di Romano Maria Levante
Si conclude la narrazione della mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano – organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, e curata da Luca Massimo Barbero, insieme al ponderoso Catalogo Electa.- nel quarantennale della scomparsa e nel centenario della svolta classicista e dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970. Esposte oltre 100 opere raggruppate in 8 sezioni tematiche, di cui abbiamo illustrato in precedenza le prime 5. E’ la volta delle ultime 3 sezioni, con le “stanze impossibili”, l’enigma dei gladiatori e gli artifici della pittura, un finale tutto da scoprire di una mostra che ripercorre l’itinerario artistico del Maestro, mentre nel Catalogo Electa la ricostruzione di Barbero ha segnato un’altra pietra miliare insieme a quella di poco precedente di Benzi.
Terminavamo la seconda parte della nostra narrazione preannunciando “le sorprese finali” di un percorso iniziato con la “mitologia familiare”, proseguito con l’enigma metafisico nei misteri di Parigi, tradotto poi nell’innovativa metafisica “ferrarese” fino alla svolta classicista degli anni ’20 nei quali c’è stato anche un ritorno metafisico, con manichini e archeologi dalle linee arrotondate.
Ma gli anni ’20 ci danno ulteriori sorprese, quelle che ci piace chiamare “stanze impossibili” perché gli interni domestici sono popolati di alberi, templi e rocce; mentre nella serie dei “Mobili nella valle”, non rappresentata in mostra, avviene l’inverso, l’esterno è popolato degli arredi domestici, in un intrigante rovesciamento di situazioni in ambedue le serie, di cui viene fornita un’interpretazione suggestiva.
Alberi, templi e cavalli come giocattoli negli interni domestici
La metafisica “ritornante” nella seconda metà degli anni ’20 si presenta dunque senza il carico di sospensione e di ansia di quella delle origini, mentre le memorie autobiografiche tornano a permeare la visione dell’artista. Per questo i “Mobili nella valle” sono ispirati da esperienze personali, il ricordo d’infanzia del terremoto allorché la sua famiglia fu costretta a traslocare portando i mobili in strada e, più in generale, i traslochi cui aveva assistito dei quali gli era rimasta impressa l’attesa dei protagonisti fissata nella sua memoria dai mobili posti nel luogo meno appropriato, l’esterno.
Anche per la situazione speculare degli alberi, templi e rocce nel luogo ancora meno appropriato, la stanza, c’è una spiegazione, ma prima vogliamo descrivere le 3 opere realizzate in stretta successione temporale, dal 1926 al 1928. In “Tempio in una stanza” , l’oggetto del titolo è posto su un promontorio roccioso confinante con un tappeto a strisce bianche e blu che ricorda il mare, il “suo” mare, su un pavimento a piastrelle, della stanza si vede solo un parete di legno; “Ma chambre dans le midi” invece mostra la stanza nella sua ampiezza, non più claustrofobica come la precedente, non solo il tappeto viola con linee bianche su un vasto pavimento, anche lo scorcio del suo letto disfatto e una porta alla destra, e al centro un gruppo di alberi dai tronchi altissimi, nonché due edifici, uno dalle pareti rosa con persiane verdi, l’altro dalla facciata gialla. Nel “Tempio greco” un’altra variante, della stanza solo i contorni oltre al tempio, di dimensioni ridotte rispetto alla prima opera citata, quasi una cappellina, una colonna appoggiata alla parete, un corso d’acqua, un promontorio che prosegue con costruzioni sulla cima.
La chiave interpretativa di questo nuovo enigma l’ha data lo stesso de Chirico anni prima, profeticamente quando, nel 1920, sul “Classicismo pittorico” della svolta incipiente scrive: “Il tempio greco è a portata di mano, sembra che lo si possa pigliare e portare via come un giocattolo posato sopra un tavolo”.
Così la 6^ Sezione della mostra è intitolata “La stanza dei giocattoli”, che non si limitano a quelli indicati. Vi sono anche i cavalli sin dall’inizio, è del 1926 “Cheveaux dans une chambre”, due nobili destrieri rampanti scalpitano in un interno ristretto con un’ampia finestra su un cielo celeste dalle vaghe striature bianche; è un tema nietschiano, la pazzia del filosofo iniziò con l’abbraccio a un cavallo, e rimandano al leggendario Pegaso, sono simboli del lato dionisiaco da domare e richiamano quelli del fregio del Partenone, a lui molto familiari.
Nello stesso anno quei cavalli in una posizione statuaria simile, quasi teatrale e non certo realistica, li rappresenta in “Chevaux au bord de la mer” sulla spiaggia con dei templi lontani su un promontorio; mentre, sempre nel 1926, in “Le rive della Tessaglia” raffigura plasticamente come il cavallo sia legato alle sue origini, la Tessaglia dov’è il paese natale Davos, con i volti senza occhi del cavallo bianco, in posa di riposo, e del guerriero nudo al suo fianco; per Fagiolo dell’Arco ”Achille pascola il suo cavallo … tra schegge metafisiche, come il piedistallo il portico, il faro”.
In “Cavalli e rovine in riva al mare”, 1927, tornano i cavalli scalpitanti, non più rampanti ma quasi congelati in un biancore raggelante fra tronconi di colonne con un tempio in cima a un promontorio in lontananza. Barbero osserva che “i due puledri stanno subendo un vero processo di gessificazione”, Sergio Solmi nel 1931 li ha definiti “bianchi cavalli pietrificati in riva al mare sbiadito e riccioluto di spume d’una Grecia di fantasia”, e per Gadda nel 1938 “i bianchi cavalli… assistono con occhi stupefatti alla marina, dove non è che memoria, ancora memoria”.
Jean Cocteau l’anno successivo aggiungerà elementi rivelatori alla chiave interpretativa: “C’è niente di più realistico che dipingere la cosa immaginata nella stanza in cui la immaginiamo?” Non si può che concordare, si tratta evidentemente di una visione onirica e, se “i sogni son desideri”, come nella nota canzone, lo sono quelli dell’artista che rivive le sensazioni dell’infanzia nella sua terra, con il suo mare, i suoi alberi e i suoi templi, i suoi cavalli. Il poeta aggiunge: “Quel che stupisce è che la fattura del dipinto non mostra alcuna differenza fra la stanza e l’immaginazione”, e cita espressamente “gli alberi che spuntano dal pavimento”.
Li abbiamo visti in “Ma chambre dans le midi”, li rivediamo in “Généalogie d’un réve”, 1927-28, incorporati, con un edificio dietro di loro, nel torace di un tipico manichino seduto, con le lunghe braccia e le gambe corte, ristretto nell’angolo di una stanza , la “sua” stanza, il letto a destra, tappeti, piastrelle e parquet del pavimento, una porta. In “Naissanse d’un mannequin” de Chirico scriverà nel 1938-39: “E’ molto consolante che al posto di una clamide il pino sul suo tronco si erga a piramide . Egli porta sul suo tronco il suo destino subcosciente”. Si tratta, in questi interni, del pino marittimo della sua terra, ben diverso dagli alberi dalle chiome folte delle “Ville romane” di cinque anni prima, nel sogno ora opera il “subcosciente”.
Ma non basta, nei pirotecnici anni ’20 di nuovo de Chirico cambia tutto, lo vediamo in “Due figure mitologiche (Nus antiques, composizione mitologica)” del 1927, l’anno dei diversissimi alberi con i templi , e il manichino in una stanza, e dei cavalli in riva al mare, più assonanti nelle loro rotondità con le massicce figure quasi compresse nell’interno molto ristretto. Ne dipinse 5, nel suo ritorno all’antico nella forma pittorica oltre che nella costante ispirazione, sono stati avvicinati al neoclassicismo di Picasso, ma non è una derivazione, bensì hanno una matrice comune. “Sembrano due dee in un tempio claustrofobico – commenta Barbero – con un’unica via di fuga: la piccola finestra, piuttosto una fessura, dalla quale si scopre uno scampolo di cielo turchino”. E conclude: “De Chirico si sta avviando a quelle forzature che caratterizzeranno il ciclo dei Gladiatori, quegli eroi immensi ma dai corpi dinoccolati, quasi snodabili”.
Sono l’oggetto della 7^ Sezione, in cui si passa dai manichini alle figure umane, del tutto nuove, i “ Gladiatori” e gli ineffabili soggetti che popolano i “Bagni misteriosi”.
L’enigma nell’umano, dai “Gladiatori” ai “Bagni misteriosi”
Ci introduce ai “Gladiatori”, con cui si apre la 7^ Sezione, “Un viaggio nell’enigma” , la citazione che Barbero fa di Ebdòmero, il protagonista del romanzo di de Chirico del 1929, il quale, proprio mentre l’artista li dipingeva nella casa del suo mercante Rosenberg, li presenta così: “…In una sala vasta e alta di soffitto, ornata secondo la moda del 1880. Completamente vuota di mobili, in un angolo due gladiatori dalle maschere di scafandro si esercitavano senza convinzione … Gladiatori! ‘Questa parola contiene un enigma’”. Nel 1939 Gadda li definirà “eroi [che] vorrebbero inveire contro gli antagonisti eroi, e schinieri, usberghi, scudi lance e criniti cimieri passano pronti alla rissa”. De Chirico nel 1920, sul “Ratto delle Sabine” di Poussin visto al Louvre aveva scritto che “simili a statue, s’incastrano e… malgrado il movimento della lotta, i corpi hanno quel divino senso di stabilità e immobilità senza il quale un’opera non giunge mai alla grande arte”. Per cui, quando li dipingerà anche lui, otto anni dopo, si atterrà a questo suo giudizio preventivo.
Vediamo intanto il dipinto più anomalo, sia perché non sono gladiatori ma aurighi – ma li anticipa fedelmente con i corpi nudi non più manichini – sia per la sua forma molto allungata, “Corsa di cavalli nella stanza (Corsa di quadrighe)”, 1928. Si dipana la corsa con gli aurighi nudi in posa statuaria, alla guida dei carri che si scontrano, anche in lotta tra loro, come in un fregio antico, in una serie di scene successive, come fotogrammi; un termine che non abbiamo usato a caso perché Fagiolo dell’Arco ne riconduce l’atmosfera, piuttosto che all’epica del Ben Hur del 1880, alla spettacolarizzazione cinematografica e alla relativa promozione, affermando che “agiscono senza convinzione, sono degli attori pietrificati che smettono di credere davvero ai ruoli che interpretano”.
Gli altri dipinti, tutti del 1928-29 – a parte “Throphée”, con le armi ridotte ad orpelli ornamentali, fu posseduto per qualche tempo da Picabia – raffigurano i guerrieri veri e propri, armati come li ha descritti Gadda. In “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928, sono soltanto due che si fronteggiano, uno con maschera, l’altro senza, dinanzi a una figura che sembra una statua con la testa a uovo, l’unico residuo metafisico; la stessa figura che si intravede anche in “Les gladiateurs” del 1929, con davanti il numero di gladiatori raddoppiato, altri si vedono dietro due finestre; vi sono anche i “Gladiatori in riposo”, 1928-29, con le teste ricciolute e i corpi nudi scolpiti da forti ombreggiature. Dalle singole tenzoni, e dal riposo dei guerrieri, alla battaglia, o se si vuole alla “rissa” evocata da Gadda: la vediamo in “La scuola dei gladiatori (Il combattimento)”, 1938, e in “Combattimento (Gladiatori)”, 1928-29, in entrambi un groviglio inestricabile di corpi nudi, soprattutto in piedi ma anche a terra, che cercano di colpirsi, nel primo ci sono dei cavalli stretti tra i combattenti.
Viene rievocato da Giovanni Casini, a proposito di “De Chirico e il corpo maschile”, il suo interesse per “I lottatori” di Courbet – inserì la riproduzione dell’opera nella nota sull’artista pubblicata nei “Valori Plastici” nel 1925, prima che vi si cimentasse lui stesso – le cui opere definisce “delle narrazioni, dei passaggi di un romanzo dove i personaggi non appaiono nel loro aspetto corrente (verismo) ma nel loro aspetto poetico e fantomatico (realismo)”. Più che guerrieri antichi sono muscolosi lottatori contemporanei di lotta greco-romana, mentre quelli di de Chirico hanno la carne flaccida e, pur riportando l’incarnato umano dopo i manichini ortopedici, non hanno nulla di eroico, il suo “gladiatore” si avvicina piuttosto al “lottatore” di Honoré Daumier, per nulla statuario. Casini li ricollega allo stretto rapporto di dc Chirico con il mercante a lui vicino Rosenberg, considerato “un esemplare dell’uomo moderno del dopoguerra: sportività, attività e fede nel macchinismo”, schermidore e pugile, per cui i “gladiatori” evocherebbero gli sportivi in allenamento e in gara, a cui il protagonista autobiografico del suo romanzo, Ebdòmero, attribuisce “pose piene di stile e di nobiltà”. Ed ecco come li descrive: ”A parte qualche scena di lotta più simile a un’ammucchiata o a un blocco policromo e immobile che a un effettivo combattimento, i gladiatori sembrano privi di volontà di agire”; e su de Chirico aggiunge che “opera nei suoi gladiatori un rovesciamento parodistico di un ideale di virilità e di corpo maschile che verso la fine degli anni venti e soprattutto negli anni trenta sarebbe stato strumentalizzato tragicamente dai regimi totalitari”.
Per Barbero, “l’incarnato dei corpi ha un tono artificiale, le forme allungate stirano i muscoli fino a fargli perdere ogni connotato di virilità… l’ironia è talmente palpabile in quella pittura molle… che quegli uomini di gomma allontanano ogni possibile visione neoclassica o, peggio ancora, retorica o reazionaria…” Poi, richiamando il dipinto di Renoir con i soldatini, conclude così: “Anche se i gladiatori dechirichiani non sono infatti veri combattenti e, dunque, reali figure umane, l’artista sta cominciando a volgere l’attenzione verso una nuova evoluzione che caratterizzerà proprio gli anni trenta con un’attenta riflessione sulla pittura del maestro impressionista, già cominciata fin dal 1920”.
Vi sono stati i nudi e le figure arrotondate alla Renoir, nella produzione del periodo, ma questa citazione introduce gli altri protagonisti della sezione, i “Bagni misteriosi”, l’ulteriore “invenzione” di de Chirico nella prima metà degli anni ’30, che racchiude in sé l’ennesimo enigma. Anche in questo caso, come per i “Gladiatori”, troviamo una sua anticipazione quasi 15 anni prima, in uno scritto su Klinger del 1920, dove parla dei ricordi di infanzia che gli davano “un gran senso di sgomento”, e cita al riguardo “una scaletta di legno simile a quelle delle cabine negli stabilimenti balneari, e di cui si vedono i primi gradini che scendono nell’acqua… mi sembrava dovessero scendere… fino nel cuore delle tenebre oceaniche”. L’occasione di esprimerlo nell’arte la ebbe quasi dieci anni dopo nell’illustrare, con 66 litografie, i “Calligrammi” dell’amico poeta Apollinaire, fu un primo assaggio; troviamo i “Bagni misteriosi” nell’espressione più compiuta nelle 10 litografie create per illustrare l’opera di Jean Cocteau, “Mythologie”.
A parte il ricordo d’infanzia, l’idea, come lui stesso scrive, gli venne alla vista di una persona che camminava su un pavimento lucidissimo, tirato a cera, e sembrava che potesse “affondare in quel pavimento, come in una piscina”. Di qui l’illuminazione: “Così immaginai delle strane piscine con uomini immersi in quella specie di acqua-parquet, che stavano fermi, e si muovevano, ed a volte si fermavano per conversare con altri uomini che stavano fuori della piscina-pavimento”. Ha detto tutto, basta aggiungere la differenza tra gli uomini fuori piscina, vestiti, che sembrano dominanti, e quelli nell’acqua, inermi, anche a questo riguardo era così che li vedeva quando si recava nelle piscine; e va considerato il significato metafisico delle cabine, “ogni cabina contiene un fantasma” ebbe a scrivere. Mentre Calvesi fa risalire alla pittura egizia l’andamento a zig zag dell’acqua-parquet.
Il mistero è anche nei titoli. Questi per le litografie, tutte del 1934: “L’ospite misterioso” e “L’apparizione del cigno”, “La figura inspiegabile” e “Il bagnante solitario”, “Il centauro misterioso” e “L’idolo nei bagni misteriosi”, “Sotto la cabina misteriosa” e “Nella piscina inquietante”, “Conversazione misteriosa” e “Raduno inspiegabile”. E per i dipinti del 1935: “La visita ai bagni misteriosi” – con le cabine “occhiute” e il confronto visivo uomini nudi-uomini vestiti – e “La barca dei bagni misteriosi”, surreale come quella di Ulisse-Ebdòmero. Del 936 “Bagni misteriosi a Manhattan”, con la cortina di grattacieli, a testimonianza del fortunato viaggio negli Stati Uniti, che accolsero i “Bagni misteriosi” con straordinario favore, mentre nella “Quadriennale di Roma” del 1935 erano stati accolti male dalla critica, del resto prevenuta.
Ma non solo i “Bagni”, a New York espone 26 opere in una mostra con Surrealisti e Dada al MoMA, inoltre decora, con Picasso e Matisse, una sala alla Decorators Picture Gallery, e da solo una parete dell’istituto di bellezza di Helena Rubinstein, realizza un grande murale su soggetto mitologico per la sartoria Scheiners. E’ entusiasta della metropoli americana, vi trova un senso metafisico negli edifici, per l’architettura, con “l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei”, e con l’assenza di persiane “così spesso di notte gli appartamenti, le camere rischiarate sembrano, viste dalla strada, grandi vetrine di negozi e di bazars”. Vorrebbe fermarsi a lungo, ma nel 1937 alla morte della madre torna subito in Italia sul transatlantico Rex.
Nel 1973 realizza per la Triennale di Milano la fontana dei “Bagni misteriosi” per il giardino di Parco Sempione, in mostra è esposta la “maquette” , ci sono un cigno e un pallone variopinti nella piscina-parquet con due cabine. E, innovazione nell’innovazione, un sole ardente e un sole spento, che ci introducono nell’ultima sezione della mostra, in cui ritroveremo questo tema.
Gli “artifici della pittura”, le repliche e gli autoritratti, con la gioiosa Neometafisica
E’ un tema, quello del sole acceso e spento con i fili elettrici, che appartiene alla nuova stagione metafisica degli anni ’60 e ’70, in chiusura della mostra, ci torneremo tra poco. Intanto, entrando nell’8^ e ultima Sezione, “Gli artifici della pittura”, siamo ancora nell’anno dei “Bagni misteriosi” ma con tutt’altra espressione pittorica, nella ben nota compresenza multiforme.
Si tratta di composizioni classiciste del 1934, come “I dioscuri con rovine e architetture”, con le figure maschili in piedi nude che ricordano quelle in “Il saluto degli argonauti partenti” del 1920, alla svolta dopo la prima metafisica; e “Bagnanti sopra una spiaggia”, con il nudo femminile alla Renoir mollemente disteso in primo piano e altri nudi in secondo piano. La peculiarità di queste opere è che ne richiamano molto da vicino altre, sia pure con numerose varianti: la prima richiama “Castore e Polluce” del 1930, simili ma non uguali le figure maschili, di cui una regge lo stesso drappo anche se cambia il braccio e i cavalli di cui muta il colore; la seconda la ritroviamo replicata nel 1945 con il titolo “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggi)” , invece il drappo nell’opera precedente era celeste, e il paesaggio è una campagna con alberi dove prima c’era la spiaggia e il mare, i nudi di sfondo da 4 sono diventati 2, non è invecchiata la protagonista, la moglie Isa, che ha fatto dire a Vittorio Sgarbi: “Il nudo di Isabella entra di diritto tra i classici italiani, tra la Venere di Urbino e la Paolina Borghese di Antonio Canova. Gli dei, e le dee, sono tornati”. Invece non ci sono varianti visibili tra “Vita silente” e “Natura morta con calco antico e cacciagione” , la prima del 1928 e la seconda del 1930 con un diverso titolo che sorprende dato che rifiutava di chiamare “natura morta” fiori e frutti che per lui erano “vita silente”.
Naturalmente, non sono questi i dipinti che hanno posto il problema delle repliche e delle datazioni, ma le opere della cosiddetta “Neometafisica”, con le quali l’artista è tornato massicciamente sui temi del passato metafisico, però con tinte più calde e con una visione disincantata e serena che ha sostituito la sospensione ansiosa e spesso angosciosa, tanto che è stata chiamata, nella mostra di Campobasso del 2015, “gioiosa Neometafisica”. Così la definisce Barbero: ’De Chirico si libera totalmente del peso della stretta datazione e si reimpossessa lucidamente e in modo straordinario non del suo passato, ma della sua visionarietà. La neometafisica è un mondo nuovo che presenta una delle facce del cristallo sfaccettato delle invenzioni dechirichiane ma in una chiave completamente libera, con una pittura, altrettanto scarna, forte di un disegno nero, quasi de Chirico ritornasse sognante alle grandi invenzioni metafisiche e ai suoi giochi più illuminati”.
Si impegna in una “produzione serrata” tornando sui temi che hanno avuto maggiore presa nel passato, “che reinterpreta liberamente in una sorta di d’aprés, e che ne escono ancora più lucidi, più brillanti e cristallini, appunto come un sogno fatto ad occhi aperti”, sogno e non più incubo. Sono esposte addirittura tre repliche di “Le Muse inquietanti”, datate 1925, 1950 e fine anni ’50, praticamente identiche alla prima del giugno 1918, quella da lui duplicata allora per accontentare Breton che poi ne approfittò per attacchi forsennati che tanto pesarono sulla critica, largamente fuorviata se non strumentalizzata, e sulla vita stessa del Maestro ingiustamente calunniato e perseguitato.
Molte polemiche su questo aspetto della multiforme genialità di de Chirico, che lo portava anche a provocazioni, fino a retrodatare talune opere o, di converso, a negare l’autenticità di altre per rivalsa su Breton e i suoi accoliti. Le reiterazioni, del resto, rientrano nel concetto di arte da lui espresso con queste parol:. “La mia idea è una mia idea, e l’anno in cui la rieseguo non importa”, oltre che nel suo concetto di tempo con l’“eterno ritorno”. Colpì talmente Andy Warhol, il capofila della Pop Art, che alle “Muse inquietanti” dedicò uno dei suoi celebri multipli, “Disquieting Muses (After de Chirico, Muse inquietanti)”, del 1982, anno in cui in una doppia pagina del catalogo della mostra “De Chirico, New York” c’erano riprodotte diciotto versioni di tale opera, sembra una moltiplicazione da”apprendista stregone” . Warhol disse ad Achille Bonitoliva in occasione di tale mostra: “Ho sempre ammirato de Chirico. Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte e poi quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace molto quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo”. Furono fotografati da Gianfranco Gorgoni insieme a New York, immagine eloquente con Warhol allucinato e scomposto, de Chirico statuario e tranquillo, quasi il Maestro a fianco all’allievo che appare sconvolto da tale vicinanza.
Gli anni ’40 e ’50 sono anche quelli degli “Autoritratti”, nella proiezione teatrale – tale è anche lo spettacolare “Canal Grande a Venezia”, 1952 – che lo ha accompagnato nel suo lungo itinerario artistico con le tende che spesso marcano la scena. In questa forma espressiva molto personale esplode in modo anche provocatorio, tanto da suscitare molte critiche. Lo vediamo nell’”Autoritratto in costume da torero” nel 1941-42, “in costume nero” nel 1948, “nel parco” nel 1959, pose statuarie e vesti sgargianti in ambientazione di tipo teatrale, risponde alla stessa logica “Corazze con cavaliere” del 1940. Mentre l’”Autoritratto nudo”, 1943, è definito da Barbero “di una sfrontatezza senza precedenti… un’opera spregiudicata perché è, sì, Narciso, ma è anche istigazione ironica…” e dallo stesso de Chirico, “forse la pittura più completa che io abbia eseguito finora”, in origine tutto nudo, poi per l’esposizione aggiunse un asciugamano annodato, anche se seduto non era inverecondo. Luigi Ontani lo ha ripetuto con sé stesso due volte a distanza di 33 anni, la prima volta con un asciugamano analogo, la seconda in slip, e Giulio Paolini ne ha fatto l’approdo di un intrigante avvicinamento nella mostra del 2010, “L’enigma dell’ora”. Savinio ne parla così. “Il ritratto è una rivelazione. E’ la rivelazione del personaggio. E’ ‘lui’ in condizioni di iperlucidità. E’ ‘lui’ come egli stesso non riuscirà mai a vedersi nello specchio, come non riusciranno mai a vederlo familiari, i conoscenti, gli amici, coloro che lo incontrano per strada”. Nel 1940-43 “Autoritratto”, un primissimo piano del volto con uno sfondo lontano, alcuni anni prima il celebre “Autoritratto nello studio di Parigi” del 1934, in piedi a figura intera con tavolozza e pennello davanti al cavalletto, con una testa di statua a terra che lo guarda in modo interrogativo, creando un enigma nel luogo meno misterioso, il suo atelier; lo presentò alla “Quadriennale” di Roma del 1935, con altri dipinti in tono dimesso che suscitarono molte critiche, erano gli anni della monumentalità di Sironi, nella mistica di regime.
Il cavalletto lo ritroviamo tra squadre da disegno “ferraresi” in “Interno metafisico con sole spento”, 1971, quarant’anni dopo averlo evocato nei “Calliogrames” per Apollinaire del 1930, ispirandosi a un ventilatore Marelli; i due soli, dardeggiante e spento li vediamo anche in “Spettacolo misterioso” dello stesso anno.
E’ un “inno al sole” in ambienti non claustrofobici, con ampie finestre sull’esterno, che segue di due anni il “Ritorno al castello” dove il cavaliere sul ponte levatoio – come quelli che combattono ammucchiati in “Battaglia sul ponte” – è fatto di ombra, con una dentellatura che richiama quella del “sole spento”. Un altro enigma dei tanti diffusi dell’artista?
Nell’anno intermedio, 1970, abbiamo “Orfeo, trovatore stanco” che chiude la mostra. “Il trovatore” è uno dei maggiori capolavori, con il manichino sempre in piedi nelle creazioni del 1917 e 1924, 1935 e 1948; ora invece è seduto ai margini di una “Piazza d’Italia”, si appoggia alle squadre “ferraresi”, una sintesi della “sua” metafisica, e getta ai propri piedi la lira, lo strumento del mestiere che corrisponde a pennello e tavolozza del pittore. Secondo Barbero, l’opera “conferma la consueta ironia dechirichiana”, e noi notiamo una tenda sulla destra, quasi abbia voluto lasciare il segnale che si tratta di una mera rappresentazione teatrale, non di un proprio stato d’animo di stanchezza; tanto meno di una resa.
Di dieci anni prima, del 1960, il “Trovatore stanco”, disteso e non seduto come Orfeo, ma de Chirico ha proseguito l’itinerario artistico, e anche nel 1970 non si ferma di certo: nel 1971 oltre al citato’Interno metafisico con sole spento” ricordiamo “Spettacolo misterioso” e Termopili”, “Il meditatore” e “Il tempio del sole”, fino a “Il grande gioco (Piazza d’Italia)”, nel 1973 “Muse della lirica”, “Il mistero di Manhattan” e “Gli arredatori veneziani”, nel 1974 “Mistero di una stanza di albergo a Venezia”, nel 1975 “Testa di animale misterioso”.
E’ inesauribile, e Barbero lo conferma concludendo con le seguenti parole: “I dipinti di questo ultimo periodo mostrano un’infaticabile volontà di de Chirico di giocare con le proprie invenzioni, di aggiornarle con le nuove fonti di cui si nutre: essi riuniscono, in un canto altissimo, tutta l’invenzione e il mistero di uno dei più grandi pittori del XX secolo”.
Ci sembra possa essere la migliore conclusione del quarto petalo del nostro “quadrifoglio” dechirichiano, a celebrazione del quarantennale della scomparsa del Maestro, nel quale la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha calato il “poker d’assi” in suo onore. Oltre al “Film” della sua vita e della sua opera di Fabio Benzi, le tre mostre di Genova, Torino e Milano con il nuovo “Film” di Luca Massimo Barbero: quello che era il “triangolo industriale” è diventato così il “triangolo artistico” del grande Giorgio de Chirico.
Info
Milano, Palazzo Reale, Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro 14, ridotto 12, ridotto speciale 6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019, formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della quarta parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: i 2 articoli precedenti sono usciti in questo sito il 22 e 24 novembre scorso, con questo articolo si conclude il nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli. Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per la seconda parte sulla mostra di Genova, ,il 18, 20, 22, per la prima parte sul libro di Fabio Benzi il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Matisse 23, 26 maggio 2015, Renoir e impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015, Warhol 15, 22 settembre 2014; in cultura.inabruzzo.it, nel 2010, Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre, Renoir e impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009, Picasso 4 febbraio (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le ultime 3 sezioni della mostra commentate nel testo, sono state riprese dal Catalogo tutte meno 6 (perché in doppia pagina), si ringrazia l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le 6 immagini non riprese dal Catalogo sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta da pinterest.cl e la n. 5 da artribune.com, la n. 6 da phillips.com e la n. 7 da lavocedinewyork.com, la n. 11 da artnet.it e la n. 15 da artesky.it. Tutte le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de Chirico”, 15 ogni articolo, alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro. In apertura, “Autoritratto nel parco” 1959; seguono, “Tempio in una stanza” 1926, e “Genealogie d’un réve” 1927-28; poi, “Chevaux dans une chambre” 1926, e “Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)” 1927; quindi, “”La scuola dei gladiatori: il combattimento” 1928,“Gladiateurs au repos” 1928-29 e “Les gladiateurs” 1929; inoltre, “I Bagni misteriosi” 1934-35, “Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” e “La barca dei bagni misteriosi”, 1935; ancora, “Vita silente” 1928, e “Interno metafisico con sole spento” 1971; infine, “Autoritratto nello studio di Parigi” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto” 1940-45.
There are certainly a lot of details like that to take into consideration. That is a great point to bring up. I offer the thoughts above as general inspiration but clearly there are questions like the one you bring up where the most important thing will be working in honest good faith. I don?t know if best practices have emerged around things like that, but I am sure that your job is clearly identified as a fair game. Both boys and girls feel the impact of just a moment?s pleasure, for the rest of their lives.
Dear Selina, it’s difficult for me to express my gratitude’s sentiments after having read your words so generous towards me, an so important in rewarding my effort to transfer reader my emotions filled in front of greatest artists’s works sawn in the exhibitions. You speak about “best practices” using the language of managers, as I was in my former professional life. Now I’m cultural journalist, but having done the habit in considering “best practices” and the importance to create a difference from the other subjects present in the market, my cultural journalism in the web site is very different from the others. I publish wide texts – with many images useful for the hurried reader who haven’t the time and the willness to read and so can see only the pictures to have an idea – while others publish generally very short notices taken from the press bulletins. In this my choice there is not an economic reason, how someone could think reading in my answer the word “market”, instead my cultural journalism is free without any fee and also without any tie in the length and in the content, my interest is only towards the satisfaction of reader interested in art and culture, not saving my efforts being engaged at full time, without any fee, I repeat. So when I read in your comment that “both boys and girls feel the impact of joust a moment’s pleasure, for the rest of their lives” I became happy and I won’t forget this moment also for the rest of my life, the merit is yours, thank you with all my heart. So I think to give you a pleasure telling that there is another my web site, http://www.arteculturaoggi.com, with 500 my articles from october 2012 till april 2019, it’s possible to put into posts with comment too, it remains always open although the articles after april 2019 are in the site Word Press where we are now. I hope to read your comment again in this or in the other web site.
You should take part in a contest for one of the best blogs on the web. I will recommend this site!
Dear Champman, how can answer at your words so beautiful with expressions able to reach the height of your compliment? I can find such a words, only thanks, thanks, thanks. I’m very glad if a reader as you can continue in reading my articles and, as you said, wants to recommend my sites: it’s plural because there’s another my web site with 500 my articles fron 2012, october, till 2019, april, leaved open although I’ve opened the present site for the new articles. Thank you to you again, sincerely with all my heart, your is the best appreciation that it’s possible to receive, I’ll never forget your words and your name, dear Champman!