di Romano Maria Levante
Si conclude la visita alla galleria Borghese ai dipinti di Caravaggio e di Bacon esposti fino al 24 gennaio 2010 con le loro concezioni, così diverse ma anche parallele, lontane quattro secoli, di spazio, luci e ombre, corporeità. Il finale con i dipinti di Bacon: teste, corpi, e omaggi agli amici.
Un salto di quattro secoli, che si riducono a pochi metri nelle splendide sale della Galleria Borghese e dal mondo caravaggesco si passa al mondo baconiano. Un profondo tormento esistenziale anche in questo autore così lontano nel tempo e diverso nello stile, ma vicino nella condizione umana. Abbiamo visto nella preparazione alla mostra i profili paralleli attraverso i quali si possono leggere le loro opere radicalmente dissimili, che più diverse non potrebbero essere, e apprezzarne gli aspetti peculiari: è la magia dell’arte che fa cogliere in siderali lontananze un denominatore comune.
La testa e il corpo negli studi di ritratto di Bacon
La corporeità esasperata di Bacon può essere analizzata, nelle opere esposte, partendo dalle teste. E non si può non iniziare dallo “Studio per ritratto III”, viene da una Collezione privata, alla singolarità del titolo, peraltro a lui consueto, unisce la genesi tutta particolare. Siamo nel 1955, l’anno prima è stato in Italia, a Ostia e a Roma, non a Venezia nonostante sia in mostra alla Biennale con Lucian Freud; l’anno successivo andrà a Tangeri per visitare il compagno Peter Lacy. Il musicista Gerard Schurmann gli chiede di ispirarsi al calco del poeta Blake realizzato nel 1823 mentre era in vita, per la copertina della raccolta di musiche ispirate alle sue poesie; e Bacon, che le apprezzava, esegue lo studio dopo avere visto il calco e soprattutto le fotografie, che preferiva all’immagine reale nel suo lavoro. Quello esposto è il terzo di sette studi, una figura spettrale realizzata sulla tela grezza con pochi tratti, occhi chiusi, naso definito dall’ombra, espressione ieratica, il genio nell’eternità; gli altri, non in mostra, hanno altre particolarità, ad esempio lo “Studio per ritratto II” ha il lato sinistro, quello più in vista, segnato con un taglio nella guancia e l’occhio ancora più chiuso.
Molto diversa la “Testa VI”, realizzata a quarant’anni, nel 1949, viene da Londra, Southbank Centre, Art Council Collection. L’anno prima Bacon aveva venduto una sua opera al Museo d’arte moderna di New York, non ha ancora incontrato il critico Sylvester, che lo intervisterà molte volte facendolo aprire quasi come in sedute psicanalitiche. Non è solo una testa, sebbene si intitoli così, c’è anche il busto con la mantellina violetta di papa Innocenzo X. Ha messo il busto per dare una base importante alla testa, perché questa era ritenuta fondamentale: l’urlo della balia ferita nella “Corazzata Potemkin” il celeberrimo film di Ejzenstejn che lo colpì molto, riteneva l’urlo della balia insuperabile e insuperato anche da lui stesso; a quell’immagine si ispira, il viso è tutto bocca, un forno nero che inghiotte i lineamenti. Ancora otto anni dopo, nel 1957, farà un dipinto intitolato “Studio della balia della Corazzata Potemkin”, un’immagine agghiacciante, se l’avesse vista Paolo Villaggio non si sarebbe sentito di dare al film cult l’esilarante definizione di “boiata pazzesca”, satira ben indovinata la sua di certi intellettuali intrisi di ideologia che ostentavano i loro osanna.
Ci sono poi “Tre studi per un autoritratto”, da una Collezione privata, del 1980: lui ha compiuto settant’anni, la sua mostra parigina di tre anni prima ha avuto successo. E’ un soggetto che da vent’anni gli è consueto, la testa anche in trittico e la propria immagine. Diceva “la mia faccia la detesto, ma continuo a dipingerla solo perché non ho altre persone da ritrarre”, i suoi amici non c’erano più; poi, anche se usava le fotografie, “talvolta, mentre si dipinge, si ha anche bisogno di vedere la persona”, e nulla di più facile della propria persona anche se definiva il suo viso “un vecchio faccione grasso”. Gli dava la resa migliore perché lo conosceva, eccome, per averlo analizzato allo specchio e rivisto infinite volte nelle fotografie che, perfino nell’autoritratto, restavano la fonte primaria; perciò riusciva a scomporre e ricomporre il proprio volto con facilità. Di certo i tre esposti sono veri studi di scomposizione e ricomposizione quasi anatomica fatta di luce e colore, con una lente deformante che in realtà era per lui la rappresentazione vera della realtà nascosta. Ce ne sono altri, ma riguardano persone amate o stimate, ne parleremo più avanti.
Adesso è il momento di passare dalla testa al corpo, la corporeità sentita da Bacon parte da lontano, addirittura da Michelangelo. Torniamo al 1949, realizza “Studio del corpo umano”, e l’anno successivo il “Dipinto” esposto in mostra proveniente da Leeds, Museums & Galleries: rappresenta in un certo senso il movimento della figura rappresentata l’anno precedente. Il moto risulta anche in uno sdoppiamento, quasi che un’altra figura maschile si affiancasse alla prima femminile; qualcuno ha potuto vederci un’allusione all’ambiguità sessuale tanto è indefinita e nel contempo percepibile immediatamente. La figura è michelangiolesca, e lo è in modo ancora più evidente quella dello studio precedente, con muscolatura potente e forme esuberanti.
Qui il discorso si fa più complesso, perché tali caratteristiche erano anche negli scatti del fotografo Muybridge a cui si ispirava più che alla realtà. Anche Bacon sembra incerto nell’individuare l’influenza prevalente, nel parlarne con Sylvester nel 2003: “E’ possibile che abbia imparato da Muybridge riguardo alle posizioni e da Michelangelo riguardo all’ampiezza e alla grandezza delle forme, e sarebbe per me molto difficile separare l’influenza di Muybridge da quella di Michelangelo”. Poi dà un’indicazione precisa: “Ma naturalmente, siccome la maggioranza delle mie figure hanno a che vedere con il nudo maschile, sono certo di essere stato influenzato dal fatto che Michelangelo ha realizzato i più voluttuosi nudi maschili che ci siano nelle arti plastiche”. E non a caso usa un simile aggettivo per i nudi maschili.
Ci interessa meno, a questo punto, lo sfondo inconsueto a strisce, come in un bagno pubblico, e lo stesso dicasi per le due fasce nere verticali che delimitano il campo e i violenti colori, altrettanto inconsueti, di quelle superiore e inferiore. Perché in altri dipinti questo corpo così compatto ed eretto si scompone. Ecco la “Figura sdraiata” del 1969, non ha avuto ancora i gravi lutti che lo colpiranno due anni dopo con la morte della madre e del compagno, ma l’immagine che ne viene è quanto mai tormentata. Si sarebbe ispirato a fotografie di una spregiudicata frequentatrice dei locali di Soho, sembra fosse Henrietta Moraes, da lui chieste all’amico fotografo Deakin per studi di nudo femminili a figura intera. Venti anni sono trascorsi dal nudo maschile michelangiolesco sulle pose statuarie di Muybridge; Deakin ha altre predilezioni, sembra abbia fatto scatti intimi molto spinti, per poi venderli a Soho. Il dipinto che ne deriva mostra una figura vista dalla testa, quasi venisse offerta su un grande vassoio, sovrastata da una lampadina con una luce gialla. Esprime l’abbandono della carne, è sdraiata su uno strano sofà rotondo, che evoca il vassoio, con intorno mozziconi di sigarette intorno e una siringa piantata nel braccio destro. Le gambe sono aperte, le braccia divaricate con le mani dietro la testa, posizione inequivocabile che dà il senso dell’offrirsi.. L’insieme mostra i segni evidenti del degrado della vita e la sofferenza della condizione umana.
L’intimità è ancora maggiore in “Due figure” del 1975, da una Collezione privata: sono all’interno del contenitore trasparente che le rinchiude in uno spazio limitato, si avvitano in un amplesso che ne fa un unico corpo; il desiderio, evidentemente tutto maschile, le proietta con violenza ma anche con intensità emotiva. Inizialmente c’era una figura seduta sulla destra, che non contrastava con l’intimità della scena data la concezione di Bacon al quale non dispiaceva assistere né che altri lo facessero; poi la staccò forse pensando di farne un trittico finché non lasciò isolate le “due figure”.
Ricompare il genere femminile negli “Studi dal corpo umano” dello stesso 1975, da una Collezione privata, ma solo nel corpo perché la testa è maschile. .Si tratta della figura laterale, sullo sgabello, dov’era seduta anche la figura tagliata nel dipinto precedente. Ha parvenze femminili con un seno nudo prosperoso ma volto maschile, un’espressione androgina inquietante, sembra preludere a qualcosa di violento; presumibile che ne sarebbe oggetto la diversissima figura del nudo disteso, a gambe divaricate e braccia aperte con le mani dietro la testa come nella “Figura sdraiata”: corpo e viso in atteggiamento altrettanto inequivocabile, in parte riflesso da uno specchio. Si è parlato di “licenziosità”; vi si può vedere il contrasto netto tra godimento e incombente repressione.
L’ultima immagine corporale non riferita ai compagni è un “Trittico ispirato all’Orestea di Eschilo”, del 1981, proveniente da Oslo, Astrup Fearnley Collection, tre figure disgiunte che non hanno rapporti né cronologici né di altro tipo, unite solo dall’ispirazione del momento: non ha più i suoi diletti Lacy e Dyer, perduti nel momento del successo, può entrare in lui una filosofia esistenziale di rassegnazione, si rifugia nel lontano passato: “In quello che faccio, ebbe a dire, sento di rispondere a un lungo richiamo che viene dall’antichità”. Ma soprattutto sente di espiare dei sensi di colpa per la morte degli amici, e nulla più di Eschilo gli si addice. Immagini allucinate, forse di Erinni, la figura centrale è deforme e senza testa con una coppa di sangue sacrificale in un fondo rosso che forse lo evoca; le due laterali, ulteriormente deformate, diventano quasi ectoplasmi con parvenze umane, il contenitore geometrico trasparente, assente in quella centrale, sembra imprigionarle.
L’omaggio baconiano alle figure amate e rispettate
Fin qui le opere esposte nelle quali dipinge soggetti senza personificarli, salvo lo “Studio per ritratto III” riferito al calco della testa di Blake e la “Figura sdraiata” ispirata alle foto di Henrietta; a parte i “Tre studi per l’autoritratto” che fanno parte di una serie sterminata di simili esercizi.
L’omaggio con cui inizia questa carrellata è del 1957, l’anno del primo autoritratto. Si tratta dello “Studio per un ritratto di Van Gogh VI”, proveniente da Londra, South Bank Center, Arts Council Collection: fa parte di una serie di otto dipinti sul grande artista del quale lo attirava l’arte ma anche la vita allucinata. In quel periodo Bacon aveva una relazione molto tormentata con Lacy, che era stato pilota, era violento e gli distruggeva anche i quadri; l’anno prima era andato a trovarlo a Tangeri. Nell’inquietudine estrema del grande olandese, che si era mozzata una parte dell’orecchio in preda alla furia autodistruttiva, vedeva rispecchiarsi le proprie inquietudini. Il quadro si ispira, riprendendone il soggetto, a un dipinto di Van Gogh distrutto durante la guerra di cui c’erano riproduzioni; “Autoritratto del pittore sulla strada di Tarascona” del 1888. Tra gli otto dipinti, nello “Studio per un ritratto di Van Gogh V” aveva raffigurato il pittore su una strada nelle sue linee rette con tinte accese; in quello esposto ricorre a una composizione molto elaborata, con linee oblique e tinte forti, dove però la figura del pittore quasi non si distingue essendo l’unica forma scura con una tavolozza variopinta, quasi albero tra gli alberi. Sono di Van Gogh i colori puri e gli scorci della campagna. E’ veramente suggestivo.
Alcuni anni dopo abbiamo due ritratti molto diversi, entrambi di grandi dimensioni, apparentemente anomali per Bacon: il ritratto del Papa, per lui non credente, e quello di una donna, per lui misogino.
Il primo può sembrare inatteso fino a quando non se ne conosce la storia, è lo “Studio del ritratto di papa Innocenzo X”, del 1965, da una Collezione privata. E’ stata una sorta di “magnifica ossessione” per il ritratto di Velasquez allo stesso Papa, da Bacon definito ineguagliabile; ne aveva molte riproduzioni ma non volle andarlo a vedere a Roma a Doria Panphili, anche per la soggezione che gli incuteva. Abbiamo osservato come si serva del suo busto per sostenere una testa a cui teneva molto deformata dall’urlo della balia di Ejzenstejn. Michael Peppiatt sembra vedere tale immagine immanente: “Chiaramente, per Bacon, questa serie di parafrasi estreme, quasi isteriche, cui ritornò molte volte, presentava profonde implicazioni personali. Il vero soggetto dei suoi papi era il suo stesso irascibile e autoritario padre? E la balia urlante di Ejzenstein richiamava forse l’amata nanny, che aveva vissuto con l’artista durante i primi ani della sua carriera?” Ora vediamo come la soggezione si esprime nella maestosa struttura dell’immagine, nei grandi tendaggi cremisi e nel pavimento marmorizzato, solo la testa reca il sigillo inconfondibile del nostro artista, scolpita nei colori ma non deformata. Per lui era l’altro motivo della pittura, oltre alla figura maschile libera o nei contenitori, a voler spaziare dalle persone comuni ai potenti, in mezzo c’erano i suoi amici.
Il “Ritratto di Isabel Rawsthorne”, del 1966, viene da Londra, il Tate lo ha acquistato nel 1966: è un’immagine frontale del busto di una bella donna, dalle fattezze esotiche, modella e amante di diversi artisti, frequentò anche Picasso. A parte il dubbio se fosse stata l’unica donna anche di Bacon, che aveva nel proprio studio molte foto di lei scattate da Deakin, tra loro nacque un rapporto di amicizia molto stretto; lui era colpito dalla variabilità delle sue espressioni, ilari o altezzose, furibonde o pensose, e dal suo carisma e fascino nel mondo degli artisti, Giacometti aveva perso la testa per lei che riuscì a fare tre matrimoni prestigiosi. Il quadro in mostra ne rivela la forza espressiva e l’imponenza, un viso scolpito da colpi di luce sul nero del resto della figura e dello sfondo: un’immagine, diremmo con un ardito riferimento, dalle luci e ombre caravaggesche.
Dall’omaggio ai personaggi a quello agli amici più stretti; più che omaggio si tratta di ispirazione costante e bisogno di manifestare il suo rapporto con loro anche nella pittura. Iniziamo con il grande trittico, razionale e geometrico, dei “Tre studi di Lucian Freud”, da una Collezione privata: è del 1969, precede di due anni quelli di Dyer di cui parleremo. Freud era un artista con cui ebbe un lungo sodalizio, si frequentarono nella capitale inglese dove animarono la “Scuola di Londra”, un gruppo molto attivo. Pensare che il primo ritratto all’amico lo aveva fatto nel 1951, poi tanti altri avvalendosi delle fotografie del solito Deakin, al quale chiese di farne una serie che chiamava il “dizionario” per servirsene in assenza dell’amico. Di Freud apprezzava la vitalità e il sapersi sbrogliare in qualunque situazione, e questo lo esprime nelle inquadrature razionali, comprese in tre contenitori geometrici dalle proiezioni triangolari, mentre la sua figura contiene un’energia repressa pronta ad esplodere declinata nelle tre posizioni, non unite in trittico, che differiscono di poco.
Ora arriva il pezzo forte della serie, si tratta dell’omaggio a George Dyer, il più amato. Era un ladruncolo dell’East End, conosciuto casualmente e divenuto suo compagno per l’attrazione che suscitava in lui la figura muscolosa. Moltissimi quadri lo ritraggono nelle situazioni più diverse, anche scene familiari come in bicicletta o seduto a fianco alla propria immagine. I “Tre studi per ritratto”, del 1968, da una Collezione privata, sono tre teste quasi in posizione segnaletica, ne esplora fattezze e lineamenti. Qui si va dall’immagine quasi dormiente di sinistra e quella sfuggente di destra alla temibile figura centrale, dura e determinata.
Lo “Studio per ritratto”, del luglio 1971, viene da una Collezione privata londinese: è un grande dipinto di due metri per uno e mezzo: ci mostra Dyer seduto con la gamba destra accavallata e la struttura geometrica che ne delimita lo spazio; pur se un’ombra verde ne fuoriesce con uno schizzo bianco; la sua posizione molto composta ha fatto dubitare che fosse proprio lui, trattandosi di un periodo tormentato della loro vita in comune, un paio di mesi dopo morì in circostanze che fecero pensare al suicidio, in albergo a Parigi mentre Bacon era impegnato nella mostra al Grand Palais.
Ma crediamo che, se è questa la ragione del dubbio, c’è la prova che è infondato. Infatti l’altro dipinto delle stesse dimensioni esposto, intitolato “Studio di George Dyer”, dello stesso 1971, da una Collezione privata, esprime la stessa compostezza, pur se in uno spazio delimitato diversamente: là con la geometria del contenitore trasparente, qui con il rosso cupo del cerchio sul pavimento dove i piedi poggiano su giornali spesso presenti nei suoi dipinti, colore insolitamente forte che si ripete nello sfondo, con due strisce celesti e dei riflessi di specchio ai lati quasi in un bagno. Ebbene, la stessa compostezza e solidità, anzi vigore e salute ancora maggiore con la solita gamba destra accavallata e la figura compatta, quasi per nulla scomposta.
Il quadro venne esposto alla mostra dell’ottobre 1971 la cui inaugurazione, alla quale Bacon partecipò stoicamente, fu funestata appunto dalla morte del compagno trovato esanime per una miscela micidiale di sonniferi e alcool. In effetti Dyer, pur nell’apparenza rude e violenta, aveva mostrato sensibilità e invece di dominare Bacon, come l’artista forse avrebbe desiderato, si sentiva schiacciato dal suo ambiente e cercava di annegare nell’alcool il suo disagio. Forse da qui nacquero i sensi di colpa dell’artista che si tradussero in una copiosa produzione di opere in memoria di Dyer, dove la compostezza delle immagini in vita lascia il posto a figure che si tramutano in larve.
L’altra opera esposta, il “Trittico – Agosto 1972”, proveniente dal Tate di Londra che lo ha acquistato nel 1980, costituita di tre dipinti delle stesse grandi dimensioni, mostra ancora compostezza, sono trascorsi pochi mesi, la figura di sinistra è molto simile allo “Studio di George Dyer” anche nella gamba accavallata; e pure quella di destra, nella quale, però, viene vista l’immagine di Bacon stordito, mentre al centro c’è un viluppo di forme muscolose nel quale potrebbe esserci un amplesso amoroso. La tragedia viene in qualche modo evocata in tutti e tre i dipinti del trittico con un’ombra color carne che sembra portar via la vita.
Così si conclude la nostra carrellata nel mondo di Bacon, tra le figure singole e i trittici, anch’essi però con tre immagini isolate. Non ha mai voluto fare “narrazioni” con immagini in sequenza, tanto che si oppose a che mettessero una cornice comune a un suo trittico in mostra. Le stesse tre tele possono cambiare posizione perché non legate fra loro; teneva molto a che non si equivocasse.
Lascia una produzione che dà uno shock all’osservatore con delle deformazioni dei corpi e dei volti forti e violente, ma espressive del tumulto interiore che difficilmente il figurativo puro riesce a esprimere con altrettanta efficacia e verità. Diceva che cambiava radicalmente le fattezze perché i soggetti rappresentati potessero essere meglio se stessi, per arrivare alla loro essenza più genuina.
E lascia un insegnamento che riportiamo testualmente come lo espresse a David Sylvester, riteniamo sia la migliore conclusione: “Se stai per decidere di fare il pittore, tu devi metterti in mente che non dovrai aver paura di renderti ridicolo. Un’altra cosa, penso, è essere capaci di trovare soggetti che tu senta fortemente di voler tentare di dipingere. Sento che senza un soggetto si ricade automaticamente nella decorazione, perché non hai il soggetto che sta sempre a roderti dentro per uscire fuori… e la più grande arte ti riporta sempre alla vulnerabilità della situazione umana”. C’è qui tutta la sua inquietudine, ma prosegue con indicazioni pratiche: “E poi penso che oggi, per fare il pittore, si debba conoscere, anche solo in forma rudimentale, la storia dell’arte dall’età preistorica ai giorni nostri. E anche molti tipi diversi di libri documentari… E ho attinto moltissimo anche dal cinema”. Citando Bunuel oltre a Ejzenstejn può precisare meglio il suo senso della vita: “E’ vera crudeltà quella di Bunuel? Qualsiasi cosa in arte sembra crudele, perché la realtà è crudele. Forse è questa la ragione per cui così tanti amano l’arte astratta, perché nell’astrazione non si può essere crudeli”.
Conclusione
Abbiamo cercato il testamento spirituale di Caravaggio nell’iscrizione sulla spada “Humiltas occidit superbiam”. Forse nelle parole di Bacon appena citate abbiamo trovato il suo testamento spirituale.
Finisce così la nostra visita all’esposizione della Galleria Borghese. Tra poco si separerà la “strana coppia” di due maestri di epoche diverse, così differenti tra loro. Bacon non fece mai riferimento a Caravaggio, anzi teneva in bella vista proprio la sua biografia che sottolineava questo aspetto. Abbiamo visto all’inizio come risolvessero le rispettive problematiche di luce-ombra, spazio e corporeità; i motivi interiori, ben diversi, ma accomunati da una lacerante inquietudine, possono avvicinarli al di sopra delle tante diversità. E li hanno avvicinati in questa mostra, perciò nel descrivere i singoli quadri abbiamo ricordato episodi della loro vita. Con tanti aspetti contraddittori, come contraddittoria può apparire la mostra che li ha associati in un’esposizione nelle stesse sale ma nelle pareti opposte, quasi ne temesse la vicinanza nel momento in cui la promuoveva.
C’è la medesima contraddizione nei trittici di Bacon fatti di immagini indipendenti e isolate, senza alcun nesso narrativo. Un altro motivo perché quella visitata sia una mostra che lascia il segno.
Si può dire che mai come in questo caso genio e sregolatezza hanno fatto la differenza.
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