di Romano Maria Levante
cultura.inabruzzo.it, 10 gennaio 2011 – Postato in: mostre, pittori
Ci occupiamo della mostra “Gente d’Abruzzo. Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo” alla Pinacoteca Comunale di Teramo dal 30 ottobre 2010 al 10 gennaio 2011, alla quale la rivista consorella www.abruzzocultura.it ha dedicato un servizio di Manuela Valleriani subito dopo l’inaugurazione. L’abbiamo visitata senza pensare di raccontarla, questo era stato già fatto, non intendevamo aggiungere il nostro commento.
Perché allora, proprio alla chiusura, interveniamo sul tema, che equivale ad andare in chiesa a “spegnere le candele”, per usare un detto abruzzese in carattere con la mostra? Non sapevamo che sarebbe stata prorogata al 31 marzo. La risposta risiede in una duplice prospettiva nella quale la consideriamo: nell’ottica “romana” delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia dove la vediamo inserita di diritto, e nell’ottica dannunziana del Cenacolo di Francavilla. Due punti di vista a noi congeniali, di qui l’impulso irresistibile.
Il gemellaggio artistico e patriottico con l’icona della mostra romana di Antonio Paolucci
Cominciamo con l’ottica delle celebrazioni del 150°, e per questo aspetto l’intervento in extremis si collega al fatto che il 7 gennaio 2011 sono state inaugurate ufficialmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella ricorrenza del primo tricolore sventolato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, una copia è stata consegnata solennemente ai sindaci delle tre capitali storiche, Torino fino al 1865, Firenze fino al 1871 e poi Roma, alla quale di recente è stato riconosciuto lo status – diverso da quello di un normale comune – di Roma Capitale. Il 1861 è comunque il simbolo della sospirata unità, sebbene si debbano aspettare altri dieci anni per completarla con Roma prima pontificia; anni tormentati, non va dimenticato il ferimento di Garibaldi ad Aspromonte nel 1863.
Su questi eventi la mostra in corso a Roma fino al 16 gennaio, “1861, I pittori del Risorgimento”, è stata galeotta con il vasto affresco del carattere militare e di quello popolare, l’abbiamo raccontata nelle sue componenti: l’epica, il popolo in armi e il popolo in ansia,un popolo che ha partecipato in vari modi, anche nell’attesa e nella sofferenza, per le sorti dei propri cari e della nazione. Nel descriverla abbiamo rivelato che tra i tanti dipinti smisurati, tra le scene epiche e le adunate popolari, il direttore dei Musei Vaticani e presidente del Comitato scientifico delle Scuderie del Quirinale, Antonio Paolucci, come simbolo, icona della mostra, ha scelto una quadretto semplice e compunto: una stanza dove una ragazza fiorentina cuce il tricolore, la luce spiove dalla finestra con vista sui tetti, “26 aprile 1848”, è un gesto di patriottismo raccolto e riservato, intimo e intenso.
Ebbene, visitando l’esposizione di Teramo senza l’intento di raccontarla – era stata già commentata, come abbiamo ricordato – il dipinto di Cesare Averardi, “La preparazione della bandiera”, ci ha richiamato quello ora citato di Odoardo Borrani, un interno anche il suo dove si cuce il tricolore. Diversi i soggetti, lì una giovane donna, qui le donne sono quattro e c’è anche un uomo, diverso l’ambiente, la luce non spiove ma invade la stanza da una grande vetrata, i colori sono vivaci e non discreti, la data è diversa ma le due celebrazioni sono in ugual modo retrospettive: Borrani nel 1861, data del suo dipinto, si riferisce al 1848, Averardi all’inizio del 1900 crediamo guardi al 1861.
Uguale appare l’intento e la motivazione, il senso patriottico riservato e operoso. Come riservata e operosa è la “gente d’Abruzzo” che risalta nella mostra con i suoi valori forti, radicati in una tradizione che ne ha fatto definire il carattere “forte e gentile”, e anche “forte e fiero”. Lo si vede nella perseveranza e nella pazienza, dove non c’è mai rassegnazione e neppure lassismo.
E’ un modo di essere che Benedetto Croce ebbe a manifestare nella natia Pescasseroli il 21 agosto del 1910, l’anno in cui fu divenne Senatore del Regno, in una breve visita dopo una vita trascorsa a Napoli che lo aveva portato ai più alti livelli nella fama e nella sapienza. Nel discorso di saluto ai “compaesani pescasserolesi” accorsi a salutarlo sotto il balcone della casa avita, nell’esprimere verso il capoluogo partenopeo la riconoscenza e l’affetto essendo la sua seconda patria, non si trattenne dal dire: “Io ho tenuto sempre viva la conoscenza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletana. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi sono detto spesso a bassa voce tra me e me e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! E in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza”. Meglio di così non si potrebbe dire, questa è la “gente d’Abruzzo”, e nelle opere che esprimono la loro arte, dipinti e sculture, se ne sente l’anima.
Prima di raccontare come emerge dalla mostra teramana questa gente forte e gentile e anche fiera, completiamo il riferimento alla mostra romana che ci ha dato l’impulso per un gemellaggio ideale: mettiamo in apertura il dipinto su “La “preparazione della bandiera” cucita da mani abruzzesi come – in omaggio alla scelta di Antonio Paolucci – abbiamo messo in apertura al nostro commento della mostra risorgimentale alle Scuderie del Quirinale, il tricolore cucito il “26 aprile 1848” dalle mani della ragazza fiorentina: lo avevamo preannunciato al direttore dei Musei Vaticani e del Comitato scientifico delle Scuderie, all’insegna del profondo senso unitario di questo gemellaggio.
Il valore dell’identità popolare nell’arte per il “Padiglione Italia” di Vittorio Sgarbi
“L’appetito vien mangiando”, si dice dalle nostre parti – siamo gente d’Abruzzo – e forse anche altrove; e così visitando la mostra ci è venuta un’idea che sottoponiamo a Vittorio Sgarbi del cui sforzo creativo nell’ideare e realizzare un “Padiglione Italia” che celebri degnamente il 150° anniversario dell’Unità abbiamo dato conto di recente sulla rivista. Delle tante idee innovative che sono alla base della sua forma celebrativa ricordiamo la rassegna regionale di artisti per creare una partecipazione corale sul piano dell’arte a un evento considerato da tanti punti di vista. La mostra di Teramo “Gente d’Abruzzo” è un esempio concreto, già realizzato, di come l’affresco regionale può andare ben oltre singole personalità di artisti per penetrare nel vivo tessuto popolare.
E cos’è questo tessuto se non la vita della gente come è stata registrata nelle sue diverse espressioni dall’occhio dell’artista che ha una speciale capacità di introspezione e rappresentazione; soprattutto quando, come in questo caso, sono artisti della regione di cui raffigurano i caratteri più profondi e nascosti, e non semplici visitatori che spesso si fermano agli aspetti esteriori e più evidenti?
La mostra “Gente d’Abruzzo” ha una particolarità da ricordare: nella tappa teramana si è arricchita di ben venticinque opere di Della Monica, Celommi e Palizzi, non presenti neppure nel Catalogo, il merito va a Paola Di Felice, direttore dei Musei Civici, che l’ha curata nel capoluogo abruzzese.
Tornando al 150° dell’Unità d’Italia – per il quale il Padiglione Italia nell’impostazione di Sgarbi vuole giustamente dare una rappresentazione anche dell’arte regionale – pensiamo che la migliore celebrazione corale sarebbe con tante mostre sulle “genti” del nostro paese quante sono le regioni d’Italia presentate in ognuna di esse, come avvenuto per la mostra “gente d’Abruzzo”; e sarebbe il massimo se queste mostre fossero itineranti in modo da proporsi alle altre regioni e comporre così il mosaico di italianità fatto di tante tessere regionali, dopo averle esposte a rotazione in ogni regione per farle conoscere e farsi conoscere reciprocamente. Non sarebbe un modo alto di partire con il federalismo che proprio nel 2011 con l’approvazione dei decreti attuativi dovrà prendere il via?
Le identità regionali che sono radicate nella storia e vengono trasmesse dall’arte si confrontano e si assimilano in un quadro unitario, nell’anno in cui si celebra l’Unità d’Italia con la solennità e il fervore dei 150 anni; proseguendo anche dopo, naturalmente, in modo da marcare sempre di più le identità nella cornice unitaria rappresentata dai tricolori fiorentino e abruzzese prima evocati.
Il gemellaggio spirituale e umano tra L’Aquila e Assisi al battesimo della mostra
Nella mostra di Teramo, poi, c’è un ulteriore elemento che ne sottolinea l’aderenza allo spirito unitario: le opere esposte sono di artisti nati per lo più nel periodo risorgimentale: tra il 1810 e il 1820 Giuseppe e Filippo Palizzi; tra il 1835 e il 1860 Della Monica e Laccetti, Patini e Pagliaccetti, Michetti e Barbella, Celommi e Basilio Cascella; intorno al 1970 fino al 1890 Patrignani e Pellicciotti, Tarquini e Tommaso Cascella; Averardi è successivo, 1875-1939.
Ne dà ampie note biografiche il bel Catalogo a cura di Pierluigi Silvan, direttoredella mostra e curatore con Lucia Arbace e Cosimo Savastano dell’esposizione di Assisi, che ha preceduto quella di Teramo come anteprima simbolica del tour dei capolavori dell’’800 abruzzese in una scelta che, secondo il presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi, “sottolinea la solidarietà che unisce le Città di Assisi e de L’Aquila, legate da un ideale gemellaggio spirituale e umano”. Chiodi, nel definire “i più importanti capolavori della nostra arte come ambasciatori della città de L’Aquila e dell’Abruzzo attraverso il mondo”, ha citato le parole del Custode del Sacro Convento di Assisi, padre Giuseppe Piemontese: le due città “hanno sperimentato non solo la sofferenza per la morte di propri figli, per la perdita di case e di beni, ma anche l’offesa arrecata alle memorie della propria storia ed ai simboli della propria identità religiosa, sociale e spirituale: le chiese”.
Gemellaggio, quindi, tra le città martiri del terremoto, gemellaggio nel tour di opere d’arte per sostenere lo sforzo di ricostruzione e restauro; come quello che abbiamo raccontato, in occasione della mostra sui “Colori di Giotto” ad Assisi – nei “venerdì di Archeorivista” sulla rivista consorella – dando conto del complesso lavoro per il recupero delle vele nella Basilica Superiore e del restauro con accesso del pubblico alla Cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore.
Era doverosa questa citazione perché la mostra si colloca nello spirito di orgogliosa ripresa dopo la tragedia del terremoto che confida anche nella solidarietà – le opere d’arte itineranti sono uno stimolo suggestivo – e non vorremmo svisarne il significato con il nostro gemellaggio artistico e patriottico tra la preparazione della bandiera di Averardi e quella di Borrani collegando la mostra della Pinacoteca di Teramo a quella romana delle Scuderie del Quirinale. Resta sempre il primario gemellaggio ideale con Assisi, il nostro è un gemellaggio diverso, anch’esso significativo.
“Gente d’Abruzzo”, gli spazi tematici, quasi teatrali, di uno spettacolo suggestivo
Ecco davanti a noi l’operosità della “Gente d’Abruzzo, verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo”, quello nel quale corre la celebrazione. Il fatto che sia espressa dal “verismo sociale” è una garanzia che non si tratta di evasioni in mondi astratti e lontani, spesso prediletti dall’arte, ma di una visione concreta molto terrena e altrettanto veritiera della vita nella regione.
Riconoscere i diversi aspetti e momenti è facilitato dal magistrale allestimento che si avvale della peculiare distribuzione degli spazi nella Pinacoteca Civica di Teramo: le sale sono raccolte e nettamente distinte, dall’Atrio alle sale A e B, dal ballatoio alle sale C e D, queste ultime su due piani: anelli collegati in un’unica catena, ciascuno con un proprio ambiente e un proprio rilievo. Il grande dipinto di Teofilo Patini, nell’Atrio, ne è l’“ouverture” suggestiva, le statue di Raffaello Pagliaccetti nel Ballatoio introducono al secondo atto nel piano superiore. Ai principali protagonisti sono dedicati singoli quadri teatrali, pardon, sale espositive: dalla sala su “Patini e il verismo sociale” a quella su “Michetti e il cenacolo di Francavilla”, dalla “quotidianità incantata di Celommi” all’“eclettismo di Gennaro della Monica” e poi tutti gli altri di livello comparabile nella sala con varie presenze, tra cui Cesare Averardi e il suo “La preparazione della bandiera”.
Nell’associazione di idee con la mostra romana, al motivo prevalente della bandiera, per il suo simbolismo, si aggiunge l’accostamento del dipinto “Aquila in festa a piazza del Duomo”, di un pittore aquilano di fine ‘800 identificato soltanto dalle iniziali B. S., a “Il Duomo illuminato al bengala”, di Luigi Medici. In entrambi i dipinti è una notte di giugno, e i palazzi sono addobbati a festa, per piazza Duomo a Milano siamo nel 1859, si festeggia, con l’ingresso di Vittorio Emanuele II e Napoleone III, la liberazione, qui la festa del patrono della città, San Massimo, il 10 giugno. Motivo comune la festa popolare, ragioni del tripudio e angoli di visuale della composizione pittorica diversi: qui una visione frontale da “cinemascope” con la piazza gremita all’inverosimile in penombra in un campo lungo e in fondo la facciata luminosa della chiesa, là uno scorcio da un oscuro abbaino con una piccola parte della folla che si intravede dinanzi a un duomo in piena luce.
Alla scoperta di un mondo definito da Primo Levi “silvestre, selvaggio, inaccessibile”
La mostra è espressione di un territorio che Primo Levi nel 1882 e all’inizio del ‘900 ebbe a definire “tutto silvestre, selvaggio, inaccessibile, alla grande maggioranza degli italiani noto poco più che di nome”, come ricorda Cosimo Savastano;un territorio reso nei suoi aspetti più crudi dal “verismo sociale” delle opere esposte, rivelatrici dell’identità più genuina.
E opportunamente Paola Di Felice, nella veste di curatore e direttore della sede espositiva, sottolinea con forza l’occasione data di “ammirare, per la prima volta insieme, molti dei capolavori della nostra arte ottocentesca i cui personaggi oscillano tra il doloroso riserbo di dignitose figure, intonanti dolenti peana ad una natura spesso matrigna, e la rassegnata disperazione di solitari esseri umani abbrutiti dalla sofferenza; tra personaggi del vissuto, carichi di generosa forza vitale e squarci di natura in intimo colloquio con l’uomo”. Per concludere: “Un mondo vero, un mondo forte come le balze del Gran Sasso che il recente terremoto ha squassato ma non è riuscito a domare”. E l’arte, anche attraverso la mostra itinerante, è stato il crocevia tra la minaccia mortale della tragedia e l’opportunità da cogliere per una ripresa che recuperi i capolavori feriti attraverso altri capolavori da far conoscere nel mondo; anche alla mostra si accettano offerte mirate al restauro di un’opera ben identificata: la “Madonna con bambino” di Andrea de Litio, della Chiesa madre di Castelli danneggiata dal sisma, viene dal paese della ceramica che espone a Roma le sue opere di maiolica compendiaria nella mostra “Il bianco a tavola”, ai Musei Capitolini dal 20 ottobre al 16 gennaio 2011.
E’ il momento di passare, dai contorni delineati dalla Di Felice, ai singoli “identikit” che emergono dai quadri in mostra, riferendoci a quelli più rappresentativi per la nostra particolare ottica. Non ci soffermiamo, dunque, sulla rilevante ritrattistica soprattutto di Giuseppe Bonolis e Gennaro Della Monica sebbene attraverso il ritratto, scrive Lucia Arbace – che con Silvan e Savastano ha curato la mostra di Assisi – “è possibile restituire una dimensione non stereotipata dell’identità abruzzese, che certo non può limitarsi a un’umanità dolente, costretta a forme di vita disumane” E questo tenendo conto della storia della regione con personaggi che hanno lasciato il segno nell’arte e nella cultura, nella storia del pensiero e nella vita civile, come documenta Raffaele Colapietra nel suo sintetico e illuminante “Profilo dell’ottocento abruzzese” che apre il Catalogo (“Scienze e Lettere”, 2010”).
Il verismo sociale di Patini: la durezza della vita
Ma è Teofilo Patini che monopolizza ora la nostra attenzione. Come per Gerolamo Induno nella mostra romana sui pittori del Risorgimento, si può parlare quasi di una personale nella collettiva della “gente d’Abruzzo”.
Inizia con “La prima lezione di equitazione”, tra il 1872 e il 1874, aperta alla speranza nel futuro, ma presto diventa il suo sigillo il crudo verismo sociale, espressione della durezza della vita. Si presenta subito nel dipinto monumentale dell’Atrio, “Bestie da soma”, 1886, quasi 2 metri e mezzo per oltre 4: alla ribalta la fatica delle donne, due giovani sono accasciate a terra con il pesante carico di fascine ancora legato alle spalle, la più anziana in piedi si appoggia stremata alla roccia.
E’ essenziale nella sua semplicità, pur nelle grandi dimensioni appena più ridotte del precedente, il dipinto “Vanga e latte”, 1884, più di 2 metri per quasi 4, con a destra il pesante lavoro della terra nell’uomo, sulla sinistra la cura del figlioletto nella madre seduta a terra che lo allatta appoggiata al basto. I protagonisti sono sulla scena, l’uomo, la donna e il futuro erede nei loro ruoli, la bestia che li ha aiutati è rappresentata dal basto, la terra arida e ingrata è il loro grigio palcoscenico.
La comune fatica avvicina agli animali chi condivide la loro vita di lavoro. Non è ingrato solo il lavoro, ma la vita stessa. Ne dà testimonianza “L’erede”, dove l’oppressione della fatica diventa incubo, angoscia esistenziale, in un “trittico pittorico” con gli altri due sul quale il direttore della mostra Pierluigi Silvan ricorda le parole del filosofo abruzzese Filippo Masci secondo cui Patini presentò alla “obliosa società” di allora, “la sorte serbata al lavoro di balda speranza della giovinezza in ‘Vanga e Latte’, lo scoramento della travagliata vita in ‘Bestie da soma’, l’epilogo tragico nell’’Erede’”: una sorta di natività del dolore, con il neonato tra la donna accasciata in lacrime e la lunga figura dell’uomo disteso in un letto di morte, nello squallore della miseria.
Come angoscia del vivere “I tre orfani” affianca “L’Erede”, che precede nel tempo, le loro figure smarrite, un viso infantile addirittura livido, in un ambiente povero e nudo, con il pagliericcio vuoto dov’era prima il corpo del defunto e un simulacro di altare su una seggiola in un’oscurità da incubo.
“Pulsazioni e palpiti” è in un certo senso la premessa delle pietose dipartite, il medico stringe il polso esangue al morente, lo si vede dal corpo abbandonato sotto le coperte e soprattutto dal volto contratto dell’uomo in piedi, mentre sul viso dell’anziana compagna c’è un barlume di speranza.
Il verismo sociale di Patini: la durezza dell’ambiente
Oltre a far conoscere la gente, Patini mostra l’ambiente in due quadri molto più piccoli, “Via Paradiso a Castel di Sangro”, un tipico scorcio paesano disabitato con le rocce che si innalzano alle spalle, lo si vede ancora oggi nei paesi più remoti della montagna abruzzese; è il paese dell’autore che percorreva ogni giorno quella strada di casa e intitolò così il quadro, nota Savastano, cogliendo “l’ironico ed amaro contrasto insito fra l’intitolazione al Paradiso di quella via e lo squallore della miseria che vi allignava”. Il pensiero corre al “Nuovo Cinema Paradiso”, anche lì vita semplice e grama, ma tanto sentimento. Nell’altro dipinto, “Neve”, la bassa casa di montagna, questa volta isolata fuori dall’abitato, è perfettamente inserita in un declivio che dal primo piano si prolunga all’orizzonte, un’armoniosa compenetrazione nella solitudine senza contrasti apparenti. Entrambe esprimono in un certo senso la durezza dell’ambiente, isolato e inospitale.
Le figure umane, ma soltanto una ogni quadro, ricompaiono in due dipinti delle stesse dimensioni dei due precedenti, circa 90 per 60 cm: “Un monaco e la sua cella” non è l’interno della casa immersa nella neve, dalla finestrella aperta si vede il chiostro del convento di Sant’Angelo d’Ocre del ‘400, sulla rupe sopra Fossa, uno dei paesi terremotati vicini all’Aquila; è la cella di un religioso colto, con libri e incunaboli, dipinti e oggetti ricercati in una penombra di raccoglimento dominata dalla figura del frate con la barba bianca su cui si posa la luce. Rivela la parte d’Abruzzo colta e socialmente aperta, non emarginata e oppressa, mediante il giornale “La voce dell’operaio” che si intravede sulla scrivania, la dimensione religiosa e quella sociale in un foglio fondato da un frate dell’ordine di San Giuseppe patrono dei lavoratori. Le due dimensioni sono compenetrate nel bozzetto “San Carlo Borromeo tra gli appestati” nel quale c’è il contrappunto tra l’umanità dolente e l’eminenza religiosa che invoca l’aiuto divino. Il quadro si sviluppa in altezza, come quello raffigurante “L’Aquila ” , che si libra ad ali spiegate e semina lo scompiglio sulla tipica scena abruzzese dell’epoca, con il pastore che si agita e il gregge che si disperde in un ambiente grigio frastagliato dai cespugli ed aspro dalle rocce che incombono nel cammino.
Dall’anima colta del religioso intellettuale alle prese con le ingiustizie e le sofferenze, si torna all’anima semplice del pastore alle prese con la natura inclemente. Occorre forza per resistere, e la gente d’Abruzzo lo dimostra con i suoi artisti dell’’800. Teofilo Patini ci ha dato il verismo più duro, ma c’è dell’altro: forti e gentili e forti e fieri. Lo vedremo presto visitando gli altri autori dopo questa quasi personale che comprende anche altri dipinti. Meritava tanta attenzione, del resto lo incontreremo ancora.
Info
Pinacoteca Comunale di Teramo, Viale Bovio. 3. Catalogo “Gente d’Abruzzo – Verismo sociale nella pittura abruzzese del XIX secolo”, a cura di Pierluigi Silvan, Scienze e lettere, 2010, pp. 216, formato 24 x 28. L’articolo conclusivo con gli altri artisti abruzzesi dell”800, uscirà il 12 gennaio 2011 sempre in cultura.inabruzzo.it . Per le mostre citate cfr. i nostri articoli usciti in tale sito: “1861, i pittori del Risorgimento”, 2 articoli l’ 8 gennaio 2011, “ll bianco a tavola” 15 e 16 gennaio 2011, e “Padiglione Italia” 26 maggio 2011; in archeorivista.it,“I colori di Giotto” 23, 30 aprile 2010 (i due siti non sono più raggiungibili, gli articoli vengono trasferiti su questo sito).
Foto
Le immagini sono state tratte dal Catalogo, tranne la prima e l’ultima – rispettivamente da da facebook.com e it. wikipedia.org – si ringraziano l’Editore del catalogo e i titolari dei due siti web citati, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Cesare Averardi, “La preparazione della bandiera”; 1906-08, cm 95 x 120, Pinacoteca civica di Teramo; seguono, tutti di Teofilo Patini, “La prima lezione di equitazione” 1872-74, cm 49 x 83,5, Vercelli, Fondazione Museo Francesco Borgogna e “Bestie da soma” 1886, cm 213 x 414, L’Aquila, Collezioni d’Arte dell’Amministrazione Provinciale; ; poi, “Vanga e latte” 1884, cm 213 x 372, Roma, Ministero delle Politiche Agricole e “L’erede” 1880, cm 132 x 176, Calascio, Collezione d’Arte del Municipio; quindi, “I tre orfani” post 1883, cm 89,5 x 119, Castel di Sangro, Pinacoteca Patiniana, e Pulsazioni e palpiti” 1991-99, cm 135 x 176, L’Aquila, Collezioni d’Arte dell’Amministrazione Provinciale; inoltre, “Via Paradiso a Castel di Sangro” 1883-84, cm 90,5 x 58, Castel di Sangro, Pinacoteca Patinianae ” Neve” ca 1900, cm 64 x 90, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio della Provincia; ancora, “Un monaco e la sua cella” fine anni ’80, cm 90 x 62, Pescara, Collezione privata e “L’aquila” 1882 ca, cm 108 x 59,5, L’Aquila, Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio della Provincia; infine, “San Carlo Borormeo tra gli appestati” 1900 ca, bozzetto, L’Aquila, Collezione d’Arte del Municipio e, in chiusura, “Autoritratto”, Castel di Sangro, Pinacoteca Patiniana.
1 Commento
- Giuseppe D’annunzio
Postato dicembre 26, 2011 alle 1:55 AM
ma “via Paradiso” non è ribaltato?