di Romano Maria Levante
Si conclude la rievocazione, a un anno dalla chiusura, della visita alla mostra svoltasi a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012, “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”, con 140 dipinti dei seguaci di Caravaggio e Annibale Carracci. Dopo l’impostazione della mostra abbiamo descritto le prime 5 sezioni, la “Madonna di Loreto” dei due artisti a confronto, poi i seguaci di Annibale Carracci e quindi gli influssi di Caravaggio nel primo decennio del ‘600, nelle committenze pubbliche e private. Concludiamo con i caravaggeschi del secondo decennio fino al tramonto nel terzo decennio, allorché il classicismo e il nuovo stile barocco avranno il sopravvento.
Cecco del Caravaggio, “Giovane musicista in una bottega di strumenti musicali”, 1615
Abbiamo terminato il racconto degli influssi di Caravaggio nel primo decennio del ‘600 commentando l’opera del francese Regniér come interprete di un caravaggismo il cui massimo esponente era Bartolomeo Manfredi che – scrive Rossella Vodret, ideatrice e curatrice della mostra, – “con la sua ‘manfrediana methodus’ divenne il più popolare divulgatore dei modi caravaggeschi, attirando nella sua orbita soprattutto i giovani francesi arrivati in massa a Roma nel primi anni della seconda decade”.
I caravaggeschi italiani del secondo decennio
“Incoronazione della Vergine con i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco” è l’opera dell’artista che era esposta nella sezione riservata alla committenza pubblica, quella dall’allestimento spettacolare con il profilo di altari sopra i quali si ergevano le grandi tele. “L’anomalia che ha impedito, fino a pochi anni fa, l’identificazione dell’autore sta proprio nella mancata corrispondenza dell’opera con la ‘maniera notturna’ di Caravaggio”, commenta Massimo Paolini. In effetti, Manfredi veniva considerato più notturno di Caravaggio e poco propenso alle pitture sacre: “Tutto quello che si conosceva di lui si svolgeva dopo il tramonto, nell’ora e nei luoghi delle taverne, e anche i rari episodi di Vangelo che aveva rappresentato si volevano scelti con cura tra quelli serali o ambientati nei recessi più bui delle galere”. Invece l’Incoronazione della Vergine non ha nulla di oscuro, le figure sono su due piani, sopra il livello divino, sotto quello terreno, divisi da una spessa nuvola, non c’è nero nel fondo ma una luce calda in alto e fredda in basso. Di caravaggesco il forte realismo delle figure e qualche balenìo della luce, lo ritroveremo nelle committenze private e come riferimento per i giovani francesi. Anche qui non c’è mera imitazione ma adesione stilistica e contenutistica sovrastata comunque dalla personalità dell’artista.
Lo stesso avviene per Orazio Gentileschi, già incontrato tra i primi caravaggeschi, per il secondo decennio era esposto “San Francesco riceve le stimmate”, dai contorni chiari e dalle lunghe ombre: secondo Michele Nicolaci “l’illuminazione, pur mantenendo una connotazione fortemente naturalistica, risulta nello stesso tempo emanazione della presenza divina, secondo una lettura stratificata del significato simbolico della luce, propria peraltro di Caravaggio”.
Abbiamo ritrovato Carlo Saraceni, in “San Bennone recupera le chiavi dal ventre del pesce”. Laura Bartoni nota “alcune analogie con la tecnica caravaggesca, come l’utilizzo di incisioni, ma distanziandosene invece nella stesura del colore”; nella composizione “il forte chiaroscuro contribuisce alla resa drammatica dell’episodio miracoloso, animato da una luce mobile”.
Altri artisti le cui opere erano esposte nella sezione della committenza pubblica sono Giuseppe Vermiglio e Tommaso Salini, David de Haen e Dirck Van Baburen, lo Spadarino (al secolo Giovanni Antonio Galli) e l’Orbetto (al secolo Alessandro Turchi). Tutte opere in materia religiosa, con i caratteristici effetti di luce caravaggeschi e un forte realismo pur nelle figure rituali.
Ma passiamo alla sezione con la committenza privata nel secondo decennio del ‘600, è molto nutrita e si può dire che per individuare le derivazioni caravaggesche non occorrono sofisticate analisi critiche, come per le opere precedenti. Ecco Bartolomeo Manfredi, di cui prima abbiamo commentato un dipinto non corrispondente alla “maniera notturna”, che con “Bacco e un bevitore” mostra l’applicazione del “”Manfrediana methodus”, prima “caravagensis methodus” che consisteva nel prendere le figure tipiche – dai bevitori ai musici, dagli zingari ai giocatori – per rappresentarle “attraverso quella ‘maniera addolcita’ di aderire alla realtà cruda di Merisi”. E certamente l’immagine di Bacco ridente, diverso dal “Bacchino “malato” ne è un esempio,
Un’altra opera di Manfredi richiama l’Incoronazione della vergine, nella composizione su due livelli separati da una nuvola, e nei colori: si tratta del “Sacrificio di Isacco”, Francesca Paculli spiega che questa e l’altra opera appartengono al primo periodo allorché seguiva altri modelli prima di essere totalmente preso da Caravaggio fino a divenire “più notturno” di lui. A questa seconda fase appartiene “Madonna con Bambino”, nella quale “deriva da Caravaggio l’idea di far emergere dall’oscurità i corpi della Vergine con il Bambino in primo piano attraverso il fascio di luce dorata che proviene da destra”; ma nel contempo “il dipinto esprime un fare più raffinato”.
Troviamo pittori italiani delle più varie provenienze, oltre ai bolognesi e ai toscani che abbiamo citato nella seconda parte della nostra cronaca della visita alla mostra. Da Napoli viene Battistello Caracciolo, del quale sono esposte due opere: “David con la testa di Golia” ripropone il ben noto tema con uno stile caravaggesco, la luce fa emergere il corpo di Davide dall’oscurità, e schiarisce anche il volto mozzato di Golia evidenziando i forti contrasti nelle espressioni dei due visi così diversi. In “Amore dormiente” il corpo completamente nudo balza anch’esso dall’oscurità, la critica più recente ha visto richiami al dipinto di Caravaggio e alla statuaria classica.
Di Bartolomeo Cavarozzi, da Viterbo, la “Sacra Famiglia”, opera “caratterizzata – nota Francesca Pasculli – dall’indagine naturalistica in chiave caravaggesca e dominata da un’attenzione alla riproduzione sofisticata del reale”, che consiste in “una stanza dominata dal buio, pochi gli elementi paesaggistici, l’attenzione del pittore è focalizzata esclusivamente al gruppo sacro, in primo piano”. C’è anche “San Girolamo nello studio”,del quale la studiosa sottolinea “l’aspetto ‘narrativo’ che l’artista vuole conferire alla composizione” come nell’opera di Caravaggio, dove sul nero della stanza la luce fa risaltare il santo e i libri sul tavolo e nelle mani.
Anche il bolognese Leonello Spada si è cimentato con “San Girolamo”, in una inconsueta immagine seduto di profilo su sfondo nero mentre scrive su un grande quaderno. In “San Giovanni evangelista” – osserva Giorgio Leone – “i particolari compositivi e cromatici uniscono ascendenze carraccesche e suggestioni caravaggesche” e qualche residuo tardo manieristico”.
Di “Giuseppe spiega i sogni dei prigionieri” del marchigiano Giovanni Francesco Guerrieri, Barbara Guelfi, citando Melasecchi, scrive: “Si tratta della sua opera più caravaggesca, sia per la gestualità delle figure, sia per l’incidenza della luce e il realismo spinto dei numerosi dettagli che arricchiscono la scena”. Nel suo “La Maddalena penitente” c’è quello che Pizzorusso ha definito un “incunabolo di luce caravaggesca”; inoltre, secondo Melasecchi citato dalla Guelfi, “la potente illuminazione che evidenzia la spalla e il braccio della fanciulla, come la descrizione minuziosa dei tessuti e degli oggetti sono ormai lontane dalla capziosa eleganza e dallo stile sintetico della tarda maniera”: la rivoluzione di Caravaggio ha conquistato l’artista.
Anche in “Compianto sul Cristo morto” del genovese Bernardo Strozzi, le figure risaltano nel buio dello sfondo con una straordinaria gestualità nelle mani e le espressioni intense dei volti. Laura Stagno, citando Pesenti, osserva: “E’ nella scelta di questo tipo di impianto e di illuminazione che si manifesta la precoce sensibilità dell’artista verso i modelli caravaggeschi”.
Troviamo di nuovo anche Cecco del Caravaggio, con “Fabbricante di strumenti musicali“, nel quale Gianni Papi, a parte la costante dello sfondo scuro, coglie “nell’atmosfera ambigua esaltata proprio dall’incoerenza degli atteggiamenti e degli elementi in gioco” e anche “nel taglio compositivo, per lo sguardo puntato sfrontatamente verso chi guarda” un preciso riferimento alle due celebri opere di Caravaggio, “Suonatore di liuto” e “Ragazzo morso dal ramarro”.
Del romano Antiveduto Gramatica era esposto il “Suonatore di tiorba”, che Papi accosta al “Fabbricante di strumenti” di Cecco, trovandovi un’ “atmosfera fortemente caravaggesca” e sottolineandone l’alta qualità per “la fulgida ricchezza del denso cromatismo dalla luce scura”. Anche di “Madonna con Bambino e sant’Anna”, lo stesso critico sottolinea “la temperatura convintamente e aggiornatamene caravaggesca” dell’opera e la definisce “un bell’esempio del linguaggio tipico di Grammatica, del suo colore ombroso, dei suoi bianchi luminosi che emergono sulle superfici scure e sature”. Non si potrebbe descrivere meglio l’atmosfera del quadro.
Antiveduto Gramatica, “Suonatore di tiorba”, 1611-12
I caravaggeschi stranieri, in particolare francesi e olandesi
La sezione dedicata agli stranieri iniziava con due francesi, a parte il “David con la testa di Golia” di un terzo francese, Nicolas Régnier, che abbiamo anticipato citandolo al termine del primo decennio. Si tratta dei giovani artisti affluiti a Roma ed entrati nell’orbita di Bartolomeo Manfredi.
Il primo è il parigino Simon Vouet, di cui era esposto il caravaggesco “La buona ventura”, di cui Rossella Vodret – a cui risale l’attribuzione avendo scoperto la firma nel retro – sottolinea che “dipende stilisticamente dalle coeve composizioni di Bartolomeo Manfredi, come denotano il fondo scuro e il punto di vista molto ravvicinato, nonché il carattere popolare dei personaggi e la loro gestualità espressiva”. Inoltre potrebbe esservi un riferimento diretto alla “Buona ventura” di Caravaggio, perché – scrive Luca Calenne – “nonostante a personaggi qui dipinti da Vouet manchino l’eleganza e la raffinata psicologia di quelli caravaggeschi, essi sono stati ripresi ‘ad vivum’, cioè dal vero, così come lo stesso Merisi avrebbe fatto per realizzare la sua ‘zingara’”. Dello stesso autore “Amanti, con la figura maschile che emerge dall’oscurità del fondo, quella femminile di profilo in piena luce, che mostra – secondo Vittoria Markova – “la concezione personale che l’artista aveva del linguaggio del caravaggismo, che per Vouet rappresentò il punto di partenza nella formazione di una propria maniera”.
L’altro francese è Claude Vignon, con il “Martirio di san Matteo”, del quale Paola Bassani Patch scrive: “Come non riconoscere della tela di Arras una precisa filiazione del quadro omonimo di Caravaggio per la Cappella Contarelli?” Ma aggiunge che l’autore “sfida e rifiuta il modello di Merisi”, in particolare “ricorre certo ancora una volta al chiaroscuro, ma non nega colori e impasti”, il risultato è che “l’immagine non dà tregua allo spettatore e sembra quasi rovesciarglisi addosso in tutta la sua ferocia e sconcertante rozzezza”.
C’era poi Jusepe de Ribera, con due opere, “San Gregorio Magno” e “Negazione di san Pietro”: del secondo, ritenuto di cultura francese, Brejon de Lavergnée e Cuzin hanno sottolineato – ricorda Gianni Papi – “la temperatura fortemente caravaggesca e il rapporto compositivo con la “Negazione di san Pietro” eseguita da Caravaggio nei suoi ultimi mesi napoletani”.
Ma ecco la carica degli altri stranieri, cominciamo da Louis Finson, di Bruges, con le opere che più caravaggesche non potrebbero essere, addirittura “Autoritratto” richiama platealmente il “Bacchino malato”: Francesca Pasculli sottolinea “l’assimilazione di modelli e motivi caravaggeschi elaborati in questo caso secondo il linguaggio proprio della pittura olandese” e, citando Capitelli, nota “l’elaborazione della resa plastica, un tono grottesco e beffardo”. Altrettanto in “Maria Maddalena in estasi” il caravaggismo è tale da essere stato ritenuto prima opera di Caravaggio e poi copia di un suo dipinto sul tema, era a Napoli dove si trovava anche Finson.
Seguiva Dirck van Baburen, con due opere religiose: “San Sebastiano curato da sant’Irene e la sua ancella” e “Cattura di Cristo con l’episodio di Malco”. Nel primo – scrive Valentina White- “l’artista, in linea con le soluzioni proposte da Caravaggio, affronta il soggetto selezionando nell’ambito del racconto sacro il momento di più alta intensità drammatica, funzionale a ottenere un maggior coinvolgimento emotivo” . Nel secondo “è evidente il riferimento al Martirio di san Matteo di Caravaggio per la Cappella Contarelli”.
Di Giusto Fiammingo, oltre ad “Angelo con i chiodi della passione di Cristo” – caravaggesco soprattutto nelle luci e ombre – era esposto “La fuga del giovane nudo dopo la cattura di Cristo”, figura evangelica cui diede molto rilievo D’Annunzio identificandosi nel “giovane della sindone” del Vangelo di Marco quando gli apostoli fuggono all’arresto di Cristo:” Vi fu però un giovane che lo seguiva, con il corpo nudo avvolto in un lino, e lo presero. Ma lui lasciata la tela di lino fuggì nudo”. Vedere l’immagine tanto cara al Poeta è motivo di emozione per chi vi si è appassionato.
Non poteva mancare “Giuditta con la testa di Oloferne”, è di Gerard Seghers : “La luce, oltre a costruire plasticamente la scena, osserva Celeste Napolitano, contribuisce ad aumentare l’effetto drammatico della stessa”, e questo è caravaggesco, oltre al volto dell’anziana; mentre il profilo della giovane “ha un aspetto classico, vicino più all’arte dei Carracci e dei loro seguaci bolognesi che al realismo caravaggesco, che dimostra addirittura un’ispirazione archeologica”.
Pietro Paolini, “Cantore”, 1625
I seguaci di Caravaggio del terzo decennio e la dissolvenza
Con il ritorno dei Carracci ed i seguaci bolognesi si entra nel terzo decennio quando i maggiori caravaggeschi vengono meno: è già morto Borgianni, poi muore Manfredi, Saraceni è tornato a Venezia e Gentileschi riparte per Genova, ritorna in Olanda Honthorst. “I loro allievi – osserva Rossella Vodret – per non uscire fuori mercato si affrettano ad aggiornare i modelli del naturalismo alla luce della tendenza vincente: il classicismo bolognese-emiliano, a cui si affiancarono presto le nuove prepotenti istanze barocche”. Movimento “fortemente sponsorizzato dal nuovo papa”.
Le due sezioni dedicate al decennio 1620-1630, per le opere pubbliche e private, erano molto nutrite, presentavano una trentina di artisti, dei quali ricorderemo i nomi, soffermandoci soltanto su coloro che erano presenti con più opere, a cominciare da Trophime Bigot, con cui iniziamo quest’ultima rassegna perché è ancora fortemente caravaggesco: vediamo “Giuditta e Oloferne” e “San Francesco d’Assisi in preghiera”, in entrambi la luce emessa da una candela è protagonista perché crea gli scorci soprattutto dei volti e dei corpi sul nero profondo delle composizioni.
Segue Nicolas Tournier con “Giovane uomo con bicchiere” e “Sinite parvulos” , quest’ultimo definito da Brejon de Lavergnée. “permeato di classicismo” pur nella luce caravaggesca.
Luce che c’è anche in Pietro Paolini, “Ritratto d’attore” e soprattutto “Cantore”, nel quale si aggiunge lo straordinario volto con la bocca spalancata , che ha vistosi precedenti caravaggeschi
Nelle due opere di Giovanni Serodine, “Elemosina di san Lorenzo” e “Commiato dei santi Pietro e Paolo condotti al martirio”, Mariella Nuzzo trova l’influsso di Caravaggio nello “schema dispositivo delle figure” e nella “disgregazione dei volumi per mezzo della luce e del colore” di cui agli “ultimi esiti delle ricerche del Merisi” .
Ancora un francese, Valentin de Boulogne, “Negazione di san Pietro” è caravaggesca nella composizione e nel personaggio in primo piano, ma la Melasecchi, citata da Vittoria Markova, “ravvisa giustamente l’influsso degli artisti bolognesi che giungevano a Roma, in primo luogo di Guido Reni”. Con “San Giovannino” l’influsso caravaggesco si attenua, per la prorompente figura del Battista, secondo Brejon Lavergnée, “il giovane Valentin ha a disposizione numerose fonti di ispirazione sia passate che recenti: egli vagheggia Leonardo, Raffaello e Bronzino, ma anche le creazioni di Caravaggio e Guido Reni”. Lo stesso critico, nel commentare “Ultima Cena”, il terzo dipinto esposto, sottolinea che il tema, “così importante per i cristiani, non era stato mai affrontato da Caravaggio né da Manfredi e l’artista francese ne propone una versione del tutto personale, umana e commovente”.
In “Concerto” del Rustichimo (al secolo Francesco Rustici), – osserva Vittoria Markova – “non vediamo la fonte di luce, ma è evidente che ci troviamo di fronte a una scena notturna con illuminazione artificiale”. La luce, invece, è violenta in “Morte di Lucrezia”, su cui Rossella Vodret scrive: “Il dipinto evidenza in modo chiaro come Rustici non avesse assimilato ‘in toto’ la lezione cavaraggesca, bensì invece come egli abbia saputo prendere da essa quelle soluzioni formali capaci di affascinare lo spettatore, e accostare a questo linguaggio, frutto della sua elaborazione personale, il luminismo proveniente dalle sperimentazioni nordiche di Gerrit van Honthorst”.
Le due opere di Angelo Caroselli,il grande “Morte di san Gregorio Magno e liberazione delle anime dal Purgatorio” e il piccolo “San Venceslao” si allontanano dal caravaggismo: resta il fondale scuro con qualche bagliore luminoso sulla tunica e la corazza e poco altro.
Concludiamo con Orazio Riminaldi, in “I Santi Quattro Coronati” , secondo Graziella Becatti, i “personaggi, immersi in una suggestiva alternanza luce-ombra, hanno corpi scultorei” e si richiamano alla “Manfrediana Methodus”; mentre in “Martirio dei santi Nereo e Achilleo” abbandona il fondo nero per un cielo nuvoloso. Con “l’addolcimento del caravaggismo di Manfredi e il riferimento al classicismo” di tradizione ellenica e di matrice rinascimentale.
La galleria comprendeva tante opere singole, di artisti che ci limitiamo a citare ma sono altrettanto validi ed espressivi: Maestro di Serrone e Cavarozzi, Francois e Nunez del Valle, Petrazzi e Stanzione, Tanzio da Varallo e Benci, lo Spadarino e Rombouts, Manetti e l’Orbetto.
E si concludeva con la spettacolare “Allegoria dell’Italia”, di Valentin de Boulogne , l’artista francese di cui abbiamo parlato, un dipinto di circa metri 3,5 per 3,30 metri con una figura trionfante che Ripa inizia a descrivere così: “Qui la vedete in piedi, con sotto le arme una veste color porpora broccata in oro. Sull’elmo porta come cimiero il Carattere…”.; poi prosegue con la lancia puntata sul drago e lo scudo, le chiavi e la corona. Brejon de Lavergée ricorda la severa critica di Haskell secondo cui l’immagine vittoriosa è “un tentativo piuttosto maldestro di applicare lo stile caravaggesco a un tema che non si presta molto”; ma conclude che “si tratta invece di un grande dipinto che colpisce per la sua decisa impostazione classicista”.
Si conclude così il percorso dei primi tre decenni del ‘600 su cui la mostra ha offerto tanti elementi per un esame approfondito: questo spirito di ricerca, insieme alla ricchezza espositiva, la fa ricordare come un evento a un anno dalla chiusura. Siamo al termine del terzo decennio, il trionfo dell’Italia nell’Allegoria di Valentin de Boulogne è una conclusione che prendiamo come auspicio perché il Paese possa superare questi tempi difficili risorgendo trionfante dalla crisi che attraversa.
Info
Catalogo ” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630, Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sono usciti, in questo sito, il 5 e il 7 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.
Foto
Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Cecco del Caravaggio, “Giovane musicista in una bottega di strumenti musicali”, 1615; seguono Antiveduto Gramatica, “Suonatore di tiorba”, 1611-12, e Pietro Paolini, “Cantore”, 1625; in chiusura Valentin de Boulogne, “Allegoria dell’Italia”, 1627-28.
Valentin de Boulogne, “Allegoria dell’Italia”, 1627-28