di Romano Maria Levante
Dopo aver descritto la presentazione e le peculiarità della ceramica compendiaria in mostra ai Musei Capitolini, fino al 16 gennaio 2011, il racconto della visita dalla produzione di Faenza – il centro dove a metà del 1500 nacque il nuovo stile a seguito dell’innovazione stilistica e produttiva rispetto allo stile istoriato – passa a descrivere quella degli altri centri ceramici, al nord, al sud e soprattutto al centro dove spicca Castelli per la sua rinomanza nazionale e anche internazionale.
La compendiaria al nord e centro-sud: Trentino, Lazio e Campania
Dopo Faenza in mostra troviamo, all’estremo nord, il Trentino e Tirolo. Come centro di produzione si spiega soprattutto in relazione alla forte domanda che cominciò a venire dalla Germania quando si diffusero i pregi delle produzioni compendiarie, all’inizio del ‘600. Ordini cospicui soprattutto dalle corti principesche, in particolare del duca di Baviera e parecchi altri duchi e membri della famiglia Asburgo; si è accertato che in quel paese mitteleuropeo vi sono 3.700 ceramiche del nostro Rinascimento, molte sono “bianchi” di Faenza.
Viene usato uno smalto costoso a base di stagno per i ceti elevati, tecniche più economiche per le destinazioni ai ceti meno abbienti, come le stoviglie con una semplice vernice di piombo. Non sono mancate imitazioni della tecnica faentina, le cosiddette “habàne”, chiamate così perché prodotte dagli anabattisti, setta religiosa di fede protestante di poche migliaia di componenti. Vediamo forme mosse con le “crespine”, bordi traforati e ondulati, in una parola increspati, da cui il termine.
Nella sala successiva ecco il Lazio, che trova la migliore introduzione nelle parole di Giorgio Vasari, sulle ceramiche “bianchissime e con poche pitture”, personalizzate con stemmi nobiliari. Altrettanto espressive le parole di Pier Paolo Biondi che nel 1588 scrive: “In Acquapendente li vasi si lavorano sottili con bianco finissimo ad uso di Faenza e se ne fa gran spaccio in Roma per le corti de’ Cardinali e de’ Prelati”. Vediamo esposti 7 piatti con stemma centrale, 3 di Roma, 2 di Acquapendente e di Bagnoregio; poi una fiasca e un orciolo per spezie con stemmi del cardinale Pio di Carpi e di papa Urbano VIII Barberini. Di Bagnoregio una targa devozionale, la Crux Angelica di san Tommaso d’Aquino. E’ evidente l’importanza per l’elevata committenza ecclesiastica e nobiliare che alimenta una forte domanda per i centri di produzione.
La Campania segue immediatamente nella mostra. Le sue produzioni si rifanno a quelle di Castelli, che all’epoca era il maggiore centro ceramico del Regno di Napoli e riforniva il capoluogo partenopeo; Napoli era una città di dimensioni europee dalla forte domanda di ceramiche, un mercato che Castelli aveva conquistato con le ceramiche compendiarie dal 1577.
Due artigiani castellani, figli di Orazio Pompei, della famosa bottega, si trasferirono a Napoli per produrre “in loco”, dato che i prodotti di Castelli si portavano nella città a dorso di mulo con un viaggio difficile e costoso, per migliaia di pezzi; un esempio ante litteram di spostamento della produzione sul luogo di consumo. La produzione locale si sviluppa dal 1585, ma è nella seconda metà del ‘600 che la città si rese autonoma: siamo in una fase tarda, non c’è più l’essenzialità del bianco compendiario e gli ornati invadono le superfici con forti decorazioni.
Sono esposti 6 grandi piatti, con figure in campo bianco: leone rampante e torre, uomo con tridente e albero. Oltre a Napoli, è un importante centro di produzione Vietri; e nella regione Salerno soprattutto dal 1590.
C’è l’eloquente riproduzione di un dipinto della chiesa di Santa Maria della Sapienza a Napoli, l’Ultima cena di Gargiulo, 1609-75, con in primo piano un piatto in ceramica stile compendiario.
Toscana, Umbria e Marche
Il quadro dell’Italia centrale è molto ricco, dopo il Lazio e la Campania, vediamo le produzioni della Toscana dove non si diffuse per motivi stilistici, quanto per ragioni pratiche. C’era una stasi produttiva della ceramica dell’epoca e il ricorso al compendiario fu un modo per rilanciare la produzione sulle nuove basi: più che di reazione all’istoriato si trattò dell’adesione al nuovo modo di concepire la ceramica, che ne valorizzava morbidezza e lucentezza, quindi la rendeva più ricercata; e con le nuove tecniche innovative meno costosa perchè prodotta in serie con gli stampi.
De Pompeis cita lo “spolvero”, lo stampo sopra fogli sottili: il disegno dai contorni bucherellati applicato sulla superficie della ceramica da decorare con la polvere passata tra i fori come traccia. Sono tecniche complicate, per la porosità e il cambio di colore dopo la cottura. Notiamo un bacile e un versatoio, e anche piatti più colorati e istoriati del bianco compendiario, evidentemente resta lo stile precedente abbandonato per necessità più che per scelta.
Il curatore parla del risparmio dello stagno con uno strato sottilissimo. Vengono citati Montelupo e anche Siena, sotto l’influsso di Deruta in Umbria. Suggestiva la Targa devozionale per San Lorenzo, prodotta ad Asciano nel 1592: colori tenui, una bell’immagine nella bacheca di cristallo.
Nell’esposizione dell’Umbria ritroviamo le “crestine” citate per il Trentino, con figure allegoriche e scene mitologiche: spiccano rinfrescatoi luminosi per il bianco della maiolica, sono esaltati i caratteri di brillantezza e “pulitezza” del compendiario: non lasciavano il senso sgradevole nel palato dei metalli e il costo era più contenuto per la produzione in serie a stampi e il decoro rapido.
Il centro maggiore è Deruta cui la mostra dedica diverse vetrine e teche: in particolare quella con il calamaio giallo e la coppa con l’immagine mitologica di Venere e Marte. Si ricordano i maestri Franciolli e Manciano “il frate”, dal 1540, e i piatti istoriati con le Metamorfosi di Ovidio.
Le Marche ebbero sollecitazioni apparentemente opposte ma in fondo convergenti, la competizione da un lato, l’imitazione dall’altro, ambedue nei riguardi di Faenza. Non c’erano vere botteghe ma artigiani anonimi che producevano sia in stile compendiario che istoriato; ciononostante ci sono stati lavori di alto livello a Castel Donato. Di Urbino c’è in mostra una produzione importante, un coperchio di Battistero con un rilievo. Vediamo esposti 2 piatti bianchissimi con una figura appena accennata, una alzata con cavallo centrale e un bacile, un rinfrescatoio e un centro tavola.
Il culmine a Castelli in Abruzzo, la conclusione in Puglia
Da Napoli è naturale passare a Castelli per il collegamento che si è citato. E si deve cominciare col dire che anche agli abruzzesi è sempre apparso straordinario come un piccolo paese affogato nel verde ai piedi del Gran Sasso, un tempo difficilmente raggiungibile e isolato d’inverno, potesse avere sviluppato un’arte ceramica sopraffina e conquistato un mercato nazionale e internazionale alle proprie produzioni; all’Ermitage di san Pietroburgo si possono ammirare collezioni di servizi da tavola di Castelli un tempo in uso nelle corti europee, nel 2009 si è tenuta nella città russa una mostra di arte castellana seguita da una mostra a Castelli di opere appartenenti a tale museo.
Per questo a Castelli c’è un Museo della ceramica con i capolavori dei suoi artisti, primi tra loro i fratelli Grue. Nel “Libro Segreto”, Gabriele d’Annunzio dopo aver detto “il sapore della Maiella è tutto nel nostro cacio pecorino” aggiunge : “… domando al servitore che mi porti la forma onde fu tagliata la fetta a me servita, in un piatto di Castelli, in una maiolica di Francescantonio Grue”. Nel museo, oltre ai capolavori di questo e degli altri maestri nelle varie epoche e alle collezioni acquisite anche di recente, c’è il Presepio monumentale, formato nel tempo con l’aggiunta al nucleo iniziale di nuove figure di grandi dimensioni realizzate e offerte dalle botteghe locali. Questo presepio artistico veniva esposto nelle festività natalizie all’aperto con le aggiunte dell’anno, prima che le esigenze di conservazione non lo sconsigliassero; anni fa è stato portato anche a Israele per l’esposizione nei luoghi della Natività, ma la fragilità ora ne sconsiglia lo spostamento.
Castelli non vive di ricordi, ogni anno c’è la Mostra Mercato con stand molto forniti nei quali espongono la loro produzione per l’intero periodo estivo le botteghe di ceramica che lavorano tutto l’anno in un fervore di produzione artigianale di piccola e media dimensione, anche a livello industriale, con un mercato internazionale. Decori prevalenti sono il paesaggio e il “fioraccio”. C’è una Scuola di ceramica molto qualificata che perpetua l’antica tradizione con una formazione artistica e tecnica di alto livello per uno sbocco professionale e un business in piena attività.
De Pompeis, che è direttore del Museo Urania di Pescara, conosce molto bene Castelli, anzi – se abbiamo capito bene da un suo accenno – sembra abbia una lontana discendenza dal famoso ceramista Pompei. Ebbene, con la sua competenza testimoniata da libri e mostre, lo definisce “il centro più importante del regno di Napoli all’epoca della ceramica compendiaria, con committenze metropolitane, cospicue quelle del mondo ecclesiastico e cardinalizio romano”: vengono citati in particolare i Farnese e D’Avalos, Mendoza e De Torres, Caracciolo e Capece Minutolo. E con scambi nei confronti di Napoli, città popolosa di dimensioni europee, dove come si è detto nel 1577 si trasferirono due esponenti della famiglia Pompei; nonché nel Mediterraneo orientale, Zara Spalato e Cipro. Il curatore ne descrive le peculiarità, “lo smalto turchino unico in Italia, la tecnica delle applicazioni in oro, quasi solo sua, con la terza cottura per questo decoro prezioso, a condizioni particolari di temperatura. Peculiarità anche nei soggetti, figure che dialogano per pranzi matrimoniali”. Mostra al riguardo un vasellame rinascimentale con l’uomo che offre un fiore.
Suscita emozione rivedere, sia pure nella riproduzione di un grande pannello murale, il soffitto della chiesetta di San Donato, definito “La Sistina della maiolica”, su fondo bianco in stile compendiario le figure stilizzate di animali, soggetti vari, stemmi, su supporti inconsueti, i mattoncini in ceramica del soffitto. I mattoncini che costituivano il pavimento erano, invece, su un fondo blu intenso, sono esposti in una parete al Museo della Ceramica dopo la rimozione per meglio conservarli.
Dinanzi alla riproduzione del soffitto, in mostra c’è la teca con una statuetta in ceramica raffigurante Santa Colomba, datata 1617, dei conti di Pagliano, feudatari di Castelli. Ci ricorda, ma non è esposta, la “Madonna di Pompei”, una ceramica di colore blu intenso tipo quadretto, grande varie volte i mattoni di San Donato, che ha una particolarità: fu rubata in passato e dopo molti anni ritrovata perché una vecchia del paese, guardando in televisione un servizio su un’asta da Christie’s, riconobbe “la madonnella nostra….!”, furono avvertiti i carabinieri e il nucleo per la tutela del patrimonio artistico riuscì a recuperarla.
Questo accenno alla ceramica di Castelli, che ci è familiare, per introdurre la sala della mostra dedicata alla sua produzione. Oltre ai numerosi piatti esposti in una lunga vetrina e ad alcune brocche che la sovrastano notiamo, in particolare, un vaso cilindrico per fonte battesimale; poi una saliera con lo stemma di due famiglie toscane perché un vescovo di Castelli era originario di Lucca. Forme anche molto particolari di vasellami “abborracciati” e “martellati”, a imitazione dell’argento, anche a forma di conchiglie. C’è una vetrina con 6 vasi, notiamo l’albarello con cavaliere e con un uomo seduto; coppe e rinfrescatoi, mascheroni plastici in rilievo nei vasi di farmacia, di varie fogge, in uno si vede Tobia e l’angelo; e colori diversi dai faentini, pochi blu, giallo ocra: come in una fiaschetta a forma di scarpa e un versatoio a fontana da tavola.
Questo riferimento alla tavola ci porta subito all’ultima sala, dedicata alla Puglia, il centro di produzione più meridionale, c’è una grande tavola apparecchiata, la messa in scena è giustificata dalla molteplicità delle sedi, da Andria a Nardò, da Otranto a Laterza: i colori quelli tipici del compendiario, turchino, giallo e arancio. Un’eccezione alla sobrietà figurativa è nel piatto con il cavallo e nella crespina a settori con Cupido alato dove il decoro copre tutta la superficie, ma sono considerati in stile compendiario per la delicatezza dei colori e del tratto; nei bordi carote, foglie e fiori. Le produzioni di Otranto si ispirano ai bianchi di Faenza, quelle di Laterza richiamano Castelli. Per Andria va ricordata la tradizione ben più antica. Leandro Alberti, 1479-1522, scriveva: “Quivi ad Andri si fanno bellissimi piatti di terra cotta”.
Una nota conclusiva
Il panorama del bianco compendiario nelle regioni italiane ci mostra un fiorire di iniziative dove l’arte si è unita all’artigianato, la tecnologia all’organizzazione produttiva, in una esemplare sinergia tra le diverse componenti che danno una sbocco economico a creatività e produzione materiale.
La mostra ci sembra abbia un valore che va oltre la pur importante esposizione di opere pregevoli per assumere il significato di simbolo e di paradigma su come si può rispondere ai cambiamenti del mercato. Alla metà del ‘500 la crisi della produzione, fino ad allora caratterizzata dall’istoriato con la lavorazione a tornio, fu superata con l’innovazione nel settore in difficoltà; i cambiamenti furono a 360 gradi, dallo stile dell’ornato nel senso della pulitezza del bianco con un diverso smalto e il decoro essenziale, alla tecnica produttiva con la lavorazione in serie introducendo gli stampi.
Ciascuno può fare gli opportuni riferimenti anche a vicende di grande attualità: non si agì su un solo aspetto ma su tutti quelli coinvolti nel processo produttivo, dai “modelli” alla tecnologia fino alla distribuzione. E anche allora ci furono forme di decentramento produttivo sui mercati di consumo, come lo spostamento di ceramisti di Castelli a Napoli, grande città europea, e la produzione nel Trentino per la forte domanda dalla Germania da parte di corti nobiliari. Questo collegamento ci fa sentire ancora più vicine e noi e attuali le tante opere che abbiamo potuto ammirare, oltre 170, nella bella mostra ai Musei Capitolini, esemplare per l’allestimento suggestivo oltre che per i contenuti.