di Romano Maria Levante
– 6 febbraio 2010
Quindici pittori italiani alla grande mostra aperta fino al 7 febbraio 2010, con quasi 700 opere di 200 autori. L’abruzzese (di Chieti) Marco Boschetti ha invece esposto – sempre a Roma – dal 24 al 29 gennaio 2010. Al Vittoriano gli artisti delle mostre di Breton fino al 1965, da Ernst a Ray, da Duchamp a Magritte, da Giacometti a Dalì, con i “precursori” da Kandinskij a Mirò, da Chagall a Klee, in una concezione libertaria di arte e vita nella pittura e in altre svariate forme..
La vendita record di “L’uomo che cammina”, un scultura di Giacometti acquistata all’asta londinese di Sotheby’s di inizio febbraio 2010, per 104 milioni di dollari, ha illuminato gli ultimi giorni della grande mostra del Vittoriano, nella quale sono esposte anche opere dell’artista. Non c’è il pittore surrealista abruzzese Marco Boschetti di Chieti che ha esposto, sempre a Roma, dal 24 al 29 gennaio: una pittura “tra sogno e realtà”, espressione di un pensiero inquieto del tutto libero.
Venivamo dalla scalinata con il tappeto rosso di Palazzo Venezia per “Il Potere e la Grazia”, ci troviamo a salire un’altra scalinata nel vicino Complesso del Vittoriano. Non è imponente e antica come l’altra, invece del tappeto rosso come guida centrale c’è una passatoia di plastica bianca con scritti dei nomi su ogni gradino, anche nell’alzata: è l’infinita teoria degli autori esposti, duecento, che accompagna dal corridoio di accesso lungo le due lunghe rampe di scale e nell’insolita collocazione già introduce alla mostra; sono anche duecento le pubblicazioni d’epoca dadaiste e surrealiste allineate nella vetrina che costeggia l’ultimo corridoio di accesso al piano superiore.
Là si celebrava una storia, la tradizione e l’identità, e lo si faceva nel modo più solenne, nel culto della bellezza, al Vittoriano si dà conto di una rivoluzione non solo pittorica ma anche culturale contro ogni tradizione, tutt’altro che espressione della bellezza. Non contano i temi e gli stili, conta l’autore, di qui la lunga teoria di nomi e l’assenza di qualsiasi percorso comune stilistico o tematico.
Il mondo del Dada e del Surrealismo
Si entra nel mondo del Dada e del Surrealismo, i due movimenti nati nel secondo decennio del ‘900, un secolo così prodigo di movimenti artistici anche sovrapposti e intersecati, se nel 1909 c’è stato il “Manifesto del Futurismo” di cui si è appena celebrato il centenario e poi sono seguiti altri movimenti, ciascuno con il suo messaggio di cambiamento: il Fauvismo nel colore, il cubismo nei volumi, e così via. Dadaismo e Surrealismo cambiamento in tutto, non in una componente, con uno spirito libertario che arriva alla pittura e all’arte dalla letteratura e dalla filosofia: in questo forse sulla scia del Futurismo che postulava anch’esso una palingenesi di vita contro il conformismo borghese, ma lì c’era un indirizzo ben preciso nell’energia, nel movimento, nel futuro, qui no.
In questi due movimenti l’unico indirizzo è l’assenza di un indirizzo, a parte la cancellazione dei lasciti del passato nell’arte come nella vita. Assenza che non va vista come vuoto assoluto, tutt’altro, le idee venivano espresse addirittura nei Manifesti, come aveva fatto il Futurismo.
Nel 1918 abbiamo il “Manifeste Dada” di Tristan Tzara, pubblicato nel terzo numero della rivista “Dada” che affermava: “L’opera d’arte non deve essere la bellezza in se stessa perchè la bellezza è morta”, seguendo dei fermenti manifestatisi già nel 1916 con l’apertura a Zurigo del “Cabaret Voltaire”; la rivista era uscita addirittura nel 1912 e l’anno dopo c’erano state in Russia e a Praga serate che precedettero quelle propriamente dadaiste di Zurigo, Parigi e Berlino. In questa fase iniziale partecipavano alle loro mostre collettive anche cubisti e futuristi, espressionisti e astrattisti. Il nome fu trovato da Tzara per caso nel vocabolario “Larousse”. Si chiamerebbero così la “coda della vacca santa” (per gli indigeni Kru), il cubo e la madre (per una non specificata zona italiana), il doppio sì (in russo o rumeno); quindi, secondo lui, è “una parola che non significa nulla”.
Successivo è il primo “Manifesto del Surrealismo” di André Breton, del 1924, ma già tra il 1914 e il 1918 si rivela determinante l’influsso di alcuni scrittori,. In Rimbaud, Breton coglie la visione trascendente della realtà come “regolamento dei sensi”, in Jarry vede “contestata, e finirà poi annullata nelle sue stesse basi, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria”; in Apollinaire trova la poesia e l’erotismo, il meraviglioso e la sorpresa; in Freud la poesia nelle associazioni verbali degli alienati mentali. Finché nello sconosciuto Lautréamont trova riuniti questi influssi in una “rivelazione totale”: intravede, dice Schwarz, “l’anticipazione dello spirito moderno in tutti i suoi aspetti più sovversivi… il rifiuto dell’aspetto utilitario-borghese delle attività intellettuali, il significato più profondo della crisi di tutti i valori”.
Citiamo ancora parole del curatore della mostra Arturo Schwarz di cui parleremo alla fine: “Dada e il Surrealismo sono stati gli unici due movimenti dell’avanguardia storica a non limitarsi a una rivoluzione visiva, ma a propugnare invece una rivoluzione culturale, nel senso maoista di ‘rivoluzione ininterrotta’ e di abolizione dell’antinomia tra teoria e pratica… Dada e il Surrealismo suggerivano una nuova filosofia di vita”: rivoluzionaria perché basata sul superamento dei modelli in essere. E qui finiscono le analogie, anzi la contiguità finché non rimase solo il surrealismo, presente e attivo tuttora in una ventina di gruppi sparsi nel mondo in tutti i continenti.
Le differenze sono notevoli, nell’impostazione e nello spirito interiore più che nella manifestazione esteriore, e abbiamo già detto che furono filosofie di vita prima che correnti artistiche.
Rivoluzione e palingenesi per entrambe. Il Dada aveva una concezione nichilista, con l’imperativo di fare “tabula rasa” del passato, negando in modo radicale tutti i valori e rifiutando qualsiasi convenzione borghese;. Ma non per finalità etiche, estetiche o di altra natura, la “rivoluzione” veniva perseguita per se stessa, come liberazione da qualsiasi vincolo, fosse anche quello della logica. Tanto che per la poesia Tzara suggeriva di tagliare le singole parole da un giornale, metterle in un sacchetto, estrarle e allinearle a caso: “La poesia vi rassomiglierà. Eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di sensibilità incantevole”. E’ un esempio, il tipico gesto dada di provocazione contro il buon senso e il costume, la morale e le regole.
Il surrealismo invece vedeva la palingenesi come strumento di rinnovamento altrettanto radicale nel campo etico-politico prima che in quello artistico. Breton, che si ispira anche ad altri personaggi oltre quelli già citati, scrive nel 1935: “Trasformare il mondo’ ha detto Marx; ‘Cambiare la vita’ ha detto Ribaud; queste due parole d’ordine sono per noi una sola. ‘Bisogna sognare’ ha detto Lenin: ‘Bisogna agire’ ha detto Goethe”. E conclude: “Il surrealismo non ha mai voluto altra cosa, il suo sforzo è teso a risolvere dialetticamente questa opposizione”. E’ un “automatismo psichico” per esprimere in ogni forma “il funzionamento reale del pensiero”. Cioè “è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo dettato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”.
Di questi due movimenti sono esposte quasi 700 opere, considerando le pitture e le sculture, i collage e gli oggetti, i disegni e i video. Schwarz ha voluto che fossero rappresentati tutti coloro che hanno partecipato ad una almeno delle sei mostre di Breton, quindi hanno avuto un contatto diretto con lui. Da un lato non ha ammesso i successivi, dall’altro ha curato che ci fossero tutti quelli di Breton, non solo i più noti, per la prima volta, cosa che accresce il valore della mostra. Di qui il numero di duecento artisti i cui nomi si leggono sugli scalini salendo ai due piani superiori del Vittoriano, in un intrico di sale dalle pareti bianche e luminose l’una dentro e dietro l’altra: un’ambientazione opposta rispetto alla scenografia da Kolossal dell’altra mostra citata all’inizio.
E’ il momento di vedere le opere esposte dopo averne inquadrato motivazioni e contenuti, o meglio, assenza di contenuti. E mancanza anche di una linea stilistica o di un collegamento di qualsivoglia natura tra gli artisti. Li unisce solo la libertà assoluta di espressione, eliminato ogni riferimento a determinati canoni stilistici come alle apparenze della realtà, con le due motivazioni di fondo radicalmente dissimili: il nichilismo distruttivo nel Dada, il rinnovamento utopico nel surrealismo.
Precursori e compagni di strada, “cadaveri squisiti” e “readymade”
L’inizio della mostra è di grande livello, perché i “precursori” sono artisti di fama che in qualche misura sono stati anche “compagni” di strada dei due movimenti, abbiamo detto come inizialmente ci fossero commistioni e partecipassero alle stesse mostre collettive.
Di Chagall non abbiamo le figure fortemente colorate nel volo onirico, ma delle “acqueforti e punta secca”, disegni molto composti di una “Casa”, e “Davanti alla porta”.
Così de Chirico è presente con quattro opere, ciascuna espressiva di un periodo: c’è lo splendido olio metafisico “Enigma di una partenza”, poi il disegno michelangiolesco dei “Bagni”, quello con i punti e linee dell’ “Apocalisse”, dal titolo “Nel paese della gatta fata”, e un disegno del 1915 intitolato “Piazza surrealista e paesaggio”, proprio così, surrealista e non metafisica, con le arcate misteriose, il monumento al centro, il treno sbuffante nello sfondo, un ciuffo di alberi.
Incalza Duchamp con “Giovane e fanciulla” e “Sposa” seguito da Kandinskij con le intelaiature di “Anche di più” e la voluta oblunga colorata di “Fisso” .
Ben cinque sono le opere esposte di Klee, due disegni a matita, due acquerelli e un piccolo “penna su carta” con una gustosa “Gioia animale”, due ironici gatti quasi in parata.
Arrivano i colori negli otto oli di Alberto (Giacomo Spiridione) Martini, forti figure femminili ovviamente reinterpretate in modo surreale e un forte autoritratto dal titolo “Il veggente”.
Questo “parterre de roi” si conclude con dei grossi calibri: due piccoli quadri di Munch, una litografia a colori e una xilografia, e due grandi oli su tela di Klinger, “Nereidi” e “Sirena”, che con le figure distese in dissolvenza rappresentano il mondo che sta per essere travolto dalla rivoluzione nelle motivazioni, nei contenuti e nelle forme dei due movimenti di avanguardia.
Ci siamo soffermati su questi grandi, ma percorreremo rapidamente il mondo rivoluzionato dei Dada e dei Surrealisti, il numero di opere è così elevato da non consentire una compiuta rassegna. Pescheremo fior da fiore per dare un’impressione complessiva di una mostra che può essere “raccontata” ricorrendo a fuggevoli immagini, dopo aver provato lo “shock” della visione diretta.
Una spiegazione è doverosa, e riguarda i “Readymade”, le opere realizzate presto. Sono forse quelle maggiormente “shockanti”, la più trasgressiva delle quali, “Fontana”, di Duchamp che è un orinatoio preso dalla realtà, è posta nel logo della mostra insieme alle altrettanto famose grandi labbra rosse di Ray. che evocano “Gli innamorati”. In questa scelta Schwarz si dimostra ancora una volta surrealista nell’anima, offrendo una provocazione nella provocazione mettendo in evidenza e accostando l’opera più irridente a quella più romantica.
Ecco come spiega i “Readymade”nelle “istruzioni per l’uso” della mostra: “La regola iniziale stabiliva che bisognava ‘spaesare’ l’oggetto, riproporlo con l’angolo di visuale cambiato al fine di ‘decontestualizzarlo’”, com’è con una ruota su uno sgabello invece che su un telaio di bicicletta, un attaccapanni al soffitto invece che alla parete. “Ma tale spaesamento di carattere fisico non bastò”.
Il precursore Duchamp “aggiunse un altro fattore di spaesamento, questa volta di carattere semantico, che potesse rafforzare l’effetto del primo, e cioè dare all’oggetto un titolo – che egli definì con me ‘un colore verbale’. Lo scopo era quello di trasportare la mente dello spettatore verso altre regioni, più mentali, e quindi il titolo non doveva essere descrittivo e tanto meno doveva avere un rapporto logico con l’oggetto stesso. Si trattava, infatti, di riscoprire la dimensione poetica dell’oggetto scelto”.
Non basta: “Sempre più esigente con se stesso, Duchamp stabilisce poi una terza regola dal carattere evanescente. Egli ritiene sia necessario pianificare un incontro con l’oggetto che diventerà un Readymade. Postula cioè che , tra l’artista e l’oggetto, vi sia ‘una specie d’appuntamento. Naturalmente bisognerà datarlo tale data, ora, minuto”. E, per concludere: “La quarta regola che Duchamp impose a se stesso, per non scadere nell’atto ripetitivo, fu quella di limitare il numero di Readymade scelti in un anno”.
Schwarz riporta le parole testuali di Duchamp: “Molto presto mi resi conto del pericolo di ripetere indiscriminatamente questa forma di espressione e decisi di limitare a un piccolo numero la produzione annuale di Readymade. A questo punto comprendevo che, più ancora per lo spettatore che per l’artista, l’arte è una droga che dà assuefazione, e volevo proteggere i miei Readymade da una simile contaminazione”.
E’ significativo come Schwarz voglia proteggerli lui stesso, preoccupandosi di “dissipare l’impressione che chiunque, nel tentativo di imitare Duchamp, sia in grado di prendere un oggetto di serie e di promuoverlo alla dignità d’un oggetto d’arte per il solo fato di averlo scelto e firmato”. E se non bastasse aggiunge: “Troppo facile. Si dimentica che non vi è opera di Duchamp che non sia il frutto di quello che ho definito altrove ‘il rigore dell’immaginazione’ “.
E con questo ossimoro del curatore della mostra – dato che a chi non è surrealista nulla sembra meno rigoroso e più libero dell’immaginazione – passiamo dalla lezione di Schwarz che è stata una sorta di laboratorio dada-surrealista alle opere espressamente riferibili ai due movimenti, iniziando con i dadaisti per passare poi ai surrealisti delle principali mostre organizzate da Breton.
Ma prima uno sguardo alle “opere collettive”, realizzano nella pittura ciò che abbiamo riferito sulla poesia dadaista formata prendendo a caso le parole da un sacchetto, cioè al buio. Qui al buio nascono dei dipinti in una sequenza detta dei “Cadaveri squisiti”: cinque artisti uno dopo l’altro aggiungono le loro pennellate a un quadro senza vedere quelle precedenti. Ne sono esposti dieci, c’è sempre André Breton nel gruppo, in due Tristan Tzara: cinque “matite colorate su carta” sono a composizione unica, e si deve dire che sia pure “al buio” c’è un’unitarietà interessante, gli altri disegni sono a comparti affiancati, anzi diremmo che sono “squisiti” e tutt’altro che”cadaveri”.
I dadaisti
Ed ora, dopo i grandi “precursori” e “compagni di strada” entriamo nel mondo dei Dada, nella provocazione contro la morale e il buon senso, le regole e anche la logica. Qui il riferimento è alla “Prima Fiera internazionale Dada” del 1920 a Berlino, che per due mesi e mezzo espose soprattutto autori tedeschi con innesti prestigiosi. Scorriamo le opere, citando solo alcune di esse.
Di nuovo Duchamp, non più come “compagno di strada” ma protagonista con dodici opere, tra le quali i due primi “readymade” mai realizzati: la “Ruota di bicicletta” su uno sgabello, seguita dal “Portabottiglie” appeso al soffitto.. Qui la provocazione consiste nello “spaesamento”, mentre in altre troviamo il “colore verbale”: il badile per spalare la neve è intitolato “In anticipo del braccio rotto”, l’attaccapanni è chiamato “Trappola”, fino al vero orinatoio in porcellana intitolato “Fontana”. La trasgressione nelle opere pittoriche si esprime anche nel cosiddetto “readymade rettificato”, la riproduzione della “Gioconda” leonardesca con dei sottilissimi baffetti e pizzetto, dal titolo “L.H. O.O.Q”, la “rettifica” è appena accennata, non si pensa alla profanazione. Ci sono altre “rettifiche”e un “Apolinère smaltato” su latta dipinta.
Anche il padre del surrealismo Breton figura in questa sezione con un “Assemblaggio Dada”, collage di lettere; collage pure per Blumefeld, uno dei quali dal titolo “Dada” reca in grande questa scritta sopra immagini di persone prese in parte da fotografie.
Passiamo subito a un altro grande, Max Ernst, le litografie della serie “Viva le mode, a morte l’arte” esprimono il concetto tipicamente dadaista con un manichino disarticolato e una colonna spezzata, nello sfondo due cerchi con una sorta di cinghia di trasmissione.
Collages con figure umane in Fraenkel, come “Artistico e sentimentale” e in Grosz, l’interessante “Misura di un uono”, un busto femminile in miniatura tenuto tra due dita maschili, sembra la visualizzazione di “Eri piccola, piccola, piccola… così” di Fred Buscaglione. In Hoch troviamo quattro volti umani allucinati, un “Ritratto” e anche un “Pollo”, in Kassak il manifesto “Dadaco”.
Ancora collage per cinque composizioni di Schwitters, tre colorate intitolate “Merz” e due di Freytag-Loringhoven: un “Ritratto di Marcel Duchamp”, il viso scolpito con i colori e a lato un cerchio con raggi (la sua “ruota di bicicletta”?); e un assemblaggio-scultura “Desiderio nelle membra”, una sorta di spirale in ferro su una base con all’interno un pendaglio, forse il desiderio
Su carta Hausmann, negli “Ingegneri”, figure in acquerello e inchiostro ben definite con teste a uovo e ambiente metafisico, è del 1920, si sente de Chirico; molto diversi la “Testa di contadino” e “391 Berlino-Dresda”, che hanno comunque evidenti riferimenti al titolo.
C’è poi Joostens, che con il titolo “Rotazione mista della libido” presenta una testa a falce di luna e un alambicco che versa in un bicchiere; oltre che su carta normale li fa con dei materiali, finché nella “Costruzione” passa all’oggetto in legno e metallo, una colonna lignea con un imbuto in cima.
Dai collage su carta a quelli su tela di Janco,completati da brillanti colori ad olio, nel “Trofeo” e nel “Soldato della Grande guerra”; è un artista molto versatile, sono esposti anche due oli su tela, il “Funambolo su una fune tesa”, un dadaismo figurativo, e “Ballo a Zurigo”, in stile cubista; quattro “Rilievi”, in legno e metallo, stucco e gesso, fino alla “Maschera per Firdusi”, in legno e cartone, rafia e vernice.
Collage e assemblaggi, acqueforti e fotogrammi si trovano nelle undici opere di Moholy-Nagy ”Senza titolo”, immagini in movimento o schematiche, mentre “Madhouse” è una sorta di intelaiatura di acciaio a campana su un fondo variegato a colori.
Figurazioni quasi astratte nelle quattro “Composizioni” geometriche a colori di Taeuber-Arp.
Il finale dadaista è di due grossi calibri. Ritroviamo Picabia della mostra “Futurismo” con dodici opere, là quadri a olio, qui acquerelli e tempera, inchiostro e carboncino, collage e decoupage. Assortimento di soggetti e stili, dalle tre figure umane quasi figurative a disegni puramente dadaisti, da titolazioni poetiche come “La musica è come la pittura” e “La fanciulla nata senza madre” al più prosaico “I centimetri”. Versatile ed efficace nelle diversissime espressioni artistiche.
Anche di Man Ray quasi una personale con nove opere, l’olio su tela “Il villaggio”, due collage della serie “Porte girevoli”, altri che sembrano “readymade” anche se sono chiamati “assemblaggi” perché all’oggetto principale ne sono uniti altri: così “L’enigma di Isidore Ducasse”, una coperta legata su un’invisibile macchina da cucire di cui si vede la sagoma, un “Dono” cioè ferro da stiro a incandescenza con sotto fissati 14 chiodi, un “Oggetto indistruttibile”, metronomo con aggiunto un occhio sulla lancetta segnatempo, Indubbiamente creativo e sottilmente allusivo e ironico; fino a “Ostruzione”, una sorta di lampadario sospeso fatto di grucce, l’effetto ha la leggerezza di Calder.
Il botto finale spetta a Tristan Tzara, in un certo senso il teorico e iniziatore, anche se con quattro opere molto discrete, “Npala Dada” una sorta di decalogo, un “Calligramma” e “Jamais”, delicati e sottili piantine delimitate dalle scritte poetiche.
A questo punto si impone una sosta. Nella nostra visita per le emozioni forti che abbiamo provato, anche per lo “spaesamento” dinanzi a certe trasgressioni; nella lettura per riprendersi da quelle che siamo riusciti a trasmettere. Passeremo presto alla parte più folta, quella dedicata al Surrealismo.
Tag: Marco Boschetti, surrealismo
2 Comments
- Fabrizio Iacovoni
Postato febbraio 7, 2010 alle 11:43 AM
il commento di sopra e’ di mia
moglie Possenti Michelina a cui mi
associo. Bravo Romano Levante
- Fabrizio Iacovoni
Postato febbraio 7, 2010 alle 11:39 AM
R. Levante in una mostra così i’”tanta” a
livello espositivo e così ’irrazionale
nei contenuti delle opere,e’riuscito a
scrivere il suo saggio con molta chiarez-
za e soprattutto con razionalità, così’ da
rendere il “magma” fruibile. E’proprio un
risultato “tanto”.E poi:saggia la sosta
prima di presentare il Simbolismo.
Grazie ancora. Possenti Michelina-Teramo