di Romano Maria Levante
da cultura.inabruzo.it, 26 gennaio 2009
Ci siamo recati alla mostra di Mario Sironi – come molti dei visitatori che hanno affollato l’inaugurazione la sera del 24 gennaio 2009 a Roma presso il Museo Venanzo Crocetti sulla via Cassia – nel ricordo dell’importante esposizione di quindici anni fa alla Galleria nazionale di arte moderna.
Avevamo negli occhi i grandi dipinti, ci erano rimasti impressi non solo la grandiosità ma anche la forza penetrativa e l’uso del colore, al quale era affidata la rappresentazione delle forme e del movimento; e poi la solitudine degli ambienti industriali, come l’incombente “Gazometro” con le ciminiere sotto un cielo opprimente, sorretti da una razionalità che ne marcava l’alienazione.
Abbiamo ritrovato tutto questo nelle parole di Renato Miracco, curatore della mostra, il quale ha sottolineato i caratteri della monumentalità e della socialità comunicativa di un artista che si rivolge alle masse per confrontarsi con loro al di là delle ideologie; in lui il pensiero, l’idea si fanno tratto, immagine, figura per poter comunicare e, in un certo senso, anche insegnare.
Ma volgendo gli occhi alle opere esposte nelle due pareti parallele si aveva un’immagine ben diversa. Dimensioni molto ridotte, un ripiegamento dell’artista su se stesso in una parete, una esteriorità pubblicitaria apparentemente scevra di veri contenuti nell’altra.
In parte il mistero è stato chiarito dalle parole successive di Miracco e poi di Sonia Costantini, che ha collaborato all’organizzazione della mostra, allorché ne è emersa la peculiarità: forse un limite per coloro che non conoscono l’artista, certamente un pregio per coloro che ora ne possono scoprire aspetti reconditi; gli uni e gli altri portati a rivedere le opere monumentali per confrontare con esse quanto appreso nell’inaugurazione ma soprattutto per leggerle o rileggerle alla luce di quanto acquisito dalla visione delle opere esposte. Anche perché la stessa forma espositiva ne ha facilitato l’interpretazione a chi non è critico d’arte ma semplice cronista o a chi è un normale visitatore.
I piccoli disegni della parete destra della sala sono all’insegna di un’introspezione che rivela la profondità dell’anima dell’artista. E fanno ricordare la sua vita che ha avuto momenti difficili, la depressione superata con la partecipazione al movimento Futurista da lui reinterpretato affidandosi più al colore che alla forma, l’adesione al movimento Novecento, che lo vide tra i fondatori, il contrasto profondo tra il suo senso di libertà e l’esaltazione celebrativa del regime fascista da lui vissuta rielaborando le figure del regime e alimentandosi alla fonte della civiltà italica per ricavarne realizzazioni moderne e innovative. Una vita di impegni nei movimenti e di contrasti, che fa capire quanto siano profondi i sentimenti di sofferenza percepibili alla base e nel cuore di quei disegni.
Tutto l’opposto le illustrazioni, anch’esse di piccola dimensione, che fronteggiano i disegni nella parete opposta: immagini di un futurismo che sembra tutto esteriore, in linea con la sua destinazione pubblicitaria che non vuole insegnare o trasmettere valori, bensì solo sorprendere. Ma dopo la prima impressione irrompe una sensazione diversa, indotta non dall’analisi critica delle immagini ma da quello che comunicano indipendentemente da valutazioni colte o solo erudite.
Così, in questi manifesti, dall’introspezione dei disegni si passa all’abbandono onirico, dall’interno dell’animo al volo planetario, con un senso di liberazione e insieme di libertà che prendono nell’intimo. E avviene il miracolo, le piccole dimensioni si aprono in spazi immensi, nei quali minuscole figure umane si confrontano con l’universo per immergersi in esso, come gli omini di Chagall su scala ben diversa; si sente la monumentalità che prescinde dal formato in quanto attiene a canoni ben superiori.
Torniamo ai disegni, li guardiamo con maggiore attenzione per capire meglio la profondità di un animo inquieto. Ci colpiscono le figure umane, il tratto pesante di matita, carboncino e inchiostro che ne marca i tratti psicologici in un’introversione spesso angosciosa: così “Testa futurista” del 1913, “Ritratto di donna”, “Donna con bambino”e “Studio di figura” della metà degli anni ’30 e, soprattutto, “Nudo” e “Testa” del 1940. Invece “Studio di figura per vetrata” e “’L’Atleta”, del 1932-33, trasmettono un’immagine di forza tranquilla, espressione però di stampo ideologico e non di matrice personale, ispirata dalla mistica di regime.
Vediamo poi le figure umane inserite nell’ambiente, come lo straordinario “Paesaggio con figure” del 1923-24, giustamente posto a copertina del bel catalogo, con l’uomo curvo o al lavoro schiacciato dalla realtà industriale; e lo “Studio per vetrata”, del 1932, anche qui nelle rappresentazioni congiunte del lavoro e della pausa sofferta, con la fatica di vivere in un ambiente opprimente; infine lo “Studio per composizione murale” del 1937-38. L’ambiente, e spesso il paesaggio, racchiude le condizioni del vivere umano, e quindi diventa specchio deformante della condizione esistenziale e della sua stessa anima.
Del paesaggio urbano e industriale qui non troviamo le grandi architetture, alle quali l’artista legò la sua pittura in quanto potevano aiutarlo a stabilire rapporti tra l’uomo e l’ambiente e consentirgli di intervenire, attraverso la modifica delle forme ambientali esteriori, sull’edificazione della persona nella sua profonda umanità. In una visione, per usare le parole di Miracco, “che accoglie ‘il tutto’ come ‘anima’, ‘atmosfera’, ‘natura’, ‘Genio Locii’ e dove l’impianto architettonico è chiamato a servire il risveglio della coscienza umana”.
Non troviamo le grandi architetture, dunque, ma riconosciamo le periferie nel loro squallore ordinato, di un ordine che appare un’intromissione dell’ideologia politica nella sfera dell’individuo e della società. Si respira un clima da pittura metafisica, però non classicheggiante ma vissuta, anzi sofferta. Ecco di nuovo l’alienazione anche senza le figure umane, di cui abbiamo sentito l’angoscia, in “Paesaggio umano con aereo e fabbrica” del 1923-24 e soprattutto nelle due “Periferia”: quella del 1914 dal clima rarefatto di volumi delineati da un tratto sottile di inchiostro, quella del 1926 invece con l’oppressione delle linee violente di una matita e un carboncino molto marcati.
Le due “Composizione metafisica” del 1917 e del 1922 portano la crisi esistenziale a livello di dissociazione, si potrebbe parlare di scomposizione, effetto distruttivo dell’alienazione.
A questo punto avvertiamo il bisogno di tornare ancora sull’altra parete, per uscire dal buio dell’angoscia personale e dall’alienazione delle periferie squallide e solitarie e immergerci negli immensi spazi che ci offrono le sue illustrazioni pubblicitarie, che ora sentiamo ancora di più come spazi di liberazione e di sogno, di vita vera.
E non fa nulla se in questi spazi ci si imbatte in aerei, automobili, scritte gigantesche di una grande marca di automobili, che sono gli oggetti immediati del messaggio, perché quello che ci trasmette è sempre e comunque un messaggio di libertà.
Irrompono su di noi i bozzetti per copertine e manifesti, diventano ali su cui lasciarsi trasportare in alto, lontani dall’angoscia esistenziale delle periferie urbane e industriali che ancora oggi incombe ed opprime. Ali e aerei colorati o senza colore non mancano, e neppure una cavalcata su una sorta di via lattea cosparsa di monete, un’eruzione di vulcano liberatoria, l’omino sovrastato ma non oppresso, tutt’altro, da una sorta di campana, cattedrali portate in spalla da una figura umana, evidentemente superomistica, infine una gigantesca nota musicale. Quanto basta per elevare l’animo in più spirabil aere. Anche se gli elmi dei soldati, il moschetto con vanga e piccone di “L’Italia imperiale”, il possente lavoratore con martello e l’intera gamma di veicoli del “Popolo d’Italia”, per finire con i sei impettiti suonatori di chiarine di “Gerarchia”, la Rivista politica diretta da Benito Mussolini, ci ricordano le opere per il regime, peraltro sempre concepite e realizzate con dignità formale e di contenuti pur nel loro intento laudatorio.
La visita alla mostra termina qui, ed è stato un viaggio suggestivo. La nostra visione di cronisti delle opere esposte giunge alle stesse conclusioni del critico, possiamo fare nostre le parole di Miracco che “vi è la definizione di un ‘dentro’ e un ‘fuori’, di un vicino e di un lontano… e noi percepiamo una ferita, una lacerazione che apre verso il ‘dentro’ e verso il ‘fuori’: la cicatrice è presente, visibile, anzi deve essere percepibile perché testimonia una volontà dell’artista di essere partecipe alla sua vita, alla sua sofferenza, alla sua volontà di scavare e, maieuticamente, portare alla luce”.
Per questo ci appare molto appropriato il riferimento fatto da Antonio Tancredi – Presidente della Banca di Teramo e della Fondazione Venanzo Crocetti, che ha organizzato la mostra e la terrà aperta fino al 2 marzo – al lontano incontro tra Sironi e Crocetti alla I Quadriennale di Roma: “Egli restò ammirato delle opere esposte dall’artista sardo e me ne parlava con grande rispetto” ha detto Tancredi. E ha ricordato anche che Sironi entrò in contrasto con il potente segretario del partito fascista e Ras di Cremona Farinacci, cosa che gli costò “la esclusione dalle successive biennali di Venezia e la perdita della titolarità della rubrica di critica d’arte su ‘Il Popolo d’Italia’”!
A parte quest’ultima non secondaria notazione, che pone in una luce diversa anche il suo rapporto con il fascismo, ci appare significativo, anzi confortante sotto il profilo umano, che l’incontro di allora tra due solitudini – ricordato da Tancredi – abbia visto ora i disegni e le illustrazioni di Sironi ospitati tra le monumentali sculture di Crocetti a chiusura del 2008 a Teramo presso la Banca organizzatrice e, ad apertura del 2009, a Roma tra quelle esposte permanentemente nel Museo dedicato al grande scultore abruzzese, autore di una delle porte della basilica di San Pietro.
Un altro merito, questo, degli organizzatori e di Romana Sironi, la nipote che ha messo a disposizione opere anche inedite, consentendo questa inattesa riscoperta di un artista che ha potuto ripetere il percorso di Crocetti, dall’Abruzzo alla Capitale, ospite del suo grande estimatore.