Empire, l’arte americana oggi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Al Palazzo Esposizioni di Roma la mostra “Empire State. Arte a New York oggi”, dal 23 aprile al 21 luglio 2013, una rassegna intergenerazionale che presenta opere  recenti, molte create appositamente per la mostra, di ben 25 artisti newyorkesi contemporanei, tra emergenti e affermati, per rivedere il rapporto tra la comunità e la città, anche nelle sue reti di potere. Curata dall’americano Alex Gartenfeld, che da quest’anno cura il Museum of Contemporary Art di Miami, e dal curatore britannico, il critico Norman Rosenthal, i quali hanno curato anche il catalogo Skira. In collaborazione con “American Academy in Rome”, coproduzione con “Civita”.

Joyce Pensato, “TBT”, 2013, a destra a terra una scultura di Bjarne Melgaard, “Remake di Alles Jones”, 2013

I  curatori hanno tenuto a precisare che vi sarebbero stati almeno 100 diversi artisti degni di partecipare e la scelta non né stata un confronto tra artisti. L’americano Alex Gartenfeld ha spiegato nella presentazione che “ogni opera ha un potente significato allegorico che la pone in relazione con la città. E’ come un ‘carotaggio’ di New York dove risiede la più grande comunità artistica”.

Per la presidenza dell’Azienda Speciale Palaexpo Daniela Memmo D’Amelio ha sottolineato le difficoltà dell’allestimento, anche perché molte opere sono state concepite e realizzate nel corso della preparazione della mostra, poi ha citato i positivi risultati dell’Azienda, commentati anche con soddisfazione dall’assessore alle Politiche culturali Dino Gasperini. A sottolineare l’eccezionalità dell’evento la presenza del sindaco Gianni Alemanno che ha ribadito l’importanza dell’investimento culturale per lo sviluppo del Paese; sulla mostra dell’arte newyorkese a Roma ha detto che “oggi New York ha il ruolo nel mondo che aveva Roma”.

Sono pitture e sculture, fotografie e installazioni, e soprattutto video a rendere il ruolo di New York  nel contesto globale di forte cambiamento. Parallelamente alla  mostra, oltre alle consuete attività didattiche ad essa legate, una serie di iniziative su New York, che diviene il centro di un programma articolato in 7 incontri con esperti di chiara fama tra cui i curatori, 2 spettacoli musicali con Musica Nuda e Amedeo Pace, e 16 film dove la città è protagonista con i registi e le vicende più celebri.

Il titolo della mostra richiama l’attenzione sull’impero americano, cui si riferiva il trattato pubblicato nel 2000 da Antonio Negri e Michael Hardt sul capitalismo globale guidato dagli Stati Uniti. D’altra parte, l’artista americano Thomas Cole, nel ciclo pittorico “The Course of Empire”, raffigurò ascesa e declino di una città immaginaria, nella quale fu identificata Manhattan perché posta alla foce di un fiume; si era nel 1833-36, si è visto come quel declino non ci sia stato benché continui ad essere preconizzato pure nell’era della globalizzazione.

Anche se l’Empire State Building, che ne era il sigillo quando aveva il record di altezza, ora è sovrastato nel mondo da grattacieli molto più alti, resta sempre l’Empire, su cui Andy Warhol, 50 anni fa, fece una ripresa fissa a 16 mm della durata di otto ore, dal tramonto a notte fonda, per “vedere il tempo passare” nell’immobilità  più assoluta, che è una caratteristica dell’Impero.

Dopo Warhol citiamo l’Impero di cui parlava John Lennon nel 1980: “Se fossi vissuto in epoca romana, avrei abitato a Roma. E dove altrimenti? Oggi l’America è l’Impero Romano e New York è Roma”.  Parole così commentate dal curatore britannico  Rosenthal: “Nei ‘pochi’ anni trascorsi da allora non molto è cambiato, eppure è cambiato tutto – questo, ci auguriamo, è il messaggio di ‘Empire State'”.

Nella parete, Ryan Sullivan, “June 2012,  October e December 2011″, 2012 e 2011, in primo piano Uri Aran, “Untitled”, 2012 

New York, magnete e fucina  dell’arte contemporanea

Sotto il profilo artistico New York è una straordinaria concentrazione di artisti di tutte le tendenze e provenienze, di musei e gallerie, organizzazioni private e spazi pubblici, un crogiolo di creatività e di immaginazione che cerca, e trova nell’arte, i canali per confluire nell’intera comunità. Lo è oggi, lo è stato a cavallo dell’ultima guerra mondiale e negli anni ’50 e ’60, con le avanguardie divenute presto correnti artistiche affermate: basta citare l’espressionismo astratto e la pop art, il minimalismo e il post minimalismo, per non parlare degli artisti che attirò, come Marcel Duchamp.

La “Grande mela” è rimasta all’avanguardia anche negli anni ’70 e ’80 quando l’interesse per l’arte contemporanea è esploso nel mondo con musei e spazi dedicati, fenomeno tuttora in atto: a Roma ci sono tre grandi sedi espositive, il Maxxi a livello nazionale, e due sedi del Macro, in via Nizza e al Testaccio, a livello cittadino,  oltre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che ha aggiunto “e Contemporanea” alla sua denominazione. L’arte contemporanea è diventata una fiorente industria di dimensioni globali e viene utilizzata anche a fini di immagine positiva da diffondere all’estero.

Negli anni ’80 ne è venuto il messaggio che  Rosenthal così riassume: “L’artista poteva dipingere opere astratte o figurative, crearle usando film o fotografie; la scultura e l’arte ambientale non dovevano sottostare ad alcuna regola: Anche rispetto ai soggetti gli orizzonti si aprirono completamente”: il risultato fu che nonostante le proteste dei puristi, “il formalismo riduttivo che fino a quel momento aveva dettato legge in termini di qualità e stile morì per sempre”.

E’ evidente come si senta la forza dell'”Empire”, l’impero capitalistico con la concentrazione di ricchezza che insieme all’apertura e tolleranza per le diversità ne ha fatto il fulcro del mercato mondiale dell’arte, delle tendenze e del sistema di diffusione. a largo raggio tra organizzazioni, collezionisti e grande pubblico. Per questo “avere successo a un certo livello significa essere accettati dal pubblico e dalla critica newyorkesi”, mentre “l’effetto problematico di questo sviluppo è che risulta sempre più difficile, e inevitabilmente soggettivo, esprimere giudizi di qualità”.

Ne consegue la totale liberazione dell’arte contemporanea da vincoli esterni e la grande forza di attrazione di New York sugli artisti. Anche perché la sua stessa conformazione stimola incontri creativi tra le comunità, nel “melting pot” di nazionalità e religioni, posizioni sociali e censo. Non solo, ma determina possibilità di valorizzazione delle opere degli artisti nelle gallerie e spazi dedicati in un mecenatismo moderno che diventa esso stesso un business.

Pur nei suoi effetti positivi in termini di promozione e stimolo, questo determina effetti collaterali estranei all’arte in senso stretto e congeniali al potere: “Il vago termine ‘empire’ – è sempre Rosenthal – suggerisce qui un’arte che per certi versi imita il potere, anche se le sue realtà partecipative – in particolare nel campo del mecenatismo – fungono da riflessi del potere e delle sue strutture, piuttosto che depositari del potere stesso”. Inoltre si genera una sovraesposizione dell’aspetto economico e finanziario rispetto a quello artistico, ma è l’inevitabile segno dei tempi. Né questo vuol dire la “fine dell’arte” preconizzata dal filosofo newyorkese Danto, come Fukuyama aveva proclamato la “fine della storia”, l’una e l’altra proseguono in forme rinnovate.

Ha scritto l’americano Gartenfeld, che intervenendo alla presentazione come curatore ha definito la forza attrattiva di New York “il maggior magnete per gli artisti di tutta l’America e del mondo”: “L’imponente sistema di musei, gallerie e strutture private e non profit, malgrado la sua estensione, è spesso svilito dal valore reale e speculativo dell’arte, e ciò è dovuto anche alla vicinanza di un florido mercato” di fronte al quale gli artisti adottano la strategia di “interrogare le realtà socio-geografiche della città e i rapporti di potere che ne regolano e suddividono lo spazio”.

In queste realtà socio-geografiche ci sono gruppi di  artisti che hanno cercato di riprodurre il clima coinvolgente di trent’anni fa divenendo comunità, e affermandosi nella più ampia comunità locale attraverso l’impegno attivo nel campo dell’arte. “Oltre a contribuire al cambiamento urbano – soggiunge il britannico Rosenthal – l’arterispettaalcuni imperativi significativi. La stessa parola ‘imperativo’ fa riferimento alla costruzione di imperi e alla battaglia sulla diversità di stili, o meglio sui diversi modi di fare arte, che continua a caratterizzare l’universo artistico di oggi”. 

John Miller, “Middle of the Day”, 2013, wallpaper

La fantasmagorica galleria di 25 artisti di arte contemporanea

L’eterogeneità è il segno distintivo dell’esposizione, come dell’arte contemporanea in genere, nei materiali e nei linguaggi,. nei contenuti e nelle forme espressive . E’ una potente  forza creativa che si esprime liberamente senza limitazioni dando luogo ad opere e installazioni dinanzi alle quali ci si interroga sui motivi ispiratori e sui significati, il che accresce l’interesse del visitatore a tu per tu con manifestazioni singolari e indecifrabili. Ma questa è l’arte contemporanea, che nella mostra si esprime in una molteplicità di visioni, provenendo da ben 25 artisti di diversa estrazione e livello.

Riportiamo ora qualche impressione di una galleria  vasta e variegata, in un rapida rassegna di tutti gli espositori soffermandoci  sulle immagini che ci hanno colpito maggiormente. Iniziamo con le opere di tre artisti accomunati da uno spirito trasgressivo che si esprime in forme molto diverse.

Joyce Pensato mescola espressionismo astratto e Pop Art e fonde nel mostruoso “Duck Mouse”, Topolino e Paperino con dei grandi disegni a carboncino su carta dal segno greve e sfilacciato: sono figure oscure e tenebrose, quasi soffrissero per le insopportabili costrizioni del vuoto culturale.

Invece, di  Julian Schnabel vediamo 6 grandi composizioni in olio e inchiostro su poliestere, molto colorate e  spettacolari, 3 metri per 2,  dove con forti pennellate rende attuali le vicende storiche riprodotte sulla carta da parati di sfondo. Spicca George Washington con gli schieramenti di truppe e la bandiera americana nella battaglia vittoriosa contro gli inglesi a Yorktown. Il titolo è patriottico: “E c’era qualcuno che si asciugava le lacrime con la sua bandiera”.

Di Bjarne Melgaard, australiano a New York,  una “suite” di quattro figure sparse nel salone che rappresentano altrettante installazioni-sculture in resina di vetro e acciaio, capelli, pelle e simili, con la protagonista  in atteggiamenti disinibiti. Le figure sono un tavolo, una sedia, un attaccapanni, con una donna, il titolo è “Alles Jones Remakes”.

Poi una saletta con i video interattivi  di Tabor Robak: “Screen Peeking” presenta un video a 4 canali e 4 monitor, con altrettanti quadranti dei cibi diversi con formule visive differenti: “L’opera ci ricorda che non é mai possibile l’accesso all’oggetto in sé, ma solo  a una molteplicità di distorsioni ideologiche, e che le persone raramente condividono le stesse fantasie”, così Melissa Tuckman interpreta un video altrimenti indecifrabile.

Segue una saletta con dei contenitori per trasporto, poi dopo una tenda si entra in un altro andito oscuro camminando su un tappeto che riproduce il biglietto verde da 100 dollari. Usciti da tali ambiti raccolti e misteriosi si torna nella sala con 4 grandi lavagne da scuola allineate sull’intera parete: in ognuna c’è scritto 25 volte con il gesso “Everything will be taken away”, ricorda le punizioni scolastiche, forse ripetere che “Ogni cosa sarà portata via” sottende l’antico ammonimento “Ricordati che devi morire”, per tutti fonte di riflessione; autore Adrian Piper che ha creato varianti con le parole non ripetute così ma applicate su 4 basamenti posti nei marciapiedi.

Wade Guyton, “Untitled,” 2012

R. H. Quaytmanpresenta una sorta di agenda visiva ad olio, inchiostro serigrafato e gessi su legno, 14  ritratti di amici in luoghi che diventano elementi essenziali dell’opera come avviene nella vita.

Di Virginia Overton un lunghissimo tubo di acciaio “Untitled” in diagonale su un’intera grande parete, la sua concezione è usare “le forze dell’equilibrio e del bilanciamento”. Il tubo lo ha trovato a Roma, di solito cerca nel luogo delle mostre gli oggetti da integrare, in un “post ready made” volto a “riorganizzare la materia e dichiarare che si tratta di arte”, dice lei stessa: l’opera deve agire da “rivelatrice della propria storia” spiegando “come i materiali sono stati utilizzati”, e lei lo fa.

Le 6 grandi fotografie di La Toya Ruby Frazier, “Gray Area”, documentano le macerie e la desolazione per l’abbattimento del Braddok Hospital sostituito da un nuovo istituto nella città vicina: è palpabile l”incertezza che ne deriva per la popolazione del borgo, una vera ferita.

Con Ryan Sullivan ritroviamo l’espressione pittorica realizzata versando sulla tela vernice acrilica, olio,  lattice e cera e facendo essiccare con crepe che dipendono dalla diversa densità dei materiali. I 4 oli esposti sono identificati dalle date,  “la sua tavolozza – scrive Nicola Trezzi – riflette un tipo di natura che è profondamente artificiale e inequivocabilmente urbana. La sua posizione è peculiare e unica, si pone tra i sacchi di Burri, i tagli di Fontana e le tele strappate di Steven Parrino”.

Alcuni tavoli in mezzo al salone attirano la nostra attenzione, sono 4 cosparsi di oggetti e di materiali, autore Uri Aran, “Untitled”, un “ready made” molto colorito ed espressivo.

Di Michele Abeles vediamo cinque stampe molto particolari intitolate “Not so optimal”:su fondo rosa sono sovrimpressi in modo variegato riquadri e strisce celesti con piccole figure dall’alto, un vaso e un giornale, fino alla rosa rossa, frammenti di immagini in un sovvertimento artistico della fotografia. Sua anche la celebrazione della bandiera in “Flag Flag Flag”, con inserito il motivo della corda bianca a pezzi che costella il fondo rosa di “Not do optimsl”. Gartenfeld parla di  “una combinazione di strati visivi e watermarks inventati, ordinandoli in sequenza tra ritagli di altre immagini realizzate da lei stessa”, in un utilizzo della fotografia molto personale ed espressivo.

C’è un lungo video con sonoro di oltre un’ora, è “Les Goddesses” di Moyra Davey, le cui riprese dall’alto della sua finestra hanno “ammaliato” il curatore Rosenthal.

E, sempre nella quotidianità, l’opera di John Miller: 2 giganteschi “wallpaper”, murali che coprono l’intera parete, riproducono due fotografie della serie “Middle of the Day”, riprese passeggiando nel quartiere tra mezzogiorno e le due del pomeriggio, l’ora della pausa pranzo: .un’immagine ritrae da lontano persone tranquille, forse turisti, una versione del “panorama” in chiave borghese; l’altra riprende delle cartacce in primo piano, scarti di produzione che possono rivelarsi utili, viene ricordato che  Rauschenberg cercava i materiali per i “combinate paintings” tra i rifiuti.

Rob Pruitt, Dinosauri da “History of the World”, modelli in fibra di vetro 

Il grande “Untitled” di Wade Guyton, immagine a strisce rosse e verdi che occupa una parete con i suoi 15 metri di lunghezza per quasi 3 di altezza – viene detto che è ottenuto con una stampa a getto d’inchiostro su lino – ricorda, pur con tutte le differenze intuibili, le opere orizzontali di Sean Scully.

Di Nate Lowman ben 10 opere molto diverse tra loro, l’autore usa “collage” e una tecnica manuale di pittura serigrafica, utilizza anche immagini di tragedie e incidenti, spesso una banconota del dollaro piegata per alludere al crollo delle Torri Gemelle. Un titolo particolare, “Ciao Bella # 1”, identifica un fondo a macchie verdastre su cui è disegnato con una linea bianca il contorno di un nudo femminile; un’altra opera che colpisce è un grande olio di oltre 2 metri per 3 con un’infinità di faccine sorridenti, i suoi “smiley” con cui  riempì un’intera sala e che si accumulano nel suo studio.

Le 5 stampe giclée di Takeshi Murata contengono una serie di oggetti del consumismo, che secondo Dan Nadel “possono essere intesi come parti di un ‘pastiche’ nostalgico-adolescenziale di cui bisogna ancora trovare il significato filosofico ed estetico”.

Con Danny Mc Donaldsi entra nel mistero e nell’avventura, un’installazione video e altre postazioni connesse per le “storie di Mindy”, in cui si immedesima l’artista, che cerca di recuperare le perle usate per comprare Manhattan secondo una leggenda cui si intitola l’opera. C’è un’oscurità intrigante,  spicca lo scialle variopinto della protagonista, tra la fata e la strega benefica.

Una rapida citazione per gli altri artisti presenti con una sola opera: sono Darren Badercon i suoi animali e Keith Edmier con la sua visione spettacolare della “Penn Station”; Shadi Habib Allah con la sua ricostruzione  allusiva della vasca da bagno dove fu ucciso Marat e  Antoine Catala con il suo “Abracadabra”,  alluminio e gomma, motore ed elettronica, in vista una farfalla e  le parentesi.

Dopo tanti “ready made” e video, fotografie e pitture particolari, installazioni e quadri vogliamo concludere con due artisti che presentano opere figurative, l’unico punto in comune tra loro.

Il primo è Rob Pruitt, autore di una serie di modelli a grandi dimensioni di dinosauri in fibra di vetro cromata. Fanno parte dell’installazione “History of the World”, i giganteschi colossi fissano dipinti che raffigurano accumuli di spazzatura, hanno espressioni e atteggiamenti umani, quasi criticando con la loro superiore saggezza i nostri comportamenti dissennati. “Siamo noi – commenta  Miciah Hussey – la specie estinta: collezionisti incompetenti sepolti sotto le nostre monopolizzanti cianfrusaglie”. E ancora più chiaramente: “la popolazione di Jurassic può solo supporre cosa abbiano fatto quegli stupidi umani per scomparire dal pianeta”.

Non ai dinosauri preistorici, ma alla classicità greca fa appello Jeff Koons per ancorarsi a qualcosa di valido in assoluto e resistente al tempo. Ci riesce, la sua opera è spettacolare e coinvolgente. Soprattutto la grande statua “Metallic Venus”, acciaio inossidabile lucidato a specchio con vernice colorata trasparente  e pianta in fiore, alta oltre due metri e mezzo, svetta nel salone con la grazia seducente della sua bellezza nella policromia originaria, poi perduta, delle antiche sculture greche.

Accompagnano la statua dalle forme perfette, secondo la meticolosità dell’artista che si avvale delle tecniche più moderne per una riproduzione il più possibile fedele, due quadri della serie “Antiquity”:  rappresentano il gruppo marmoreo dell’isola di Delo in cui Afrodite, dea dell’amore, insidiata da Pan dal piede caprino, lo minaccia scherzando con un sandalo sotto lo sguardo di un putto, cui sono stati attribuiti riferimenti al sogno di perfezione che anima New York. Le immagini, riprese tecnologicamente, sono uguali ma su due sfondi diversi: uno puntinato, l’altro da cielo che rosseggia al tramonto, mentre vi sono tracciati in rosso granata dei segni dell’artista tra cui un sole.

Con questa immagine di bellezza trionfante si chiude la nostra visita alla mostra. Nell’avviarci all’uscita lungo l’ambulacro laterale guardiamo in alto e vediamo una serie di stendardi di colori diversi e accesi che sono appesi all’alto soffitto: pur con l’altezza della volta si distinguono bene le scritte, su ogni stendardo il nome di un personaggio per lo più  contemporaneo, anche se ci sono Matteo Ricci e Giovanbattista Vico, i più antichi, Antonio Gramsci vicino nel tempo. Vi sono scrittori come Italo Calvino e Primo Levi, registi cinematografici come Ermanno Olmi, Michelangelo Antonioni, Lina Wertmuller, lo scrittore- regista Pierpaolo Pasolini e altri nomi.

E’  la serie “Space Poem” di Renée Green, che, secondo Howie Chen, “mira a stabilire uno spazio soggettivo, che è parte dell’ambiente circostante sia in senso autonomo che costitutivo”. 

Per questo sono tutti italiani, lo spazio soggettivo di Green è parte del nostro ambiente. Roma torna così,, nell’opera dell’artista che si oppone ai miti dominanti, ad essere Impero. Una bella conclusione per la mostra “Empire State” che celebra, con l’arte di New York, l’incontrastato impero americano.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma.  Domenica e da martedì a giovedì dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 12,50, ridotto 10,00, permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni, tra le quali  la mostra fotografica “Helmut Newton”  anch’essa fino al 21 luglio 2013. Catalogo: “Empire State  – Arte a New York oggi”, a cura di  Alex Gartenfeld e Norman Rosenthal, Skira, aprile 2013, pp. 200, formato 22,5×30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le correnti americane citate, espressionismo astratto e Pop Art, minimalismo e post minimalismo cfr. i nostri servizi sulle mostre allo stesso Palazzo Esposizioni in “cultura.abruzzoworld.com”  sullo “Stadel Mudeum” , tre tutti il 13 luglio 2011; e in questo sito sul “Guggenheim”,  il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012, nonchè su Sean Scully alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna il 17 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti  per l’opportunità offerta. In apertura, Joyce Pensato, “TBT”, 2013, a destra a terra si nota una delle 4 sculture-oggetti di Bjarne Melgaard, “Remake di Alles Jones”, 2013; seguono, nella parete di fronte 3 opere di  Ryan Sullivan, June 2012,  October e December 2011, 2012 e 2011, in primo piano una delle 4 opere esposte di Uri Aran, “Untitled”, 2012 e  John Miller, wallpaper “Middle of the Day”, 2013; poi Wade Guyton, “Untitled,” 2012,  e Rob Pruitt, modelli in fibra di vetro di dinosauri da “History of the World”; in chiusura, Jeff Koons, “Metallic Venus”, 2010-12. 

Jeff Koons, “Metallic Venus”, 2010-12