei e anche i cattolici i quali pure potrebbero avere motivi di opporsi allo Stato laico che ha sostituito quello confessionale dopo la rottura traumatica con la Chiesa. Invece la convinzione dei cattolici sul valore dell’Unità è stata totale anche negli ultimi due papi stranieri: viene ricordata la convocazione dei vescovi per l’Unità d’Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1994, nel momento delicato del passaggio dalla prima alla seconda repubblica. “Le religioni sono per la difesa dell’Unità nazionale perché avvertono che dietro le spinte alla frammentazione c’è l’esclusione dell’altro, che può riguardare anche il diverso credo religioso; tanto che il secessionismo, frutto della frammentazione, è accompagnato dalla xenofobia, incompatibile con il messaggio religioso di apertura a tutti”.
Per questo le celebrazioni dell’Unità nazionale dopo la freddezza iniziale delle forze politiche sono state molto sentite secondo il volere del Presidente della Repubblica: gli italiani vi si sono riconosciuti non per un orgoglio nazionale sciovinista estraneo alla nostra mentalità, bensì per un senso di identità che è appartenenza culturale. La sfida del futuro è accettare che ci siano nuovi italiani con le seconde generazioni di immigrati, risorsa straordinaria per il Paese su un crinale difficile che li stimola a maturare una propria sensibilità. “Hanno una gran voglia di essere italiani e noi troppo spesso lo dimentichiamo; vedono nella cultura e nella società italiana una ricchezza e noi spesso non lo consideriamo. E’ significativo osservarli dal di fuori, si sentono italiani più dei figli di italiani, e sarebbe assurdo oltre che ingeneroso non raccogliere una spinta simile, la coesione nazionale impone di dare tutto lo spazio possibile all’integrazione”.
Integrare i nuovi italiani è un’esigenza dinanzi alla realtà di una presenza forte, è una questione di prospettiva che non va immiserita da interessi immediati e miopi di tipo politico o, peggio ancora, elettorale. Cavour pur nel suo laicismo capì che la rottura tra Stato e Chiesa avrebbe danneggiato entrambe le istituzioni, è così oggi nei rapporti con gli immigrati e devono capirlo anche quelli che credono di avvantaggiarsi dando l’ostracismo.
Su questa posizione anche Redouane, nell’ottica dei mussulmani: ha stigmatizzato le voci di secessione tornate a farsi sentire nel 150° dell’Unità d’Italia, per uno sterile provincialismo. “Le religioni hanno grande importanza per la loro influenza sul piano culturale, danno il senso non tanto dell’uguaglianza quanto della fraternità umana, che fa sentire tutti fratelli e sorelle su un terreno che non può ammettere lo scontro di civiltà”. Questo non ha alcuno sbocco positivo, invece ne siamo stati nutriti per dieci anni dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle, finché la primavera araba ha mostrato che l’lslam vuol creare stati pluralistici dove la religione non può venire usata come motivo di scontro. “La stessa costruzione europea si è affermata contro gli scontri religiosi per uno Stato laico pluralista dal punto di vista religioso, ora questo avviene anche nel mondo arabo; il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti ne fa parte, ispirato dalle religioni”.
L’integrazione non ha riflessi soltanto all’interno, si pensi che a sud di Casablanca l’italiano ha sostituito il francese come seconda lingua, grazie agli emigrati marocchini in Italia ritornati in questa regione; il loro apporto è notevole nel diffondere con la lingua la cultura del paese che li ha accolti. Il mondo cambia, la trasversalità è a livello globale, il motivo per cui vi sono paesi che patiscono la crisi e altri no, sta nell’alto livello della domanda interna nei secondi, come l’India, 7% di crescita annua del prodotto interno lordo con il 70-80 % dalla domanda interna, rispetto alla quale il paese è autosufficiente.
Nel nostro continente l’Italia non deve smarcarsi dall’Europa ma l’Europa non si salva senza coesione e senza una nuova strategia per uscire insieme dalla crisi. Lo si diceva già nel 2011 e l’esigenza oggi non è cambiata. Mentre nella primavera araba va rafforzato lo Stato per dare unità e coesione, nell’Occidente e in particolare in Italia lo Stato e la politica devono fare un passo indietro perché le istituzioni si sono indebolite lasciando che il mercato gestisse tutto. La crisi è stata creata dalla finanza e ha colpito le società vissute al di sopra dei propri mezzi. Si parla di fallimento di paesi, dopo l’Argentina rischia la Grecia, prima non era pensabile che potesse accadere, e neppure che un paese potesse ricomprare il debito di un altro paese minacciato di fallimento, e che quest’ultimo potesse essere comprato.
“Una volta risolti i dissensi interreligiosi che non hanno motivo di essere, se si arriva a pacificare i rapporti reciproci si può dire che si è sgombrato il terreno per una nuova fase di cooperazione”. Sulle questioni fondamentali non devono esservi scontri politici, come purtroppo avviene per la cittadinanza, e anche per il lavoro e la gioventù: “L’accettazione della diversità dell’altro non disconosce l’uguaglianza dei diritti, dietro la discriminazione individuale c’è quella economico-sociale”.
Redouane ha concluso ribadendo che il ruolo delle religioni deve limitarsi alla propria sfera senza entrare sul terreno politico.”A Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio”, sembra ricordare l’esponente mussulmano, e questo suona come garanzia per tutti. Faremmo bene a non dimenticarlo mai neppure noi.
Foto
L’immagine degli oratori della Tavola rotonda è stata ripresa da Romano Maria Levante il 24 novembre 2011 al Vittoriano: parla il rabbino Di Segni, alla sua destra il moderatore Pizzetti, alla sua sinistra il mussulmano Redouane e il cattolico Giovagnoli. Si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta.