Tiziano, 1. “La bandiera” della pittura italiana, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La grande mostra  “Tiziano”, aperta alle Scuderie del Quirinale dal  5 marzo al 16 giugno 2013, è un’esposizione monografica della sua carriera lunga  60 anni, che fece del “dipintor” giovanile l'”eques caesareus” riverito a corte e all’estero, e gli consentì di instaurare il cosiddetto “sistema Tiziano”, un’organizzazione composta da allievi e collaboratori, divenuta industria pittorica che lo rese ricco e famoso premiandone l’ambizione e l’instancabile attività. In lui il colore prende il posto del disegno nella creazione artistica,   nel tempo diviene più sensibile alla luce. Giovanni C. F. Villa  ha curato la mostra e il prezioso Catalogo di Silvana Editoriale.

“Flora”, 1517

E’ di per sé un evento la mostra su Tiziano a Roma, che ha come unici precedenti italiani le mostre veneziane del 1935 a Ca’ Pesaro e del 1990 a Palazzo Ducale, assume un significato particolare se si considera che chiude un ciclo espositivo pluriennale alle Scuderie, iniziato con Antonello da Messina che portò sulla laguna la luce siciliana, proseguito con Giovanni Bellini e il suo continuo rinnovarsi, sviluppato nella ricerca e nell’inventiva di Lorenzo Lotto,  approdato alla creatività e alla furia pittorica di Tintoretto fino alla conclusione con Tiziano, “colui che tene la bandera” della grande pittura italiana,come ricorda Antonio Paolucci. Un ciclo, promosso e attuato dal past President dell’Azienda Speciale Expo, Emmanuele F. M. Emanuele, concluso ora da  Daniela Memmo d’Amelio che non ha mancato di ricordarlo, nel sottolineare l’impegno e i risultati. C’è stato successo di pubblico,  prima della fine di aprile i visitatori hanno superato i 100.000 con oltre 2.400 in media al giorno, a Pasqua 3800. Inoltre in occasione di questa e delle altre grandi mostre sì è dato luogo a importanti restauri e a  iniziative meritevoli per l’arte soprattutto verso la scuola. 

La vita d’artista e di protagonista

Tiziano fu “profeta in patria”, eccome, nell’atelier veneziano di Biri Grande il “sistema Tiziano”  costituiva  una vera industria pittorica  cui partecipavano, con il grande maestro,  allievi  e soprattutto parenti, di cui si fidava, che divennero artisti: Francesco Vecellio, il fratello, il cugino Cesare, il nipote Marco; e pittori noti, quali Gian Paolo Pace, Girolamo Dente, Polidoro da Lanciano, ed altri ignoti: una catena di montaggio artistica per il mercato e le committenze, con opere di vario livello reiterate con delle varianti,  a gradi differenti di  partecipazione del Maestro.

Divenne “dominus” del mercato, e anche un ribelle creativo come Tintoretto dovette adeguarsi alla sua formula nei ritratti, la sua specialità. Conquistò la nobiltà europea, i suoi quadri avevano alte quotazioni e accumulò una fortuna investendo i proventi  in  iniziative commerciali e finanziarie.

Ebbe accesso alle corti sovrane come Cavaliere imperiale e Conte palatino, le sue opere conquistarono l’imperatore Carlo V e il fratello re Ferdinando, il figlio Filippo II  e Maria d’Ungheria dei Paesi Bassi, Massimiliano re di Boemia e la dieta imperiale di Augsburgh; Alfonso d’Este e Federico Gonzaga, i Farnese e Maria d’Austria;  oltre al doge e agli oligarchi della Serenissima Repubblica, lo stesso Papa di Roma. Un sessantennio di successi.

Nato intorno al 1490, secondo la citazione del Dolci sugli affreschi dipinti nel 1508 quando aveva “allora neppure venti anni”,  o nel 1480-85 secondo altre ricostruzioni. Di certo ebbe una vita lunghissima, in una lettera a Filippo II in cui chiede il pagamento di alcuni quadri scrive di avere 95 anni nel 1571, ma forse si aumentò l’età per mettere fretta.

Nella sua formazione troviamo i grandi maestri affermati tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500, e anche il tedesco Durer, con il suo realismo espressionistico. Più direttamente Carpaccio,  i giovani Lorenzo Lotto e Sebastiano Luciani, che si chiamerà Del Piombo, i fratelli Bellini, Gentile e Giovanni, i quali lo accolsero nelle loro botteghe prima che iniziasse a lavorare con Giorgione.

Anche su questi riferimenti vi sono delle incertezze. Fatto si è che  la morte di Giorgione nel 1510 per la peste e la partenza di Sebastiano del Piombo per Roma nel 1511 fecero di lui il maggiore pittore moderno a Venezia. Sua  la maestria nel colore e nel movimento nelle opere sacre e profane e l’energia nei ritratti di personaggi.

La prima opera impegnativa avuta per commissione furono gli affreschi del 1507-08 sulla facciata del Fondaco de’ tedeschi, deteriorati dal tempo, solo alcuni frammenti sono stati conservati.

Nel 1513 la consacrazione: rifiutò di andare a Roma alla corte di papa Leone X  e ottenne lo stesso compenso di Giovanni Bellini, ottantenne, per il  telero sulla “Battaglia di Spoleto”  divenendo poi pittore ufficiale della Serenissima alla morte dell’anziano maestro, nel 1516.

“Il Concerto interrotto”, 1512

Sono anni intensi, riceve commissioni private per ritratti e soggetti mitologici, temi religiosi e composizioni allegoriche, dove eccelleva la sua bravura nei paesaggi; in seguito si aggiungono figure femminili  in omaggio alla bellezza, filone che curerà a lungo. Le tematiche filosofiche  e letterarie del tempo influenzano alcuni suoi dipinti, il suo stile è improntati a un classicismo cromatico che immette soggetti  gioiosi in un’atmosfera con toni brillanti e penombre.  I vantaggi economici connessi alla posizione di pittore ufficiale e le lucrose committenze, insieme al “sistema Tiziano” che moltiplicava la produzione artistica, ne fecero forse il più ricco artista della storia.

Le corti italiane ed europee si contendevano la sua opera e i suoi dipinti ad alte quotazioni. Era molto ricercato anche per le pale d’altare, ne realizzò alcune di qualità molto elevata. Viene chiamato a Ferrara alla corte degli Estensi, a Mantova dai Gonzaga, poi lavora alla “renovatio urbis Venetiarum”, con il Sansovino e  Pietro Aretino, che svolse un’intensa promozione a suo favore nelle corti;  il Doge gli affidò opere per il palazzo Ducale; nel 1525 le nozze, ebbe tre figli. Ebbe modi aristocratici e tratti signorili, abilità nei rapporti e ambizione, incontrò la rivalità di pittori  contemporanei come Lorenzo Lotto, Pordenone Tintoretto che ne minacciarono la preminenza.

Nel 1529  il contatto a Bologna con l’imperatore Carlo V, così iniziò un rapporto durato 45 anni. Tiziano con i suoi ritratti coniugava classicità a modernità, in un linguaggio percepito dai sudditi dell’immenso impero, ai quali comunicava  forza e saggezza, spirito pacifico e giustizia del sovrano. In questo fu un modello per i ritratti di Velasquez e Goya, Rubens e Rembrandt. I ritratti  celebrarono anche dinastie come i Della Rovere e i Gonzaga,  a Urbino dipinse anche la famosissima “Venere”; e,  naturalmente, molti nobili sulla scia di committenze così prestigiose.

Per questo, pur essendo pittore ufficiale della Serenissima, lavorava molto in proprio con il “sistema Tiziano” di cui si è detto, suscitando lamentele che nel 1537 portarono alla sospensione degli emolumenti pubblici. Con la diffusione a Venezia del “manierismo” di Salviati e Vasari, Tiziano – che aveva sostituito il colore alla preminenza del disegno – cercò un compromesso, al quale del resto si era già adattato rispetto a Michelangelo e Raffaello, cercando una sintesi tra il cromatismo veneto e il disegno toscano. Ma pur se permeabile alle influenze mantenne le sue forti peculiarità.

“Vergine con il Bambino in gloria , con i santi Francesco e Biagio e il donatore Alvise Gozzi“, 1520

A Roma nel 1545, ospite del papa Paolo III e del cardinale Alessandro Farnese, nipote, si confrontò con Michelangelo il quale aveva da poco terminato il “Giudizio Universale” ed elogiò l’arte del colore di Tiziano lamentando, però, come ha scritto il Vasari, “che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene”. Lo stesso Vasari nota con piacere l’evoluzione nello stile di Tiziano che dalle intense macchie di colore degli anni giovanili è passato a plasmare il cromatismo in uno stile più curato, “riformando quelle figure, le riduceva nella più perfetta simmetria che potesse rappresentare il bello della natura, e dell’arte”. Lo si vede nei Ritratti ai Farnese e negli altri ritratti di corte a sovrani e papi, cardinali e principi,  condottieri e dignitari.

Sono ripresi sempre su fondo scuro, in pose diverse, a figura intera o mezzo busto, di fronte o a tre quarti, in atteggiamenti solenni o familiari, secondo il messaggio che si voleva trasmettere, privilegiando la fisionomia rispetto ai sentimenti e dando particolare rilievo all’abbigliamento come segno della posizione del soggetto. Perché l’immagine era affidata alla posterità. Diverso il Tintoretto, in una prima fase, ma poi  aderì allo “stile Tiziano” che nella ritrattistica era  dominante.

Il rilievo dato al ritratto non deve far trascurare le Opere sacre: “Annunciazione” e “Maria Maddalena penitente”, “Cristo e il cireneo” e “San Girolamo”, “Martirio di san Lorenzo” e “Crocifissione”,  “Deposizione nel sepolcro”, e la “Pietà” dell’ultimo periodo. Né le Opere di soggetto mitologico: le “Veneri” e “Adone”, “Andromeda” e “Amor sacro e amor profano”.

Tornato a Venezia dove si sta affermando Tintoretto, con la sua travolgente energia dopo avere realizzato lo straordinario “Miracolo di san Marco”; e dove la committenza apprezza anche Paolo Veronese, deve ridurre forzatamente il suo impegno veneziano, ma lo assorbono del tutto le committenze spagnole dell’imperatore Carlo V e poi del figlio Filippo II, al quale in occasione delle nozze fece avere una delle 6 versioni della “Danae”, nell’uso di replicare le opere con  varianti.

L’ultima fase artistica vede l’evoluzione cromatica verso tinte smorzate e pennellate  con gamme di colori neutri pastosi, che ne fanno l’anticipatore di Rubens e Rembrandt, Velasquez e Delacroix.

Muore di peste nel 1576, un mese dopo la morte del figlio Orazio, dopo una vita al più alto livello nello splendore delle Corti e nell’attività febbrile della sua fiorente industria pittorica.

“Uomo con il guanto”, 1524-25

I quattro periodi di vita artistica

Sono quattro le fasi nelle quali viene articolata la sua vita artistica, puntualmente riflessa nelle  corrispondenti sezioni della mostra: li riepiloghiamo per  concludere con la sua “magia del colore”.

Nel primo periodo, fino al 1518, dopo il cromatismo classico di Bellini,  aderisce alla riforma tonale di Giorgione suo maestro, con la luce che modula il colore il quale dà forma e volume alla composizione, senza l’uso del disegno. Seguirà la ricerca di dinamismo e di resa plastica.

Il secondo periodo, dal 1518 al 1530, segna la sua affermazione nelle corti nobiliari, regnanti e imperiali, che ne fecero la figura artistica dominante per un lungo periodo di tempo dato che – come si è detto – la sua attività copre un sessantennio e  non operò da isolato ma con la bottega artistica, quasi una vera impresa, che diede luogo al “sistema Tiziano” di continua promozione.

Con il terzo periodo, dal 1530 al 1550, quello della maturità, influenze esterne e l’interesse per Michelangelo incisero sul suo stile: si è parlato anche di “crisi manieristica”, ma Gentili nel 1990 ha scritto che il “manierismo” di Tiziano non va considerato “un incidente, una svolta, una crisi, né dipende soltanto dalle dirette occasioni veneziane: è piuttosto l’attraversamento  sperimentale  delle esperienze e dei linguaggi d’attualità , prestissimo avviato e regolarmente praticato, e il riversamento di quelle esperienze e quei linguaggi, come strumenti di aggiornamento culturale e di arricchimento espressivo, nella consolidata prassi della tradizione pittorica veneziana”.

Sul quarto periodo, dal 1550 al 1576, Marco Boschini citava nel 1674 la testimonianza dell’ultimo allievo, Palma il Giovane: “Abbozzava i suoi quadri con tal massa di colori che servivano, per così dire, per far letto”, dava “colpi risoluti, con pennellate massiccie di colore, alle volte d’uno striscio di terra rossa schietta, e gli serviva (come a dire) per mezza tinta; altre volte con una pennellata di biacca, con lo stesso pennello, tinto di rosso, di nero e di giallo, formava il rilievo d’un chiaro”.  Così il vecchio artista  “faceva comparire in quattro pennellate la promessa d’una rara figura”.

Nel riportare la citazione, Roberto Contini commenta: “Senza un tale precedente non si sarebbero dati, o si sarebbero dati magari in tutt’altra forma un Rembrandt, un Turner, un Degas, un  Renoir”.  Tutto questo accresce l’interesse per le opere dell’ultimo periodo esposte nella mostra.

Corrado Cagli ha scritto: “Dalle opere giovanili alla ultima sua incompiuta, Tiziano continuamente si rinnova, con impeto e vigore crescente; così nella spanna della sola vita umana, sia pure longeva, occupa con la sua libertà profonda lo spazio di cinque secoli almeno  e per ora”.  E lo spiega: “In anticipo sulla crisi del tempo di Rubens, in anticipo di circa trecento anni sugli impressionisti francesi, Tiziano convocava dal nulla, se non dal profondo del suo inconscio collettivo, la diaspora di Fidia e di Prassitele a splendere sulla laguna”.

“Maddalena”, 1531

La magia del colore nei giudizi critici di ieri e di oggi

Si è già accennato alla magia del colore di Tiziano e alla sua evoluzione fino all’età più matura. Il curatore Villa cita l’espressione di Piero Aretino nel presentare a Carlo V il ritratto della defunta moglie Isabella: “L’ha in maniera resuscitata col fiato dei colori, che una possiede Iddio e l’altra Carlo”; e ricorda  “il tratto essenziale” del pittore riconosciutogli dai contemporanei: “Un’abilità coloristica che faceva vibrare l’immagine, la rendeva d’una autenticità viva, coglieva mutazioni di luce che andavano oltre lo sfumato, oltre la nota creazione veneziana del colore tonale”.

Antonio Paolucci ricorda  che Piero Aretino  si entusiasmava  alle vedute tizianesche del Canal Grande: “Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi”, mentre descrive l’aria “in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta”, con “i nuvoli” dei più diversi colori, alcuni “erano di uno sfumato pendente in bigio nero,… i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare e i più lontani rosseggiavano di un ardore di minio”.  E cita  Giorgio Vasari, che nel 1568  dopo lo scontato appunto critico al disegno carente, vedeva le ultime opere di Tiziano “condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie di maniera che da presso non si possono vedere e da lontano appariscono perfette”, e concludeva: “E questo modo si fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parer vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche”.

Un secolo dopo, nel 1674,  Marco Boschini ne descrive l’avvicinarsi alle “meze tinte, ed unendo una tinta con l’altra; altre volte con uno struscio delle dita ponendo un colpo d’oscuro in qualche angolo, per rinforzarlo, altre qualche striscio di rossetto, qualche gocciola di sangue,che invigoriva alcun sentimento superficiale, e così andava riducendo a perfezione le sue animate figure”.

Passa un altro secolo, e Antonio Maria Zanetti nel 1771 scrive: “”Pochi e comuni colori erano su la tavolozza di Tiziano: onde la maggior vaghezza  de’ dipinti suoi nasceva da’ contrapposti. Questo effetto si vede costantemente in natura… Quindi fu che la vaghezza delle opere di Tiziano mai non oltrepassò la verità; e tanto più era ed è universalmente gradita, quanto più congiunta al gran principio della natura”.

Siamo alla fine del 1700, l’abate Luigi Lanzi, nel confermare questo giudizio, spiega così la tecnica tizianesca: “”Posto replicatamente colore sopra colore  fa l’effetto come di un velo trasparente, e rende saporite non meno che lucide le sue tinte… Non avea nella tavolozza se non pochi e semplici colori; ma sapea scerre quelli che maggior varietà distingue e distacca, e conosceva i gradi e i momenti favorevoli delle loro opposizioni”.  Con questo risultato: “Nulla perciò vi è in esse di violento, la varietà de’ colori, che nelle sue pitture campeggiano l’un sopra l’altro, sembra accidente naturale, ed è effetto dell’arte la più disinvolta”.

E la critica moderna?  Dopo aver riportato alcune loro citazioni di critici del passato ecco i giudizi del curatore della mostra e del Direttore dei Musei Vaticani.

Villa scrive della modernità di Tiziano espressa “in un superamento del classicismo e del manierismo, affermando su tutti la supremazia di quel colore che riusciva impossibile da decifrare nell’impasto originario, e determinava forma e movimento anche per l’arditezza degli accostamenti.” Aggiunge che “non tradì mai la sua vocazione, fu sempre pittore veneziano e fu sempre uno straordinario sperimentatore, fino all’ardimentosa e visionaria vecchiaia”.

Paolucci lo definisce così: “Tiziano Vecellio o della pittura pura, la pittura che racconta l’infinita, tumultuosa, commovente bellezza del mondo visibile e di questo si appaga, la pittura che ha in se stessa la sua ragion d’essere, che scalda il cuore, libera la mente e rende leggeri e felici”.

E questa ci sembra possa essere la più degna conclusione al nostro excursus nel mondo di Tiziano.

Racconteremo prossimamente la visita alla mostra, dove questi canoni di stile e contenuto trovano espressione nelle opere in quattro sezioni corrispondenti alle fasi della sua lunga vita artistica.

Info 

Scuderie del Quirinale, Roma, via XXIV Maggio 16. Da domenica a giovedì dalle 10,00 alle 22,00; venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30 (ingresso fino a un’ora prima della chiusura). Ingresso: intero euro 12,00; ridotto euro 9,50. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà, in questo sito, il  15 maggio 2013. Per le mostre citate all’inizio si rinvia ai nostri articoli: in “cultura.abruzzoworld.com” per Bellini  il  4 febbraio 2009  e per Lorenzo Lotto il  2 e 12 giugno 2011; in questo sito per Tintoretto il 25, 28 febbraio e  3 marzo 2013. Catalogo, dal quale sono tratte alcune delle citazioni del testo: “Tiziano”, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa, Silvana Editoriale, febbraio 2013, pp. 290, formato 23×28.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. Riguardano i primi due periodi della sua vita artistica, nel prossimo articolo le immagini dei due ultimi periodi. In apertura “Flora”, 1517; seguono “Il Concerto interrotto”, 1512, e “Vergine con il Bambino in gloria , con i santi Francesco e Biagio e il donatore Alvise Gozzi“, 1520,  poi “Uomo con il guanto”, 1524-25, e “Maddalena”, 1531; in chiusura, “Annunciazione”, 1535.

“Annunciazione”, 1535