di Romano Maria Levante
Dopo aver raccontato la premiazione per l’iniziativa alla quale hanno partecipato 30 scuole della provincia di Roma, intitolata “100 + 1, Cento film più un Paese, l’Italia”, che ha visto impegnati 1800 alunni con i rispettivi professori, facciamo un primo piano sul liceo ginnasio “Tacito” di Roma, risultatotra i premiati con una delle quattro “menzioni speciali” ai lavori scritti, per rendere onore al merito e far percepire a tutti gli interessati le vaste potenzialità della manifestazione.
Il primo piano non può che aprirsi con la fotografia di gruppo di un’allegra brigata di studentesse e studenti intorno alla professoressa, al termine della premiazione, prima del “rompete le righe”. Serena Dandini ha concluso la sua conduzione fresca e disinvolta nel sole implacabile che inondava il cortile di Palazzo Valentini assecondata, nel leggere le motivazioni e consegnare i premi, dai registi e attori i cui interventi sono stati in carattere con la sua freschezza e disinvoltura.
L’immagine successiva che ci sembra molto eloquente è la locandina ideata per la manifestazione dalla scuola premiata, ne ribadiamo lo spirito critico e l’iniziativa di proporre una nuova denominazione per superare il 100 + 1 troppo simile alla “carica dei 101” di disneyana memoria, che evoca un “comic” tenero ed esilarante, ma di impronta infantile, su una storia invece molto seria: perché è la nostra storia – lo propone il loro titolo che abbiamo fatto nostro – scritta con 100 storie, anch’esse molto serie pur se con il tono della commedia: sono il costume e la vita del Paese.
La menzione speciale al Liceo Classico “Tacito” di Roma: parla la professoressa
A questo punto, dopo aver raccontato nel servizio precedente la premiazione, la nostra vocazione all’approfondimento ci ha fatto rivolgere l’attenzione alle “menzioni speciali” di cui non si è saputo altro che la motivazione. Non hanno avuto il televisore a 40 pollici o le video camere dei tre cortometraggi premiati ex aequo, ma l’attestato e soprattutto il riconoscimento morale, ed è quel che più conta, della validità del lavoro svolto con gli strumenti classici della scuola: la scrittura.
E siamo stati fortunati, aveva avuto la “menzione” proprio il gruppo che avevamo fotografato per la gaiezza e la simpatia di ragazze e ragazzi sorridenti alle prese con le fette della torta di “Cinema & Storia”. Appena ci siamo rivolti alla professoressa abbiamo capito di aver trovato quello che cercavamo, una testimonianza diretta per conoscere da vicino il modo con cui si è proceduto. Che poi si trattasse dell’unico liceo classico premiato per noi è stata la ciliegina sulla torta, di licei classici ne abbiamo frequentati due, il Melchiorre Delfico di Teramo e poi il Minghetti di Bologna.
Il nostro “blow up” inizia con una testimonianza, quella della professoressa che dopo la fotografia si presta a raccontarci “com’è andata”, mentre le ragazze continuano a gustare il loro pezzo di torta scherzando. “La maggiore difficoltà – ha esordito parlando degli allievi – è stata invogliarli e riflettere su cose che ignoravano del tutto. Dovevamo scoprire un mondo a loro sconosciuto, in particolare il passaggio dell’Italia da paese agricolo a nazione industriale con il boom economico”.
Ebbene chi come noi ha vissuto il “miracolo economico”, i “favolosi anni ’60” e poi il ’68 si deve immedesimare in una generazione che forse neppure dai genitori ha avuto trasmessa la memoria di quel periodo. Solo il cinema lo può riportare alla loro attenzione con la forza coinvolgente delle immagini e il fascino delle storie narrate. Ci sta provando anche la letteratura, con il Festival in corso a Roma alla Basilica di Massenzio, imperniato appunto sulla “Vita Dolce” per celebrare il sessantennale della “Dolce vita”. Però lo fa nella rilettura attuale, di scrittori e filosofi che leggono propri testi sui temi proposti, mentre il cinema permette di calarsi direttamente nella realtà evocata.
Ma lasciamo proseguire la professoressa: “Dopo lo sconcerto iniziale sono seguite le azioni di inquadramento di quel periodo perché potessero immergersi in una realtà i cui contorni fossero in qualche modo delineati. Così siamo andati alla riscoperta di un mondo all’apparenza meno concitato di oggi, con tanti problemi”. E qui una notizia forse sorprendente anche per gli organizzatori: “Non si sono appassionati soltanto alla storia del costume, lo strumento cinematografico li ha presi, sono andati anche alla tecnica cinematografica sui piani e sulle sequenze, con riferimento a due film molto diversi anche nell’aspetto più appariscente oltre che nel contenuto: il bianco e nero di ‘Io la conoscevo bene’, il colore di “Un borghese piccolo piccolo”.
Un aspetto che la professoressa sottolinea in modo particolare è il lavoro collettivo della classe al completo: “Hanno partecipato i ventuno componenti, nessuno escluso, tutti sullo stesso piano prima individualmente e poi collettivamente”. Ed ecco come si è proceduto, facendo attenzione a che ogni apporto fosse valorizzato : “C’è stato, dunque, un lavoro preparatorio, ho dovuto allungare i tempi di cui potessimo disporre rispetto a quelli che si potevano sottrarre al normale programma”.
Per il lavoro conclusivo, nel quale si sono tirate le fila di quanto emerso dalla visione e dalle discussioni sui film visionati, Internet è stata fondamentale, è stato come creare un Intranet della classe: “Comunicavamo con le e mail, ognuno ha fornito il proprio apporto singolo, poi è iniziato il lavoro di gruppo”. Come? “I pezzi forniti da ciascuno sono stati valutati in modo collegiale per individuare le parti più valide e condivise da utilizzare; su questa base si è provveduto alla riscrittura collettiva organizzata per gruppi”. La riunione conclusiva si è protratta fino a sera tardi.
La professoressa ci tiene a sottolineare l’importanza del punto di partenza: l’ammissione esplicita “non sappiamo nulla”, la consapevolezza di non conoscere la materia. Sottintende il principio socratico “so di non sapere” come principio basilare del sapiente, altrettanto valido per dei giovani discenti. Osserviamo che quell’ammissione fa onore a loro, nel costume di un paese fotografato oltre che dalla maschera di Alberto Sordi anche dal “sarchiapone” di Walter Chiari con la presunzione di mostrare di sapere tutto, anche quello di cui non si sa nulla: ebbene, questa classe non avrebbe descritto il “sarchiapone” né avrebbe detto: “io lo allevo” come invece “fan tutti”.
I contenuti proposti da due film alquanto impegnativi sono molto diversi, il secondo pone anche problemi complessi sul sistema di valori. Perchè in “Un borghese piccolo piccolo” c’è un capovolgimento dei ruoli e sembrano sbiadire i confini tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Per l’analisi svolta dalla classe il protagonista è negativo sin dall’inizio, nel sostituirsi al figlio e cercare tutte le scorciatoie per un malinteso amore paterno, prima di precipitare nel dramma finale.
“Non è stato facile far entrare dei ragazzi in un mondo così livido e spietato da entrambe le parti, ma non è stato traumatico, ci ha aiutati il loro interesse alla tecnica cinematografica nello studio delle sequenze”. Anche se, come vedremo dalla loro analisi, i contenuti hanno lasciato il segno.
La professoressa mostra un vero trasporto nel raccontare questa sua esperienza, ci dà anche l’elaborato nel quale il lavoro è confluito. Ne daremo conto di seguito, è intitolato “100 storie per la nostra storia – Contributo degli alunni della II A al progetto ‘Cinema & Storia”. Si presentano così: “Siamo gli alunni della classe II A del Liceo Ginnasio statale ‘C. Tacito’ di Roma, ‘capitanati’ dalla professoressa Laura Maria Teodori”. E nelle virgolette alla parola “capitanati” ci sembra di vedere una citazione: al “capitano, mio capitano!” dell’“Attimo fuggente”.
Alla moviola con le immagini e i contenuti
Qualcuno non riterrà ortodosso fare il “il traduttor dei traduttor d’Omero”, ma è utile se si vuole toccare con mano come è stato tradotto in pratica quanto detto dalla professoressa, e verificare la portata formativa dell’iniziativa. Naturalmente l’elaborato finale è solo la punta dell’iceberg costituito dall’effetto in profondità nell’animo e nella sensibilità dei ragazzi, la parte più importante.
Sin dall’inizio si parla di interesse e passione, lavoro e proposte, visioni e analisi, dibattiti e confronti, emozioni e riflessioni. Quella riassuntiva vede così “il vero cinema”: “E’ divertente, pieno di contenuti, impegnato, non noioso: dà un’idea del mondo e un’idea di sé. E la storia non incontra il cinema per caso, non lo sfiora tangenzialmente, non è un genere. Cinema è storia”. Per loro questo nesso è così importante che contrappongono all’immagine leggera suggerita da 100+1 la più austera intitolazione che qualifica i film come “cento storie” per costruire “la nostra storia”.
E’ solo l’inizio, l’analisi dei due film non è fatta in una visione d’insieme delle vicende narrate, anche se alla fine ricompongono il quadro per trarne una loro morale. Non si improvvisano critici cinematografici, si comportano da veri cineasti che esaminano le sequenze ritenute cruciali e le analizzano ad una ad una con un occhio alla macchina da presa e uno sguardo ai contenuti.
Seguiamoli in questa scomposizione per immagini delle due storie, quasi in un’operazione di montaggio alla moviola, si precisano i minuti. Ed era evidente che nell’introspezione la parte del leone la facesse Adriana, la protagonista di “Io la conoscevo bene”, impersonata da una giovanissima e stimolante Stefania Sandrelli, quasi un’identificazione con i sogni e le illusioni frustrate di tanta gioventù in una vita reale invece spesa nella noia e nelle inquietudini: sette sono le sequenze, per “Un borghese piccolo piccolo” sono tre, poi per entrambi le schede di sintesi.
Scene da “Un borghese piccolo piccolo”
La durezza del tema di questo secondo film con protagonisti i maturi genitori stravolti dal dolore portava a una rimozione, ben venga che invece si siano potuti fissare alcuni momenti cruciali. C’è l’anonimato di un lavoro svolto da “persone prive di immagine, di volto”, in “un luogo tragico e ridicolo”; si coglie la tragedia anche in una “massima aspirazione” malintesa e avvilente.
Come lo è la “religione piccola piccola” della seconda sequenza dove, invece che un rito collettivo, “la religione è solo un fatto privato. Tutto è privato, particolare. Annullata la comunità, l’incontro, la parola, la condivisione.
Nel cuore delle sequenze irrompe l’“’ordinaria’ mostruosità”, vista non soltanto nella tortura cui il protagonista sottopone il giovane che ha ucciso suo figlio dopo averlo sequestrato: “La mostruosità è prima. La mostruosità è già nel modello di vita. E’ nel pensare a se stessi soltanto. E’ chiuso al mondo il borghese piccolo piccolo, questo mostro. Comunità niente vuol dire per lui”.
La sintesi finale “dal ridicolo al tragico” segnala il taglio cinematografica delle parti del film, “la prima parte è caratterizzata da situazioni grottesche, quasi comiche”; poi la svolta drammatica, “in un attimo la situazione cambia, viene messa da parte quell’amara comicità”. Ci fa venire in mente “La vita è bella”, dove c’è analogo spartiacque quando alla farsa subentra un clima cupo da incubo.
Dell’analisi dei ragazzi colpisce e fa riflettere l’aver colto nel finale la possibile continuazione di un evento irripetibile, ormai non serve la tragedia più spaventosa per scatenare i peggiori istinti, al “borghese piccolo piccolo” basta che “un giovane lo insulta per strada”: si scatena lo “spirito del giustiziere” che è entrato in lui, “Giovanni insegue il giovane, presumibilmente, lo ucciderà”.
E’ una conclusione su cui meditare: “Questo film provoca disagio. Ci domandiamo quanto del borghese piccolo piccolo è in noi. Se anche noi siamo piccoli piccoli mostri”. Hanno colto, senza saperlo, le perplessità di Alberto Sordi evocate da Giuliano Montaldo, temeva si equivocasse e fosse preso per comportamento esemplare da imitare; no, i ragazzi lo hanno capito bene. Anche se in loro è subentrato un disagio. Quanti piccoli piccoli mostri tra noi, e se lo fossimo noi stessi?
Filosofia e psicologia, modelli e valori, quanti contenuti hanno potuto cogliere in un film! Per giunta meno congeniale per loro dell’altro molto più vicino ai propri turbamenti di adolescenti. Che provocano l’inquietudine esistenziale, non il disagio identitario. Nell’altro film prevale la prima.
Scene da “Io la conoscevo bene”
L’inquietudine è nella figura di Adriana, protagonista della loro analisi: dalla “sequenza iniziale” sono tutte dominate dall’adolescente che vive sulla propria persona il passaggio dalla vita rurale a quella cittadina nell’esodo epocale dalla “campagna” dove “tutto sembra essere fermo, dove tutto sembra essere senza tempo”, verso un mondo diverso, “per la ricerca della fortuna in città”.
La sequenza “con lo scrittore” viene vista come illuminante, lei ride dell’immagine di Milena che legge nelle pagine sparse sulla scrivania, “fino a che non si rende conto che forse questo personaggio non è del tutto inventato, anzi è proprio lei”. Ed è significativo che nella lettura si individua “il primo momento del film in cui Adriana inizia a prendere coscienza del fatto che sta sprecando la sua vita”; e si giustificano incertezze e superficialità, deve affrontare un mutamento epocale e nessuno la aiuta, la risposta che trova è “chissà, forse fai bene tu a vivere così”.
Come? Con le “mani bucate”, lo dice la canzone di Sergio Endrigo che è nel sottofondo della terza sequenza analizzata. Affidandosi, cioè, a chi si approfitta di lei che va “cercando tenerezza e compassione, per colmare il vuoto che sente dentro e che la rende profondamente sola e spaesata in un mondo troppo complesso per lei”; e perciò “incassa una delusione dopo l’altra con leggerezza, lasciandosela scivolare addosso”. Crede “di potersi destreggiare tra tanta spietatezza”, ma quando è sola come nella scena, “percepisce la solitudine e cerca di affogare il silenzio che la attanaglia”.
Un’altra canzone è anch’essa alla base dell’analisi, si tratta di “E se domani”, parla di perdita incolmabile. Adriana ripensa alla morte della sorella che aveva vissuto con superficialità, ora invece “la maschera che normalmente indossa crolla e lascia intravedere una sensibilità ingenua, innocente, schietta”. Con la voce di Mina, osservano i ragazzi, “sembra quasi di sentire l’anima di Adriana, lei che non fa mai programmi per il futuro, che vive minuto per minuto, che cerca di afferrare un pezzo del suo passato a cui ancorarsi per non lasciarsi trasportare giù”.
Tutto questo lo ricavano dalla “scena degli specchi”, sembra che i ragazzi siano alla moviola: “Pochi secondi, lentamente la camera segue il suo sguardo in movimento, si sposta verso sinistra fino ad abbracciare un’altra immagine del volto piangente”. E’ l’immagine “della protagonista, la vera Adriana, che osserva se stessa”.
La trilogia musicale si completa con “Toi” di Gilbert Becaud, anche qui i ragazzi sentono la musica ma guardano i movimenti della camera: “La macchina da presa è posizionata di fronte all’automobile, la accompagna nel suo percorso. Le inquadrature si giocano su due piani”, la parte anteriore con la città r i riflessi sul parabrezza con un “bell’effetto, piacevole. Ma inquietante, anche” . Perché passano le ombre, scivolano, come la vita è scivolata via dalle mani di Adriana, quando era ancora inconsapevole. Ora è diversa, però. Qualcosa è cambiato in lei”.
Di qui parte l’analisi finale, le sequenze si ricompongono, emerge la figura di “Adriana”: “Il prototipo della nuova Italia: attraente e convinta di poter usare il proprio fascino per farsi strada nell’ambiente dello spettacolo”. Mentre cade presto l’illusione che “tutto, anche le esperienze negative, sembra scivolare via senza lasciare alcuna traccia”: il dramma psicologico si tramuta in tragedia, come per “Un borghese piccolo piccolo”, come per il gettonatissimo “I pugni in tasca”.
Eloquente l’osservazione dei ragazzi: “Storia, diremmo oggi, attualissima: quante ragazze, infatti, sognano di entrare a far parte di quel mondo spregiudicato dello spettacolo a cui Adriana tanto aspirava? Quante alla fine ce la fanno? Ma soprattutto quante di queste ragazze sono costrette a cedere a vergognosi ricatti?”. Domande retoriche, questi giovani la loro risposta l’hanno data.
Che non si tratti di osservazioni superficiali lo dimostra l’ultima carrellata riassuntiva intitolata “L’Idiota”. Per Adriana come per il principe Myskin di Dostoevskij esplode il contrasto tra la natura buona e ingenua, presa per “deficienza”, e una società che si oppone a questi suoi sentimenti e rivela la vera natura della realtà, così diversa dal mondo che lei ha lasciato nel trapasso epocale del boom economico; e tale da sopraffarla quando “la sporca fuliggine che la società deposita sul fondo della sua coscienza pian piano inibirà quel suo chiudere gli occhi che le permetteva di andare avanti dopo ogni amara sconfitta che le veniva inferta da spettatori impietosi della sua storia”.
Se il film è riuscito a far aprire gli occhi su un degrado che “non solo fa parte del mondo moderno, ma ne è anche l’elemento fondante” l’iniziativa ha raggiunto un ulteriore insperato risultato.
L’utilizzo della rete come “forum”: una proposta
Abbiamo lasciato per ultima la loro proposta, che hanno collocato all’inizio: “Perché non ipotizzare l’apertura di spazi, in rete o altrove, destinati all’espressione e al confronto di idee, commenti, critiche ed elaborazioni riguardanti i film proposti?”. Viene così precisata: “Lo sfruttamento di un mezzo come la rete, largamente utilizzato dai fruitori del progetto (studenti liceali) potrebbe rivelarsi strategico e assolutamente ‘proficuo’”. In pratica “la creazione di un blog, un forum, una pagina Facebook potrebbe attirare l’attenzione di molti e stimolare il confronto sui film visti”.
La proposta ha tutto il nostro appoggio, anzi facciamo di più: mettiamo a disposizione lo spazio per i commenti che fossero sollecitati sui film di cui abbiamo detto e anche sugli altri. Naturalmente ci aspettiamo che i primi a usufruirne siano proprio i ragazzi dei quali abbiamo riportato l’accurata ed intelligente analisi; e in particolare l’allegra brigata da noi fotografata mentre assapora con gusto l’ottima torta di “Cinema & Storia”. Non abbiamo potuto ascoltarli dopo la professoressa Teodori, mentre parlava con noi hanno salutato e si sono allontanati. Ci terremmo molto ad averne i commenti, del resto noi stessi ne abbiamo commentato il lavoro. Se l’Intranet virtuale della classe funziona ancora, non tarderanno a ricevere l’eco di questa nostra diretta e personale sollecitazione.