di Romano Maria Levante
Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nella “Sala delle Colonne” la sera del 20 dicembre 2019 si è svolta una conversazione tre gli autori di due studi su Duchamp – la cui provocazione artistica si è espressa nel “ready made” – illustrati e commentati nell’occasione. Di ben diversa estrazione, Pablo Echuarren artista e “provocatore” a sua volta nell’arte e nell’impegno attivo movimentista, con il suo “Duchamp politico”, Marco Senaldi, critico d’arte e curatore, con il suo “Duchamp. La scienza dell’arte”, hanno approfondito da diversi punti di vista il significato del “ready made”.
Per Senaldi i “ready made” sono soprattutto immagini, “idee motrici” che provocano una reazione, quindi “non si incarnano nella materialità di un oggetto” né si muovono in una sfera “puramente concettuale e smaterializzata”, ma sono “interazioni mediali” con le quali Duchamp “trasforma la nozione di opera d’arte da oggetto contemplativo immobile a test dinamico e ideo-motorio”. E’ rivoluzionario: “Questo gesto radicale sovverte anche il senso generale dell’Arte, trasformandola da un’attività individualista dedita alla ricerca della bella forma, a un esperimento psicologico intersoggettivo il cui scopo è la liberazione da ogni stereotipo visuale, e anche esistenziale”. Echaurren pone a sua volta i ”ready made” al centro di una rivisitazione della vita oltre che dell’arte di Duchamp, da lui sempre seguito, rivivendo anche il proprio passato di contestazione attiva. Al suo “pamphlet” è dedicato il nostro commento.
Pablo Echaurren non smette di stupire. E noi, dopo averne commentato ampiamente a suo tempo la versatile attività artistica nelle due mostre romane a Palazzo Cipolla nel 2012 e nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 2015, diamo conto ora del suo “pamphlet” su “Duchamp politico” avendo assistito al confronto con Marco Senaldi, un artista controcorrente e un critico-filosofo.
Il “pamphlet” si apre con la citazione di Dante, seguito da D’Annunzio e Pascoli, e da artisti come Dalì, Picasso e Giacometti. Sembra prenderla molto da lontano l’autore in una veste che può sembrare insolita ma non lo è, a stare agli scritti che hanno accompagnato la sua attività artistica impegnata su tanti fronti.
Dante in realtà viene associato a Duchamp per la copiosità dei commenti su di lui, e al riguardo si cita l’espressione di Marinetti, sul “verminaio di glossatori” che ne tenevano “in ostaggio” l’opera, e sappiamo come il “guru” del Futurismo fosse caro a Pablo che ne è stato uno studioso e collezionista attento e appassionato. D’Annunzio lo cita come l’”esatto contrario” di Duchamp nell’interpretare il binomio comune “arte-vita“, e Pascoli come ideale corrispondenza del suo “fanciullino” al “duchampiano museo di Lilliput” nel quale il minimalismo di oggetti miniaturizzati serviva a tenere a bada il suo “ego”. I tre artisti, Dalì, Picasso e Giacometti, li cita come “giganti del segno” dai quali Duchamp si distacca perché sobrio, insensibile “per la fama e per la ‘frenesia da cavalletto’ che si era impossessata del mondo occidentale”.
Dalla vita e dall’atteggiamento verso l’arte nasce la dimensione politica
“Lontano dalla retorica dell’artista ispirato e posseduto dal sacro fuoco”, Duchamp considerava l’arte come una “scienza immaginaria e arbitraria” con cui fare i conti evitando le due tentazioni opposte: a “strafare” e a “tirar via e a ripetersi” sotto la spinta del pubblico da compiacere.
Questo si confaceva a una dimensione artigianale dell’attività, che rifuggiva dalle seduzioni del consumismo, anzi le contrastava con atteggiamenti spontanei derivati dal carattere semplice e gentile, anche irridente, ma irriducibile nelle scelte di vita all’insegna della libertà. Che voleva dire libertà dal mercato e dal denaro, libertà dal mondo dell’arte schiavo degli interessi e della vanità.
Perciò viene visto insensibile ai richiami mondani, arroccato nella difesa delle sua indipendenza e della propria concezione della vita e dell’arte, come realizzazione di cose “ben fatte” per le quali il lavoro manuale è collegato, anzi compenetrato con il lavoro intellettuale. La ricompensa non è economica e tanto meno monetaria, bensì morale, insita nel “fare” e “fare bene” come un bravo artigiano; in quest’ottica l’arte è un mezzo per ben operare, non un fine da raggiungere.
Di qui il riferimento alla concezione monacale medievale rispetto alle suggestioni della modernità, con il rifiuto delle mostre e dei musei, in modo da spiazzare il mercato che non riusciva così a costruire una offerta adeguata e quindi non poteva neppure creare una domanda. E ciò lo otteneva lavorando con una lentezza esasperante, “rivendicava la pretesa di non potere (dovere) lavorare più di due ore al giorno, ma anche quelle due ore dichiarate sembrano un alibi…”.
Gli piaceva rifugiarsi negli scacchi, il gioco lento per antonomasia, ne divenne campione, fu capitano della squadra olimpica francese di cui faceva parte il campione del mondo Alekhine. Era l’opposto di come si comportava l’artista del suo tempo, “ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi, privo di tempi morti, di pause, sottomesso al dio denaro”. E questo non era senza effetti concreti: “Non si aspetta niente, né soldi, né gloria, né riconoscimenti”, seguendo una linea precisa: “Evitando accuratamente il successo, ha messo in pratica una strategia di non collaborazione, di sottrazione, di contenimento della propria produzione, al minimo indispensabile”.
Negli ambienti in cui viveva non c’era traccia delle sue opere. Ma fanno scoprire dell’altro, “quei suoi atelier sembrano delle vere e proprie Wunderkammer dell’antiestetica, dell’antimateria, della sottrazione, son spazi di sospensione in cui il tempo sembra essersi fermato, appare dilatato, rallentato…”. Ma non è questione solo di misura del tempo, quanto di concezione: il suo è “un tempo particolare, personale, che si oppone al tempo convenzionale”; viene definito da Echaurren “un tempo antitecnologico, improduttivo, fatto di pause e tempi morti”, l’opposto del tempo nella concezione corrente tutto proiettato nella rapidità come produzione e come consumo.
E qui dalla dimensione personale si comincia a passare alla dimensione politica, sebbene Duchamp non solo avesse affermato “non capisco niente di politica” ma l’avesse definita “un’attività stupida, che non conduce a nulla”; e non partecipava agli eventi politici del suo tempo con dichiarazioni e tanto meno proclami. La dimensione politica Echaurren la vede “nell’intero arco della sua vita” di contrapposizione “ alla declinazione della società borghese” in tutti i suoi aspetti.
Potrebbe sembrare contraddittorio con il carattere riservato e alieno da manifestazioni prima sottolineato, ma Echaurren ci tiene a precisare che si è contrapposto “non frontalmente, ma ‘di profilo’”, riconoscendo che si tratta di presunzioni e non di fatti. Presunzioni, peraltro, assolute se può dire che “le sue scelte, sia in campo artistico che esistenziale, e la sua indole ci restituiscono il ritratto di un antimilitarista, di un antinazionalista, di un antimaschilista, di un anticapitalista, di un anticonsumista, di un antistacanovista… di un antirazzista”. Il suo “rigetto della società capitalistica” si esprime in atteggiamenti veri e non presunti: “L’ozio, il silenzio, l’appartarsi dalla scena, il rifugiarsi negli scacchi, sono le varie facce di una rivolta pacifica contro l’accumulazione (di cose, di denaro, di opere d’arte)”. E così il cerchio si chiude con quanto rilevato dalla sua vita.
Il “ready made” e le sue contraddizioni
A questo punto Echaurren dalle considerazioni da psicologo attento ad elementi comportamentali, che sfociano nell’interpretazione “politica” cui abbiamo accennato, passa a considerazioni da economista parlando dell’aspetto più qualificante del “Duchamp politico”: i “ready made”, i semplici oggetti di uso comune che diventano opere d’arte per il solo fatto di essere stati scelti dall’artista. Entrano in gioco concetti quali il “valore di scambio” e il “valore d’uso”, e quando il primo prevarica sul secondo che misura l’effettiva utilità del bene “la merce diventa ragione in sé e per sé, diventa il fine di ogni cosa, si fa ‘alienazione’, reificazione di ogni relazione”.
Il “ready made” esaspera questa degenerazione in quanto l’oggetto viene “deprivato di ogni valore d’uso” diventando una sorta di feticcio e assumendo un elevatissimo “valore di scambio”: un paradosso perché avviene in corrispondenza con la sua inutilità. Per questo è “ oggettivamente, un monumento alla merce allo stato puro, simbolo e denuncia dello stato di scissione, di lacerazione in cui versa una società basata sull’adorazione del capitale cristallizzato”, una versione moderna, aggiungiamo, del “vitello d’oro” della maledizione biblica. Dimostra come il mercato tolga concretezza e valore effettivo alle cose privandole di una funzione effettiva nel portarle a un livello di astrazione che si traduce nell’alienazione della società alla quale corrisponde la perdita di umanità.
L’artista invece “deve divertirsi e divertire”, il suo deve essere “un gioco”, e Duchamp lo ha dimostrato praticamente nella vita e nelle opere: “… quando collocai una ruota di bicicletta su uno sgabello, con la forcella capovolta, non c’era in tutto questo alcuna idea di ready made, né di qualunque altra cosa; era semplicemente un gioco… era divertente come idea”. Poi divenne una operazione di smascheramento, e con “l’orinatoio” aggiunse “l’humor e la beffa” esponendolo in una mostra, del resto applicò anche baffi e pizzetto alla Monna Lisa leonardesca, violandone la sacralità, da vignettista di riviste umoristiche com’era.
Si avvalse dell’arte come un mezzo e non come fine per dimostrare un assunto così penetrante. “Il re è nudo”, dunque, come direbbe il bambino dinanzi alla Fontana-orinatoio o allo Scolabottiglie, oggetti comuni per di più adorati come capolavori, e almeno il primo tutt’altro che nobile? Non c’è soltanto questo perché il discorso si fa più articolato, e forse più complesso, sotto due aspetti.
Il primo è che l’esposizione di oggetti comuni non serve all’artista per sbeffeggiare chi li esalta, tutt’altro. Serve a valorizzare il lavoro dell’uomo, esaltarne la creatività, qualità di ogni lavoratore, non soltanto degli “specialisti” come sono gli artisti. Quindi tutte opere nobili gli oggetti? Se può esserlo un vero orinatoio nessun oggetto può esserne escluso. E tutti, dunque, possono sentirsi artisti, in una democratizzazione dell’arte non più fatta di élite. Nel contempo, “se tutti sono artisti nessuno lo sarà, o almeno nessuno potrà vantarsi di esserlo o millantare un’aura particolare e un valore aggiunto al proprio operato”. Con questo risultato: “Dovrà ridimensionare, se non schiacciare, il proprio ego esondante del proprio operato”.
Ma ad Echaurren non sfugge un aspetto apparentemente contraddittorio con questa visione, il fatto cioè che tale nobilitazione è frutto esclusivamente della scelta dell’artista, “un nuovo Prometeo, un semidio capace, solo indicandolo, a elevare un semplice ferrovecchio a ‘opera d’arte’”: quindi altro che democratizzazione, l’esatto opposto! E cerca di superare la contraddizione con questo argomento: “E’ altrettanto vero che lo stesso artista, così facendo, sembra mostrare la via attraverso la quale ciascun essere umano (sebbene non particolarmente dotato tecnicamente) possa emanciparsi e ‘trasformarsi’ a propria volta in artista, annullando così ogni distanza, ogni separazione, ogni divisione del lavoro”.
Questa considerazione non convince, suggerita com’è dall’ideologia secondo cui in tal modo si muove “un ulteriore passo nella direzione dell’uomo totale vaticinato da Marx e Engels”: direzione utopistica, osserviamo noi, peraltro negata dalla storia, come è stata negata, almeno finora, la “liberazione dal lavoro” vaticinata anch’essa dall’ideologia marxista la cui applicazione pratica è clamorosamente fallita.
Nella realtà crediamo che il “ready made” abbia dimostrato l’opposto, l’onnipotenza dell’artista – “un nuovo Prometeo, un semidio”, come dice Echaurren – dato che nessuno può trasformarsi in artista con oggetti di uso comune, se non nella propria convinzione, cosa ragguardevole ma racchiusa in un ”foro interno” invisibile e neppure comunicabile. Altrimenti chiamerebbero la “neuro” se venisse equivocata l’affermazione che “il ‘ready made’ è “espressione di un talento alla portata di tutti, è aura allo stato puro e sua perdita definitiva. Il ready made può essere pratica sociale, perfino”.
Si può sostenere, a questo punto, che “’l’artista è nudo, il suo ruolo sciamanico viene impietosamente ‘messo a nudo’ , ridotto a semplice atto generico, ad atto umano”? Crediamo di no, l’artista appare ancora di più come “un nuovo Prometeo, un semidio”. E questo perché il mercato, l’odiato capitalismo, ha sconfitto il generoso tentativo di Duchamp inglobandolo nella sua logica distorta e rendendo abissale il divario tra “valore di scambio” e “valore d’uso” di un bene inutile.
Altro che “superamento delle divisioni di classe” attraverso il “ready made”, sembra invece la loro celebrazione plateale! altro che “libero corso a un’avanguardia di massa” con l’ondata della moltitudine di artisti e il “rogo della vanità del genio ‘compreso’”!. C’è stata, sì, una banalizzazione dell’arte, e possiamo citare la”banana con lo scotch” dal “valore di scambio” di 113 mila dollari di Cattelan come punto di arrivo attuale, ma sempre ad opera del “nuovo Prometeo, semidio” non di “quidam e populo”; e c’è voluto un altro “semidio” che l’ha staccata dall’esposizione e l’ha potuta mangiare platealmente, forse novello Duchamp alla ricerca del residuo e non ancora perduto “valore d’uso”.
Duchamp è stato coerente, “non ho mai messo in vendita i miei ready made, non li ho mai venduti”, ci tenne a dichiarare. Si impegnava nell’’“estinzione dell’artista e del suo mito”, afferma Echaurren, ma non si può dire che ci sia riuscito, tutt’altro. Voleva far esplodere le contraddizioni del sistema , come “il re è nudo” della favola, invece si è ribadita l’onnipotenza del mercato che punta sull’artista per affermare il suo dominio, proprio con la banalità degli oggetti più anonimi presentati come opere d’arte quando non lo sono, ma osannati quali capolavori. E ci sembra valga anche per la “fine del culto del pezzo originale”, con la possibilità di replicarlo con il nuovo acquisto di un oggetto simile, venendo meno il presupposto.
Echaurren si rende conto di tutto questo, quando afferma che l’arte, dopo essersi liberata del potere dei principi e della chiesa, ha trovato un nuovo despota, il mercato. Ma gli artisti sembrano non avvertire “la propria subalternità alla critica e al mercato”, quindi manca una “coscienza di classe”, l’unica che può indurli “a combattere per la propria dignità, per il diritto a veder rispettato il proprio pensiero senza doverlo svendere per campare”. E forse il merito del “ready made” e dei suoi epigoni è stato proprio questo, non liberare ma documentare la subalternità. “Il re è nudo” ci sembra sia questo, rivela non che l’arte non esiste ma che esiste il mercato e la domina.
L’analisi di Echaurren richiama alcune opere di Duchamp, interpretandone la genesi e il significato. Dal “Grande vetro” ai “Quadriboli” della Saint Chapelle”, dai “Neuf Mules Malic” a “Glissière ccontennat un moulin à eau-en metaux voisins”, dal “Nudo che scende le scale” a “Boite en-valise” e “”Etant donnés” , per lo più anteriori, ma alcune successive alla provocazione artistica che le ha fatte dimenticare, o almeno le ha messe nell’ombra. Ci riferiamo ai “ready made” , dall’orinatoio, intitolato pudicamente “Fontana”, alla “Ruota di bicicletta” , dallo “Scolabottiglie” all'”Attaccapanni”, dalla “Pala” al “Pettine con astuccio”, dal “Portablocchetti di ghiaccio” al “Gomitolo“, fino allo sberleffo dissacrante di “Monna Lisa con baffi e pizzetto”. Riportiamo una rapida galleria visiva delle due “vite” artistiche di Duchamp, dopo i “ready made”, “noblesse oblige”, le precedenti figurative e cubiste di un pittore già affermato che cambiò strada radicalmente nella sua lotta generosa contro “mulini a vento” peraltro difficili da contrastare.
Echaurren sulla svolta artistica e ideale di Duchamp si riferisce agli “Incohérents” per l’irriverenza e ai “Dada” per l’“elemento goliardico”, che però “nelle mani e nelle intenzioni di Duchamp diventa qualcosa di più, lo schiaffo al buon gusto e alla seriosità dell’arte in generale e dell’avanguardia in particolare”, i baffi e il pizzetto all’opera intoccabile diedero lo schiaffo alla sacralità rinascimentale. Ma anche sotto questo profilo l’analisi di Echaurren supera l’aspetto artistico, il suo interesse primario è politico.
L’ “Echaurren politico”, riprende la battaglia?
Su questa pista la rievocazione diventa sempre più concitata, nello scoprire il “Duchamp politico” l’autore riscopre l’”Echaurren politico”, in un identificazione della quale fa parte l’abbandono dell’attività artistica per un certo periodo , “dedicandosi ad altro”, da cui sono accomunati.
Il fatto che “l’artista si è liberato ma nel mercato, non si è ancora liberato del mercato” comporta effetti intollerabili perché viene meno qualsiasi riferimento in una situazione insostenibile anche per il suo ruolo sociale ed esistenziale, tutto da ridefinire, e non solo: “Deve prima di tutto lottare per l’indipendenza dell’arte, per la sua emancipazione dalle logiche produttive, per la liberazione dalla brutale riduzione a valore di scambio cui viene sottoposta”. E indica “i servi e i padroni da abbattere”, dalle case d’arte agli speculatori, dalle gallerie e case d’asta alle riviste specializzate: forse il nostro sito giornalistico si salverebbe, essendo dedicato anche alla cultura e non solo all’arte.
“Duchamp è l’arma giusta da usare, da impugnare” per quanto si è detto sulla sua figura così diversa e sul suo “essere all’interno del meccanismo di elaborazione poetica ed estetica e al contempo starne fuori, coerentemente”. Echaurren ricorda che “nel 1977, noi ci avevamo provato”, oltre quarant’anni fa, all’epoca in cui era impegnato nella contestazione del sistema in allegria con gli “Indiani metropolitani”. . La parola d’ordine era “U/siamo tutti Duchamp”, l’invito a considerare “L’autre moitié du Mar/ciel: La sua faccia politica ci appariva in tutto il suo splendore enigmatico ed enig/mistico: di qui “Caviale e Duchamp”, “Créativité à tous les etage”. Ma senza effetto, “ovviamente siamo rimasti inascoltati. Non poteva essere diversamente”.
Allora è stata perduta la battaglia per l’indipendenza dell’arte dalla tirannia del mercato con l’inverecondo mercimonio che ha reso l’arte “una droga”, come denunciava Duchamp, per lo spettatore “’un sedativo’, un distrazione per accettare la banalità e la frustrazione dell’esistenza, mentre per l’artista è l’eccitazione che gli produce quell’ambizione a sentirsi un genio”.
Detto questo ci poniamo una domanda finale. L’analisi di Echuarren è soltanto esplicativa oppure ci sono i germi di una ripresa combattiva? Possiamo desumerlo dalla conclusione nella quale sottolinea che il maggiore lascito di Duchamp non è nelle sue opere, pur se sono capolavori. “Nient’affatto, ciò che ci lascia è un capitale immateriale di cui, innegabilmente, fa parte il messaggio a ribellarsi allo ‘stato presente delle cose’ all’interno del sistema dell’arte, a reagire attivamente contro quella che possiamo tranquillamente definire ‘Wall Street Art’, un’arte sensibile più alla borsa che alla vita”.
E lo vediamo maggiormente in un’affermazione precedente secondo cui nel mirino di Duchamp c’è “l’intera organizzazione sociale, l’intera struttura, della quale l’arte risulta essere la sovrastruttura (in termini marxiani, perché no?)”. E lui è il “ribelle, rivoluzionario”, un uomo “in guerra perenne contro il mercato pervasivo e persuasivo , che ci indica, con serenità, con indifferenza, la sfida da portare avanti, i nodi che oggi spetta a noi sciogliere”. Con un’affermazione inequivocabile: “Non basta interpretare la sua ‘poetica’, si può metterla in pratica”.
Il “messaggio a ribellarsi” viene messo in pratica da Echaurren? E’ l’interrogativo al quale ci piacerebbe avere una risposta. Anche perché c’è chi già si muove contro l’omologazione imposta dal mercato, è l’Associazione culturale “in tempo” con il “Manifesto per l’arte” del 22 ottobre 2017 rilanciato nell’incontro del dicembre scorso con gli artisti-firmatari che hanno esposto una loro opera ed espresso le proprieconvinzioni, Ennio Calabria in testa. Citiamo soltanto tre affermazioni del “Manifesto”: “Difendiamo l’identità della specie contro la robotizzazione dei processi della mente”. “Siamo consapevoli che l’attuale società si fonda sulla categoria della ‘convenienza’ che considera irrilevante l’identità umana”. “Pensiamo che soltanto la soggettività dell’essere e i suoi impulsi, per proprio bisogno, identifichino la necessità della funzione dell’identità antropomorfa”. “Sum ergo cogito” l’icastica sintesi di questa impostazione.
Che ne pensa Echaurren, è ipotizzabile un’unione delle forze per un’azione comune? “Non firmavo mai petizioni o cose del genere”, dichiarava Duchamp, aggiungendo: “Vogliono farti firmare petizioni, farti entrare nel gioco, impegnarti, come dicono loro”: rifiutava non per indifferenza ma per marcare la sua “alterità”, fuori da tutti i giochi, “autosufficiente”. Cosa farà Echaurren, suo affezionato epigono? Anche la risposta a questo interrogativo potrebbe essere annoverata tra i risultati del suo magistrale “pamphlet” su Duchamp, icona del sommo valore della libertà. . Un valore che Echaurren ha difeso nella vita e nell’arte, in un percorso esistenziale su cui torniamo molto presto con riferimento all’ultima sua mostra romana: una mostra “politica” dopo l’antologica “Chromo Sapienes” del 2012 e la tematica “Contropittura” del 2016.
Info
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Via di Villa Giulia, ingresso gratuito, presentato il libro di Pablo Echaurren, “Duchamp politico”, Postmedia books, aprile 2019, seconda edizione, pp. 64; dal libro sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo, sulla figura di Echaurren, uscirà in questo sito il 9 aprile 2020; cfr., sempre in questo sito, anche l’articolo sul “Manifesto per l’arte” 3 aprile 2020 Per gli autori, gli artisti e le correnti citate cfr. inoltre i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com su Echaurren per le mostre romane “Contropittura” alla Gnam 20, 27 febbraio, 4 marzo 2016 e “Crhomo sapiens” al Palazzo Cipolla 23, 30 novembre, 14 dicembre 2012; su Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp 16 gennaio 2014; Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012; D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013; in cultura.inabruzzo.it su Dante 2 articoli 9 luglio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Picasso, 4 febbraio 2009; Salvador Dalì in 130 fotografie in fotografia.guidaconsumatore.com, 18 giugno 2012 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
L’immagine di apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale nella serata della presentazione del libro; le due immagini di chiusura sono tratte da tale libro. Le altre immagini che riproducono le opere di Duchamp sono state riprese, in parte da Romano Maria Levante alla mostra del 2014 alla Gnam, in parte da siti web di dominio pubblico tra i quali: it.s.artsdot.com, skyarte.it, wikioo.org, katart.net, pkaia.it, luxflux.net, facebook.it, pinterest.com, settemuse.it, it.wahooart.com. L’inserimento delle immagini ha finalità meramente illustrativa, senza alcun intento economico, commerciale o pubblicitario, si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta, dichiarando di essere pronti ad eliminare immediatamente le immagini di cui non fosse gradita la pubbliucazione su semplice loro richiesta. In apertura, un momento della Presentazione del libro, con Echaurren al microfono, alla sua dx Marco Senaldi; segue Duchamp dietro il “ready made” Ruota di bicicletta ; poi il primo trasgressivo “ready made” Orinatoio (“Fontana”) seguito dai “ready made” di oggetti dagli usi più diversi, “Scolabottiglie” e Ruota di bicicletta, Attaccapanni e Appendicappelli, Pettine con astuccio e Specchio, Gomitolo e Portacubetti di ghiaccio, Fodero , Pala e Ampolla (“50 cc. di Aria di Parigi”), fino alla dissacrante Monna Lisa con baffi e pizzetto; dopo i “ready made”, 4 opere espressive della sua vita, la Scatola in valigia e la Scacchiera” , 2 “”Ritratti di giocatori di scacchi” , 1911, il primo figurativo, il secondo cubista; quindi un Omaggio ad Apollinaire, che verrà tradotto in “ready made” da Mario Patella, e l’opera “Il grande vetro” ; la galleria culmina con 7 immagini del suo periodo iniziale risalendo dal cubismo del celebre “Nudo che scende le scale, n. 2”, e del “Giovane triste in treno” 1912, fino ai figurativi “Ritratto di Dumonchel” e “”Giocatori di scacchi” 1910, 2 “Paesaggi a Blainville” 1902, e “Studio per ‘Paradiso'”; infine, una “performance” precedente di Echaurren al Macro di Roma il 5 ottobre 2018, Conclusioned dell'”Azione alla lavagna” di Echaurren al Macro, “Llaboté enloru et moi” , con la “Trascrizione sintetica di una serie di note provocazioni , intuizioni, pensieri elaborati su Marcel Duchamp nell’arco di oltre quarant’anni.” e, in chiusura, la Copertina del pamphelt di Echaurren “Duchamp politico”.
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