di Romano Maria Levante
A Roma, nella sede della Società Umanitaria in via Aldrovandi, la mattina del 3 febbraio 2013 si è concluso l’intenso week end letterario “Viaggio tra le Vie dell’Arte”, con il motto “Regala una parola”, di “amore, fiducia, tolleranza, empatia, rispetto”. Sabato 2 febbraio, interventi sul valore dei libri, come semina e bellezza, sfogo e verità, chiusura di Anna Manna su “Un viaggio nel mondo della poesia, dei sentimenti e della solidarietà”; domenica 3 febbraio, incontro con gli autori di Akkauria, presentati dal presidente dell’associazione Vera Ambra, e Reading poetico, Premiazione al Concorso nazionale Fantasy Way e conclusione con il libro appena uscito di Anna Manna, Una città, un racconto, presentato da Daniela Fabrizi e Gilberto Mazzoleni, un racconto è stato letto dall’attrice Maria Concetta Liotta. Poi Anna Manna e Daniela Fabrizi hanno lanciato il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo, ideato con Elio Pecora ed Elisa Manna. E’ intervenuta Neria Di Giovanni, Presidente dell’Associazione Internazionale di Critici Letterari.
Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi
Il fitto programma del week end ci limitiamo a ricordarlo, mentre intendiamo segnalare il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo lanciato al termine e parlare diffusamente del nuovo libro di Anna Manna cui è stata dedicata la parte conclusiva della manifestazione. La stessa Anna Manna ha rivelato che l’idea del Manifesto è nata da una sua intervista un anno fa ad Elio Pecora, che le parlava della “poesia come educazione al sentimento”. Di lì considerazioni sconfortate sul divario tra “la freschezza delle sensazioni ed emozioni che poeti, artisti e studiosi possono comunicarsi con uno sguardo; e la tristezza per un mondo che scivola verso il basso, l’umanità senza emozioni umane, senza racconti dell’animo, solo numeri, solo sofferenza, solo ferite”.
Come comporre questo divario? Elio Pecora all’inizio era pessimista: “Anna, ma non puoi parlare di neoromanticismo in un mondo che va a rotoli. Non ti sentiranno, non hanno orecchie per sentire”. Poi l’idea è andata avanti negli incontri poetici e culturali con Daniela Fabrizi ed Elisa Manna, è trascorso un anno di maturazione in cui ha trovato conferme e incoraggiamenti da parte di “tutti i poeti che si sentono trapassati dal dolore per questa società che ha dimenticato l’anima”.
Anna Manna lo ha lanciato, Daniela Fabrizi lo ha illustrato, l’indomani è stato annunciato che nel primo giorno il Manifesto ha avuto adesioni significative, oltre che di Elio Pecora, di Corrado Calabrò e Silvia Costa, Iole Chessa Olivares e il pittore Fabio Piscopo. L’ideatrice ha dichiarato: “Quel movimento è stato compresso per circa un anno, poi è esploso domenica mattina”. Una mattinata di sole con il clima propizio alla spinta decisiva, a coronamento dell’intenso week end culturale.
Una fase della Premiazione con Vera Ambra
“Una città, un racconto”, il libro di Anna Manna
Parliamo ora del libro che è stato presentato con un’ampia analisi di Daniela Fabrizi, entrata nei dettagli, diremmo nelle viscere dei racconti, e una sintesi colta di Gilberto Mazzoleni. Da parte nostra racconteremo le impressioni, o meglio le emozioni suscitate da una lettura particolare, nelle circostanze che diremo al termine e ci hanno fatto sentire in viaggio anche noi come l’autrice.
Anna Manna è poetessa, scrittrice e attivissima operatrice culturale: è presente in molte antologie poetiche, ha pubblicato 7 libri di poesia, un romanzo e un libro di racconti, libri di interviste e antologie, saggi ed articoli; ha fondato e presiede premi letterari, “Fiore di roccia” sin dal 1995, e “Rosse pergamene”. Premiata ripetutamente per le poesie e i racconti, le antologie e la saggistica.
Il libro appena uscito contiene 12 racconti, ambientati in altrettante città, di qui il titolo “Una città un racconto”. Formano una storia unica, il libro potrebbe intitolarsi “una donna, una storia” che si dispiega nei tanti luoghi dove manifesta la sua inquietudine, alla ricerca di se stessa in un fluire di sentimenti alimentati dagli stimoli suscitati dagli ambienti che ne sono lo sfondo. Tante sono le corde che fanno vibrare, ma tutte rimandano ad una sensibilità che si rivela a poco a poco.
Sorpresa e “suspence” suscitano questi racconti. I bozzetti di vita e di ambiente si aprono a soluzioni inattese e inconsuete degli intrecci che nascono sul piano psicologico e nella realtà: di qui la sorpresa. C’è anche l’ansia di conoscere il finale delle storie, mai semplice né scontato: di qui la “suspence”. Per questo ci si trova avvinti dalla lettura senza potersi staccare prima di essere giunti all’ultima pagina. Eppure sono racconti distinti, ogni volta si apre uno scenario diverso con un nuovo protagonista, e questo dovrebbe dare un certo distacco. Sarebbe così se non ci fosse la sorpresa delle sorprese accennata all’inizio, tante città e tanti racconti per un’unica vera storia: l’anima errante alla ricerca di se stessa di città in città, di luogo in luogo, di scoperta in scoperta.
Nei luoghi più diversi incontra persone reali e spesso evoca figure immaginarie che entrano in sintonia con la sua sensibilità: dal pittoresco basso di Napoli all’austero Archivio di Stato, dal dolce litorale di Gaeta a quello ardente di San Felice Circeo, dall’Urbino di Raffaello alla Spoleto teatrale, dalla silenziosa Mantova alla Varenna lacustre, fino alle colline serene di Spineto e alla tragica concitazione dell’Aquila, non manca il ritorno alla terra d’origine a Tocco Casauria.
Quessto “viaggio in Italia” è soprattutto un itinerario interiore del quale le sollecitazioni esteriori accrescono la profondità e l’autenticità. C’è identificazione e mimetismo, il reale e l’immaginario si sovrappongono confondendosi fino a diventare indistinguibili: ma non è questa la sostanza della vita quando il sogno arriva a sembrare realtà e la realtà delle volte è tale da non sembrare vera? Non è nella forza dei sentimenti una delle chiavi per interpretare eventi altrimenti inspiegabili quando i loro esiti risultano sovrumani? Su tutto questo si riflette durante la lettura, mentre scorrendo le righe fino a divorarle si è presi dalle storie narrate, ansiosi di passare alla successiva e gustarla fino in fondo, e poi ancora e ancora. L’ansia di andare avanti risiede nel fatto che la storia in definitiva è unica, e ci si immedesima nell’anima errante in cerca di un approdo.
Un’anima femminile, a stare alla protagonista che quasi sempre è una donna, nella quale spesso l’autrice appare in prima persona; e a stare al pulsare dei sentimenti con la dolcezza e insieme la forza incontenibile della femminilità. Ma la loro profondità è tale da superare i confini di genere, è l’umanità più autentica che si presenta senza veli e pudori nella sua intrinseca essenza.
Ci sono anche le città, scenario di un’Odissea sentimentale alla ricerca di se stessi che favorisce l’emergere delle pulsioni più riposte, con i valori sottesi dalla loro storia e dai loro ambienti.
Una spontamea osmosi con i sentimenti della protagonista, che resta se stessa anche quando si incarna in sembianze maschili, è un’altra peculiarità rimarchevole di un’opera che non cade nel folklore e nel pittoresco nel descrivere i luoghi, ma vi scava nello stesso modo in cui penetra nell’anima; e trova in ognuno di essi una corrispondenza con quel lato dell’anima più vulnerabile, che la apre a sbocchi imprevisti e inattesi. Sono queste le sorprese che tengono aperta la “suspence” in ogni storia.
La “suspence” resta tesa nell’intero percorso che si snoda tra i tanti “travestimenti”, apparenti e temporanei, della protagonista che sembra nascondersi dietro personaggi diversi, tutti alla ricerca di un qualcosa che è se stessa, la risposta alle inquietudini dell’anima, l’approdo alla sua Itaca. Per scoprire che forse quest’Itaca non c’è, la vita è inquietudine tra i tanti sussulti che le circostanze, e le tappe del viaggio regalano, neppure la bellezza può garantire l’amore se rimane chiusa l’anima.
Anna Manna con il suo libro, “Una città, un racconto”
Le singole tappe del viaggio dell’anima
Si può restare sconosciuti anche se non c’è stato il bisturi chirurgico dell’ultimo racconto, è sempre possibile una cesura nell’anima. “La sconosciuta” non è la protagonista, che la studia da lontano; ma in quel “come faccio ad amarti se io sono … nessuna” si sente anche la sua angoscia, l’angoscia di un’umanità esposta all’alienazione e allo straniamento. E’ la sensibilità femminile sollecitata dalla dolcezza delle colline senesi di Spineto a far emergere l’atavico timore che la bellezza del corpo soverchi la profondità dell’anima: “L’anima di una donna è uno scrigno” dentro l’involucro del corpo, “che rimane chiuso” tanto più quanto questo è attraente. “La mia bellezza? E’ un sortilegio… cosa ami di me?”. La Maga Circe aleggia in queste parole e per ora si ferma la ricerca di Itaca. Ma fino a quando? Il viaggio continua, altre città, altre pulsioni attendono di venire alla luce in una ricerca di se stessi che in ogni tappa riserva delle sorprese come avviene nella vita.
Quando la realtà è sospesa in un clima assorto irrompe il sogno e la fantasia, che è la valvola attraverso cui le pulsioni hanno modo di esprimersi liberamente, superando remore e tabù; e nel viaggio della protagonista vi sono tante occasioni di disvelare quanto l’inconscio protegge e non verrebbe fuori senza l’immersione in una dimensione irreale e magica.
“La Famelica di Napoli” – il racconto insignito del Premio Teramo con Michele Prisco presidente della giuria – dà inizio al viaggio abbinando due opposti, in una trasposizione di immagini e sensazioni così immediate da investire il tatto e l’olfatto e confondersi con i sapori e gli odori dei bassi napoletani. Ripugnanza e bellezza nella stessa persona, o meglio nella stessa immagine che tende a sdoppiarsi: “Enorme… In realtà era una bestia che occupava una stalla di olezzi, sudori, madidi affanni”; e poi “il corpo fresco sotto le lenzuola candide. Era bellissima. Ma come era possibile?” Enigmatico, pur nella sua natura schiettamente popolare, con la fuga nella fantasia così spontanea da confondere il sogno irrealizzabile con la realtà ossessionante, indica una via d’uscita dai labirinti impossibili. Ci è tornato in mente un vecchissimo film, “Sogno di prigioniero”, Gary Cooper nella fetida cella immaginava di incontrare la sua donna su un poggio fatato, vestiti da principi, e questo sogno ad occhi aperti si confondeva con la realtà, la superava fino a sublimarla.
Il sogno interviene anche nell’austero Archivio di Stato,“L’inquietante profumo della polvere”, o piuttosto degli effluvi culturali di vecchi manoscritti, stordisce con la scoperta di in un’antica storia che assume i contorni di un giallo con il finale a sorpresa, anzi con una successione di sorprese dalle quali l’anima femminile ne esce con un alone di eroismo. “Quando si legge un libro, una storia, si conoscono i fatti, ma la trama sottile del cuore dove si nasconde, come stanare la verità dell’animo dietro le carte e i certificati della vita?”. Vale per questo moderno libro di racconti come per l’antico manoscritto su “Donna Vittoria”. C’è la “suspence” del giallo, in una complicità tutta femminile che coinvolge in un’atmosfera alla Dan Brown: “Era un fantasma, un’allucinazione, era la droga della ricerca. Era una sensazione bellissima e me la tenevo anche se fosse stato il sortilegio di un implacabile illusionista”. Il racconto ha meritato l’inserimento nel saggio di Di Rienzo-Marchi, dal titolo su misura “Olfatto e profumo tra storia, scienza ed arte”. Il finale è una delle tante sorprese che spuntano come dei funghi succulenti quanto improvvisi nei boschi delle storie narrate.
L’irrealtà assume contorni reali anche in “Ninetta”, la leggendaria figura che aleggia a Gaeta animando la fantasia con la sua immagine di bellezza e felicità; l’atmosfera del litorale, “dolce e morbido”, favorisce questa trasposizione delle speranze nell’evocare le proprie memorie. Perché nella fanciulla incontrata in treno che stravede per Ninetta si incarna la nonna nell’accogliere la protagonista che torna nei luoghi dell’infanzia, e nel darle lezioni di vita, fino a provocarne l’immersione nel lavacro del mare; per salire nella nave del re e poi di nuovo sulla spiaggia nell’incontro virtuale con la mitica figura ma in effetti con se stessa. Dove “niente diventa reale. Sarà per sempre quell’attimo meraviglioso dell’intuizione della felicità, quell’illusione che tutto possa avvenire senza cambiare nulla”. Ma anche l’illusione da gattopardesca può diventare “una cosa che non è più illusione o sogno ma una realtà indistruttibile”, diventare roccia. E’ l’Itaca della protagonista? No, “sembra di roccia ma potrebbe sciogliersi come un cuore di neve al sole”.
Abbiamo citato, oltre Itaca, la maga Circe, si incontra veramente nei “Miraggi estivi” a San Felice Circeo: la protagonista è turbata dalla sua storia, la vede povera e indifesa rispetto al re potente, preso dalle sue grazie e non dalle sue inesistenti magie, anche se sono l’arma usata contro chi come lei aveva solo una colpa: “Aver stordito Ulisse il re del mare”. Anche qui sogno e immaginazione sono confusi con la realtà, fatta della solitudine, il suo “uomo importante” è rimasto a Roma lasciandola sola, poi si materializza vicino a lei. O si tratta di Ulisse? E’ un’altra la sorpresa da lei non voluta, è stata svegliata in spiaggia da una persona e le si era appoggiata un attimo, ora c’è chi ne vuole approfittare come il re del mare con la maga, il tutto in sedicesimo. Non sveliamo il finale, diciamo solo che nella dura realtà l’uomo è cacciatore.
Gilberto Mazzoleni interviene sul libro di Anna MannaUn altro cacciatore con finale shock a Mantova, dove la storia mitica di Federico e Isabella dà anima e corpo, si direbbe, al dilemma tra le incomprensioni con Giovanni e il fascino del violino di Giancesare: nell’abbandono notturno finiscono per confondersi fino a non poter distinguere gli “occhi di allora di Giovanni” dagli “occhi nuovi di oggi” di Giancesare. Gli uni e gli altri sono “gli occhi di un cacciatore innamorato della sua preda”, come nella storia del Circeo. “Il lupo di Mantova” si materializza sulla porta della stanza, “senza nome, senza ruolo. Senza senso e senza motivo. Il desiderio è come un lupo nella notte incantata”. Anche qui la sorpresa ma anche la morale finale: “Dopo sei la preda del lupo. E nient’altro. E ne sei felice, almeno fino all’alba. Quando la luce ti riveste di domande, di dubbi, di storia”. Itaca si allontana ancora di più.
Ritroviamo un “Suonatore di violino” a Spoleto, dove l’incontro di una notte con la protagonista sembra preludere a una storia; intanto è l’occasione di un sfogo sulla vita familiare e le sue delusioni ma finisce tutto lì, non sa se fare “la ninna nanna o la serenata” a chi non vede ancora la vita ma “soltanto un incontro ieri sera, poi questa notte e poi cosa pretendi?”. Passano i mesi nel silenzio, poi gli anni, la magia della musica tornerà con una serenata, questa volta vera, e non di un musicista errante e deluso: “La mia vita l’ho trovata… me l’ha insegnata intera il mio violino. Alla fine ho seguito lui, l’ho ascoltato e lui mi ha regalato l’armonia”. Nella famiglia e nel ricordo sereno di una notte. Per trovare poi un nuovo inizio.
Dalla musica alla pittura, due quadri alimentano l’immaginazione e scuotono i sentimenti della protagonista. Il primo quadro è “La Muta”, al centro del viaggio a Urbino, iniziato con sentimenti alterni: “Nell’animo di Eleonora c’è come uno scollamento pericoloso tra la terra ed il cielo. Un momento di evanescente assenza che la gente chiama tristezza. Ma il giorno dopo, il mattino pieno di luce porta di nuovo l’allegria per tutti”. Per tutti la spensieratezza, mentre lei si isola, “cammina nel mondo sola ma in compagnia di un segreto. Custodisce quel silenzioso segreto nel cuore”. Nella città ducale “lei sola e distante da tutti, vuole dialogare con l’arte. Un dialogo col silenzio dell’arte”. E’ catturata dalla “Muta” di Raffaello, “un incredibile miraggio”, che si anima: “La fanciulla non è più dipinta, sembra una presenza vera, il suo silenzio è fruscio di parole pensate, ma non svelate”. Per Eleonora “la Muta vive”. E allora cade la “barriera insopportabile” del silenzio, che “demolisce ma ricostruisce anche”. Le parole tanto pensate vengono svelate, il “silenzioso segreto” esce dal cuore, lo grida dinanzi al ritratto che sente come un giudice muto quanto severo. Non lo riveliamo, diciamo solo che un poeta la fa riflettere, “se parli, se sveli, è forse un atto d’egoismo” che può rovinare più di una vita. L’arte come l’ha spinta a rompere il silenzio e confessare, le saprà “regalare la soluzione, un altro silenzio”. E’ la vocazione di Urbino, “silenziosa e sacra cristallizzata nell’eternità dell’arte a custodire inviolabili segreti messaggi, con le nuvole come vele verso il divino”.
Il secondo quadro raffigura una nobildonna o una madre superiora, “Dominia Reverenda Eleonora”, ha una capacità magnetica da sconvolgere il conte:”Ne era affascinato. Ore ed ore a contemplarla”, fino ad esserne ossessionato e a doversi rifugiare in un matrimonio forzato, con “una disgraziata senz’anima” e senza qualità, “altro che il rigore di Dominia Reverenda Eleonora”. Poi la doppia vita, “un gioco squallido” dal quale cerca di uscire appellandosi ai ricordi, li trova nei libriccini della comunione in soffitta, divenuta “l’angolo del mondo che somigliava alla sua infanzia”, dove fa portare il quadro di Dominia, con cui torna a confidarsi “accarezzando i messalini”. Alla prima comunione di Giovannina, la figlia della domestica Manuela, trova la saldatura tra le memorie e il presente, “quando quel quadro divenne realtà la follia si cangiò in ammirazione”. Ed ecco la sorpresa, c’è un enigma risolto che non sveliamo, diciamo solo che riguarda Giovannina: “I miracoli dei messalini a volte avvengono”.
L’infanzia riemerge ancora più direttamente nel ricordo di Torre Casuria, nel ritorno al paese di origine si sente anche il “vento di Tremonti che raccontava favole e sortilegi”, c’è la “piazza della cultura” intitolata a Gennaro Manna – lo scrittore e poeta di cui l’autrice è figlia d’arte – c’è “un mondo sotterraneo” di ricordi. E poi c’è Pinuccio, “Il pastorello del vento”, con le sue nuove pecore, le pale dell’eolico “che girano lucide, pulite, simpatiche. Sembrano girandole festose quando il cielo è azzurro e anche quando è nuvoloso”. A noi non sono mai sembrate così, quelle che abbiamo visto finora non sono a Tocco Casauria e feriscono l’ambiente come tante spine nel corpo vivo della natura. Ma chi non si intenerirebbe dinanzi al pastorello che “studia, prepara il suo futuro felice in mezzo alle pale che ama già come fossero il suo gregge”? Il racconto è dedicato al figlio Alessandro, che “da grande voleva fare il pastorello del presepe”. Non certo delle pale, ma questa licenza poetica ci può stare benissimo, di invettive contro l’eolico, motivate dai danni all’ambiente per non parlare di abusi e peggio ancora, ce ne sono, e tante, ben venga anche questa visione liliale.
Anche perché l’Abruzzo è evocato dai toni drammatici di “Il bacio” che scuote l’anima con le immagini shock del terremoto dell’Aquila: due studenti reduci da una “duplice disfatta” nella loro ricerca di lavoro, il concorso andato male per entrambi, che somatizzano la delusione in incomprensioni e frustrazioni reciproche, fino al momento in cui l’improvvisa “agnitio” dei sentimenti li unisce in un bacio mentre si scatena l’inferno del terremoto. Prima di rileggerlo, lo avevamo ascoltato nell’intensa lettura di Maria Concetta Liotta con la percussione onomatopeica delle parole divenute scosse telluriche e crolli, grida e trambusto nella sala della presentazione; l’attrice si è così immedesimata nella drammaturgia del racconto da riportare ai momenti tragici del 6 aprile 2009. Per i due giovani la riscoperta di se stessi e del mondo: “Possiamo ricominciare perché siamo diversi… indietro non si torna mai… Se la vita riprende è perché sono morti i nostri fantasmi, i nostri bagagli, le nostre corazze le ha portate via il terremoto”. Tutto è distrutto, anche “la vecchia quercia squarciata”. Ma timida come il loro bacio, “una piccola inerme pratolina” torna a fiorire: “La natura aveva scelto l’angolo più buio e più stupido del prato per risorgere”. E’ il solo finale che citiamo, come auspicio che i timidi fiori sbocciati possano dare frutti sempre più copiosi.
La Copertina del libro di Anna Manna
L’ispirazione dello scrittore nell’autenticità del racconto
Sentimenti e ricordi, sogni e realtà, il “viaggio in Italia” si è dipanato di sorpresa in sorpresa, e non manca neppure un incontro, misterioso e suggestivo come tanti, ma dove più che in altri troviamo la fusione tra l’ambiente e i pensieri che suscita. Nell’“Inseguimento a Varenna” vediamo come “la baldanza del sogno cede il posto ad uno sguardo sulla realtà. Le mie prigioni di parole si spaccano all’improvviso alla dolcezza di questo tramonto sul lago”. E c’è l’apparizione: “Ma eccola… eccola… eccola! E’ lei!”. Una visione bellissima, poi svanisce, resta il suo profumo, non si lascia raggiungere, eppure tra le immagini e i sogni se ne sente la presenza trasfigurata: “E’ una volpe bianchissima, argentata, che mi guarda di sbieco, no, ecco è una farfalla che mi svolazza intorno, oppure, mio dio, è una lupa famelica che mi scruta benigna ma è pronta a divorarmi”. Il lupo di Mantova riappare al femminile, ma qui non si tratta del desiderio. E’ il tormento e l’estasi dell’ispirazione dello scrittore: “E’ lei il mio personaggio”.
Un personaggio in cerca di autore che lo ha trovato, come gli altri, nella protagonista alla ricerca di se stessa per le vie d’Italia dove sente gli stimoli per rivelare pulsioni recondite. Abbiamo compiuto il suo percorso immersi in queste storie in un itinerario romano tutto particolare, andata e ritorno dalla Montagnola alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna per la mostra sulle “nature morte” apertasi il 18 febbraio. Dieci mezzi pubblici per una lettura avvincente che ci ha fatto apprezzare le attese di bus e metro, tanto più quanto sono state lunghe, perché ci hanno permesso di restare legati ai personaggi, alle loro vicende e soprattutto a quel sottile filo conduttore che è l’anima dell’autrice. In mezzo alle tante storie della natura umana, le “nature morte” pittoriche ci sono apparse ancora di più senza vita, del resto non c’erano quelle di De Chirico che le vedeva come espressione della “natura silente”, e Achille Bonito Oliva ha ribattezzato in “natura viva”,
Abbiamo letto il libro in movimento, accompagnando idealmente la protagonista nel suo viaggio appassionato, che riesce a far rivivere con una prosa suggestiva, nelle descrizioni degli ambienti come degli stati d’animo, ravvivate dal tocco del mistero e dalla “suspence” fino alla sorpresa finale. Pregi letterari che non sta a noi sottolineare nei racconti di una scrittrice superpremiata nei quali l’ispirazione raggiunge accenti così autentici da assurgere alla confessione personale.
Una confessione della scrittrice, ma forse più propriamente dell’animo umano che trova nella sua prosa le parole giuste e i toni appropriati per sprigionare il suo caleidoscopio di umori e sentimenti.-
Info
Anna Manna, Una città, un racconto, Prefazione di Neria De Giovanni, Edizioni Nemapress, novembre 2012, pp. 104, euro 18.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante presso la Società Umanitaria, in Via Aldrovandi 16 a Roma, alla presentazione del libro di Anna Manna e alle Premiazioni, si ringrazia l’organizzazione per l’opportunità offerta. In apertura Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi; seguono una fase della Premiazione con Vera Ambra, poi Anna Manna con il suo libro, l”intervento di Gilberto Mazzoleni sullo stesso libroe la suacopertina; in chiusura i Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede.
I Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede