di Romano Maria Levante
Nuovo approfondimento sulla mostra “Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”. Questa volta abbiamo visitato per voi le opere esposte. La mostra terminerà domani.
Una caratteristica comune si nota nelle opere di ispirazione “apocrifa” esposte a Illegio, che le differenzia dall’iconografia canonica, cioè dalla produzione celebrativa e rituale: la colorazione e i contrasti, le espressioni e le figurazioni sono molto più intense, per lo più manca l’oro celebrativo come lo spirito contemplativo, sostituiti da un realismo che colpisce per la sua carica evocativa.
All’irritualità della fonte apocrifa corrisponde una soluzione figurativa che passa per la libera espressione dei sentimenti e per una costruzione delle immagini lontana da ogni convenzione. Rompendo la prima convenzione, quella del riferimento alle fonti canoniche, non potevano permanere le altre legate ai modi controllati e, qualche volta, oleografici, di rappresentare il sacro. Abbiamo avuto l’impressione che non dipende solo dal diverso stile pittorico dei molteplici artisti appartenenti a un arco temporale di almeno tre secoli, ma dall’approccio e dall’atteggiamento.
Questo dà un valore tutto particolare alle settantacinque opere esposte ispirate agli Apocrifi e un merito aggiuntivo all’iniziativa di radunarle nella grande mostra tematica di Illegio: dove oltre all’interesse sul piano storico legato anche a un loro “sdoganamento”, se così si può dire, dopo condanne secolari – che abbiamo cercato in parte di soddisfare nel servizio precedente – troviamo altrettanto interesse sul piano artistico nell’impronta comune che si nota nei secoli al di là degli stili e dei cicli pittorici: una forza espressiva libera da ogni costrizione.
Nascita di Gesù e Fuga in Egitto
Come sono rappresentati, dunque, temi familiari nelle celebrazioni della Natività, anche se non canonici come il bue e l’asinello e i re Magi? La curiosità c’è, anche se manca il brivido del proibito che ci si attende dall’Apocrifo; c’è il fascino dell’inedito, del non visibile nell’iconografia corrente.
La prima sorpresa all’inizio della Mostra è incontrare dei legni dipinti e intagliati di grande preziosità. Tali sono la “Natività di Gesù” e l’“Adorazione dei Magi”, di Landshut, del 1485, viene da Linz, con un oro diverso da quello rituale, che forma riflessi luminosi e pieghe accentuate, e colora i lunghissimi capelli della Madonna; i Re Magi, con le vesti d’oro, entrano nella scena, quasi al posto di San Giuseppe, mentre la Madonna ha il viso assorto. E’ invece monocromatica di un marrone opaco l’“Adorazione”di un intagliatore svevo del 1520-25, da Bressanone; di colore simile i “Due Magi, da una Epifania”, di Erhart, in legno di tiglio, del 1480-90, da Linz.
Dell’ultimo decennio del XV secolo l’altorilievo dei fratelli De Lupi “Natività e corteo dei Magi”, da Venezia, come se venissero dall’alto e fanno capolino il bue e l’asinello, mentre nell’“Altare dei Re Magi”, di Simone di Tesido, del 1496, da Bruxelles, ritroviamo le vesti dorate dalle pieghe ombrate e i Magi addirittura dietro la Madonna.
L’unico dipinto finora è l’olio su tavola di Mazzolino, “Adorazione dei Magi” del 1522, dalla Galleria Borghese di Roma, portano i doni e il Bambino si sporge con gesto spontaneo verso uno di loro inginocchiato mentre la madre, un viso raffaellesco, alza la mano destra dietro di lui.
Taddeo di Bartolo è l’autore di due dipinti a tempera su tavola “L’Annuncio ai pastori e adorazione” e “L’Adorazione dei Magi”, del 1409, della Pinacoteca di Siena, dove spiccano i musi accostati di bue e asinello per riscaldare il neonato con il loro fiato, sotto una grotta scura sovrastata da un albero dietro al gruppo della Madonna con il Bambino e San Giuseppe, al quale si aggiungono due pastori in ginocchio nel primo, e nel secondo il corteo dei Magi, uno dei quali si prostra per baciare i piedi al piccolo Gesù.
La fuga in Egitto è nel secondo settore della Mostra, c’è la tavola ottagonale che ha tale titolo, del Maestro della Predella, del 1370-75, dalla Pinacoteca Vaticana, un monte stilizzato e un edificio, e la Madonna con Bambino sul quadrupede, dietro San Giuseppe; in un’altra parte della predella “L’annuncio ai santi Gioacchino e Anna”, con monte, bosco e paese stilizzati.
Altri due oli su tavola rappresentano lo stesso evento, uno di Giovanni Busi detto il Cariani, del 1519, da Bergamo, con l’angelo che tiene le briglie al quadrupede su cui siede la Madonna con Bambino avvolta in un mantello celeste e cappuccio seguita da San Giuseppe; l’altro del Maestro del Pappagallo, un “Riposo nella Fuga in Egitto”, metà del XVI secolo, da Parigi, immagine serena di una Madonna dal bel viso con mantello rosso a forti pieghe, in un ambiente di cui è curata la prospettiva. Lo stesso si può dire per la “Madonna della palma”, di Bugiardini, 1520, da Firenze.
I due dipinti a olio su tela sono di Tintoretto e di Amalteo Pomponio. Il primo, forse una copia, del XVII secolo, viene dai depositi di Udine, una scena oscura con la Madonna in primo piano tra scorci e bagliori; il secondo, del 1565, da Pordenone, una Madonna col Bambino serena, quasi in trono sul quadrupede, e uno sfondo in cui è curata la prospettiva, con elementi naturali ed edifici.
La Sacra Famiglia e San Giuseppe
Uno dei più prestigiosi quadri sulla “Sacra Famiglia”, tra quelli esposti, è un olio su tavola dipinto dopo il 1529, della bottega di Andrea del Sarto, viene da Genova. Colpisce il dialogo tra ragazzi del Bambin Gesù e di San Giovannino; l’altro, della Kauffmann, del 1789, da Bergamo, mostra un’atmosfera serena in un ambiente naturale, qui i due ragazzi giocano con una pecora.
Raffigurazioni di vita domestica in quattro dipinti, di cui due dagli Uffizi di Firenze: la “Madonna del bucato” di Massari, anno 1620 e “La Madonna del cucito” di Trevisani, del 1690; gli altri due del Maestro Brissinese, “Sacra Famiglia in scena domestica”, del 1515, e di Haller, “Sacra Famiglia nella bottega di Giuseppe”, del 1770, ognuno impegnato nella propria attività, entrambi da Bressanone.
Sono immagini molto naturali con una Madonna giovanissima e gesti ampi e vistosi, soprattutto nel “cucito” di Trevisani e del maestro Brissinese, il filo è tenuto molto lungo dalla mano che ha l’ago. Per il “bucato”, nel lato destro c’è la Madonna con il Bambino cresciuto che la aiuta a prendere i panni dalla tinozza; nel lato sinistro San Giuseppe che li stende sul ramo orizzontale di un albero.
Dalla Sacra Famiglia, saltando un intero settore, passiamo al “capofamiglia”, il padre putativo di Cristo, San Giuseppe poco considerato dall’iconografia canonica e molto da quella apocrifa. Qui ne viene raffigurata la morte, o per essere aderenti ai titoli, il “Transito di San Giuseppe”.
Troviamo quattro oli su tela, realizzati per altrettante chiese, tra il 1730 e il 1750. Due sono più rituali: il grande dipinto di Ligari, m. 2,50 x 1,36 della chiesa di Albosaggia, Sondrio, con la religiosità della fede nella scena rischiarata da squarci di luce in ambiente oscuro, Cristo benedicente e la Madonna a mani giunte intorno al Santo sul letto a occhi chiusi e due grandi angeli sopra e a lato; la consolazione della fede nello sguardo della Madonna rivolto in alto con Cristo in preghiera a mani giunte, mentre il Santo si accascia e un angelo gli regge il bastone.
Altri due dipinti sono particolari per motivi opposti: quello di Grassi, del convento di Cavalese, Trento, esprime l’intimità con Gesù che benedice il Santo nel letto di morte e la Madonna in preghiera che lo scruta apprensiva, mentre un grande angelo domina la scena; quello di Paroli, dalla chiesa di Cassegliano, Gorizia, esprime l’apoteosi con il Santo ancora in vita che si rivolge a Cristo benedicente avendo dall’altro lato la Madonna, al centro di una complessa composizione molto spettacolare, su più piani e livelli, in una sinfonia di angeli con il soffio dello Spirito Santo, si vede anche uno strumento musicale.
In queste raffigurazioni di San Giuseppe c’è sempre la Madonna, che troviamo poi in tre dipinti dalle grandi figure con intense colorazioni. Due sono sul “Commiato di Cristo dalla Madre”, il più antico di Defendente Ferrari, con gli apostoli e le sante Anna ed Elisabetta, del 1525, da Firenze, un’immagine dolente che ricorda la passione nel Cristo e nella Madre dallo sguardo perso, anche se è ravvivata dal prezioso mantello verde dorato; l’altro di Manetti, del 1605, da Siena, molto sereno con in primo piano Cristo inginocchiato e la Madonna seduta che ne accoglie l’omaggio, la luce si posa sui mantelli e solo le due donne in secondo piano mostrano apprensione. Nel terzo “Cristo riceve la benedizione della Vergine”, del Monogrammista RG, del XVII secolo, da Montecarlo, inconsueto rovesciamento dei ruoli, un giovane Cristo in ginocchio davanti alla Madre benedicente e quasi ammonitrice, l’ortodossia non li avrebbe mai raffigurati così, gli Apocrifi sì.
Storie della Madonna con Sant’Anna
Queste immagini ci introducono alle storie della Madonna, alla quale è dedicato il terzo settore della Mostra nel quale vi sono anche quattro sculture lignee di “Sant’Anna Metterza”, tre policrome e una monocromatica; andiamo subito a cercarle in modo da dedicarci poi alla madre di Cristo che, comunque, è rappresentata con Sant’Anna in quasi tutte le sue raffigurazioni.
Di quelle policrome, una più arcaica, di uno scultore della Normandia, del XIV secolo, viene da una collezione privata di Bergamo, con il Bambino e una piccola Madonna davanti a Sant’Anna quasi in un marsupio; le altre due da Linz, più elaborate nelle fattezze e nel panneggio, la prima del Maestro SW, 1490-1500, con solo Sant’Anna seduta che guarda avanti, la seconda della bottega Lienhart Krapfenbacher, 1510-20, che sostiene Madonna e Bambino con lo sguardo contemplativo verso l’alto, una composizione espressiva e coinvolgente.
La scultura monocromatica, pressoché contemporanea e anch’essa proveniente da Linz, di un Maestro austriaco, raffigura Sant’Anna statuaria con la Madonna in piedi e il Bambino di fronte, composizione statica alla base della quale spuntano angeli distesi a terra che reggono il bordo del manto quasi come cariatidi, gli unici che appaiono nell’intero gruppo dedicato a Sant’Anna.
C’è anche una “Madonna con Bambino e Sant’Anna”, un olio su tavola del 1510-20, di Caprotti detto Salai, che ricorda il famoso dipinto del quale, nella Mostra di Roma “La mente di Leonardo”, è stato analizzato il polimorfismo anche con simulazioni multimediali, e ne abbiamo dato conto nella nostra visita alla mostra; del resto Salai è stato l’allievo prediletto a cui Leonardo lasciò i dipinti, insieme all’altro allievo preferito, Melzi, al quale lasciò i manoscritti.
Ed ora, finalmente, i numerosi dipinti sulla Nascita di Maria Vergine, su tela, su tavola e nelle preziose icone che ci portano nella Russia cristiana e trasmettono nell’intimo il senso del sacro con i colori forti e le immagini ieratiche e assorte, riflesso di un’ispirazione ricca di motivi interiori.
Tre interpretazioni molto diverse, la “Natività della Vergine Maria” di un Maestro ungherese, del 1500-10, da Budapest, la “Natività di Maria” di Pozzo, del 1672, da Lemna, Como, e la “Nascita della Madonna” di Giaquinto, del 1753, dagli Uffizi.
La prima, del Maestro ungherese, ha una prospettiva molto particolare, in primo piano la tinozza dove viene lavata la neonata, già con manto e velo, poi il letto con la puerpera che prende la ciotola, a destra un’architettura con due figure lontane, colori pastello, espressioni assorte.
La seconda, di Pozzo, è invece una scena classicheggiante, quasi arcadica, ripresa da lontano su uno sfondo scuro con angeli-putti sospesi in aria, si svolge nella zona centrale rischiarata dalla luce in un esterno con un portico e delle colonne.
La terza, di Giaquinto, è una scena molto realistica negli elementi e nelle espressioni in primissimo piano, in vista anche un catino dove una donna dal viso aggrondato versa acqua da una brocca con un grande fazzoletto bianco colpito dalla luce che le copre la testa e le spalle ponendola al centro della rappresentazione, si vede la neonata appena partorita, questa volta nuda, presa in braccio per essere posta in una stoffa celeste.
L’“Educazione della Vergine” di Jouvenet, del 1700, dagli Uffizi, e l’opera dallo stesso titolo di ambito veneto, del XVIII secolo, da Tolmezzo, Udine, sono più omogenee ma con delle differenze nell’ambientazione e nelle espressioni.
Nella prima ci si trova in un interno con l’educatrice intenta ad indicare le parole di un cartiglio alla Madonna bambina in ginocchio a mani giunte e l’espressione serena; nella seconda in un esterno vicino a una colonna, l’educatrice ha il viso aggrondato, la bambina legge tutta seria in un’atmosfera scura con squarci di luce.
La vita pubblica è rappresentata nella “Presentazione di Maria al Tempio” del Maestro di Salisburgo, del 1520, da Linz e nello “Sposalizio della Vergine” di Cebej, del 1773, dalla Slovenia. Sono molto diverse, la presentazione al tempio è una pittura su tavola dall’inquadratura molto originale, una stretta scalinata dove la bambina dai lunghi capelli sale attesa in alto da notabili e vigilata dal basso da figure attente, le due in piedi sono forse i genitori; lo sposalizio è un grande dipinto ad olio su tela, di m 2,19 x 1,30, con tre figure in primo piano, il sacerdote dietro e avanti i due sposi con la Vergine che tende la mano a Giuseppe il quale protende la sua per metterle l’anello, sopra e davanti gli angeli-putti e ai lati immagini sfumate dei presenti a una normale scena di matrimonio, che però ha il pregio di essere una rappresentazione unica, inedita.
Siamo così giunti a un momento emozionante, forse quello culminante, le icone russe sulla madre di Cristo con le loro tinte forti su fondo oro. Ne abbiamo due con la “Natività della Vergine”, una di un Atelier del Volga, seconda metà del XVI secolo, viene da Mosca, suggestiva composizione in piena armonia tra colori intensi e contrasti di figure collocate in scomparti diversi; l’altra di un Atelier della Russia centrale, fine XVIII- inizi XIX secolo, viene da Vicenza, con due baldacchini uno dorato, l’altro scuro, e delle figure al loro interno ed altre al di fuori.
Ci sono poi le icone da un Atelier russo, la bellissima “Annunciazione”, del XIX secolo, anch’essa da Vicenza, una tempera con le due figure dell’angelo e della Madonna ritte e ieratiche, nelle loro grandi aureole d’oro, con Maria che tesse. Altrettanto straordinarie quelle sulla “Vita della Vergine”, entrambe da Mosca, la prima cosiddetta “Odigitria”, XV-XVI secolo, la tipica Madonna con Bambino da icona al centro e 18 miniature ai quattro lati, intense scene di vita; la seconda, di un secolo successiva, reca al centro la “Dormizione della madre di Dio” con molte figure che ne sorreggono il corpo e angeli in volo e ai quattro lati 25 miniature colorate che ne ripercorrono la vita.
La “Dormizione” ci porta alle altre raffigurazioni della “Morte della Vergine”, la Mostra ne contiene alcune, e altre due sono riservate alla sua “Assunzione”. Ritroviamo nel bassorilievo policromo l’arte di Landshut, del 1485, da Linz, con il caratteristico mantello a riflessi dorati sulle pieghe marcate, il rilievo dà plasticità a una immagine di dolore; molto diverso per materiali e fattura il bassorilievo di St. Veit an der Glan, del 1500-10, dalla Carinzia, con le statue lignee che spiccano intorno alla Madonna sofferente. Contemporaneo il “Transito della Vergine”, della cerchia del maestro di Kaposztafalva, da Linz, policromia in legno di tiglio con la Madonna che soffre in ginocchio davanti a un leggio e vicino figure addolorate con aureola. Figure di dolore non di morte.
Le rappresentazioni più tragiche sono quelle della “Morte di Maria con annuncio e Assunzione” del Maestro bolzanino, del 1598, collezione privata altoatesina, e la “Sepoltura di Maria” di ignoto, del 1800, da Bressanone. In entrambe c’è il corpo divenuto cadavere, mentre nelle altre non veniva rappresentata la morte ma l’agonia: nella prima il corpo è sorretto tra un affollarsi colorato di gente con sullo sfondo l’Annunciazione a sinistra e l’Assunzione a destra, un’ambientazione consolatoria; nella seconda, invece, lo sfondo è nero con due squarci dai quali si affacciano gli angeli, e alcune persone e prelati reggono il corpo nell’abbandono della morte. Ma c’è subito l’“Assunzione della Vergine” di Grassi, del 1744, da Udine, a portare la Madonna nella gloria dei cieli con gli angeli che la sospingono in alto e la circondano su uno sfondo luminoso.
Si conclude con l’immagine realistica della morte anche il ciclo di incisioni di Durer, del 1504, dall’Istituto per la grafica di Roma, con la Madonna distesa senza vita sotto un baldacchino circondata dai fedeli; altre incisioni riguardano la vita di Maria, l’apparizione dell’angelo a Gioacchino e il suo incontro con Anna alla Porta Santa, lo sposalizio della Vergine e la fuga in Egitto. Sono incisioni xilografiche di grande accuratezza e precisione, degne del grande Durer.
Passione di Cristo e Resurrezione
La parte estrema della vita e della storia di Cristo è stata molto frequentata dagli Apocrifi per la drammaticità dell’evento e la concitazione delle vicende che lo hanno accompagnato. Torniamo al secondo settore della Mostra e vi troviamo una galleria di immagini.
Come inizio, i due piccoli oli su tavola di Simon de Chalors, del 1543, provenienti dalla Galleria Borghese di Roma, l’ “Ecce Homo” e “L’Addolorata”, una drammaticità pensosa e contenuta su fondo nero.
Vediamo poi due opere molto particolari che si distaccano da tutte le altre: “La discesa di Cristo nel Limbo”, di Huys, del 1547-77, da Parigi, una composizione inquietante, con un brulicare di figure concitate su più livelli tra figurazioni surreali e vampate rosse; e “La discesa agli Inferi, con ciclo della Passione” di Kostroma, fine secolo XVII, da Mosca, un’icona dal consueto fondo dorato, le storie nei sedici comparti sui bordi e nella zona centrale l’ulteriore illustrazione con immagini intense e colorate tra macchie scure da decifrare in un insieme composto e ordinato.
Dall’allucinazione e dall’enigma della discesa nel profondo, al trionfo in cielo della Resurrezione. Ci sono quattro dipinti più un quinto che chiude in bellezza questo momento di gloria cristiana.
I primi due, di Basaiti, del 1520-30, da Bergamo, e di Amalteo, del 1546, da San Vito al Tagliamento, mostrano Cristo sopra al sepolcro in due pose diverse, statico o nello slancio, con i soldati tramortiti, secondo la tradizione apocrifa non canonizzata. Gli altri due, di Fisher, del 1791, da Budapest, e di Loth, del 1687, da Firenze, lo raffigurano il primo ugualmente nello slancio che tramortisce con un grande angelo a reggere la lastra sepolcrale, il secondo librato nella gloria del cielo sopra un magma oscuro nel quale si dibattono soldati sanguinanti e atterriti, immagine quasi da girone infernale.
La migliore conclusione, come tema e livello dell’artista, si trova nel dipinto “Cristo risorto appare alla Vergine”, del 1630, da Cento, Bologna, dove lo scambio di sguardi teneri tra lui e la Madre fa dimenticare la potenza soprannaturale della Resurrezione per riportarci ai valori umani.
Ed è bello che questo sia venuto dagli Apocrifi, i quali hanno dimostrato con le opere esposte nella Mostra di non andare alla ricerca di effetti dirompenti o di storie dissacranti. Ma di voler aggiungere il loro contributo di testimonianza e memoria per una rappresentazione quanto mai devota della storia sacra.