Dalì, 1. Il grande artista tra genio e sregolatezza, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Chi si sentirebbe di accostare Vermeer, la cui mostra è  in corso alle “Scuderie del Quirinale” dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, a Dalì, la cui mostra si è chiusa da cinque mesi? Eppure Dalì aveva tale considerazione del maestro spagnolo da porlo al primo posto nell’arte pittorica insieme a Raffaello. Ne parleremo nel ripercorrere la  mostra “Dalì, un artista, un genio”  svoltasi al Vittoriano dall’8 marzo al 1° luglio 2012, dopo quasi 60 anni dall’ultima a Roma, a Palazzo Rospigliosi.  E’ stata una rassegna multiforme come il personaggio: dipinti e disegni, fotografie e filmati, documenti e lettere, oggetti e performance. Ha richiamato una straordinaria folla di visitatori, il fascino dell’uomo e dell’artista non si è attenuato cessato il clamore delle cronache.

“Ritratti di Dalì” , di Philippe Halsman, successione di gigantografie

Per questo raccontiamo ora la mostra la cui ricerca sul personaggio non deve andare dispersa con la chiusura,  conservando intatto il suo interesse: ha fatto emergere oltre all’artista e al genio l’uomo, la sua inquietudine trasfusa nell’arte e le sue bizzarrie e trovate istrioniche che, ben prima di Andy Warhol, lo hanno reso protagonista. Anche in Dalì l’artista è soggetto e oggetto della propria arte.

La mostra è stata curata da Montse Aguer, direttrice del Centro per gli studi daliniani della Fondaciò Gala-Salvador Dalì, massima prestatrice, e da Lea Mattarella, docente alle Belle Arti di Napoli, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando” che l’ha realizzata. Nella presentazione questi tre artefici dell’iniziativa ne hanno tratteggiato i contorni sottolineando in particolare di aver voluto evidenziare i rapporti con l’Italia nella scelta e collocazione del materiale espositivo, fino a dedicarvi la terza sezione, ben distinta dalle prime due.

Non si è trattato di un riflesso campanilistico, l’Italia è la chiave per entrare in un personaggio così complesso. Perché è la terra dei grandi autori classici ai quali si è lungamente ispirato, da Raffaello a Michelangelo, anche al Palladio, fino ai suoi contemporanei quali Morandi e Casorati, Savinio e de Chirico, oltre allo spagnolo Velasquez. Ed è la terra dei suoi viaggi non solo da turista alla scoperta di luoghi d’eccezione a Venezia e a Roma, fino a Bomarzo  con i giardini popolati da statue di mostri; ma anche da protagonista della intensa vita artistica e mondana, con i grandi registi, quali Luchino Visconti e Federico Fellini, attori come Anna Magnani, industriali con cui condivise campagne pubblicitarie ed editori per i quali illustrò libri e riviste con disegni artistici.

L’uomo  e le sue inquietudini: Dalì surrealista

La mostra ha presentato subito l’uomo, o meglio il personaggio, e Nicosia lo ha rivendicato come una precisa scelta citando le sue stesse parole: “La divisa è essenziale per vincere. Rarissime, nella mia vita, le occasioni in cui mi sono degradato a indossare abiti borghesi. Vesto sempre l’uniforme di Dalì”. Siamo entrati nel lungo corridoio con ai due lati 13 gigantografie del suo viso appuntito con gli inconfondibili baffi ritorti e le espressioni serie e argute, ammiccanti e assorte; prima dell’ingresso l’immensa faccia di Dalì in campo rosso come sigillo e testimonial della mostra.

Sono gli scatti del fotografo americano Philippe Halsman che, sempre secondo Nicosia, “ha contribuito a creare l’‘icona Dalì'”, resa visivamente nella camera oscura posta dopo la galleria con otto video collocati in modo asimmetrico nelle pareti in funzione alternata rimandando la sua figura e la voce nei momenti più diversi: una presenza viva e in una certa misura inquietante. Perché in Dalì si sono sovrapposte  arte e vita e l’eccentricità della sua figura e dei suoi comportamenti  si è fusa e anche confusa con un’espressione artistica originale nelle forme e profonda nei contenuti.

Bizzarrie e trovate anche eclatanti nelle varie parti del mondo: a Parigi si presentò alla Sorbona in una Roll Royce bianca con 1000 cavolfiori, nel 1958 si è ripetuto alla Fiera con una “baguette” lunga 12 metri;  a New York era sbarcato in uno scafandro da palombaro d’oro, a Roma  si fece portare in giro per la città in un cubo per uscirne in segno di rinascita, a Venezia nel 1961 giunse al Festival in carrozza brandendo una pistola, e poi le esibizioni a Bomarzo  e con il rinoceronte; voleva consegnare a Luis Bunuel il Leone d’oro alla carriera approdando a Venezia su un galeone d’oro con un mappamondo in mano, ma il regista suo grande amico non volle e dovette  rinunciarvi.

Le opere di una personalità così singolare, oltre a sorprendere fanno sentire qualcosa di inquietante, le visioni e i sogni, gli incubi e le ossessioni  che popolano l’inconscio e l’artista riesce ad esprimere  trasformandoli in immagini e composizioni percorse nella forma e nel colore da un brivido sottile. E’ ciò che proviamo risvegliandoci dagli incubi che sconvolgono il riposo con presenze ossessive e cerchiamo invano di evocare; l’artista ci riesce proiettandosi in una dimensione dantesca.

Per inquadrarne l’opera si fa riferimento al surrealismo, il movimento che, come scriveva André Breton nel “Manifesto” del 1924,  si proponeva di scandagliare le profondità dello spirito: “Io credo nell’incontro futuro di questi due stati in apparenza così contraddittori che sono il sogno e la realtà in una specie di realtà assoluta, di surrealtà”. Dalì, in contatto con i surrealisti, il cui esponente Breton apprezzava la sua carica innovativa, scrisse: “Pensai che mi si offrisse una sorta di rinascita. Il gruppo surrealista era per me una specie di pianta nutrice, e credevo nel surrealismo come nelle tavole della legge. Lo spirito del movimento corrispondeva al mio intimo modo di essere”.  

Con il suo “metodo di interpretazione paranoico-critico” – che la curatrice Montse Aguer ricorda come “combinazione di pensiero e immagine in cui il delirio interpretativo va oltre la sua conoscenza” –  dà un apporto decisivo al movimento, salutato così da Breton: “Non c’era stata una rivoluzione simile dalle opere di Max Ernst del 1923-24 e da quelle di Mirò del 1924: Per un certo periodo, Dalì è passato di conquista in conquista”; aggiungendo che “Dalì ha fornito al surrealismo uno strumento di prima linea”; per concludere che “lo straordinario fuoco interiore di Dalì ha costituito in tutto questo periodo un fermento di incalcolabile valore per il surrealismo”.

Tutto bene, dunque? Non sarebbe Dalì se non creasse problemi, ne prende le distanze e arriva a dire: “La differenza tra me e i surrealisti è che io sono surrealista”  e anche “Il surrealismo sono io”.  Ha anche detto: “Ho sempre visto cose che gli altri non vedevano, e quello che vedevano io non lo vedevo”. Forse quest’affermazione è la più aderente alla sua arte singolare e unica, vi si legge la “doppia visione”, lo “sguardo duplice” dove una cosa contiene l’altra, come nell’inconscio.

“Autoritratto con il collo di Raffaello”, 1921

La ricerca di uno stile personale e il classicismo persistente

Tutto questo non è frutto solo di stravaganze irrefrenabili di un geniaccio trasgressivo, anche se la sregolatezza rientra nei suoi  aspetti esteriori più appariscenti. Il suo percorso artistico lo ha visto alla ricerca di uno stile personale sin dagli anni della formazione nell’Accademia delle Belle Arti,, quando aveva come modelli gli impressionisti francesi e sentiva il fascino dei classici dell’arte italiana: la mostra espone il suo “Autoritratto con collo di Raffaello”, del 1921, a 17 anni, in cui cerca un’identificazione anche fisica con quello che definisce “genio quasi divino”; scopre in lui, al di là della grazia, armonia e bellezza, un mistero superiore anche a quello proprio e scrive che si faceva crescere i capelli e gli piaceva assumere la stessa espressione malinconica per assomigliare all'”Autoritratto” di Raffaello, esposto alla mostra “Roma e l’antico” della Fondazione Roma.

La sua precoce identificazione  non rientra negli atteggiamenti  tra il surreale e lo stravagante che gli divennero abituali con il crescere della fama;  è la conclusione di un ragionamento di chi – scrive Lea Mattarella l’altra curatrice della mostra – “spia Raffaello dall’inizio alla fine della sua carriera”,  come provano le sue parole dei“50 segreti magici per dipingere”: “Ingres aspirava a dipingere come Raffaello e dipinse come Ingres; Raffaello aspirava a dipingere come gli antichi e li superò; io sono colui che è maggiormente in grado di fare quello che vuole  e forse un giorno sarò considerato,senza essermelo prefisso, il Raffaello della mia epoca”. 

Nella “Tabella comparativa dei valori secondo l’analisi daliniana elaborata nell’arco di dieci anni” attribuisce la valutazione più alta nei parametri pittorici dalla tecnica all’ispirazione, dal colore al disegno, a Raffaello e Vermeer, come abbiamo ricordato; mentre pone al primo posto Raffaello nel “mistero”  superiore anche alla propria valutazione in quella che era la categoria primaria per i surrealisti. Sempre la curatrice commenta: “Quindi Raffaello mette in moto qualcosa di oscuro, di ambiguo, di non riconducibile semplicemente a una realtà di armonia idealizzata e resa attraverso una fattura preziosa”.  E cita lo scrittore Ramòn Gomez de la Serna il quale ha rivelato  che Dalì gli disse: “Ora si tratta di  cercare il cosciente nei surrealisti e l’incosciente in Raffaello”.

D’altra parte Dalì stesso, intervistato dalla Tv italiana nel 1959, disse che Raffaello aveva insegnato molto ai surrealisti e anche ai futuristi, citando in particolare Boccioni.  In “La mia vita segreta” aveva usato un gioco di parole per ribadire l’ammirazione per l’urbinate: “Raffaello: ecco un pittore futurista se per futurista si intende colui che continuerà a esercitare con sempre maggiore forza un’influenza sul futuro”.

Alla “Madonna in trono” di Raffaello si ispira direttamente nella sua “Madonna di Port Lligat”, in cui inserisce anche elementi da Piero della Francesca in un impianto surreale, colloca il tempietto  bramantesco dello “Sposalizio della Vergine” come minuscolo sfondo lontano di un bozzetto surrealista con immagini allucinate, per citare i più evidenti.  Scrive: “M’inginocchio ancora una volta per ringraziare Dio che Gala sia un essere così bello come quelli di Raffaello”.

Ammirava molto anche Michelangelo  e la sua arte scultorea, tanto che nel 1982, a 78 anni, ne reinterpreterà  opere celebri come “la Pietà”, il “Giorno” e la “Notte”  veri “d’aprés”  in stile cubista-daliniano – dichiarando: “La mia non è più un’immaginazione al servizio del capriccio e dei sogni né dell’automatismo. Adesso dipingo immagini significative tratte direttamente dalla mia personale esistenza, dalla mia malattia o dai miei ricordi più presenti”. Intenerisce questo ripiegamento interiore  sulla realtà vista com’è senza il “doppio” della trasfigurazione onirica  che per tanti anni ne aveva alimentato l’arte inconfondibile.

Un surrealismo, il suo, nutrito dall’amore per i classici. Anche per questo era in continua polemica con l’astrattismo mentre, tra i contemporanei, era affascinato dall’afflato onirico della pittura di de Chirico, che pure arrivò a definirlo “l’antipittore per eccellenza”; condividevano nella vita le asprezze polemiche e il gusto per i travestimenti e nell’arte molti soggetti evocativi del mistero: cavalli e torri, mobili e orologi per il tempo sospeso, figure enigmatiche abbracciate.

Dopo il classicismo e prima del surrealismo, nel periodo parigino dal 1926 al 1940  ha sperimentato l’impressionismo e altre forme stilistiche: il cubismo dopo l’incontro con Picasso e il purismo, il futurismo e il puntinismo, prova di una ricerca che va ben oltre il suo ostentato “spirito paranoico” se visto in termini limitativi. D’altra parte definiva la paranoia “come un’illusione sistematica di interpretazione. Questa illusione sistematica costituisce, in uno stato più o meno morboso, la base del fenomeno artistico in generale, e del mio genio magico per trasformare la realtà in particolare”.  

Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1940 per l’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi, torna al classicismo che lo ha  accompagnato nella vita anche se nella forma particolare da lui definita “daliniana”; e dichiara di sentirsi “capace di portare avanti la conquista dell’irrazionale”  in modo diverso dal passato, trasformandosi “semplicemente in un classico”. Non un arretramento bensì una mutazione molto ambiziosa che doveva manifestarsi “proseguendo la ricerca della Divina Proporzione, interrotta dopo il Rinascimento”. Torna l’uomo Dalì, il personaggio sfrontato che non ha esitato a dire: “Le due cose più fortunate che possono accadere a un pittore sono: primo, essere spagnolo e, secondo, chiamarsi Dalì. Queste due cose fortunate sono successe a me”.

“La Madonna di port Lligat” (prima versione), 1949

Le “cose fortunate” per i visitatori della mostra

Anche ai visitatori della mostra sono capitate delle “cose fortunate”. La prima fortuna vedere come il complesso dei motivi che abbiamo cercato di delineare trovino espressione artistica nei dipinti esposti; e non è da poco trattandosi da un lato di sogni e visioni, incubi e ossessioni da psicanalisi freudiana; dall’altro di composizioni classicistiche di alta ispirazione rivisitate da un grande artista.

Un’altra fortuna  ripercorrere, attraverso fotografie e  video, lettere e documenti le cronache di una vita frenetica sotto il fuoco dei riflettori, da New York, a contatto con grandi nomi come Charlie Chaplin e  i fratelli Marx, Helena Rubinstein e Alfred Hitchchock, con lui lavorò alla scenografia del film “Io ti salverò” – con Gregory Peck e Ingrid Bergman,  ricordiamo la vertigine dei piani inclinati e dei vortici negli incubi onirici – a Venezia e Roma, dove è entrato in contatto con i personaggi citati, Luchino Visconti e Federico Fellini, Anna Magnani e gli imprenditori che ne fecero un’icona della pubblicità,  poi la vita mondana scossa dalle sue continue eccentricità.

Ma di tutto questo parleremo prossimamente, per ora ci basta aver delineato alcuni tratti dell’artista e del genio nella straordinaria sostanza umana che ne fa un personaggio unico e inconfondibile.

Info

Catalogo della mostra: “Dalì. Un artista, un genio”, a cura di Montse Aguer e Lea Mattarella,  Skirà,  pp. 266, formato 24×28 cm: dal Catalogo sono tratte le citaziooni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 2 e 18 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese al Vittoriano il giorno della presentazione della mostra da Romano Maria Levante; si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura alcune gigantografie della serie dei “Ritratti di Dalì”  del fotografo  Philippe Halsman ; seguono, di Dalì, “Autoritratto con il collo di Raffaello”, 1921,  e “La Madonna di port Lligat” (prima versione), 1949; in chiusura  “Eco geologica. La Pietà”, 1982.

“Eco geologica. La Pietà”, 1982