di Romano Maria Levante
La mostra al Complesso del Vittoriano a Roma, dal 19 novembre al 17 gennaio 2010, rivela l’arte e la cultura africane, con 90 opere di 29 artisti di 20 nazioni (75 opere della Collezione Pigozzi e 15 di autori indicati dai Ministri della cultura di 9 paesi), che esprimono energia, talento e creatività artistica con grande varietà di linguaggi, da quello contemporaneo al tradizionale fino all’arcaico.
“Siamo poveri perché non abbiamo denaro, ma siamo artisti e vi assicuro che ci sentiamo estremamente ricchi, abbiamo la nostra dignità. Vogliamo uno sguardo nuovo, quello autentico che è stato perduto, speriamo che la mostra aiuti a ritrovarlo”. Così un artista africano in rappresentanza di tutti gli altri, dignitoso e severo, nell’abito tradizionale del suo Paese: un pesante mantello di velluto nero bordato d’oro, con un austero copricapo, una figura imponente. Era il 18 novembre 2009, presentazione della mostra “Africa? Una nuova storia”, promossa dal Ministero per i beni e le attività culturali, fino al 17 gennaio 2010 a Roma, al Complesso del Vittoriano, realizzata da “Comunicare Organizzando” con la Collezione Pigozzi di arte contemporanea africana.
Al termine siamo riusciti ad avvicinarlo, è Romuald Hazoumè, del Benin, gli abbiamo detto che nel nostro servizio sul vertice della Fao uscito un’ora prima, lamentavamo la tendenza a ridurre l’immagine dell’Africa alla miseria, ingenerosa verso un continente di antica civiltà ricco di talenti. Ha ribadito: “Invito tutti a ritrovare la nostra dignità anche attraverso la mostra, rivendichiamo il diritto a educazione e salute, chiediamo il riconoscimento di ciò che siamo, non abbiamo bisogno di altro”.
Il valore della mostra d’arte africana
Per noi è stato questo il “clou” della presentazione di una mostra che è molto di più di una esposizione di opere artistiche, ne va dato atto al ministro Bondi che l’ha voluta fortemente. Nell’intervento alla presentazione nel salone del Ministero al Collegio romano, l’ha definita “un grande avvenimento” e ha ricordato che nel continente africano vi sono “le radici stesse della civiltà europea e anche di molti momenti importanti della storia artistica del nostro continente”. Non solo, perché “oggi è anche una sorgente di spiritualità e di amore per la vita nonostante le sofferenze. In un’epoca che vede l’Europa povera di spiritualità, l’Africa ci dà un esempio molto positivo”. Sul significato della mostra ha aggiunto che per i suoi valori “è un continente che merita di essere conosciuto di più e la mostra può essere un ponte con l’Europa nel segno della civiltà in nome dell’arte e della cultura”. Anche perché “la cultura può essere la chiave fondamentale della nostra politica estera”.
Il consigliere Morabito degli affari esteri ha ricordato che l’Africa “è un continente giovane in una fase di profondo cambiamento. Offre opportunità straordinarie nei rapporti commerciali e anche culturali. E la cultura è la migliore base per l’incontro tra i popoli, la mostra è anche un mezzo per consolidare i rapporti culturali. A tal fine si sono interessati i Ministri della cultura delle diverse nazioni africane perché segnalassero artisti significativi del proprio paese, e questo è avvenuto.
Ma sentiamo il curatore della mostra, André Magnin, il massimo esperto di arte africana e non solo, cura da 22 anni, dalla fondazione, la Collezione Pigozzi, quindi è anche un operatore culturale di arte africana. Con lui il nucleo iniziale nato da una felice intuizione si è moltiplicato fino a costituire una raccolta di migliaia di opere di trenta paesi che si rinnova annualmente con aggiunte a livello dei linguaggi più nuovi portati dal talento e dalla creatività personali: “L’Africa, ha detto, partecipa allo sviluppo culturale del mondo, non deve essere più sinonimo di guerre e fame, malattie e sottosviluppo; le opere dei suoi artisti costituiscono una collezione unica di stili e provenienze diverse, che ha un impatto di bellezza, di forza, di verità”. Un aspetto importante :“Vogliono continuare a vivere in Africa, la loro arte esprime la bellezza di un continente straordinario”.
Jean Pigozzi li ha definiti “persone di una creatività straordinaria, che riescono sempre ad aprirti la mente”, e a invitato a non pensare all’arte tribale, “la nuova arte africana è tanto interessante e complessa, tanto bella e sofisticata quanto quella esposta nelle gallerie e nei musei di Berlino, Londra o New York”. Concetto precisato da Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”, la società realizzatrice della mostra, secondo cui gli artisti della Collezione Pigozzi “sono stati in grado di testimoniare la ricchezza della creazione artistica contemporanea africana, superando lo stereotipo di arte folkloristica e decorativa post coloniale per entrare in relazione con l’arte occidentale e sviluppare così una propria autonomia di linguaggio”.
Si deve dare atto alla Collezione Pigozzi, diamo l’acronimo Caac (Contemporary African Art Collection), di aver fatto tanto per la loro valorizzazione. Nata dopo l’esposizione “Magiciens de la Terre”, ha tenuto mostre di arte africana a New York e a Londra, poi in diverse città europee e a Johannesburg, anche a Torino e a due Biennali di Venezia nel 2007 e 2009, fino alla recente alla Biennale di Mosca. I titoli sono tutto un programma, da “Africa Explores” ad “Out of Africa”, da “Africa Art Now” ad “Africa Remix”, da “Why Africa?” ad “Against Exclusion” a Mosca.
La “nuova storia” auspicata nel titolo della mostra di Roma è un invito a riscoprire le radici comuni, dove si incrociano le storie e le culture ricordate dal ministro Bondi. E’ un terreno di incontro nel quale l’arte può migliorare la conoscenza reciproca e avvicinare i popoli nel segno della pace. Andiamo a verificare quanto è stato detto e quanto promette la mostra visitandola. Ci colpisce subito per la vivacità dei colori e la varietà degli stili, un vero campionario d’arte e di costume, di vita e di civiltà. La parte del leone la fanno le opere della Collezione Pigozzi, in esposizione ben 75.
I due pilastri della mostra, i “bidoni”di Hazoumè e “il mondo tra le mani” di Bodo
Iniziamo con l’opera di Romuald Hazoumé, nato nel 1962 nel Benin, a Porto Novo dove vive e lavora: non solo perché il suo intervento alla presentazione ci ha molto colpito, ma soprattutto perché ci hanno colpito le sue opere esposte, e in particolare il “Carretto del Benin”, la sua patria, del 2003-04. Si tratta di una vera motocicletta, piccola e vecchia, quasi sommersa da un numero spropositato di taniche-bidoni di plastica che si reggono in un equilibrio portentoso, contro ogni legge fisica. La motocicletta che non potrebbe trasportarli, tanto le sue ruote sono esili rispetto alla loro massa, ma li trasporta è come il calabrone che non potrebbe volare tanto le sue ali sono esili rispetto al corpo ma vola. Abbiamo rievocato anche di recente il “calabrone Italia”, questa volta abbiamo il “carretto Benin” che diventa il “carretto Africa”, come l’auto-motociclo di Zampanò nel felliniano “La Strada”: un veicolo che conteneva un mondo. Il mondo del “carretto del Benin” è l’Africa con i suoi talenti e le sue zavorre che vorrebbero farla affondare, ma reagisce caricandosi fino all’inverosimile di ciò che può farla decollare, riassunta nell’energia contenuti in quei bidoni appesi al motociclo: e sono tanti perché tanta ne serve e tanta sono disposti ad utilizzarne.
I bidoni servono ad Hazoumè anche per farne delle maschere, lo fa dalla metà degli anni ’80, sin da giovanissimo, è nato da una famiglia cattolica che segue il culto degli antenati, lui è segnato dal Voodo. Questo duplice influsso crea le contraddizioni evocate dalle maschere in una personalità forte che si caricava di medaglie come gli spiritelli di Baj. Sono esposte tre maschere del 1992-94, “On/off” con scolpito un viso enigmatico, poi “Bob la conchiglia” sul giallo con una sorta di coppola nera e “Alì” sul verde con capelli alla “Presbitero” degli anni della nostra autarchia. Sempre materiale di recupero, si vede l’apertura per l’imbocco dei bidoni. Ma non sono maschere pirandelliane a coprire un volto, una realtà lontani dalla finzione: “Contrariamente alla maschere tradizionali il cui portatore può perdere la propria personalità – commenta Andrè Magnin – le maschere di Hazoumé esprimono l’esatta personalità del portatore che raffigurano”.
E siamo all’immagine ufficiale simbolo della mostra, un’opera recentissima, del 2008: il mondo tra le mani di Amani Bodo, il giovanissimo artista della Repubblica democratica del Congo nato nel 1988 a Kinshasa dove vive e lavora, che ha dato il titolo impegnativo “La riconciliazione è il bacio della morale” a un’opera esplicita ed enigmatica insieme. In un verde puntinato da vegetazione tropicale, l’albero della vita spunta da un globo planetario visibilmente abitato con l’Africa in primo piano, tenuto tra due mani con delle dita anch’esse abitate da facce di ogni età e tipologia umana. Qualcosa di più si capisce dall’opera che lo precede, “Bisogna ripensare il mondo”, dove il globo non è ancora tenuto tra le mani, ma è come se si immettesse al suo interno materia cerebrale per infondervi intelligenza e razionalità facendone uscire armi, ammazzamenti, guerre. Sempre l’Africa in primo piano con la sua grande dose di cervello. Colpiscono per la forza espressiva e il significato che riescono a dare, lo ripetiamo, esplicito ed enigmatico, come si presta ad una doppia lettura l’azione che viene compiuta sul mondo così inerme ed esposto. Ma l’albero con le larghe foglie che spunta dal globo è rassicurante quant’altri mai.
I linguaggi più figurativi ed espressivi
Da Amani Bodo a Pierre Bodo il passo è breve, si tratta del padre, classe 1953, che presenta un “Sisma mondiale” dello stesso 2008 nel quale non ci sono le mani né l’immissione del cervello, ma il globo sì, sempre con l’Africa in primo piano, dal quale partono cinque inquietanti missili verso il cielo trapunto di stelle, a sinistra alberi e una figura umana, a destra una figura bianca vicina e una città lontana, sotto due figure, maschile e femminile, i cui piedi si toccano, le cariatidi del mondo.
Le altre due opere dello stesso anno sono molto diverse, c’è “La donna africana, una opzione tra i frutti”, inserita nell’albero tra i suoi pomi appesi ai rami, c’è anche un cuore trafitto da un ramo, sembra l’albero della vita non quello di Adamo ed Eva. Dei visi si affacciano, piovono biglietti di banca, si avvicinano figure oniriche, un pesce e un aereo. Mentre il “Decollo dell’Africa” è reso da una atleta dalle forme prorompenti con il tronco e la testa soggetti a una trasformazione onirica. Nel suo programma, del resto, c’è “far condividere i miei sogni di un mondo migliore”.
Gli accostiamo in un certo senso, pur nelle differenze stilistiche, Chéri Chérin, suo conterraneo e quasi coetaneo, nato nel 1955, molto attivo nel contesto culturale di Kinshasa, dove vive e lavora, per il quale forma e contenuto sono un tutt’uno, e l’arte è milizia “il cui messaggio è veicolato attraverso i suoi dipinti”. Lo si vede dalle sue opere anch’esse del 2008: “I nuovi padroni del mondo” sembra un “murale”, con al centro un bieco prevaricatore e ai lati un mondo di lotte e di proteste, di figure e simboli; in “I partigiani” figure pensose di giovani, immerse nel verde strepitoso della vegetazione.
Gli stessi colori intensi, soltanto sull’azzurro, troviamo nell’altro conterraneo nato nel 1956, Chéri Samba, che vive e lavora a Kinshasa. Tali sono gli sfondi di “Adamo ed Eva” del 2007, grande quadro figurativo con qualche enigma nel ragazzo dallo strano copricapo che sembra voglia dipingere di scuro la Eva bianca per farla come Adamo, in un affollarsi di punti interrogativi; azzurro che torna negli altrettanto grandi “Amo i colori” del 2003 e “Attenti alla disobbedienza” del 2008, il primo con lo sfaldamento della forma dato dalle strisce di colore, il secondo con una qualche deformazione delle figure. Mentre “Il piccolo Kadogo” del 2004 sembra una denuncia con il soldato-bambino che si arrende.
Fa calare nella realtà più vicina, ben presente agli occhi del mondo, il keniano Richard Onyango, nato nel 1960 a Malindi dove vive e lavora, con il suo trittico sullo “Tsunami”, tre grandissime tele dipinte in acrilico, nel 2005, di 3,60 metri per 1,60, un vero proprio giudizio universale come drammaticità di un evento devastante, che tutto travolge sotto un’ondata di un verde intenso che si rovescia su persone e animali, villaggi e foreste, automobili e barche. C’è immediatezza e precisione nei particolari, al punto da poter sembrare a prima vista arte “naif”; le deformazioni non sono surrealismo, è una visione di impressionante intensità che resta negli occhi e nel cuore.
Vogliamo far seguire un artista dalla pittura radicalmente diversa, perché gli occhi stralunati che si moltiplicano ed escono dalle orbite sembrano esprimere la sgomento allucinato dinanzi allo tsunami. E’ il nostro accostamento del tutto personale e libero dei quattro recentissimi dipinti del 2009 di Pathy Tshindele, nato nella Repubblica democratica del Congo nel 1976 a Kinshasa dove vive e lavora; è impegnato con un gruppo di ribelli come lui contro le convenzioni dell’Accademia portandovi i relitti urbani e con dipinti così descritti da Magnin: “Riassumono al meglio la rivolta, la vita, la strada, la luce… la sua storia personale, quella del popolo e del mondo di cui egli si sente cittadino”. E non serve lo tzunami per ingrandire e moltiplicare a dismisura le orbite oculari, per creare immagini oniriche con carte da gioco, dadi, orbite doppie dilatate che esprimono terrore.
Le opere pittoriche seriali
Le forme di espressione pittorica seriale esposte si manifestano con modalità diverse. Abbiamo i video di Pascale Marthine Tayou, del Camerun, nato nel 1967 a Yaoundè dove vive e lavora. Si fa chiamare “viaggiatore” piuttosto che artista perché, a parte i suoi viaggi continui, crea un percorso nel quale vuole che lo spettatore lo segua, in un itinerario nel quale l’Africa sembra un’isola felice, con immagini ludiche e di bellezza, di luce e di sogno. Nella mostra ce ne sono sei prese da una serie di dieci video di “Snapshootafrica” del 2003-2004, con visioni panoramiche di città industriose e primi piani, in auto e motociclette affollate, tutte scene di vita gioiosa.
Diversissima la serialità dei fumetti, ma con immagini pur esse figurative. Particolarmente espressive quelle di Joshua Okoromodeke, nato nel 1977 in Nigeria a Lagos, dove vive e lavora. Disegna “comics” africani dalle forme esplosive e dai contenuti e valori vicini ai grandi eroi dei fumetti tradizionali, come l’ Uomo mascherato “giustiziere della giungla” prima e della “giungla delle metropoli” poi, impegnato nella lotta per la giustizia contro la delinquenza. Nella mostra ce ne sono sei del recentissimo album di fumetti di venti tavole del 2009, intitolato “Principi Kadija”.
Una serialità tutta particolare è quella di Frédéric Bruly Bouabré, nato in Costa d’Avorio “intorno al 1923”, dove vive e lavora ad Abidjan. E’ un personaggio singolare e straordinario, che nel 1948 ebbe un’illuminazione, da allora affronta gli sconfinati campi del sapere con un alfabeto di sua invenzione fatto di suoni che trascrivono tutte le lingue, e traducono il suo “pensiero universale”. Ne tiene traccia nella sua “Conoscenza del mondo”, migliaia di disegni che sono un’enciclopedia del sapere. A questi appartiene la serie di 204 disegni “Alta diplomazia”, esposti nella mostra, figurine con la mano protesa, dalla vita fasciata con la propria bandiera, realizzati nel 2005.
Le figure umane scompaiono completamente in due artisti molto diversi. Abu Bakarr Mansaray, nato in Sierra Leone nel 1970, dove vive e lavora a Freetown, è appassionato di macchinari automatici, meccanici ed elettrici che realizza pur nelle difficili condizioni del suo paese, lacerato dalla guerra civile, anche con forme strane e funzionamento altrettanto strano. Inoltre si impegna in disegni complicati con i quali progetta apparecchi avveniristici come l’ “Estintore di Inferno” e il “Telefono nucleare scoperto all’Inferno”. Tre di questi sono in mostra, “Uomo digitale”, “Al di là della creazione” e “Rivelatore del male” del 2004 e 2005, dove la meccanica è unita alla fantasia in un mix surreale”, che invita a seguirne percorsi e snodi meccanici così improbabili pur se precisi.
Verso l’astrazione più assoluta le due opere del 1991-92 “Senza titolo” di Esther Mahlangu, nata nel 1935 in Sudafrica dove vive e lavora a Mabhoko; realizza pitture murali che la tradizione affida solo a mani femminili, disegnando a mano libera figure geometriche come le due in mostra. E le tre opere a matita e penna di Gedewon, nato nel 1939 e vissuto in Etiopia, dove è deceduto nel 1995: sono figurazioni grafiche in cui trasferiva le sensazioni del malato per allontanare lo spirito maligno: si intitolano “L’amore” del 1990 e “Talismano” e “Dartahal” del 1995, l’anno della morte, sono sottilissimi ricavi a sfondo pastello, come arabeschi molto elaborati, quasi dei labirinti sottili.
Con queste immagini si conclude la prima parte della nostra visita, quella dedicata alle opere pittoriche della Collezione Pigozzi. Di pittura ce ne sarà ancora, con le opere selezionate nei singoli paesi appositamente per la mostra, ma prima ci saranno le altre espressioni artistiche della stessa Collezione, soprattutto le sculture e altre forme d’arte dove incontreremo i materiali più svariati. Diamo appuntamento ai lettori, torneremo prestissimo con la continuazione e fine di quella che va vista come una storia, culturale e umana: di artisti di talento, che operano in un continente vivo e vitale.
1 Commento
- Francesco Ascani
Postato gennaio 20, 2010 alle 10:28 PM
Mostra d’arte africana, quale “ponte con l’Europa nel segno della civiltà in nome dell’arte e della cultura”.
Dopo questa sintetizzazione, una serie di giudizi tecnici, fatti propri dall’autore, seguita dalla descrizione degli artisti e delle opere, ad iniziare dai due pilastri (Hozoumè e Bodo) e poi a seguire tanti altri: descrizione che io dico “alla Romano Maria Levante” perché credo non esista parola che possa racchiudere degnamente le sue capacità.
Dopo l’approfondimento sulle opere pittoriche seriali e su quelle di astrazione più assoluta, è dato l’appuntamento ai lettori “con la continuazione e fine di quella che va vista come una storia, culturale e umana: di artisti di talento, che operano in un continente vivo e vitale”.
Annotato quanto sopra, al solo fine di focalizzare i vari concetti sviluppati per poterli meglio condividere con amici e conoscenti, come la Redazione della Rivista consiglia, cosa che ho fatto, e ritenendo che la possibilità di commento, pure consentita dalla Redazione, per singolarità del dott. Levante non possa essere utilizzata, manifesto solo qualche considerazione personale.
Poiché la possibilità di commento è data a tutti e giustamente, senza cioè richiedere particolari titoli culturali, appare chiaro che il lettore deve evidenziare, se lo ritiene, le sensazioni avute ed i sentimenti generati dalla lettura dello scritto.
Continuo a ritenere il dott. Levante assolutamente originale, brillante negli approfondimenti, vivace nelle descrizioni e soprattutto instancabile, perché proprio non riesco a comprendere come faccia a scrivere tanto e nel modo che lo distingue.
Dal 5 gennaio ad oggi ha trattato di ben sei mostre, di cui una in due parti, evidentemente elabora anche di notte, preso da una passione crescente, che trasmette ai lettori che lo seguono come possono, senza avere la sua forza, ma gustando i suoi approfondimenti e commenti “vivi e vitali”.
Aggiungo solo un grazie personale e quello dei tanti che non lo manifestano, ma che, come me, lo apprezzano per il servizio culturale e sociale che rende nel diffondere “conoscenza”.