di Romano Maria Levante
Si conclude il nostro resoconto del convegno “Le ragioni dello stare insieme: le istituzioni, le politiche, le regole dell’unità nazionale” svoltosi al Vittoriano il 23 giugno 2011. Promosso dal Ministero per i rapporti con le regioni e curato da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, già impegnato oltre che nelle mostre celebrative, in convegni di approfondimento come “Il Viaggio in Italia, 150 anni di emozioni” e la vera e propria lezione dello storico Lucio Villari. Dopo gli interventi del ministro Raffaele Fitto e di Ernesto Longobardi del Ministero abbiamo riferito delle relazioni di Giuliano Amato sulla Carta costituzionale e di Francesco Margiotta Broglio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Ora le relazioni di Vincenzo Cerulli Irelli sulla Pubblica amministrazione, di Paolo La Rosa sulle Forze armate e infine di Paolo Peluffo sulla Lingua italiana, che hanno completato il quadro ampio e organico dei fattori di unità nella diversità.
Parla il relatore sulla Pubblica Amministrazione, Vincenzo Cerulli Irelli
La Pubblica amministrazione secondo Cerulli Irelli
Vincenzo Cerulli Irelli, l’illustre amministrativista abruzzese, precisamente teramano – citiamo volentieri il dato regionale – docente a “La Sapienza” di Roma, ha compiuto un’ampia e dettagliata ricognizione sul cammino compiuto dalla macchina amministrativa dal momento dell’Unità, allorché erano solo 5 mila i dipendenti, con poche funzioni, divenuti 100 mila già alla fine degli anni ’70, poi 300 mila al tempo di Giolitti con funzioni accresciute perché lo Stato si fa carico dei principali servizi, ferrovie e poste, con forte impiego di personale; nascono i grandi enti pubblici. Dopo la prima guerra mondiale erano 500 mila stabili fino agli anni ’30; nella seconda fase del fascismo, dopo i blocchi delle assunzioni, il numero crebbe fino a superare il milione di addetti.
E’ un corpo intermedio tra politica e società, e “ha un rapporto ambiguo e conflittuale con la politica che non può non interessarsi dell’amministrazione su cui si gioca il successo del Governo”. Ma è distinta dalla politica, e nella nostra vicenda unitaria la legge 1853, madre di tutte le leggi in materia, stabilì che “il ministro rispondeva di tutti gli atti dell’amministrazione, quindi ne doveva avere il maneggio”; soppresse le aziende e i corpi tecnici e instaurò il sistema secondo cui tutti gli atti erano imputati al Ministro, creando una commistione tra politica e amministrazione.
La situazione si stempera con lo Statuto giuridico della funzione pubblica che regola i procedimenti sotto il profilo della discrezionalità, nonché il controllo giurisdizionale. Viene introdotta la distinzione nella disciplina della funzione ma resta la commistione con gli organi politici. Questa situazione si protrae per l’intera storia unitaria ma sul piano organizzativo i pubblici funzionari prima erano sottoposti al potere politico senza garanzie; fu Giolitti ad introdurre lo Statuto con le relative garanzie. In tempi molto recenti l’amministrazione ha provato a staccarsi dalla politica, e con la legge Amato del 1993 la separazione tra politica e amministrazione diviene fatto compiuto: l’indirizzo e la programmazione agli organi politici, la gestione alla responsabilità dei funzionari.
A questo punto il discorso si è fatto complesso, Cerulli Irelli ha messo a confronto differenti modelli di responsabilità rispetto ai diversi ambiti in cui si manifesta: “Per l’art. 95 della Costituzione il Ministro è responsabile di tutti gli atti”. Il quadro si complica ulteriormente nei rapporti tra centro e periferia, in un’ottica di accentramento o decentramento la cui alternanza caratterizza la nostra storia unitaria. All’inizio la scelta fu di un accentramento amministrativo di tipo francese applicato nel Regno di Sardegna: a livello locale poca autonomia, funzioni per lo più obbligatorie e poche facoltative, presenza forte dello Stato con il Prefetto, organo periferico con penetranti poteri di indirizzo, controllo e tutela collegato al Governo centrale.
Non basta, dal 1912 lo Stato entra nell’economia come grande imprenditore, esplode il fenomeno dei servizi pubblici locali, il Comune diventa centro di produzione di beni per i cittadini, e pur con la sua ferrea struttura il sistema si frammenta: “Sul versante dello Stato si accentua la presenza, su quello della periferia cresce la frammentazione; si creano amministrazioni periferiche che dipendono dai rispettivi Ministri, il Prefetto perde la rappresentanza unica del potere centrale”.
L’ordinamento regionale, con autonomia e potere legislativo, deve convivere con l’unitarietà. Per 30 anni non cambia nulla, poi con il radicamento delle Regioni cessa il controllo prefettizio. Le modifiche costituzionali equiparano il livello della pluralità dei centri istituzionali. “In questo quadro i problemi nascono nel trovare elementi di unità, in una rete istituzionale che deve riportare unitarietà nelle grandi scelte di un paese dalle istituzioni frammentate”. L’istituto prefettizio assume la nuova veste di “mediatore delle istanze autonomistiche”, ci sono anche la Conferenza Stato-Regioni, le Sezioni regionali della Corte dei Conti, in un quadro molto incerto e articolato che fa riflettere su come le ragioni unitarie possano comunque prevalere nella crescente frammentazione.
La carrellata nei meandri della Pubblica Amministrazione ha fatto vivere la complessità dei meccanismi istituzionali calati nella realtà viva del paese in un processo evolutivo che trova ora un’ulteriore fase di complessità, questa volta inedita e imprevedibile, data dal federalismo.
Ma non c’è stato tempo di applicare quanto si è ascoltato “de iure condito” al “de iure condendo” della nuova forma federale dello Stato il cui iter è appena agli inizi. Incalzavano altri temi e ne diamo conto, sono fondamentali anch’essi: si tratta delle Forze armate e della Lingua italiana.
Le Forze armate che mantengono l’Italia unita
L’allora consigliere militare del Ministro della Difesa, Paolo De Rosa, ha parlato del coronamento di un processo storico plurisecolare che ha unificato comunità già in qualche modo omogenee; di qui radici nazionali alla base del Risorgimento, come le antiche virtù guerriere, che pongono le Forze armate tra i fattori della continuità istituzionale. Sono state dure le prove per completare il processo risorgimentale fino alla Grande guerra. “La strategia di Cavour collegava le forze armate all’industria, le forze navali alla cantieristica”, parole che ci fanno pensare al complesso industriale-militare di cui si è detto tanto nei tempi moderni per le maggiori potenze mondiali.
Intorno all’arsenale di Taranto nacque un polo industriale, e anche se non si risolse in positivo prova la corrispondenza delle vicende militari con quelle industriali; nel 1875 fu inaugurata la fabbrica di armi a Terni, che divenne un polo della siderurgia. Ma la Grande guerra, considerata l’ultima guerra di indipendenza, vide una partecipazione popolare di massa, da ogni parte del territorio, nei combattimenti a fianco a fianco che forgiarono un’unica comunità nazionale. L’esercito è stato una scuola di civiltà e con la leva di massa obbligatoria fino ad epoca recente un grande educatore nella formazione di una coscienza collettiva unitaria; nel periodo dell’esteso analfabetismo anche un efficace diffusore della lingua italiana, e nelle situazioni di isolamento ed emarginazione ha segnato la socializzazione e l’apertura. “Vieni in Marina e girerai il mondo” è uno slogan che esprime l’emancipazione con l’arruolamento di chi non era mai uscito di casa.
Non possiamo seguire il relatore nella sua ricostruzione dei fasti delle nostre Forze armate e anche dei momenti critici, mentre sullo schermo scorrevano le immagini più significative delle gesta dei soldati e degli armamenti: dalle nostre Alpi alle montagne balcaniche, dalle sabbie africane alle steppe russe come teatri di guerra; dall’offensiva alla disgregazione e allo sbandamento come momenti culminanti nei due sensi. Viene ricordata la presa di distanza da parte della popolazione dal mondo militare: è storia passata, la situazione è del tutto rovesciata oggi che si sono affermati i valori portanti delle virtù militari. Anche perché con il ripudio costituzionale della guerra si esprimono in difesa della pace nel mondo e in soccorso delle popolazioni nelle calamità naturali.
Le Forze armate sono sempre più parte integrante di una comunità di cui condividono ed esprimono i valori, anche nella modernità: e si è materializzata sullo schermo l’immagine dei due astronauti italiani in orbita – Nespoli ufficiale dell’Esercito e Vittori dell’Aeronautica – che nobilitano la divisa in continuità con l’impegno scientifico e tecnologico dell’Italia sin dal 1964 nel progetto San Marco; non è mancato il ricordo della prima traversata aerea transoceanica di Italo Balbo.
Dopo la parentesi spaziale si è tornati sulla terra, in un mondo tormentato, dalla guerra asimmetrica contro il terrorismo all’inasprirsi dei conflitti locali; con le aperture alla speranza date ieri dalla primavera della libertà nell’Est europeo, poi dalla primavera araba contro i regimi dispotici, peraltro oggi alquanto offuscata. La chiusura di questo affresco sulle virtù militari al giorno d’oggi non poteva che essere sui nostri militari all’estero nella frontiera della pace e su quelli che all’interno proteggono i cittadini nelle calamità naturali e operano per la sicurezza contro ogni minaccia e pericolo, venga dalla criminalità come da emergenze ambientali, dai “vespri siciliani” agli interventi della protezione civile. “L’esercito – ha concluso De Rosa con le parole di Settembrini – è il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita”.
La Lingua italiana, fattore di unità
A Paolo Peluffo, consulente del Presidente del Consiglio per le celebrazioni del 150°,il compito di mettere la ciliegina sulla torta parlando dell’unificazione con la Lingua italiana. Lo stesso Mazzini all’epoca del giuramento della Giovane Italia nel 1831 scrisse che era giunto il momento di promuovere l’unificazione linguistica. Con il Risorgimento la lingua diviene questione centrale e rivoluzionaria anche perché ancora nel 1861 solo il 2,5 % della popolazione parlava la lingua comune mentre il 97,5% si esprimeva nei dialetti italiani. Un paese povero, senza infrastrutture, con gli Stati componenti debolissimi, a scuola li chiamavamo “staterelli”; non si confederarono per questo, e “la lingua fu una conquista di chi parlava qualcosa che aveva a che fare con l’Italiano”.
Sono stati citati Ugo Foscolo e Vittorio Imbriani – che raccolse canti popolari nei dialetti irpino e lombardo – impegnati in questo campo, e i tentativi dopo il 1861 di arricchire la lingua con i contributi regionali. I più grandi scrittori dell”800 sono “regionali”, basta ricordare Verga e Manzoni, mentre Tommaseo si impegnò in un notevole ampliamento del dizionario dell’Accademia della Crusca che rappresentava l'”ancien regime” linguistico da superare; con i suoi appunti a margine superò il lessico ristretto della cultura di élite aprendo alle regioni. L’impegno civile per un vocabolario più esteso si unì a quello patriottico, è stata ricordata la liberazione con Daniele Manin nel 1848;di cui ricordiamo il quadro celebrativo alla mostra “Pittori del Risorgimento“. L’excursus non finisce qui, c’è D’Annunzio e l’orazione dei Mille a Quarto, e ancora il Dizionario.
Il grande affresco del convegno si è concluso in gloria, con l’unificazione della lingua italiana. Nell’insieme è stato un approccio originale, con una riflessione approfondita che ha dato spessore alle manifestazioni celebrative del 150°. Del resto a “Palazzo Incontro” c’è stata una mostra su Dante, l’unificatore “ante litteram” della lingua italiana, per di più basata sulla collezione di un privato cittadino, Livio Ambrogio, un emigrato con questa forte passione. Tutto concorre ad una visione a 360 gradi che si è precisata sempre di più dando il senso vero dello spirito unitario.
Info
La prima parte del resoconto del Convegno al Vittoriano si trova nell’articolo in questo sito il 4 giugno 2013, dal titolo “Unità nazionale, lo scenario, la Costituzione, Stato-Chiesa”.
Foto
L’immagine in apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il relatore sulla pubblica amministrazione Vincenzo Cerulli Irelli, a dx. .