Gianni Testa, 4. Le eterne Beatitudini nelle visioni celestiali del Paradiso, al Museo Crocetti

Romano Maria Levante

Si conclude la nostra carrellata sulla mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto delle tre Cantiche. Dopo l‘Inferno e il Purgatorio siamo al Paradiso, con i 33 dipinti riferiti, come per le altre Cantiche, ciascuno a una terzina ispiratrice che riportiamo in corsivo, mentre sono in chiaro i versi ispiratori di altri dipinti dell’artista non esposti per il limite di un dipinto ogni canto. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con splendide riproduzioni dei dipinti incorniciati in nero e inquadrati nei Canti e versi ispiratori .

Canto 1°, vv. 88-90

La terza Cantica nella sua arcana astrazione è una sfida sovrumana, l’artista si cimenta nelle raffigurazioni dei 33 canti elevandosi al di sopra della materia per raggiungere l’Empireo dantesco, e non deve essergli risultato naturale dato che lo spessore materico e l’intensità cromatica sono stati sempre la sua cifra e forza espressiva, qui si è trattato invece di alleggerire, schiarire e rarefare.

Come  interpreta la magia del Paradiso Gianni Testa?  Le sue sono  immagini che, come in un ideale  caleidoscopio,  mutano conformazione nell’incanto di  figurazioni altamente ispirate: una sequenza  di colorazioni sull’azzurro, che porta in un ‘atmosfera celestiale, è seguita da una sinfonia di colori in un tripudio  sfolgorante, fino all’alternanza cromatica altrettanto simbolica che sostanzia la sublimazione soprannaturale unita a persistenti richiami terreni. Anche qui i dipinti in mostra, uno per canto, sono una selezione dei tanti realizzati, gli altri sono evocati solo dalla citazione dei versi  non in corsivo come quelli ispiratori dei dipinti selezionati, ma non vengono descritti.  

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Testa  Ultimo Paradiso 21470 Entrando nel  Paradiso, con i suoi nove Cieli dalla Luna al Primo Mobile e i Beati a diversi livelli fino all’Empireo, c’è da esprimere visivamente nientemeno che  “la gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove”, questo l’inizio del Canto 1°. L’artista è ispirato dall’ammonimento di Beatrice a Dante sui limiti della visione terrena rispetto a quella celeste che è la vera dimensione in cui collocarsi:  “e cominciò: ‘Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti se l’avessi scosso” (vv. 88-90), pensare cose sbagliate ottunde la mente e non  fa vedere ciò che altrimenti sarebbe chiaro.  Cosa vedrà chiaro il Poeta lo dice nei versi successivi:”Tu non se’ in terra, sì come tu credi;/ ma folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse come tu ch’ad esso riedi”, l’immagine è folgorante, la proiezione verso il Paradiso veloce come il fulmine è resa con una raggiera celeste intorno alla meta suprema al centro. Anche l’artista si colloca in un’altra dimensione, “scuotendo” da sé le consuete forme espressive.

Canto 3°, vv. 88-90

La raggiera celeste diventa come un vortice avvolgente nell’immagine sul Canto 2°. I versi ispiratori, “O voi che siete in piccioletta barca/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca” (vv. 1-3), rimandano all’ammonimento su quanto sia complesso ciò che seguirà per la sua altezza sublime, e la vediamo nel centro del vortice verso cui tende insieme agli Angeli che gli sono più vicini, Dante ancora lontano. Arriveranno al cielo della Luna, “in una nube lucida spessa solida  e pulita” come un diamante che risplende al sole, e avvolge anche Dante pur con la sua  natura corporea:  ne resta affascinato e sente di adorare la grazia di Dio che gli ha concesso un privilegio sublime. Poi  prevale il raziocinio,  con le disquisizioni sull’annoso problema delle  macchie lunari e le influenze celesti, scienza e fede insieme. L’artista non segue la ragione ma l’ispirazione celestiale, raffigura nei cerchi concentrici un volo di angeli che si librano con le ali aperte  in modo leggiadro; rende appieno la “mirabil cosa” che, dice il Poeta,  “mi torse il viso a sé”, distogliendolo  dalla vista di Beatrice. Poco dopo continua la metafora marinara, pur entrando nei cieli del Paradiso: “metter potete ben per l’altro sale/ vostro navigio, servando mio solco/ dinanzi all’acqua che ritorna equale” . Dirà, ai versi 106-111, che non c’è da meravigliarsi dinanzi al portentoso, come fu per gli Argonauti, e fa seguire più avanti l’inimmaginabile:  “Or come ai colpi de li caldi rai/ de la neve riman nudo il soggetto/ e dal colore e dal freddo primai,/ così rimaso te ne l’intelletto/ voglio informar di luce sì vivace,/ che ti tremolerà nel suo aspetto”-

Nel Canto 3°  Dante comincia a capire: “Chiaro mi fu allor come ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/  del sommo ben d’un modo non vi piove” (vv. 88-90), l’artista lo segue con l’identificazione del Paradiso in un cielo dal celeste al blu con angeli in volo che diffondono un biancore luminoso. Cosa vede chiaro il Poeta lo ha già fatto capire nei versi precedenti, la spiritualità s’innalza con i versi 52-54: “Li  nostri affetti che solo infiammati/ son nel piacer de lo Spirito Santo/, letizian del suo ordine formati”  e ancora con i versi 76-78 ”che vedrai non capére in  questi giri,/ s’essere in carità è qui necesse,/ e se la sua natura ben rimiri”.

Canto 8°, vv 16-18

Beatrice parla dell’ordinamento dell’universo, con al centro Dio, della predestinazione  degli uomini con il libero arbitrio e la volontà divina; si incontrano le prime anime elette, tra cui Piccarda, nel cielo con le beatitudini ancora al livello inferiore.

La visione celeste si eleva con i cerchi concentrici visti da vicino, l’artista presenta la visione ingrandita di metà della loro circonferenza, fino al culmine del centro, si ispira ai versi del  Canto 4°: “S’elli intende tornare a queste rote/ l’onor de la influenza e ‘l‘biasmo, forse/ in alcun vero suo arco percuote” (v. 58-60) che si richiamano alla tesi platonica sugli influssi buoni  e cattivi di quei cieli, li interpreta con motivi rossi che si aggiungono a quelli chiari nel piovere sulla terra, mentre Dante e Beatrice si godono lo spettacolo. Ci sono elevati discorsi teologici e filosofici, sulla violenza cui hanno ceduto le anime che non può scusarle appieno perché “volontà se non vuol non s’ammorza”, si parla di Piccarda e del velo monacale. La beatitudine è eterna e senza limiti di tempo, a differenza della tesi platonica di periodi limitati delle anime che tornavano alle stelle. Così ne parla ai versi 31-33: “ Non hanno in altro cielo i loro scanni/ che questi spirti  che mo t’appariro,/ né hanno a l’esser lor più o meno anni”. Ci sono i  Serafini, l’ordine più alto degli Angeli, si parla della Vergine, dei  maggiori profeti Abramo e Samuele, dei  santi Giovanni, Battista ed Evangelista, tutti uniti nell’eternità, sembrano riferirsi a loro le vaghe forme che si vedono fluttuare.

Nel Canto 5° la visione dell’artista diviene ancora più penetrante, il celeste diventa blu attraversato da forme indistinte che forse evocano la complessità dottrinale, anche se al termine si eleva. L’artista è colpito dalla terzina iniziale: “”Io veggio ben sì come già resplende/ ne l’intelletto tuo l’eterna luce,/ che, vista, sola e sempre amore accende” (vv. 7-9), cui segue ai versi  16-18 la precisazione: “Sì cominciò Beatrice questo canto;/ e sì com’uom che suo parlar non spezza,/ continuò così ‘l processo santo”. La luce divina suscita amore perenne, Beatrice non si interrompe, le sue parole sono sull’amore terreno e  la verità divina, le buone azioni e le manchevolezze umane, i voti e il libero arbitrio. Ai versi 103-105 la visione poetica si accende: “si vid’io ben più di mille splendori/ trarsi vèr noi, ed in ciascun s’udìa:/ ‘Ecco chi crescerà li nostri amori’”.

Canto 10°, vv. 139-141

Sorprende l’immagine sul Canto 6°, incendiata di rosso e arancio, anche se si intravvedono angeli in volo, ma è presto spiegata, si ispira ai versi che aprono il canto: “Poscia che Costantin l’aquila volse/ contro al corso del ciel, che la seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse…” (v. 1-3):  le insegne imperiali e l’evocazione di Enea riportano alle fiamme delle guerre e all’incendio di Troia, l’anima che ricorda la storia dell’impero romano da Costantino in poi si presenta così:  “Cesare fui e son Giustiniano”, è il cielo di Mercurio,  ancora inferiore rispetto all’Empireo, con le anime che pur operando bene, sono state  mosse dalla ricerca di gloria e di fama piuttosto che del bene assoluto. 

Ancora rosso e arancio nell’interpretazione del Canto 7° ispirata dalla terzina”’Tu dici: ‘Io veggio  l’acqua, io veggio il fuoco,/ l’aere e la terra e tutte lor misture/ venire a corruzione e durar poco…’” (vv. 124-126), l’immagine è molto contrastata nel suo cromatismo, a  differenza delle tinte celestiali consuete, ma si tratta della corruttibilità degli elementi naturali fino a giungere alla resurrezione dei corpi. E poi tornano le complicazioni dottrinali – come il sacrificio di Cristo e le colpe degli uomini con la punizione degli ebrei – evocate dai dubbi di Dante sulle apparenti contraddizioni che vengono sciolte prontamente. La conclusione è sulla bontà divina, sul riscatto con il sacrificio di Cristo dal peccato dell’uomo di aver abusato della libertà  donatagli da Dio, un bene sacro per gli angeli e anche per gli uomini immortali,  come gli angeli.

Torna la visione celestiale nel Canto 8°, con la terzina ispiratrice “E come in fiamma favilla si vede,/ e come in voce voce si discerne,/ quand’una è ferma e l’altra va e riede” (v. 16-18), torna il blu e il celeste in una visione dal basso del rincorrersi evocato da queste parole, con  Dante e Beatrice che guardano  un cielo dal quale scendono raggi fino al culmine dei cerchi concentrici verso la sommità. E’ il cielo di Venere, degli “spiriti amanti”, con Beatrice “ch’i vidi far più bella”, c’è Carlo Martello che disquisisce sulla buona e “mala segnorìa” in Sicilia e non solo dei D’Angiò e degli Aragonesi.

Canto 14°, vv. 31-33

L’atmosfera si accende nel Canto 9°  con un cromatismo intenso sul rosso in tre masse distinte e un blu che tende al nero, la terzina ispiratrice ha come protagonista  Cunizza, ultima dei figli di Ezzelino II da Romano, tiranno della marca trevigiana, che dopo una vita  traviata dalle passioni, diventa fervente di carità e amore celeste, per questo è tra i beati al livello minore, Dante  ne descrive l’apparizione così: ”Ed ecco un altro di quegli splendori/ ver’ me si fece , e il suo voler piacermi / significan nel chiarir di fiori” (vv. 13-15). La rappresentazione tempestosa sembra evocare le sventure che lei  predice  e il tradimento del vescovo di Feltre; ma anche nello squarcio azzurro la diversa evocazione di Falchetto di Marsiglia, con l’anima risplendente di Raab che aiutò gli Ebrei nella riconquista della Terra santa,

Nel  Canto 10° l’ispirazione viene dal sublime richiamo soprannaturale: “Indi, come orologio che ne chiami/ ne l’ora che la sposa di Dio surge/ a mattinar lo sposo perché l’ami” (v. 139-141),  l’immagine con il blu intenso e il celeste evoca la profondità  spirituale, ma non manca il riferimento a qualcosa di terreno nel resto della composizione, il verde in una sorta di corona circolare. I versi richiamano la messa mattutina, quindi c’è anche questo motivo quotidiano. Siamo nel Cielo del Sole con le anime dei sapienti che \si dispongono in cerchio, il Poeta ringrazia Dio sì chè “Beatrice eclissò ne l’oblio”.

Blu con  formazioni vaganti e striature bianche luminose l’immagine sul Canto 11°, l’artista è ispirato da due straordinarie figure di santi: “L’un fu tutto serafico  in ardore; / l’altro per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore” (vv. 37-39). Si tratta di san Francesco e di san Domenico che, secondo le parole di san Tommaso, nel disegno della Provvidenza erano stati  mandati da Dio per rinnovare la comunità cristiana, san Francesco nella povertà e nell’umiltà, san Domenico in altre virtù, in cielo con i serafini e i cherubini vengono riconciliati i due ordini che in terra si contrapponevano sul piano dottrinale e dell’azione pratica, contemplativa nei francescani votati alla povertà, attiva nei domenicani sui beni materiali, per questo entrarono in decadenza nelle parole di san Tommaso che all’elogio di san Francesco unisce la critica ai domenicani.

Canto 15°, vv 70-72

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Nel  Canto 12°,  il francescano san Bonaventura loda san Domenico,  nell’alternanza simbolica con la lode del domenicano san Tommaso a san Francesco, e anche in questo caso termina con l’aspra  critica alla decadenza dei francescani con le loro deviazioni, divisi tra i fedeli seguaci della rigida regola e i trasgressori per una vita più facile e rilassata.  L’artista presenta un’esplosione cromatica come una festa celebrativa con i fuochi d’artificio dei due campioni, ispirandosi a una terzina  festosa “Più che ‘l tripudio e l’altra festa grande,/ sì del cantare e sì del fiammeggiarsi/ luce con  luce gaudiose e blande”(vv. 22-24) preceduta da versi altrettanto eloquenti “… così di quelle sempiterne rose/ volgiensi circa noi le due ghirlande,/ e sì l’estrema e l’intima rispose”, .

 Resta il rosso, sfumato nel rosa arancio, nell’immagine ispirata alla terzina  del Canto  13°  “imagini la bocca di quel corno/ che si comincia in punta de lo stelo/ a cui la prima rota va dintorno” (v. 10-12): siamo nella costellazione dell’Orsa Minore, di qui la visione celestiale dei cerchi concentrici questa volta in un colore insolito;  forse perché i carri con la stella polare sono una visione frequente anche dalla terra la  scena si tinge di tonalità terrene. Il Poeta descrive la danza dei beati nelle due ghirlande con degli esempi, poi tornano le disquisizioni teologiche, questa volta su Adamo e Gesù Cristo, con gli ammonimenti sui giudizi umani incauti ed erronei. Al centro sempre san Tommaso, con l’elogio della sapienza politica di Salomone.    

Salomone interviene direttamente nel Canto 14°, rispondendo a Beatrice che subentra a san Tommaso rivelando un dubbio di  Dante sulla luce irradiata negli spiriti beati anche dopo la resurrezione dei corpi. Descrive la carità come una veste luminosa tanto più intensa quanto maggiore è il suo ardore che dipende  dalla visione di Dio legata alla grazia soprannaturale aggiunta ai meriti che con la resurrezione farà raggiungere la perfezione dell’integrità con la beatitudine, quindi una visione di Dio ancora maggiore  con carità più intensa  e luce più fulgida, è il Sommo bene. La terzina alla quale si ispira l’artista introduce questa esplosione di spiritualità resa con un volo di bianche figure in una porzione ravvicinata del cerchio celestiale con sfumature dall’azzurro luminoso al blu nella visione avvolgente di una ascesa  concentrica irresistibile. “tre volte era cantato da ciascuno/ di quelli spirti con tal melodia,/ ch’ad ogne merto saria giusto muno”  (vv. 31-33), è il canto degli spiriti  in omaggio alla Trinità, i meriti avranno la loro ricompensa.

Canto 17°, vv 121-123

Con il Canto 15° il cromatismo si fa variegato, con il giallo e il rosso nella fascia centrale, le bianche figure in volo dominano anche qui  la scena, “Io mi volsi a Beatrice e quella udio/ pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno/ che fece crescer l’ali al voler mio” (vv. 70-72),, le ali metaforiche sembrano materializzarsi  nell’atmosfera appena descritta con una sottile pioggia bianca di purezza divina. L’assenza di Beatrice sembra in contrasto con i versi ispiratori, ma  è solo apparente, si parla dei Beati, nei quali la visione di Dio mette sullo stesso piano intelligenza e sentimento, del “sol che v’allumò e arse”, perciò la visione diventa  solo celestiale. Parla Cacciaguida trisavolo del Poeta, alla sua nascita Firenze era  piccola  ma onesta e pura nei costumi mentre poi si è ingrandita e corrotta, lui è morto combattendo in Terrasanta, è l’occasione per una disamina sull’antica moralità e il vizio odierno, fino all’antitesi tra la terra e il cielo. All’inizio del canto, ai versi 19-21,  una spettacolare visione celeste: “… tale dal corno che ‘n destro si stende/ a piè di quella croce corse un astro/ de la costellazion che lì resplende”.

Non c’è né il celeste né il blu del firmamento, la raggiera è insolitamente scura, sempre le candide  figure in volo con al centro  delle forme bianche indistinte, su un fondo chiaro che illumina la scena. Siamo al Canto 16°, Cacciaguida ancora protagonista, Dante gli fa delle domande cui risponde parlando della propria famiglia e delle famiglie fiorentine decadute, la terzina ispiratrice è una delle frequenti metafore dantesche: “Come s’avviva allo spirar di venti/ carbone in fiamma, così vid’io quella/ luce risplendere a’ miei blandimenti” (vv.28-30), la trasposizione pittorica è conseguente.

La luce è al centro  anche dell’interpretazione del Canto 17°, ancora in modo metaforico, immersa in un cromatismo verde-azzurro, come per il canto precedente emergeva da una raggiera scura: “La luce in che rideva il mio tesoro/ ch’io trovai lì, si fa prima corrusca,/ quale a raggio di sole specchio d’oro” (vv. 121-123). Si riferisce a Cacciaguida, che scuote Dante con la profezia della persecuzione dei suoi nemici e dell’esilio presso gli Scaligeri, e della fama imperitura che lo attende esortandolo  a raccontare tutto senza esitare, con una grande tensione morale.

Canto 19 °, vv 4-6

 Beatrice  all’inizio del Canto 18° lo riscuote dai pensieri sulla sorte futura a lui profetizzata ricordandogli che la presenza di Dio, riflessa in lei risplendente di luce, fa sopportare e raddrizza ogni torto subito. Cacciaguida presenta le altre anime celebri che sono in una croce luminosa, Giosuè e Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo, quindi si entra nel cielo di Giove  con coloro che in vita operarono secondo giustizia. L’artista si è ispirato a una delle ultime terzine, idealmente conclusiva di un  incontro così intenso: “O milizia del ciel  cu’ io contempli,/ adora per color che sono in terra / tutti sviati dietro il malo esempio” (vv.  124-126. L’invocazione alla corte celeste di pregare per riportare sulla retta via segue quella sulla giustizia umana che “effetto sia del ciel”. Nell’immagine troviamo la compresenza del blu profondo con il rosso altrettanto intenso e un verde chiaro che dà luce, per esprimere la convivenza dei due motivi, quello celeste, ”la milizia del ciel”, e quello terreno, “il malo esemplo”.

La corona circolare ruotante del canto 14° lo ritroviamo non più nell’azzurro celestiale, ma  in un rosso tendente al rosa al centro, tra un estremo scuro e uno chiaro e luminoso. Siamo al Canto 19°, la terzina ispiratrice è ancora una metafora: “parea ciascuna rubinetto in cui/ raggio di sole ardesse sì acceso/  che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (vv. 4-6), ogni anima appare come un rubino acceso dalla luce del sole, che l’artista ha prefigurato con un cromatismo inconsueto. Nell’Aquila che campeggia nel cielo di Giove si trovano le anime luminose unite nella sua figura che diventa un simbolo al di là delle componenti, in una astrazione sempre maggiore dopo le terrene rievocazioni di Cacciaguida, l’Aquila parla della  giustizia di Dio e della dottrina della salvezza, ma non manca “in cauda venenum”, l’invettiva contro i cattivi regnanti che pagheranno nel giorno del giudizio.

Ancora la corona circolare ruotante ma questa volta nel suo colore celestiale nell’immagine del Canto 20° ispirata a una delle prime terzine: “però che tutte quelle vive luci/ vie più lucendo, cominciaron canti/ da mia memoria labili e caduci”  (vv. 10-12). E’ il canto dei Beati dopo l’invettiva dell’Aquila, simbolo della Giustizia nel cui occhio c’è Davide, nel ciglio Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo d’Altavilla, il troiano Rifeo, tra cui due pagani ugualmente beati. Viene data risposta allo sconcerto di Dante per concludere con la predestinazione, la figura appena accennatA dall’artista al centro della sua rappresentazione sembra evocare la giustizia divina.

Canto 21°, vv 31-33

Cambia tutto con l’immagine riferita al Canto 21°, la più “terrena”  tra quelle del Paradiso: un picco   altissimo coperto di verde vegetazione che sembra bucare il cielo, in sostituzione dei lumi evocati dai versi, che si riferiscono alla scala d’oro che si percorre  nella vita contemplativa: “Vidi  anche per li gradi scender giuso/ tanti splendor, ch’io pensai ch’ogni lume/ che par nel ciel quindi fosse diffuso” (v. 31-33). La similitudine immediatamente successiva del movimento delle cornacchie riporta sulla terra, come  l’invettiva di san Pier Damiano contro la corruzione della Chiesa, il picco verde che punta in alto sembra segnare il  passaggio al cielo di Saturno con il richiamo terreno.

Per il Canto 22°  una sorta di ruota  dai forti tratti con figure appena delineate in basso,  siamo fuori dalla visione celestiale, evoca la sfera terrestre con la stessa circolarità ma dalla forma  e  dal cromatismo ben diversi: “Col viso ritornai per tutte quante/ le sette sfere e vidi questo globo/ tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante”  (vv. 133-135). Come è ben diverso il globo terrestre dalle sette sfere nel suo “vil sembiante” a fronte della grandezza dell’universo. La figura dominante è san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine di cui lamenta la decadenza, come era avvenuto per francescani e domenicani.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Dopo le due immagini  “terrene” si torna alla visione celestiale con figure in volo bianche e blu immerse in un celeste chiarissimo quanto mai luminoso. Siamo al Canto 23°, nella terzina ispiratrice “Perché la faccia mia  si t’innamora/ che tu non ti rivolgi al bel giardino/  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?” (vv. 70-72) il dolce invito di Beatrice di distogliere lo sguardo da lei per rivolgerlo ai cori dei Beati che si accendono alla luce di Cristo, come i fiori ai raggi del sole, l’immagine esprime nella leggerezza cromatica e delle forme quanto di più spirituale si possa concepire. C’è nel canto il trionfo di Cristo e il trionfo di Maria, fino alla dolce melodia del “Regina coeli”.

Canto 23,°, vv 70-72

Entriamo nel Canto 24°, in un cromatismo più intenso, con il celeste che vira al blu in una esplosione di macchie candide  con un delicato intreccio di linee avvolgenti che evocano l’immagine della terzina ispiratrice: “Così Beatrice, e quelle anime liete/ si fero sapere sopra fissi poli,/ fiammando, volte, a guisa di comete”   (vv. 10-12). Tutto ruota intorno a un asse immobile, gli spiriti beati come costellazioni. Alla preghiera di Beatrice agli Apostoli di porgere  a Dante l’acqua della vita eterna risponde san Pietro e lei lo invita ad esaminare  Dante sulla fede, la prima virtù teologale, sostanza delle cose sperate e argomento di quelle che non si vedono, si parla anche dei miracoli  riscuotendo al termine  l’approvazione del principe degli Apostoli.

Dall’esame sulla fede a quello sulla speranza, la seconda virtù teologale, nel Canto 25°, la terzina ispiratrice è la prima con quella che è stata definita tra le note più umane di tutto il poema in quanto trasforma l’esame in una consacrazione, le note personali sulla sua opera diventano missione universale. : “Se mai costringa che ‘l poema sacro/ al quale ho posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro” (vv. 1-3). E sebbene sia stato logorato dalla sua nobile fatica è stato posto a bando dalla sua città per l’odio dei concittadini. Per questo l’interpretazione dell’artista è un’immagine da Purgatorio, quasi volesse richiamare la parte che precede del “poema sacro”, mentre la figura bianca protesa in alto, oltre che un’anima penitenziale, può impersonare la “sposa tacita e immota” che appare tra le splendide scene nel poetico esame di Dante sulla speranza.

L’esame di Dante sulla terza virtù teologale, la carità, che segue logicamente nel Canto 26°, rimanda all’oggetto primario dell’amore che la anima, l’infinita grandezza e bontà di Dio al quale tendono le anime. Riprende l’uso pieno della vista, prima simbolicamente annebbiata, mentre si eleva il canto del Sanctus e vede la luce della  prima anima creata da Dio, quella di Adamo che risponde alle sue domande  confidandosi sulla sua permanenza nel paradiso terrestre e sulla lingua. L’artista si ispira alla terzina “Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose/ ne l’eccelso giardino, ove costei/ a così lunga scala ti dispuose”  (vv. 109-111), e rappresenta una scala quasi indistinguibile immersa in un verde veramente terreno, il “giardino” con la bianche sagome delle anime in volo.

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Canto 26°, vv. 109-111

Il  rosso-arancio che vediamo nella parte sinistra del’immagine ispirata al Canto 27°, sembra esprimere i motivi terreni nell’invettiva di san Pietro contro il malcostume di Bonifacio VIII che ha corrotto la Chiesa e l’intera città di Roma superati per il calore dell’amore divino; mentre l’azzurro e il viola, con le sfumature celestiali e gli angeli in volo, rimandano all’intervento salvifico della Provvidenza evocato dall’apostolo, cui fa eco Beatrice:  “e questo cielo non ha altro dove/ che la mente divina, in che s’accende/ l’amor che il  volge e la virtù ch’ei piove” (v. 109-111), è la terzina cui si è ispirato l’artista, il cielo dove si trovano non rientra in altri luoghi celesti ma nell’Empireo dove lo fa girare l’ardente amore e la virtù  che trasmette alle sfere sottostanti. Si sale al Primo Mobile. Anche in questo canto nelle parole di Beatrice c’è la deplorazione dell’umanità corrotta dall’errore e dalla colpa, ma anche la promessa di una nuova stagione di onestà e di giustizia.     

Nel Canto 28°  spicca  un punto molto luminoso insostenibile alla vista e  nove cerchi di fuoco, da quel punto nel quale si trova Dio dipendono il cielo e la natura, i cerchi rappresentano le gerarchie angeliche che a loro volta animano a diversi livelli le sfere celesti secondo principi  collegati alle virtù; il  cielo più grande, il Primo Mobile dove si trovano, corrisponde al cerchio angelico più vicino a Dio. “Li cerchi corporai sono ampi e arti/ secondo il più e il men de la virtude/ che si distende per tutte le lor parti”(vv. 64-66). L’artista interpreta questa terzina ponendo Dante e Beatrice  sulla sinistra al cospetto di una visione non più nel cromatismo celestiale  ma in un’ocra alquanto variegata mentre le bianche sagome in volo mantengono viva la presenza delle anime al di là delle complesse architetture in cui si pongono le gerarchie celesti. Beatrice spiega l’ordine celeste anche rispetto all’ordine del mondo, ma nell’immagine non si stacca da Dante. 

All’opposto trionfa il rosso brillante come non mai nell’interpretazione  della terzina del Canto 29° “La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe,/ quanti son li splendori a chi s’appaia” (vv. 136-138).  La corona circolare da celeste diviene infuocata, percorsa da tratti che sembrano evocare le divisioni e le gerarchie, e il fatto che la luce di Dio mentre irraggia i cieli angelici viene ricevuta in tanti modi diversi  quanti sono i loro splendori, ogni angelo riceve la luce della grazia e il dono della visione di Dio con una intensità differente. Nella spiegazione di Beatrice dell’ordine celeste non manca la rampogna per l’ordine terreno, contro i preti i quali dimenticano che la predicazione deve persuadere ad essere cristiani e i frati impostori che spacciano favole e finte indulgenze alla gente semplice per dei bassi interessi personali.  

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Canto 30°, vv 97-99

L’invocazione del Canto 30°, “O isplendor di Dio, per cu’ io vidi/ l’alto triunfo del regno verace/, dammi virtù a dir com’io il vidi!” (v. 97-99), l’artista sembra farla propria, rappresenta la mirabile elevazione dal turbinio di colori della terra al celeste e al blu iperuranio fino a sollevarsi  in una piramide che raggiunge il cerchio divino posto al culmine, dove arde l’amore divino, nell’’Empireo dove si trovano Dio con gli Angeli e i Beati uniti nell’eterna beatitudine. L’immagine  evoca anche la visione dei fiori, che vediamo intorno a Dante e Beatrice sotto la pioggia  di luce, un “umbrifero prefazio”, come dice Beatrice, una meraviglia inaccessibile alla mente umana. L’occhio spazia dal generale al particolare, nella città celeste ci sono i “corpi gloriosi”, gli scanni dove siedono i giusti, quasi tutti già occupati, vi è il “trono” ancora vuoto in attesa di Arrigo VII, che verrà in Italia per ripristinare ordine e giustizia, ma troverà la terra impreparata e sarà ostacolato dal papa Clemente V, per questo finito poi all’Inferno tra i simoniaci.

E’ l’ultima nota terrena, ora  siamo al Canto 31°,  gli Angeli volano avanti e indietro tra Dio e i Beati  per comunicare  pace e amore, e  scendendo “di banco in banco” con il loro volo  non impediscono  “la vista e lo splendore”,  “… chè la luce divina è penetrante/ per l’universo secondo ch’è degno,/  sì che nulla le puote essere ostante” (v. 22-24). Lo vediamo nelle macchie luminose che costellano la composizione tra il blu e il celeste con grandi squarci bianchi in un’immersione totale nell’Empireo iperuranio.  Viene evocata così l’immensa rosa candida costituita dai santi che si mostrano a Dante  immerso nella contemplazione, passando da un “gradino” all’altro, tra i visi accesi dall’amore e dalla carità. Intanto Beatrice si dilegua, al suo posto c’è san Bernardo di Chiaravalle,  il grande mistico fervente apostolo del culto di Maria, che mostra a Dante Beatrice andata a sedersi sul proprio trono nel terzo gradino, lontanissima da lui che la vede distintamente e le rivolge un elogio riconoscente per i benefici di grazia e di virtù che gli ha dato dandogli speranza e liberandolo dalla schiavitù del peccato. Poi la contemplazione della Vergine per prepararsi alla visione di Dio.

Nel  Canto 32° san Bernardo spiega la disposizione dei beati nella “candida rosa” con al culmine la Vergine e ai suoi piedi Eva,  “vo per la rosa giù di foglia in foglia”, e poi dirimendo del fior tutte le chiome”, fino a  “’l fiore è maturo di tutte le sue foglie”, mentre “da l’altra parte onde sono intercisi/ di vòti  i semicircoli, si stanno/ quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.   Alla sinistra di Maria i credenti nel Cristo “venturo”, alla sua destra i credenti nel Cristo “venuto”,  l’artista rappresenta l’immagine  di Cristo con una grande figura veramente toccante, su uno sfondo che evoca la profondità celeste, il corpo quasi connaturato con le nuvole del cielo. La terzina “Così ricorsi ancora a la dottrina/ di colui ch’abbelliva di Maria,/  come del sole stella mattutina” (vv. 106-108) rimanda a san Bernardo su cui si riflette la luce di Maria, la “vergine madre figlia del tuo figlio” così magistralmente raffigurato dall’artista che anticipa l’inizio sfolgorante dell’ultimo canto. San Bernardo esorta Dante a contemplare la Vergine per prepararsi alla visione di Dio, mentre l’Arcangelo Gabriele intona “Ave Maria, gratia plena…”

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Canto 33, vv. 142-144

Si è giunti  così al punto più alto  del viaggio artistico di Gianni Testa  che accompagna il viaggio poetico di Dante Alighieri: è il Canto 33°, a chiusura della  cantica e dell’intera  Commedia, si apre con l’invocazione di san Bernardo alla Madonna, i suoi accenti sono tali da toccare il cuore ogni volta che si ricordano:“Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’eterno consiglio,…” . L’artista ha interpretato queste parole memorabili con un’immagine che vede la Madonna vicina al vertice celeste con i raggi che partono dalla sua figura sospesa in alto e scendono fino a diventare una grande nuvola che raggiunge Dante, spettatore ammirato; è tra i tanti dipinti non compresi tra quelli in mostra, ma non abbiamo potuto astenerci dal descriverlo – a differenza di tutti gli altri assenti per i quali abbiamo citato soltanto i versi ispiratori non mettendoli in corsivo –  per la straordinaria forza espressiva nella traduzione pittorica dell’invocazione. Il canto si chiude con i versi che ispirano l’artista nella sua conclusione pittorica coincidente con la conclusione poetica: “A l’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disìo e il velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole  e l’altre stelle” (v. 142-145).  Siamo al momento supremo, la contemplazione di Dio cui Dante è pronto essendosi purificato  passando dall’Inferno al Purgatorio poi, di cielo in cielo nel Paradiso  fino alla sommità dell’Empireo. Viene reso con i cerchi concentrici, i “tre giri”,  e la convergenza verso il centro più alto posto al culmine. Rispetto all’immagine ispirata dal Canto 1°  si nota un’analoga convergenza verso l’alto, ma in quella raffigurazione tutto era più marcato, le linee ascendenti come il centro coperto da una macchia rossa, qui tutto è sfumato, il centro è ora scoperto, un bianco ingresso a un infinito  imperscrutabile.

Dove c’era tensione ora c’è pace, la sete di Dio è stata placata, nell’animo si è diffusa l’armonia che regna nei Beati: questo avviene nel cuore del Poeta al termine del viaggio, questo è avvenuto nel cuore dell’artista che lo ha accompagnato, lo abbiamo visto dall’ultima immagine che trascolora, ispirata ai versi conclusivi della Commedia dantesca, questo sentiamo anche dentro di noi dopo la totale immersione pittorica e poetica che abbiamo narrato.

Il racconto del nostro viaggio pittorico e anche poetico nella Divina Commedia termina qui. Ci sentiamo di dire senza presunzione ma come moto spontaneo, che la riteniamo  un’opera  meritevole di essere associata  al testo dantesco nelle scuole e nei “Dantedì” da poco istituiti. Sarebbe un bel modo perché il 7° centenario di Dante lasci un segno nell’immaginario collettivo oltre che nel mondo degli appassionati alle “lecturae Dantis”.   

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Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi tre articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23, 25, 29 marzo 2022. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 24°, vv. 10-12

Foto

Le immagini dei dipinti del Paradiso sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Paradiso ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 1° vv. 88-90, seguono, Canto 3° vv 88-90 e Canto 8° vv 16-18; poi, Canto 10° vv. 139-141, e Canto 14° vv 31-33; quindi, Canto 15° vv 70-72 e Canto 17° vv 121-123; inoltre, Canto 19 ° vv 4-6 e Canto 21° vv 31-33; ancora, Canto 23° vv 70-72 e Canto 26° vv 109-111; conrinua, Canto 30° vv 97-993, e Canto 33 vv. 142-144; infine, Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici e Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 24° vv. 10-12; in chiusura, L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14° vv. 31-33 del Paradiso.

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L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14°, vv. 31-33 del Paradiso