di Romano Maria Levante
La deregulation dei comportamenti in una ricerca presentata il 15 giugno.
Difficilmente capita di trovare, in un incontro sui grandi movimenti in atto nella società italiana, una chiave interpretativa delle vicende politiche contingenti così immediata e rivelatrice come quella fornita dalla ricerca del Censis sul tema “La ‘deregulation’ dei comportamenti”, presentata a Roma nella sede in piazza di Novella il 15 giugno 2009.
Tanto che – così cominciamo dalla fine – nella discussione svoltasi dopo l’illustrazione dei risultati abbiamo prospettato ai ricercatori la possibilità che l’indagine possa incidere su queste vicende portando a modificare strategie politiche controproducenti, alla luce di un’analisi che dà la spiegazione profonda e argomentata dell’esito dei sondaggi e poi degli stessi risultati elettorali.
Non è nostra intenzione “buttarla in politica”, come si suol dire, però non possiamo tacere l’istintiva associazione di idee che dà alla ricerca una valenza tutta speciale e la rende capace di riportare il dibattito tra opposizione e maggioranza, o più precisamente tra opposizione e capo del governo, sui contenuti dell’azione dell’esecutivo per risolvere i problemi del paese; piuttosto che su comportamenti ai quali – questo per noi è il quadro emerso dalla ricerca – sembrerebbe non essere particolarmente interessata la maggioranza degli italiani. Un quadro non definitivo e, quali che siano i giudizi – quello del Censis è stato negativo – destinato a durare per parecchi anni ancora.
Lo specchio del Paese
La ricerca del Censis si inserisce – lo ha detto all’inizio il direttore generale Giuseppe Roma – nell’impegno del Centro studi investimenti sociali di tenere sotto osservazione il tessuto economico e sociale del Paese, per coglierne gli umori profondi e le evoluzioni. Lo ha fatto con le indagini sull’“inverno della crisi” e su altre ricerche come quelle sui territori di eccellenza e sulla reazione del territorio alle difficoltà, quest’ultima con l’Unioncamere, tutte analisi di cui abbiamo dato conto.
E non è stato poco merito l’aver visto ed evidenziato segni di solidità e vitalità, coesione e iniziativa che consentivano una lettura diversa della crisi non per il gramsciano “ottimismo della volontà” ma – se ci è consentita una contaminazione – per quello che Gleijeses, il nuovo direttore del Teatro Quirino, in tutt’altro ambito e per tutt’altro motivo, ha definito l’“ottimismo della ragione”. A questa visione si sono accodati autorevoli protagonisti solo quando i movimenti sotterranei si sono tradotti in indicatori economici; ma risiede proprio qui la forza del Censis, essere uno specchio del Paese nel quale bisogna saper guardare nel modo giusto liberandosi da troppi luoghi comuni.
La ricerca che verrà illustrata fa parte di una sorta di “diario dell’estate”, ci si passi questa definizione, perché impegnerà per l’intero mese di giugno su quattro temi sociali tutti molto particolari e dalle denominazioni immaginifiche, com’è nello stile del presidente Giuseppe De Rita.
Ma non vogliamo anticipare questi altri temi per non far venir meno l’interesse e l’attesa, assicuriamo che ci saremo per darne conto ai lettori della Rivista, come sempre.
La doppia morale e la trasgressione a orologeria
Torniamo ai comportamenti per chiederci subito il perché della prospettata“deregulation”. La risposta la dà subito la ricercatrice Ketty Vaccaro in un’analitica illustrazione dei risultati.
La frammentazione dei comportamenti è il corollario della società molecolare, quindi molto frammentata, che il Censis ha evidenziato da tempo. “La libertà di essere se stessi è l’unico criterio sentito nell’odierna società, come vincolo e base dei comportamenti. Il valore condiviso è il primato del soggetto e l’autoaffermazione, C’è un’ampia gamma di comportamenti che si iscrive nel bisogno di esprimere se stessi, in un individualismo esasperato rafforzato da una forma di coercizione sociale. Quasi un obbligo ad ‘essere se stessi’”.
In fondo, ci viene di commentare, il richiamo alla “privacy”, divenuto un ludo cartaceo quasi maniacale con l’istituzione dell’apposita Autorità, ha avuto un effetto valanga in questa direzione, come nell’apprendista stregone. Il richiamo ossessivo ha rafforzato un abito mentale, e forse Stefano Rodotà, la cui impostazione culturale e politica è ben altra, si sentirà un nei panni scomodi di Frankenstein. La sua creatura amorevolmente allevata è ora un mostro sfuggito ad ogni controllo.
C’è una doppia morale, quella apparentemente dominante per costumi e consuetudini, nonché valori astrattamente condivisi e quella che ogni individuo si costruisce per sé e riferisce i propri comportamenti ad essa, non ai canoni più generali. Vale anche nella religione dove sotto la superficie della morale cattolica c’è quella personale dei praticanti, che non rinunciano ad “essere se stessi”. “L’idea del peccato – secondo la ricerca – rimane ma è il singolo fedele a ritenere di poterlo definire e giudicare sulla base della valutazione della propria coscienza in una corsa alle valutazioni (ed attenuanti) che può contribuire a spiegare anche il monito del Papa quando avverte che “’il confessionale non è il lettino dello psicanalista’”. Ma il 30% dei fedeli non lo seguono, ritenendo non necessari i confessori, il 20% è riluttante a confidare loro i propri peccati e il 10% addirittura li ritiene “un impedimento al dialogo con Dio”.
Ciò avviene anche in manifestazioni liturgiche nelle quali altri sono i valori, rispetto ai comportamenti personali che superano ogni vaglio in quanto autoassolutorio. Se ne sono avuti segni vistosi nelle Giornate mondiali della Gioventù, dove neanche l’attiva partecipazione del Papa basta a rimuovere, almeno per quei pochi giorni, i comportamenti trasgressivi di sempre; anche perché continuare ad essere se stessi non ha implicazioni negative sulla propria vita personale. In definitiva, “la soggettivizzazione dei criteri di riferimento morale comporta un riadattamento dei principi della morale cattolica in materia di sessualità sulla base della valutazione della propria coscienza individuale”. Si tratta non tanto “del rifiuto di riferimenti valoriali comuni quanto della continua rinegoziazione di tali valori e riferimenti frutto di scelte e valutazioni in cui l’individuo è da ritenersi unico arbitro legittimato”. Rinegoziazione calata sulle specifiche esigenze individuali.
Se ne ha conferma, pur in una forma diversa, nei comportamenti normali dei giovani, per i quali la “doppia morale” è scandita dal calendario: allorché il tempo libero, per le vacanze o il fine settimana, fa scattare comportamenti trasgressivi rispetto a quelli consueti che vengono invece mantenuti quando quelli trasgressivi li danneggerebbero.
La ricerca misura questi fenomeni con dati raccolti attraverso apposite indagini sul campo. Ebbene, la percentuale di giovani che dichiarano di aver bevuto alcolici nell’ultima settimana è del 3% circa nella media dei due sessi per i giorni lavorativi e di studio, schizza all’86% nel sabato. Se doveva esserci una spiegazione quasi scientifica delle “stragi del sabato sera” è venuta da questi dati. Che evidenziano anche un altro versante del rischio alcool: un quinto dei giovanissimi dagli 11 ai 18 anni ne fa uso.
Si ha “modello di consumo ‘compatibile’ di trasgressione controllata, con l’incremento dell’uso delle droghe da ‘performance’ (la cocaina e le anfetamine), il crollo di consumi di sostanze come eroina poco conciliabili con la ‘normalità della vita quotidiana’ e la diffusione continua di nuove forme di ritualizzazione dei consumi (l’’ectasy’ nei fine settimana); è l’equivalente del consumo di bevande alcoliche dei giovani nella giornata di sabato e l’astinenza negli altri giorni per non interferire negli impegni giornalieri, ma purtroppo al controllo spesso sfugge la guida, ed allora è tragedia. Delle infrazioni automobilistiche accertate nel 2008 quelle della guida sotto l’influenza di alcool nel week end sono il 70% dell’intera settimana..
Le conseguenze nelle devianze e nel rifiuto dell’altro
L’esasperazione delle tendenze ora evidenziate porta a devianze sempre più diffuse, e spesso ostentate, rispetto a comportamenti ritenuti moralmente accettabili, anche se c’è il tentativo, molte volte non riuscito, di mantenersi all’interno delle regole per non incorrere nei fulmini della legge; ma le regole ispirate a tradizioni e valori se sprovviste di sanzioni non sono più considerate valide.
Così il buonismo e il “politicamente corretto” sono visti come convenzioni che limitano l’essere se stessi, il solipsismo, e vengono considerati sempre più “come forme odiose di ipocrisia, superate le quali sarebbe finalmente possibile ‘dire le cose come stanno’”.
Anche la solidarietà e la fiducia negli altri sembrano in disuso, per “l’emergere e l’affermarsi di un egoismo pragmatico e familistico, a scapito di un civismo vago, e percepito sempre più come espressione di un altruismo incosciente e ideologico”.
Qui s’innesta il comportamento ostile nei confronti dell’altro, soprattutto se “diverso” perché immigrato, un’esagerata autodifesa dei propri ambiti e di confini che vengono visti come minacciati. Malintesa autodifesa che si traduce in spirito aggressivo e risoluzione diretta dei conflitti interpersonali con la violenza. Gli episodi di cronaca, con accoltellamenti per banali questioni di parcheggio, di discoteca o di tifo, nonché per reazione contro gli immigrati sono espressione dell’intolleranza che è il frutto bacato di un’esasperata ricerca di autoaffermazione.
E’ vero che da una ricerca del 2007, sempre del Censis, il 60% degli italiani ritiene gli immigrati utili e comunque una realtà da affrontare positivamente con nuovi modelli di convivenza multietnica; ma vi è pur sempre un 40% che li vede come un problema di ordine pubblico perché responsabili dell’inasprirsi della criminalità, e addirittura una minaccia per i loro valori e tradizioni incompatibili con i nostri. In termini più specifici il giudizio si aggrava: quasi il 60% si dice convinto che rispettino poco le leggi italiane; più del 50% li considera poco rispettosi delle donne, il 44% li ritiene più violenti e sporchi.
In questo contesto non sorprende che i recentissimi dati di Demos & Pi indichino in poco meno del 70% la percentuale di italiani favorevole al respingimento dei barconi provenienti dalla Libia, in barba ai distinguo umanitari sul dovere di verificare il diritto di asilo in Italia e non in Libia.
Per i clandestini già in Italia, le preoccupazioni crescono e diventano individuali, non più riferite ai valori e al territorio. Il 52% li ritiene “il maggior elemento di pericolo per l’incolumità personale”, più che gli “automobilisti e motociclisti che guidano in modo imprudente”, additati solo dal 51% nonostante quest’ultimo sia un rischio più concreto e dovrebbe prevalere nei giudizi della gente.
Così, osservano i ricercatori, “alcuni atteggiamenti sempre più palesemente xenofobi, lungi dall’essere occultati, sono affermati con forza, in nome della necessità di un comune riferimento alle regole nazionali e del diritto di difesa di valori della propria comunità di appartenenza”. E poco conta che una parte dell’opinione pubblica non la pensa così, basta l’ampia percentuale di coloro che hanno queste idee intolleranti anche perché sono i più attivi. Ne fanno fede le forme di controllo autogestito del territorio, le cosiddette “ronde”, nobilitate come “associazioni di volontariato per la sicurezza” e tradotte in disposizioni legislative a furor di popolo si direbbe: dove il furore è l’esaltazione e il popolo è quello più intransigente. Ebbene, il 54% degli intervistati pensa che “l’istituzione delle ronde garantisca maggiore sicurezza”, anche qui in barba a tutti i buonismi.
Un altro segno evidente degli effetti dell’esasperata autoaffermazione è individuato nel “bullismo”visto come “affermazione di sé e nello stesso tempo di ricerca di riconoscimento ed identità giocato su una piccola appartenenza e sulla identificazione del ‘nemico’ nel più debole”, come del resto lo è l’immigrato. L’80% dei genitori intervistati dal Censis nel 2008 lo vedeva in aumento e il 74% notava una preoccupante precocità del fenomeno perché insorgente a un’età inferiore, mentre il 60% affermava, altro dato preoccupante, che “gli insegnanti non hanno strumenti per intervenire”. Di qui il 5 in condotta che ha comportato una percentuale significativa di bocciature nell’anno scolastico appena concluso. Ma non vogliamo fare richiami politici.
Le espressioni dell’autoaffermazione e il privato dei potenti
L’autoaffermazione di cui abbiamo parlato non è soltanto un dato interiore, un modo di essere e di pensare che poi travalica nelle devianze e nelle violenze. E’ anche un comportamento ostentato, che si specchia nella società dello spettacolo e nei suoi riti mediatici e rimbalza poi nel privato e personale. Sembrerebbe un elemento positivo, un fatto di sincerità e di coraggio, per questo viene esibito nei “reality” e nei “talk show” dove stazionano i sedicenti “opinionisti”, sempre i medesimi, che parlano dall’alto della loro incompetenza con la presunzione sfacciata di affermare la propria opinione come parte di loro stessi.
E qui viene meno la funzione del servizio pubblico, che potrebbe e dovrebbe rifiutarsi di assecondare un andazzo così negativo -il canone non è legittimato dall’asserita “diversità” dalla televisione commerciale a questi fini? – per ripristinare i valori della competenza nella marea montante della vacuità e della caduta di ogni valore positivo. Lo dimostra il fatto che alle selezioni del “Grande Fratello” dell’emittente privata da ben nove anni si presentano ogni volta 20.000 giovani per realizzare quella che è diventata la massima aspirazione: “entrare nel mondo dello spettacolo”, vale a dire esserci, esibirsi senza alcuna seria preparazione, dovunque e comunque, purché si abbia visibilità, e quella televisiva è ritenuta oggi la più appagante.
La ricerca iscrive in questo fenomeno anche il recentissimo “boom” della diffusione di “Facebook”, il sito di incontro e contatto on line su Internet, che ha raggiunto in poco tempo quasi 10 milioni di iscritti, equamente ripartiti tra i due sessi, il 60% dei quali dai 18 ai 34 anni. La logica del sito è raccontarsi e farsi conoscere, esprimersi liberamente ed autorappresentarsi nella cosiddetta piazza mediatica; e non sarebbe negativo, tutt’altro, avendo sostituito l’ “agorà” ateniese, se i contenuti fossero all’altezza dello spazio conquistato, invece avviene l’opposto, la banalità è imperante.
Ma al di là delle apparenze e delle ostentazioni, quali sono le vere aspirazioni dei giovani? La ricerca ha una risposta anche per questo. Perché quasi il 40% dei giovani italiani tra i 18 e i 30 anni, la maggiore percentuale,vorrebbe “realizzare le proprie aspirazioni”, una sorta di tautologia; a questo si deve aggiungere il quasi coincidente “essere se stessi” con il 25%, quindi quasi il 65% aspira ad autorealizzarsi e affermarsi dovunque e comunque; é lontana l’epoca in cui l’aspirazione era diventare medico o avvocato, ingegnere o viaggiatore, scienziato o anche attore!
L’autoaffermazione è svincolata da obiettivi precisi, a differenza del passato, ma anche dal “diventare ricco e famoso”, risultato perseguito soltanto dal 3% dei giovani; mentre è confortante che per il 26% il successo può consistere nel “fare qualcosa di utile per tutti”.
Qui la ricerca disvela un aspetto confortante che differenzia i giovani dalla media nazionale della quale abbiamo ricordato fin qui pecche non proprio trascurabili. Perché rifiutano il valore negativo portato avanti con forza dalla società (“diventare ricco e famoso” pesa per quasi un terzo del totale), per sposare il “fare qualcosa di utile per gli altri (lo stesso 26% circa che abbiamo indicato come incidenza tra i giovani); rifiutano anche la spinta al potere (12% tra i valori della società, 1% tra quelli dei giovani); e vedono non riconosciuta la loro ricerca di realizzare le proprie aspirazioni ed essere se stessi (tra i valori della società rappresentano il 17% rispetto a quasi il 65% tra i giovani).
A questo punto la ricerca del Censis approfondisce il tema del potere e del rapporto con i giovani, perché analizza la loro reazione rispetto alle anomalie dei comportamenti dei personaggi pubblici che, non meno della media del paese, rispondono alla “libertà di essere se stessi”, anzi la manifestano in “forme più incisive ed eclatanti”. Seguiamo la ricerca, ha espressioni eloquenti.
Per le manifestazioni del potere: “’Agli dei più che ai mortali ‘ la trasgressione è consentita e l’essere al di sopra delle regole che vincolano l’uomo comune è proprio l’appannaggio più ambito del potere”. Tanto più che, come abbiamo visto, neppure l’“uomo comune” se ne sente vincolato e trasgredisce fino al limite della perseguibilità. Spesso negata agli uomini di potere.
Per la gente normale: “’Beato lui che può’ è il commento più comune di fronte alla narrazione mediatica di comportamenti che sdoganano molti vizi italici da tempo risaputi ma , fino a ieri, almeno retoricamente condannati, primo fra tutti l’approfittare della propria posizione di privilegio per ottenere e dare favori e benefici”. Sono tanti coloro ai quali fischiano le orecchie a queste parole!
Ancora più direttamente il Censis mette il dito nella piaga: “In modo ancora più marcato di quanto non avvenga nei comportamenti di ciascuno, in quelli degli uomini pubblici il controllo sociale non viene più esercitato sulla base di riferimenti valoriali comuni, anche se non viene necessariamente azzerato; ma piuttosto è rinegoziato in modo ancora più evidente proprio grazie alla retorica libertà di essere se stessi, ormai regola aurea che, se vale per tutti, non può che valere ancora di più per i potenti”. Il fischio alle orecchie per i sopracitati diventa a questo punto assordante.
La “versione potenziata nei comportamenti dei personaggi pubblici” in tema di relativismo morale non è accettata, però, dai giovani come fa, invece, la società nel suo complesso; e questo è un dato confortante, per certi versi inatteso a stare alla forte spinta all’autoaffermazione ad ogni costo. Torna l’idealismo nell’inchiesta tra i giovani italiani dai 18 ai 30 anni nel condannare in modo molto più severo del giudizio sociale comportamenti fuori delle regole: il professore universitario che fa carriera con concorsi truccati e l’imprenditore affermato che usa lavoratori in nero, il magistrato con amicizie equivoche.
Il fatto che non riguardino il privato e potrebbero vedere gli intervistati tra i possibili danneggiati non attenua il valore morale di una condanna pronunciata dall’83% dei giovani” per il professore, dal 72% per l’imprenditore e dal 62% per il magistrato, percentuali doppie rispetto a quelle del giudizio sociale; anche doppia di quella sociale è la loro riprovazione per la donna in carriera che usa il corpo per affermarsi. Più accondiscendenza e maggiore vicinanza al giudizio sociale c’è per comportamenti in cui realmente “il privato è privato”: come il manager di successo che usa cocaina, lo studente modello che si sballa nel fine settimana, fino al politico potente con i servizi segreti.
Considerazioni di sintesi e di prospettiva
Il presidente De Rita ha tratto alcune conclusioni o meglio ha espresso uno stato d’animo, suo personale e dell’intero istituto: “Noi del sociale ci troviamo di fronte al primato del soggetto, all’essere se stessi, addirittura alla coazione ad essere se stessi. La personalizzazione arriva a un punto tale che si dice ‘decido io, il mio privato è il mio privato’. Si dissolvono i rapporti, non funzionano i meccanismi, sparisce il ‘politically correct’, trionfa il solipsismo individuale”.
Già prima del 1968, prosegue, è iniziata la deriva verso la personalizzazione, poi è arrivato il relativismo: “Ne ho sofferto in prima persona e come Censis, assistendo alla crisi dei corpi intermedi dopo che abbiamo tanto esaltato il sociale e ci siamo impegnati in concreto”.
Ma non serve recriminare, se si guarda in faccia la realtà si trovano dei segni positivi nei giovani che fanno pensare ad una possibile inversione di tendenza o almeno all’arresto della deriva. Si sono rivelati più attenti ai valori morali della società in complesso, e più sensibili alla correttezza dei comportamenti di rilevanza pubblica quando non riguardano il privato. Se poi interviene un terzo rispetto a loro scatta il meccanismo di appartenenza.
L’altro elemento da considerare è il fatto che il solipsismo a lungo andare distrugge se stesso, in quando si avvita sul soggetto, lo porta all’isolamento. Il risultato è una precarietà e un’incertezza destinate a finire: “La società dei comportamenti individuali non può che essere una società dai legami instabili, frutto di ricomposizioni continue, in cui quello che era fondante può diventare inutile il momento dopo, con un meccanismo quasi inconsapevole in cui la cifra maggiore è la tempestività e la fragilità del legame, seppure intenso, che si tende a costruire proprio in nome dell’affermazione della propria soggettività”. Quale lo sbocco di tutto ciò?
In questa instabilità si trovano gli anticorpi perché “da una parte c’è la valorizzazione di essere se stessi… in un unico modello che non crea coesione sociale, dall’altra un affastellarsi di micro appartenenze con una ricerca continua di relazioni a forte intensità emozionale ma fortemente volatili”. Se questi anticorpi faranno superare la “libertà di essere se stessi” svincolati dai valori, si potrà avere un “recupero della capacità di coagulare persone, gruppi sociali, interessi, istituzioni, una nuova classe dirigente”.
Ci avviciniamo alla previsione finale, espressa con molta cautela: “Al momento non sembrano in campo soggetti e culture in grado di arginarla, ma è possibile che questa nuova filosofia della libertà e del valore dell’espressione profonda di sé sia giunta alla fine del proprio ciclo e che nell’onda lunga del cambiamento sociale si possa cominciare ad affermare una cultura di nuova attenzione all’altro in cui ci sia un ritorno alla coscienza del noi contro l’affermazione della mucillagine dell’io”.
Non le ha dette a voce De Rita queste parole, ma sembrano scritte da lui. Come sembrano di suo pugno le righe conclusive della ricerca: “Tale fine di ciclo probabilmente non sarà repentina ma si attuerà attraverso un silenzioso sfarinamento nel tempo, verosimilmente senza scosse. Aspettiamo e vedremo”.
Una sorta di previsione dei terremoti, si può dire che avverranno ma non quando. A voce si è spinto più in là. Considerando che “l’onda lunga del cambiamento sociale” ha cicli cinquantennali, essendo iniziato il processo circa quarantadue anni fa il conto è presto fatto. Lo “sfarinamento” dell’individualismo durerà per un arco di tempo all’incirca di otto anni ancora. Per qualcuno saranno troppo pochi, per qualche altro saranno troppi, e ognuno può dare loro nome e cognome. Si ripropone il dilemma posto da Franco Battiato dal lontano 1991 in “Povera patria”: “Non cambierà non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà… la primavera intanto tarda ad arrivare”.
Oltre che per la previsione, in un certo senso il “clou” delle riflessioni fatte nell’incontro alla sede del Censis, abbiamo già detto che a molti fischieranno le orecchie per risultati dell’indagine. C‘è “un relativismo morale a cui si condiscende tutti, per continuità di comportamento e in ossequio comune al primato della coscienza individuale”; e “se il privato viene descritto come zona franca, anche in ambito pubblico si assiste ad un nuovo rapporto con le norme di riferimento dei comportamenti sociali”.
E allora il messaggio che abbiamo anticipato all’inizio trova le sue motivazioni documentate, almeno per noi. La gente, i cittadini elettori, non vogliono moralismi ma contenuti, nei programmi politici e nell’azione di governo, nella spinta della maggioranza e nel contrasto dell’opposizione. Se questo servirà a dare concretezza alla politica si potrà dire “oportet ut scandala eveniant”! Anche perché le parole di De Rita fanno capire che torneranno i valori collettivi; non subito, ci vorrà del tempo da impiegare in modo utile concentrandosi totalmente sui problemi reali del Paese.
Non ci sono posizioni politiche nella neutralità dell’analisi, fondata su indagini approfondite, e nel nostro resoconto corredato da osservazioni. Sarebbe interessante che i lettori dicessero la loro usufruendo della possibilità di inserire senza formalità commenti on line in calce all’articolo.
Questa è la visione di un Centro che ha il merito di aver messo a nudo tanti segreti riposti della nostra società, in un’ottica non solo di studio ma anche di investimento sociale. E’ la realtà come emerge dall’accurato monitoraggio compiuto: “Per fortuna o purtroppo”, per dirla con Giorgio Gaber.