di Romano Maria Levante
Fino al 5 gennaio 2009 una favola natalizia per piccoli e grandi, con il “noir” nordico rischiarato dal bianco della neve.
“Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo”. Con questo canto di Natale nella mente e nel cuore siamo andati al Valle dove non il Re del cielo, ma la Regina delle nevi era in scena. In comune il freddo e il gelo; quest’ultimo con un ruolo di protagonista nello spettacolo. Non solo perché si svolge nell’ambiente nordico sotto una fitta nevicata, ma perché è il gelo a far prendere una piega angosciosa, per poi sciogliersi nel finale romantico e sentimentale.
La favola per piccoli e grandi
Prima di raccontare questa favola di Natale e il modo in cui è stata proposta, confessiamo che ci incuriosiva toccare con mano i meriti della compagnia che è stata in grado di far approdare lo spettacolo per ragazzi sul palcoscenico più ambito: in un teatro storico e nelle festività natalizie.
I meriti del Teatro Kismet OperA di Bari sono resi evidenti dal livello artistico degli attori e dallo spirito innovativo e di ricerca. Quasi trent’anni di vita artistica, il gruppo ha avuto il “felice destino” (Kismet in sanscrito) di aprirsi ai linguaggi del teatro contemporaneo senza rinunciare alle radici nella cultura popolare.
Alla continua ricerca si è unito lo sforzo di renderne visibili i risultati soprattutto nel filone narrativo: quindi centro di produzione teatrale e insieme “luogo privilegiato di cooperazione teatrale a livello internazionale”, punto d’incontro con altre realtà urbane ed esterne. Ha partecipato nel maggio 2009 con “Furie de sanghe” alla manifestazione dei “Teatri del tempo presente” promossa dall’Eti per stimolare la creatività giovanile e il linguaggio universale dell’arte, presentando una “furente compagnia di ventenni”.
E’ giovane Teresa Ludovico, regista e autrice della trasposizione di Andersen, e si trova nella piena maturità artistica: ha creato qualcosa che va oltre i canonici riferimenti alle classi di età, trovando motivi di interesse trasversali tra il pubblico.
Confessiamo inoltre che eravamo pronti a criticare la favola “nordica” per la tendenza a generare paura con storie “noir”, a partire da Cappuccetto rosso e il lupo fino a Biancaneve e la strega, in un percorso narrativo dove l’“agnitio” finale, che porta al trionfo dei sentimenti, deve passare sotto le forche caudine dell’angoscia. Ma non sono così anche le “favole” per grandi, almeno quelle che culminano nell’“arrivano i nostri” dopo vicende spesso terribili di assedi, lutti e sparatorie?
Un filo comune c’è in tutto questo, lo stesso che lega le vicende reali della vita. La lotta per superare le avversità, il lieto fine che quando arriva è sempre il coronamento di un percorso accidentato fatto di rinunce e di sofferenze che però non riescono a fiaccare la capacità di lottare.
Ed allora le immagini e i suoni, il linguaggio delle parole e dei corpi, il dinamismo e le pause, la scenografia e il recitato, sono altrettanti terreni di ricerca di come si esprimono, anche in una favola come questa, gli eterni dilemmi dell’umanità, i contrasti tra forze opposte: il bene e il male in primo luogo, poi durezza e tenerezza, arroganza e vulnerabilità, freddezza e sentimento.
I ragazzi protagonisti vengono a trovarsi immersi in una storia più grande di loro, perché coinvolge questi valori superiori, ma di cui sono i protagonisti ideali con la loro innocenza e il loro entusiasmo.
E come in tutte le favole iniziano subito i guai. Le grandi nevicate fanno generalmente la gioia dei ragazzi, possono giocare a tirarsi le palle di neve e sbizzarrirsi a fare pupazzi di ogni foggia.
In questa storia accade ben altro. Scende dall’alto la bellissima regina di ghiaccio, porta via con sé un bambino inerme, Kay, ed arriva l’immancabile sortilegio: baciandolo gli ha trasmesso il suo gelo, in bocca e nel cuore; il bambino sembra morto, come la bella addormentata. Con il paradosso che qui è stato un bacio a renderlo rigido e immoto, là era stato un bacio a risvegliarla: il “noir” delle favole nordiche appare addirittura ancora più cupo, il bambino sembra morto.
Ma c’è ugualmente un principe azzurro che si mette in marcia, anzi un principessa, di cuore non di lignaggio, è la sua amichetta Gerda, non si rassegna e si affanna a cercarlo. Le stagioni miti si sono sostituite all’inverno, però il gelo continua a irrigidire il corpo e l’anima di Kay.
Il “noir” si stempera in questa ricerca appassionata che mette in contatto la bambina con ambienti, questi sì, di favola: un giardino incantato e un castello, un covo di briganti e delle renne servizievoli che la portano dov’è l’amico da lei ricercato. L’ambiente con le sue distrazioni può far dimenticare la cupezza di fondo, ma questa torna quando l’approdo della lunga ricerca si rivela il regno dei ghiacci: dove il gelo domina tutto, non solo il cuore di Kay raggelato dal bacio della Regina.
“Amor omnia vincit” la conclusione, basta il pianto d’amore di Gerda per sciogliere il cuore di Kay liberato dalla mostra del gelo da una lacrima che gli scivola dentro. E’ come il bacio del principe azzurro alla bella addormentata, a parti rovesciate questa volta, e con l’innocenza più pura.
Che non si limita a questo miracolo, ne fa un altro, lo stesso di Pinocchio: Kay e Gerda si ritrovano cresciuti, come il burattino che diventa alla fine un vero bambino, due trasformazioni insieme malinconiche e festose.
Perché segnano il passaggio a un’altra fase della vita lasciando la fase eroica, per così dire, che ha alimentato le tante vicende alle quali ci siamo affezionati. Era eroico Pinocchio, piccolo e inerme burattino in un mondo di mangiafuochi, di gatti e di volpi e assassini in agguato; è eroica la piccola Gerda nel partire alla ricerca dell’amichetto senza aver paura tra inenarrabili vicissitudini.
I significati profondi di una “sacra rappresentazione”
Abbiamo così raccontato la favola di Hans Christian Andersen come si racconta ai bambini. Ma come tutte le favole ha quei significati profondi, si direbbe pedagogici, che la rendono adatta anche e forse ancora di più ai grandi, disvelando debolezze e miserie, slanci e abbandoni, valori e cadute.
Crediamo che a questi aspetti abbia voluto fare riferimento Teresa Ludovico nella sua riduzione e soprattutto nell’allestimento sotto la propria guida di regista, con le belle scene e luci di Vincent Longuemare, i costumi di Ruth Keller e le coreografie di Giorgio Rossi; non è un “bene gli altri”, il loro apporto è fondamentale per la riuscita di uno spettacolo dove tutto si tiene, ripetiamo: il recitativo e il movimento, le parole e i corpi, le scene e le luci, le danze e le acrobazie.
Sono i ricchi ingredienti che rendono vivo lo spettacolo dovendo chiamare a raccolta tutte le risorse dell’arte scenica per esprimere motivi e momenti di grande intensità.
Si pensi ai valori e sentimenti prima evocati, e anche al più sottile filo conduttore dell’intera storia, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza che l’autrice e regista Teresa Ludovico definisce “un tempo della vita in cui si è molto, troppo vulnerabili, ci si ritrova diversi, a volte arroganti, con lo sguardo duro”.
E il bacio a Kay della Regina delle nevi è una metafora di tutto quello che a un certo punto della vita “ruba lo stupore dell’infanzia, e allora la razionalità domina l’esistenza”.
Raccontare come tutto questo sia stato espresso nello spettacolo non è agevole, perchè pur dipanandosi in quadri distinti non ha avuto un’impostazione didascalica che facesse attribuire i singoli momenti a vere e proprie metafore.
E’ l’insieme che ha concorso a una sorta di “sacra rappresentazione” piuttosto che di una favola in senso stretto, anche se di quest’ultima ci sono tanti elementi: i diavoli e i lapponi nani, la renna e le cornacchie fidanzate, gli ortaggi e i fiori che parlano, i principi che volteggiano.
In un uso dello spazio che ha un inizio spettacolare con i lunghi trampoli dentro un mantello fatto di specchi riflettenti alla Bacon; prosegue con l’arrivo dall’alto della Regina delle nevi, poi con i principi sospesi nell’aria: sembrerebbero simulacri di un “deus ex machina” che agisse alla rovescia, e la Regina lo fa subito, non per risolvere ma per complicare.
Una “sacra rappresentazione” per la sua atmosfera e il taglio scenico rigoroso, nonché il dinamismo esasperato in orizzontale dei danzatori e in verticale degli acrobati, che si può arrestare in una fissità ieratica o dilatarsi in larghi movimenti. E poi gli originali effetti scenici dati dai grandi drappi verticali che accompagnano i passaggi più spettacolari.
Con una raffinatezza ed eleganza quasi orientale, riflesso del mondo giapponese che l’autrice regista ha visto e vissuto da vicino; del resto questa storia così delicata e allusiva è nata in Giappone.
Infine le musiche, nel sapiente dosaggio che fa percepire appena le note di “lucean le stelle” dell’intramontabile “Tosca”, come quelle della “Carmen”. Si sente il “volo del calabrone” a sottolineare momenti e stati d’animo particolari, ma soprattutto va considerato il tono generale, veramente intenso nelle sue espressioni vocali e strumentali, gestuali e figurative.
Il messaggio della Regina delle nevi
Così Teresa Ludovico ha reso quella che chiama la “ricchezza simbolica di questa fiaba”. Non è soltanto evocativa e, diremmo, contemplativa; c’è un messaggio, un’esortazione che proviene in modo subliminale dai sette artisti mentre passano dal ballo all’acrobazia, dalla valorizzazione degli elementi orizzontali a quelli verticali, dalle voci dei personaggi anche infantili a quelle austere e misteriose di fondo. In uno straordinario virtuosismo espressivo di danza e recitazione.
Il messaggio lo diremo ora, giunti al momento di concludere. Ci fa capire perché “La Regina delle nevi” non è uno spettacolo riservato a bambini o ragazzi e neppure solo a famiglie con gli adulti nel mero ruolo di accompagnatori dei minori. E’ un messaggio pedagogico per tutti, e soprattutto per il mondo degli adulti. Lo fa capire chiaramente Teresa Ludovico e dobbiamo crederle: “La fiaba ci incoraggia ad andare là, dove qualcuno è prigioniero delle nevi, e ad uscirne insieme”. Potranno farlo tutti, piccoli e grandi, individualmente o meno. A qualunque livello e in qualunque modo.
Perché – lo ripetiamo vedendolo in filigrana nella “sacra rappresentazione” e ritrovandolo come reazione alla convulsa attualità di questi giorni inquieti – sempre e dovunque “amor omnia vincit”.