di Romano Maria Levante
Nel 14° anniversario del terremoto che colpì l’Abruzzo la notte del 6 aprile 2009 ci uniamo alle celebrazioni con l’articolo pubblicato in quei giorni riportando le parole del grande abruzzese D’Annunzio sulla sua gente e su altre tragiche situazioni.
da cultura.inabruzzo.it – 10 aprile 2009 – Postato in: Storia
D’Annunzio idealmente vicino agli abruzzesi
Manlio Barilli, legionario di Fiume, così descrive la partecipazione del Poeta a una tragedia che ricorda l’immane ferita di questi giorni, il colpo al cuore dell’Abruzzo: “La sua partecipazione all’altrui dolore è così forte, così sincera, ch’egli ne patisce assai più di quanto farebbe se si trattasse di cosa sua propria. La sua generosità è immensa, ed io ricordo quel che fece quando, in Val di Scalve, la diga di Gleno ruinò, seminando morte e distruzione a Darfo e nei paesi circonvicini. Il Poeta visitò subito tutti i paesi colpiti dall’immane sventura, portando ai feriti, raccolti negli ospedali, ed ai superstiti, la sua parola efficace e calda di conforto ed il suo aiuto materiale, veramente notevole. E tornò a Gardone pallido, stravolto e turbatissimo, tale era stata l’impressione provata dinanzi alle ruine di fiorenti borgatelle montane, dinanzi a morti e feriti, di fronte agli scampati ancora istupiditi per i terrificanti momenti vissuti e disperati per la perdita di parenti, di tutti i loro beni, della loro casa. Per alcun tempo non fu più lui: non volle vedere nessuno, e non toccò quasi cibo”. Lo stesso Poeta scrive: “Il mio vero male è d’anima. E non posso né debbo parlare della mia anima. Sono tornato da Darfo con la morte in me, con una morte operaia che dentro mi lavora incessantemente”.
La religiosità dannunziana
Quindi partecipazione sofferta alla tragedia e al dolore, ma anche preghiera. Giorgio Nicodemi, nelle testimonianze sulla vita del Poeta, così riporta la sua risposta alla domanda se pregasse: “Sempre, quando l’anima è in pena e in solitudine. L’invocazione a Dio è nel mio spirito stesso. Forse, non so pentirmi del male che faccio a me stesso, e penso che da me stesso venga il bene che spero di fare agli altri. Ma – è sempre il Poeta che parla – in me è la fede, quella fede stessa che fu di mia Madre. Ella ebbe la santità vera, le virtù che fanno corona alla fede: io ebbi con la fede il potere di dominare il male con l’Arte, e tutto quello che toccai divenne virtù”.
Sulla partecipazione ai riti funebri Eugenio Coselschi, che è stato vicino a D’Annunzio a Fiume, ricorda: “Il Comandante pallido, con gli occhi reclinati, assorto in una meditazione profonda o in una chiusa preghiera, è anch’egli in ginocchio… Ed ecco che, accompagnata dal ritmo breve della pioggia, risuonò, sui vivi e sui morti, sui compagni giacenti e su noi che eravamo la loro guardia in ginocchio, la voce accorata ma ferma, del Comandante: ‘Inginocchiamoci e segniamoci. Segniamoci. Crediamo e promettiamo’”.
Ugo Ojetti – che lo chiama amico, maestro, soldato – racconta: “Genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”.
Ed ecco la testimonianza di Antonio Bruers, il bibliotecario del Vittoriale: “Seguendo la salma, Gabriele d’Annunzio entrò nella basilica. Subito si fece il segno della croce, come fa sempre quando è in chiesa. Coprì nuovamente il feretro con la bandiera e con fiori. Volle far tutto da sé. Poi si inginocchiò. Tutti erano a posto nei banchi. Lui inginocchiato nel mezzo della chiesa. Rimase così per due ore quanto durò la messa”.
Questa la sua intensa partecipazione, mossa da una religiosità autentica che arrivava fino alla fede, nelle tragedie che avvenivano intorno a lui, e soprattutto in quelle della sua terra. Diceva: “Ho un’anima nativamente religiosa, carica del retaggio di fede tramandato dalla mia gente che di secolo in secolo va peregrinando ai suoi Santuari… Vi sono dunque luoghi di culto annoverati, vi sono luoghi di preghiera prefissi. Ma il nostro dio è sempre davanti a noi come l’orizzonte, o come la colonna invisibile di fiamma”.
I luoghi di culto, dunque, il loro valore incommensurabile per l’Abruzzo, ne parla nella “Lauda dell’illaudato” contenuta nel “Libro ascetico”: “Ben fu la Chiesa abruzzese, già fondata nel primo secolo del Cristianesimo, la custode vigilante del nostro patrimonio ideale. Nelle sue basiliche e nelle sue abbazie ella non conservò soltanto le ossa dei Martiri, ma puranco le testimonianze della nostra nobiltà, i vestigi dell’opera secolare compiuta dal nostro genio; e fu promotrice e propagatrice delle nostre arti belle”.
Le basiliche e le abbazie dell’aquilano colpite dal sisma sono ora mutilate e devastate – prima tra esse Santa Maria di Collemaggio con la tomba di Celestino V, sede della suggestiva “Perdonanza” – alcune distrutte, e Giovanni Lattanzi ne ha fatto un’impressionante galleria, più eloquente di mille parole. Dinanzi alle immagini della loro inagibilità non si può che seguire ancora una volta il Poeta: “Quando l’anima è nello stato di grazia può inginocchiarsi alla ventura, nell’erba o sul sasso, nell’oratorio o nella palestra, nel trivio o nel deserto”; è quello che sta facendo la gente aquilana rimasta senza chiesa e senza casa.
Ma non vogliamo aggiungere altre parole, intendevamo soltanto dare il giusto significato alle espressioni dolenti di D’Annunzio dinanzi alle tragedie, soprattutto della guerra, nelle quali ha saputo rendere in modo toccante sensibilità e sofferenza. Del resto, anche questa che si è abbattuta sulla nostra terra è una guerra, con le devastazioni e le vittime, le sofferenze e gli eroismi.
Le parole di D’Annunzio, tratte dai suoi scritti, spesso rivolte agli abruzzesi, sono dunque un Requiem verso questa terra, la sua terra. Ascoltiamole con raccoglimento, in queste giornate di lutto e di memoria, lo dobbiamo alle vittime della catastrofe alle quali è dedicato il Requiem dannunziano, preceduto da un commosso pensiero per i feriti e sopravvissuti e per tutta la gente d’Abruzzo. Le “testimonianze della nostra nobiltà”, che abbiamo citato dal “Libro ascetico”, si sono ripetute in queste drammatiche giornate, allorché è emersa la dignità degli abruzzesi così dolorosamente colpiti, pur tra sofferenze indicibili e ferite profonde: forza nell’animo e fierezza nel cuore, “vestigi dell’opera secolare” e “nostro patrimonio ideale”, antico retaggio di uno spirito indomito e di una tenacia incrollabile che, nonostante tutto, non sono andati dispersi.
La vicinanza alla gente d’Abruzzo
“Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà… C’è chi piange e prega nella mia casa abbandonata, nelle mie capanne d’Abruzzo, nel rifugi della mia montagna, nelle chiese, negli ospedali, nelle officine.” (dal “Libro ascetico”).
“Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l’accento del mio paese, l’idioma della terra d’Abruzzi… Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio che mi salgono alle labbra.” (dalla “Licenza” della “Leda”).
“Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento… La mia stirpe ha una faccia che io riconosco, una voce che io distinguo, un gesto che io interpreto… Odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi riaffluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero ‘tu’ paesano e romano”… Non fui dunque sempre rifatto da mia madre, col medesimo viso, col medesimo cuore, cento volte? Non fui cento volte ritagliato e rifoggiato nella sostanza della stirpe? Cento volte, chi mi vide partire non fu certo di non rivedermi più? Tutti i miei ritorni non sono rinascite?” (dal “Libro Ascetico”).
L’ansia per i feriti e i sopravvissuti
“.. è ferito all’addome, è ferito alle reni, è ferito al costato. E da che banda lo poseremo noi? Se lo mettiamo bocconi non grida. Se lo mettiamo supino, non grida. Eppure il suo strazio fende anche la tavola morta. Sono inginocchiato nel fango. E nello spasimo silenzioso egli punta i piedi contro la mia coscia. E io serro le mascelle. Ha i piedi nudi. E’ mezzo denudato. Ritorna alla culla. Ritorna alla razza. Sono della sua razza; e soffro il suo dolore con una vastità smisurata che non so dire, da tutta quanta l’infanzia a tutta quanta la vecchiezza, e per tutti i fiumi dalle sorgenti alle foci, e per tutte le montagne dalle radici ai vertici. La sua povera carne è la mia povera carne. La sua costanza nel patire è la costanza di mia madre e della mia gente. E’ là bocconi. E’ stroncato. Ha vent’anni.” (dal “Notturno”).
“Ha la faccia imberbe rivolta dalla mia parte, e da me non distoglie mai lo sguardo. Mi beve. Beve da me una pietà che gli torna dall’altare della chiesa dove fu battezzato e cresimato. Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre. E il più lieve dei sorrisi infantili appare all’estremità del suo strazio.” (dal “Notturno”).
Vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi… Al ricordo, il cuore mi trema, mi tremerà sempre. Saliva dal cuore della terra quel canto?… Giungeva dall’imo della miseria umana? Dal fondo delle generazioni? Dalla lontananza dei secoli?… La preghiera muta… s’era fatta voce, s’era fatta coro, s’era fatta clamore dal profondo: lamentazione, invocazione, implorazione senza carne, pentimento senza figura, giuramento senza segno, come nelle latomie, come nelle solfatare, come in tutti i luoghi della fatica umana, della pena umana.” (dal “Libro ascetico”).
“… incominciò a cantare un canto sommesso, una melodia senza parole o forse di parole sconosciute, una infinita e tenue musica ch’io non percepii coi miei orecchi ma col sommo dell’anima: un aereo canto, non modulato dalle bianche labbra, simile forse a quello non mai udito dagli uomini ma sol dalle stelle, simile a quello dei cigni iperborei su i fiumi senza sponde. E quel suono era certo ‘al di là della vita’ ma non nella morte. Ed io, pieno di meraviglia sacra e di speranza sovrumana, mi inginocchiai. Non so se in atto io piegassi le ossa dei miei ginocchi sul pavimento, perché avevo smarrito il senso del mio corpo, divenuto anch’io un puro spirito, congiunto a quella improvvisa bellezza. Né altro so. E però dissi io: ciò che io ho avuto da Me medesimo, io ho manifestato a voi. D’ogni cosa n’è cagione l’Amore.” (da “Solus ad solam” e “Le Faville del maglio”).
Il Requiem per le vittime
“Vado a inginocchiarmi solo, a fianco della cassa, presso il luogo dove il suo capo riposa… Ho nelle ossa un freddo orribile! Toccare la morte, imprimersi nella morte, avendo un cuore vivo! Eppure siamo anche una volta soli… Tutti gli altri mi sembrano estranei, anche il fratello. Siamo soli. Il prete dice la messa funebre. Dal fondo della cappella sale una preghiera mormorata, un coro sommesso e roco. Sento l’immobilità del mio corpo, le ginocchia mi dolgono, e non posso muovermi. Il prete or s’accosta alla cassa, con un libro, tra due ceri; e legge le preghiere dei morti.”(dal “Notturno”).
“Il mio amore non basta, per l’amore dei vivi straniato o falsato, basta solo a togliere dalle loro ossa anche il gelo dell’alpe… Invisibili a quei vivi, sono visibili a me. Senza voce per quei vivi, hanno una voce per me. Hanno per me la salutazione del mattino e la salutazione della sera, come io ho per loro la salutazione della vigilia costante. E tutto quel che di me non può perire, a essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine.” (dal “Libro ascetico”).
“Credo che oggi potrei dentro di me chiamarmi il primogenito dei morti. Io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro; o mi levo sul gomito per scrutarli e per rimirarli; o li tengo abbracciati, come mi tenevano abbracciato per terra i miei primi compagni… quando non avevo ancora fatto in me il voto forse orgoglioso di rimanere in piedi sempre e di non abbassare mai la fronte. Talvolta, nelle notti della mia agonia immota, mi pareva udire nel foco taluno dei miei morti crollarsi mormorando. E io parlavo per lui; e mi facevo interprete de’ suoi sogni sotterranei… Io non piangevo, né piangevano i miei compagni supini. Il suono dei singhiozzi non traeva a noi le lacrime. Ora sappiate che i morti non piangono. Ma cantano. E chi ha udito quel canto, quegli sa che c’è un cielo sotto i nostri piedi come ce n’è uno sopra la nostra fronte.” (dal “Libro ascetico”).
Tag: Gabriele d’Annunzio, Terremoto
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