di Romano Maria Levante
Ecco il secondo articolo che ripubblichiamo tal quale oggi 16 gennaio 2023 il giorno della scomparsa di Gina Lollobrigida, per rendere omaggio al suo percorso artistico che ha seguito l’itinerario al massimo livello nel mondo del cinema da grande diva e protagonista indimenticabile di film di grande successo. Dopo aver rievocato nel precedente articolo le sue realizzazioni nella scultura, ora ricordiamo quelle nella fotografia con la recensione alla sua mostra a Roma nel 2009 la cui lettura, come ebbe a telefonarci, l’aveva resa “felice”.. Lo ricordiamo con commozione ripetendo il nostro saluto memore e grato: buon viaggio, Gina.
Con riferimento all’articolo pubblicato in data odierna su questo sito, dal titolo “Gina Lollobrigida, con Stefano Massini per l””utilità’ dell’arte, le sue sculture”, riproduciamo di seguito – con il medesimo titolo e l’identico testo, compreso un “post” di allora – la nostra recensione alla mostra del 2009 al Palazzo delle Esposizioni uscita sul sito giornalistico non più raggiungibile cultura.inabruzzo.it, di cui siamo stati corrispondenti da Roma fino alla sua chiusura nell’ottobre 2012 . Alla recensione seguìrono i contatti con la Lollobrigida che abbiamo rievocato nell’articolo e la sua testimonianza della voluta e pervicace omissione dei conduttori TV, in particolare in Rai, della sua attività artistica, cui reagiva invano. Dopo aver rievocato la sua arte di scultrice, per ricordare la sua arte fotografica abbiamo ritenuto – a parte i brevi cenni introduttivi al termine dell’articolo contestuale a questo – di rifarci alla mostra fotografica del 2009 al Palazzo delle Esposizioni che dava conto dei “50 anni” di fotografie, in un’attività iniziata nel 1959 nel pieno del successo nel cinema che lei volle lasciare all’inizio degli anni ’70 per dedicarsi totalmente all’arte, ma intanto poteva pubblicare nel 1972 il volume fotografico “Italia mia”, libro dell’anno e bestseller a livello mondiale. Illustriamo la recensione con qualche immagine di suoi servizi in Italia e all’estero e con molte fotografie in cui è ripresa con l’inseparabile macchina fotografica che punta verso i suoi soggetti; è la dimostrazione che anche da giovanissima la fotografia è stata la sua grande passione, oltre alla scultura della quale abbiamo dato una galleria di opere anche monumentali presentate nelle mostre in Italia e all’estero; al disegno e alla pittura propedeutici alle altre forme artistiche sono dedicate le immagini finali dalla mostra di Pietrasanta poste verso il termine del pòresente articolo.
– 10 agosto 2009 – Postato in: Eventi
Il giro del mondo in 250 scatti di un’artista poliedrica, genialità italica in una personalità ferrea
Non ce ne voglia Philippe Daverio, che ha curato la mostra “Gina Lollobrigida fotografa”, al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 25 giugno al 13 settembre 2009, se non collochiamo l’artista nella categoria dei “geniacci”, cioè di coloro che non solo hanno talento “per affrontare bene, anzi talvolta facilmente, l’opera che intendono intraprendere”, ma “affrontano tante imprese con talenti di volta in volta rinnovati”. Non chiameremmo “geniaccio” Leonardo, non chiameremo così la Lollobrigida, fatte le debite proporzioni naturalmente, anzi siamo tentati di utilizzare l’affettuosa abbreviazione che ne ha scandito la carriera cinematografica piuttosto che l’attributo dal suono sgradevole non confacente all’immagine che almeno la nostra generazione ha della diva nazionale; ma potremmo farlo se parlassimo solo della diva, non oggi che parliamo dell’artista a 360 gradi.
Il fuoco dell’arte e il mito della
bellezza nella grande diva
In lei troviamo molto di più e di diverso dell’improvvisazione tutta italiana
alimentata dal talento, della sbrigativa disinvoltura nel trovare soluzioni
brillanti, della capacità di avere colpi d’ala impensati. Troviamo una
professionalità caparbia che riesce a incanalare gli impulsi artistici in
molteplici discipline lasciandovi il segno con una costanza e una metodicità
non riscontrabile, non solo nel variegato ed effimero mondo dello spettacolo,
ma neppure nel “geniaccio”, bensì nell’artista il cui fuoco creativo non
conosce steccati di genere ma si manifesta a vasto raggio.
Avviene così anche nelle aziende di talento, se ci è consentito un ardito parallelo, quando nell’esercizio della normale attività, che resterà la principale, scoprono filoni di competenze e capacità, sono chiamati “la filiera del valore”, e li sviluppano portandoli ad un elevato livello come qualità intrinseca e competitività; e solo così sono vincenti, se la diversificazione è occasionale, frutto dell’improvvisazione di un “geniaccio” qualsiasi, è destinata ad essere transitoria e perdente. Da quanto detto fin qui si comprende che la mostra ci ha impressionato, e prima dell’esposizione fotografica il filmato che ripercorre l’attività principale e i filoni nei quali poi si è diversificata.
Non è solo la fotografia, e sarebbe già molto per una diva che ha avuto per sé più di seimila copertine di periodici nel mondo; c’è anche il disegno e soprattutto la scultura, l’arte nella quale ha raggiunto livelli e riconoscimenti di eccellenza, dalla Francia alla Russia, con mostre e premi prestigiosi; è l’amore più recente, nato da una sua posa per una scultura di Manzù e sviluppatosi lungo la “filiera del valore” che ha come denominatore comune l’arte e la passione.
E non la chiameremmo “passionaccia” – altro quasi dispregiativo che non ci piace, anche se gergale – ci perdoni Enrico Mentana che ha intitolato così la sua autobiografia – bensì applicazione costante illuminata dalla scintilla della genialità, metodica e non come un occasionale “colpo d’ala” se le sue sculture raggiungono anche i cinque metri di altezza, quindi non sono estemporanee. Del resto, fanno un tutt’uno con il talento di artista, a quel mondo si ispirano, alla leggiadria e alla bellezza.
Ecco, forse è la bellezza l’elemento unificante della sua arte, un mito che ha saputo declinare in multiformi espressioni, dal cinema dove ne è stato il simbolo al disegno, i ritratti sono l’immagine del bello maschile e muliebre, alla scultura, nella quale lei stessa si libra in un’altra dimensione quasi volesse concedersi ancora al suo pubblico nel pieno della giovinezza e dell’espressione artistica e lasciare un’immagine imperitura nella materia oltre che nella pellicola e nella fantasia. Ultima e non ultima, anzi prima passione dopo l’arte cinematografica, la fotografia, anch’essa un filone della “catena del valore” nato dai suoi viaggi nel mondo e poi divenuto fondamentale.
Per fare tutto questo occorre essere, come viene presentata nella mostra, dalla ”personalità ferrea, viaggiatrice instancabile, vera e propria ‘femme forte’ della nostra epoca”; ed avere capacità non comuni di apprendimento e di espressione. Daverio ricorda, e nel filmato della mostra si può verificare direttamente, come i suoi grandi successi in film inglesi e francesi non fossero doppiati, si era impadronita delle due lingue alla perfezione, perdendo qualsiasi cadenza romanesca; e che la sua arte pittorica, soprattutto scultorea, ha una lontana origine negli studi all’Accademia delle Belle Arti di Roma, alla quale fu strappata dal cinema, prima della spinta decisiva di Manzù, anche questo un segno della capacità di apprendimento di un’arte che la Lollobrigida non ha mai messo da parte. E’ l’opposto dell’imprevedibilità e dell’incostanza che accompagna la versatilità del “geniaccio”.
Si tratta del fuoco dell’arte, alimentato da una genialità istintiva tutta italica in una personalità ferrea e illuminato dalla bellezza, che si esprime nelle forme più diverse, e la Lollobrigida ha saputo crearne di molteplici nelle quali ha continuato, in fondo, a esprimere quanto ha rappresentato nell’immaginario collettivo di più di una generazione, in Italia e nel mondo.
L’arte della fotografia vista come immediata espressione di sentimenti
Parlando ora della Lollobrigida fotografa ci sentiamo di dire che interpreta se stessa, come nella scultura e nel disegno, si appropria della macchina da presa, per così dire, andando dall’altra parte dell’obiettivo. Non deve più sottostare alle scelte del regista, è lei a “dirigere” e neppure su tempi obbligati quanto prolungati una volta fatta la scelta del soggetto, come avviene per gli attori che diventano registi, spesso di altissimo valore, l’ultimo più grande è Clint Eastwood.
Certo, come dice Daverio, nella fotografia di ieri, ben diversa da quella digitale di oggi dove tutto è automatico, c’era una tecnica da imparare, fatta di tempi e di apertura del diaframma, di sensibilità delle pellicole e di esposizione del soggetto; ma per questo la personalità ferrea e la capacità di apprendimento della Lollobrigida non incontrava ostacoli, è stato il primo filone dove si è incanalata la sua genialità artistica fuori dal cinema, perché dal cinema derivava: “Un mestiere nato – è sempre Daverio, lo citiamo ancora e non per una riparazione – per chi viveva con la pellicola in movimento giocando con la pellicola ferma”. E ancora: “Il mestiere di ieri e quello d’oggi mantengono in comune lo stesso coinvolgimento dell’occhio che intuisce e del dito che scatta. La fotografia non è da vedere: é vedere. E vede solo chi guarda con attenzione, ponendo nello sguardo tutta la complessità del proprio carattere. E lei, che fu guardata moltissimo, ha guardato tanto”.
Come ha guardato lo scrive lei stessa, sembra una confessione: “E’ un attimo che ci coglie di sorpresa; un attimo che si deve afferrare all’istante altrimenti è perduto per sempre. Si scopre così bellezza e desolazione. Si rubano sentimenti che non ci appartengono, si scopre un mondo sconosciuto”. E lo precisa: “Momenti di vita, di dolore, di amore, di serenità o di complicità. Vediamo ciò che altri non vedono, entriamo in un mondo che non è nostro, ma che subito ci appartiene”. E c’è anche del sentimento: “Uno scatto sarà sufficiente a far nascere un ricordo che ci illuminerà come una lezione di vita vissuta… in un solo istante nasce un’immagine, un’emozione che non ci abbandonerà mai più e che rimarrà fissata nell’eternità”.
Ed ecco come la vede ancora Daverio, facendo quasi una sintesi dei contenuti delle 250 fotografie allineate nelle molte sale e corridoi della mostra: “Ha guardato con un occhio carico d’affetto un mondo italiano che c’era una volta e che non c’è più… ha guardato un mondo più lontano ancora, quello che allora era oggettivamente esotico”.
Percorriamo questo mondo attraverso i 250 scatti cercando di “raccontarlo” come una storia, senza soluzione di continuità tra uno scatto e l’altro, senza diaframmi di tempo e di spazio, guardandolo attraverso gli occhi sgranati di un’artista innamorata della bellezza, intenerita dall’umanità.
Il mondo italiano che non c’è più
Questo, per la nostra artista, è “un mondo di allegrie povere, di vite minute
cariche di densità, come quelle che il cinema del dopoguerra tentava di
raccontare”. E al tempo delle foto c’erano ancora le propaggini di quel
periodo, l’eco lontana ma più vicina al mondo del cinema che la rifletteva.
Una fotografia neorealista, come il cinema che ha preceduto quello aperto e spensierato della Lollobrigida, ma senza la ricerca forzata del “colore locale” inteso come situazioni limite. Siamo in una sala tra cinquanta ingrandimenti, la maggior parte d’epoca, con immagini scanzonate come la famiglia Brambilla che sfila sulle due ruote di una “Vespa”, quattro persone a bordo; e il gatto a colori in un grande primo piano che mangia un piatto di pastasciutta con lo sfondo del Colosseo, e sotto altri gatti, questa volta in bianco e nero, all’interno dell’Anfiteatro Flavio. E due scatti veneziani a colori, l’opera d’arte della ricamatrice dei merletti di Burano e il casto nudo di una modella d’eccezione, Marisa Solinas sullo sfondo del canale e del ponte veneziano.
Di Roma, nelle foto d’epoca, c’è Trinità dei Monti dietro un de Chirico che innaffia i fiori sul suo balcone superpanoramico, e sullo sfondo della conturbante passeggiata di una “pin up” a Piazza di Spagna; Mister OK nel suo tuffo di Capodanno dal ponte sul Tevere; e anche il neorealismo, quello aperto alla speranza impersonato da De Sica con i suoi sciuscià fotografati sorridenti, il gesto disperato del disoccupato che minaccia di buttarsi e la drammatica congestione di ombrelli e ai lati di macchine nello “sciopero giornaliero”, un’immagine angosciosa. A questa, che è una delle poche scene di massa, fa da contraltare l’altra, il popolo di Subbiaco, autorità e bambini in prima fila, in posa davanti alla propria concittadina più illustre con l’orgoglio dipinto nei visi sorridenti.
Il ritratto di un Fellini pensoso ci ricorda il profilo di un Visconti quasi aggrondato, che abbiamo visto in un’altra stanza, ma per poco; subito ci colpisce un’immagine felliniana vicina, lo svolazzare di tonache rosse di preti sul ponte davanti a Castel Sant’Angelo, cui fa da “pendant” la foto in bianco e nero, più felliniana ancora, dei preti che si tirano palle di neve in piazza San Pietro, una doppia rarità, la neve a Roma quando arriva, come nel 1956, ispira canzoni tanto è eccezionale.
Neorealismo in due immagini opposte. Il bacio dei giovani innamorati al crepuscolo dietro una colonna sull’Appia Antica, “una volta la strada dell’amore” quando non era “impraticabile e pericolosa“. E il bimbo disperso tra le macerie del terremoto, chissà se ha perduto i genitori, l’interrogativo resta, immagine tremendamente attuale dopo il rovinoso sisma aquilano. C’è anche un controluce da “Ladri di biciclette”, il bambino ritrovato dal padre “appena in tempo”.
Con altri due suggestivi controluce in bianco e nero vogliamo concludere il racconto di questa sala dedicata all’Italia. L’immagine di Venezia nel ponte sospeso in secondo piano con un fascino tutto particolare, l’immagine di “Roma, il mio amore”, presa rasoterra con l’acciottolato della strada romana in primo piano, i due giovani che tenendosi per mano vanno verso l’antico arco, con i raggi del tramonto all’orizzonte di un’immagine sfiorata dalla luce e scolpita dal chiaroscuro. Un sigillo d’autore nella rappresentazione di due città in cui si riassume tanta Italia: Venezia e Roma.
Ma c’è anche il “reportage” inatteso, addirittura nell’isola di Linosa sui mafiosi al confino, con il boss La Barbera. Si presentà camuffata con un giaccone hippy, una parrucca e dei grossi occhiali da vista dalle lenti spesse, le guance rigonfie per dei posticci all’interno. Così irriconoscibile scatta il servizio, tra scene di desolazione ambientale le figure dei mafiosi, pericolosi anche se apparentemente acacttivanti. Siamo nell’estate 1971, il servizio entrerà l’anno dopo nel volume “Italia mia”.
Il mondo più lontano, dall’India alla Cina e al Giappone
La diva come la fotografa esce dal guscio, il giro del mondo protrattosi per decenni diventa più intenso con il diradarsi degli impegni cinematografici, intensissimi nella prima metà degli anni ’50 in Italia, poi estesi a livello internazionale e divenuti episodici dall’inizio degli anni ’70, sostituiti in qualche modo dagli scatti fotografici. Forse anche in questa compensazione può trovarsi la molla che ha spinto la diva a compiere la scelta opposta della Garbo per resistere all’offuscarsi del mito della bellezza e della fama. Non si è nascosta appartandosi in un anonimato voluto e forse sofferto; al contrario si è esposta al mondo continuando a curare la bellezza ma trasmutandola nell’arte.
Perché è proprio la dimensione mondiale del “reportage” fotografico a dare la misura del suo valore, al di là delle singole opere, e Daverio ne dà una definizione appropriata: “Ci restituisce una documentazione vastissima, una sorta di archivio antropologico culturale della terra, vista con costante benevolenza, senza arroganza, con simpatia perenne”. Vogliamo raccontarlo.
I temi prediletti continuano ad essere quelli “italiani”, quasi una proiezione a livello mondiale di un neorealismo fotografico, la miseria e la solitudine, l’umanità e la semplicità. Il “colossal” era lontano dall’animo della fotografa, il “Salomone e la regina di Saba” dell’attrice è del lontano 1959.
L’India della Lollobrigida, siamo nel 1974-77, non è fatta di immagini corali, di scene di massa; ne dà una visione intimista, dall’interno, fatta di primi piani. Anche se si apre con il bel controluce dei raggi dietro le cupole di Nuova Delhi, prosegue con i poveri che dormono sui marciapiedi e stazionano ai margini delle strade, con le vacche sacre. Poi, dopo i volti del rude indiano e delle bimbe delicate, la scena si anima, siamo a Calcutta, con i bambini sui marciapiedi, i templi. Nelle rive del Gange, quelli che lei stessa chiama “gli ingressi dei templi affollati di umanità, i poveri”, ma sempre senza scene di massa. Il venditore d’acqua è carico di ombre, come Benares di notte, sembra una natura morta con figura umana. C’è una sorta di madonna indiana, in piedi con il bambino in braccio e il lungo velo che dalla testa scende sulle spalle, i colori pastello sono trafitti dai loro occhi spalancati, cosa guardano? Anche in questo mistero sta la bellezza. Segue il ritratto di due Sick sorridenti e dell’indiano aggrondato davanti a un elefante.
I colori esplodono nella bellissima sagoma di donna in rosso con lungo mantello giallo e un fondo bicolore, in un verde e un giallo alla Van Gogh, con un sottile tronco d’albero al centro; è un cromatismo violento con la donna ripresa di spalle, chissà qual è il suo viso? In primo piano frontale, invece, con pari resa cromatica, la ragazza del Taj Mahal, il tempio che troviamo in un altro scatto, visto da un’apertura nella grande vetrata. E poi il lavoro nei campi, un grande quadro a colori di un piccolo gruppo di donne con leggeri canestri sotto il braccio e pesanti mantelli.
Torna il bianco e nero nel tenero ritratto a mezzo busto della fanciulla con le treccine e soprattutto nelle tristi immagini della famiglia Gandhi, come quella in cui “Indira gioca con i nipotini nel giardino in cui sarà uccisa”. E poi Raijv con Sonia, l’unica sopravvissuta.
“L’ultimo scatto prima di lasciare Benares, un’immagine che non dimenticherò mai” congeda dall’India con un interrogativo: i poveri che si affollano al di fuori dei vetri dell’auto nell’immagine presa dall’interno sono mendicanti, addirittura lebbrosi, o sono soltanto persone che salutano? L’immagine è del 1976, non la dimenticheremo mai neppure noi.
Ma cosa ci fa vedere di quella parte del mondo asiatico dai tratti somatici così diversi, la Cina e il Giappone? Non c’è la ricchezza di immagini che attendevamo, vista l’India e vista l’estensione e l’esotismo, ma non è questo che cerca la fotografa, forse non è terra di intimità e introspezione. Tuttavia sono pur sempre cospicue, prendono l’intera parete di un lungo corridoio, l’altra è dedicata alle Filippine.
C’è la Shangai operosa e artistica con le sue strade animate e le sale di danza, due ballerine che volteggiano parallele; qualche scatto a Pechino e Canton, un vecchio molto espressivo con gli occhiali inforcati che sobbalza sorpreso. Prevale ancora l’intimo e il personale senza scene di massa anche se, come in India, siamo nell’alveare umano, quindi con tante occasioni spettacolari che non vengono colte perché l’interesse di fondo è la persona nella sua più intima umanità.
Così anche per Tokio, a parte la sfilata di una banda musicale, ma anche lì l’attenzione è sul bambino che ha eluso i controlli e si è infilato tra lo striscione e il corteo; in un altro scatto un bimbo ancora più piccolo si appoggia a una ringhiera in un angolo di marciapiede, una sorta di neorealismo in chiave nipponica. Mentre si sorride dinanzi ai lunghi capelli maschili sciorinati in un interno come tutti gli altri semplice e disadorno. E non mancano i lottatori, lo sport nazionale, curiosamente impalati sotto i loro ritratti.
Lontani sulle isole, le Filippine,
il paradiso di Cotabato
Il verde della laguna di Alaminos nella Hidden Valley e le figure di fanciulli
colpiscono con la loro forza cromatica, la fotografa sembra immergersi in questo
mondo coloratissimo, quasi una vacanza dopo le tante immagini neorealiste
spesso grigie, tuttavia ravvivate da particolari carichi di vitalità.
Ma ci sono anche immagini che riportano alla realtà, il guaritore sotto le cui mani sgorga il sangue dell’uomo disteso, il viso cotto dal sole del pescatore di Quezon, specchio di una vita semplice e dura, il mercato del pesce direttamente sull’acqua con una distesa di barche nello sfondo. E un bianco e nero aspro e drammatico nella processione del venerdì santo, una delle pochissime scene di massa, sembra la piazza del Campo del Palio di Siena, tanto è ricolma nella sua forma semicircolare. Dalla massa al tragico primo piano, il viso di Cristo sotto il peso della croce nella sacra rappresentazione, poi la crocifissione simulata della persona che impersona il figlio di Dio.
Vediamo subito un capolavoro in bianco e nero, la gigantesca foglia di noce di cocco, a terra come un labirinto vegetale, con in fondo un bimbo minuscolo al confronto. E un capolavoro a colori, nella Hidden Valley due bimbi nudi mentre entrano nell’acqua tra le foglie acquatiche in un verde abbagliante da paradiso terrestre; eguaglia in bellezza e splendore gli smeraldi nell’adiacente mostra dei gioielli di Bulgari, quelli di Liz Taylor e della stessa Lollobrigida, alla quale è dedicata, “noblesse oblige”, una vetrina nella spettacolare sezione “glamour” della “Dolce vita”. Più avanti, nella stessa laguna, un bambino minuscolo galleggia su una foglia gigantesca in un verde intenso.
L’alternanza cromatica continua, torna il bianco e nero con il viso di vecchia che sorride tra le rughe e le due radiose donne della laguna che ridono sotto i loro cappellini intrecciati; incalza il colore nel verde smeraldo delle terrazze di riso di Banaue, l’ottava meraviglia del mondo”, e nella piantagione di tabacco a nord di Luzon, con la macchia rossa del vestito della giovane donna che sta raccogliendo le foglie verdi e ne è sommersa; il verde domina ancora nel pittore con la modella.
Quindi il mercato del pesce, la gente entra nell’acqua fino alle caviglie e va verso le barche schierate sul fondo; in un altro scatto, al contrario, un nugolo di papere in primo piano che escono dall’acqua. Un grande quadro esprime il movimento in una tricromia tra cielo, terreno e le masse dei bufali in corsa sfrenata. Tante forme di vita in azione, a diversi livelli e dimensioni.
E poi, primi piani di bambini filippini, di Cotabato, sorridenti e pensosi, fino a due bimbi Tasaday “che vivono nell’età della pietra”, come altri più grandi dei quali tutti sono addirittura indicati i nomi, al pari dei grandi del cinema, dell’arte e della politica ritratti dalla Lollobrigida. C’è anche un’immagine corale di vita primitiva, calma e serena.
Il resto del mondo e i grandi
personaggi, fino al mondo dei bambini
Nella parete opposta si affacciano due immagini dell’Irak, anch’esse quiete e
serene, due interni, uno di vita artigiana l’altro di vita religiosa. Sono del
1988, c’era stata la guerra con l’Iran, nel 1990 comincerà quella con gli Usa e
il mondo, una parentesi di pace colta con grande tempismo.
Il resto del mondo è sparso nelle sale, c’è l’Australia con due immagini di un concerto rock; poi la Svizzera e l’Argentina, con una figura somigliante a Margherita Hack, l’Egitto, il Quatar e Panama.
In Brasile esplode il carnevale di Rio, saltiamo al 1993, cinque scatti a colori, in due di essi il viso femminile è quasi inghiottito da un nugolo di penne variopinte; è una bella sintesi della frenesia collettiva, espressa da un viso femminile in estasi e dal corpo nudo di una ballerina visto dal lato B.
Sono coloratissime anche le immagini dell’Honduras, un primo piano di giovane madre con il bambino sulle spalle, un filatoio all’aperto in costumi tipici, riccamente variopinti. E anche il Perù è rappresentato da una donna in rosso e nero davanti a un muro graffiato, sembra un quadro d’autore.
Del Marocco colpiscono i visi, due scatti alle donne con il proprio bambino, e poi l’immagine delle lunghe vesti rosa e verde davanti a una vecchia casa color ocra. Nel Kenia, di pari bellezza i vigorosi bianco e nero e i solari scatti a colori.
Al Sudafrica la chiusura di questa carrellata, per il grande vigore artistico del minatore con il viso teso nel buio della miniera d’oro, ci si chiede come abbia fatto la fotografa ad entrarvi riuscendo a scattare un bianco e nero così suggestivo; e anche per il colore delicato e rasserenante delle due ragazze in parallelo, quasi in scala, e dei ragazzi meno simmetrici ma assortiti nelle diverse età.
Ed ora l’Europa, di cui abbiamo visto finora solo l’Italia. Ecco la Spagna, in un forte cromatismo espressivo di un clima e di un ambiente: lo troviamo nelle scene della corrida, con Ordonez ed El Cordobes alle prese con il toro nell’arena, e in un ritratto del secondo.
Ce n’è anche uno in bianco e nero, come le immagini del flamenco, vissuto nei volti intensi delle ballerine e nella loro vibrante energia in un’immagine di movimento vorticoso; inoltre nel volto severo e nella “siluette” di Antonio Gades. Ma non manca il colore, una statuaria ballerina con un abito rosa arricciato che sembra pronta a rotearlo come fa il pavone.
Gran Bretagna e Russia sono in bianco e nero. Di Londra desolate immagini di periferia; di Mosca tre fotografie espressive, l’anziana donna seduta curva, una forma quasi circolare, il Cremlino in una orizzontalità data dalla strada in primo piano, la Piazza rossa con la verticalità delle sue cupole.
Non c’è particolare interesse per l’America opulenta, i pochi scatti dedicati a New York e a San Francisco sono desolati, forse dipende dall’alienazione e dalla solitudine nelle metropoli; ed è struggente il sorriso della bambina con la testa stretta in una morsa d’acciaio in un ospedale di New York.
Un inedito Paul Newman che fa il bagno dopo la sauna tra i ghiacci nello specchio d’acqua davanti al suo “chalet” immerso nel bosco si aggiunge al bel ritratto del suo sorriso radioso, ad essere serio c’è Henry Kissinger ritratto al telefono; scuro e serioso anche Fidel Castro, mentre Marcos è ripreso sulla spiaggia dove corre per il “footing”, piccola figura di un dittatore spietato.
Soltanto qui, e poi nella sala a loro dedicata, affiora il privilegio del rango, tutti i grandi personaggi, del cinema come della politica, della cultura come delle istituzioni diligentemente fotografati. Quasi fosse un dovere – sia per loro che per la fotografa – e lo si avverte in molti ritratti convenzionali e in posa. Vogliamo ricordare tra i tanti, ne abbiamo contati quasi quaranta, per la resa artistica, una Liz Taylor avvolta in un lungo vestito e scialle rosso, in posizione reclinata, con il nero corvino dei capelli e gli occhi sgranati che ricorda la Lollo di allora; e Liv Ullman, immagine quasi monocromatica di delicata fattura.
Orson Welles tenebroso anche se quasi in posa, come Grace Kelly vestita di verde e Farah Diba impalata, completano la nostra citazione. Che si chiude con l’immagine dell’amata Callas in bianco e nero, e con uno scorcio della figura di Bette Davis, in un colore che sembra grigio per la tristezza di una vecchia diva di cui si immagina il viso scavato.
Dal mondo dei grandi vogliamo arrivare a quello dei bambini ai quali l’attrice ha dedicato un’attività umanitaria nell’ambito dell’Unicef, oltre a quella svolta per la FAO contro la fame. E’ un terreno d’avanguardia sperimentato dall’inizio degli anni ’80, del resto anche nelle sue fotografie tradizionali la Lollobrigida mette la propria visione del tutto particolare alimentata dalla fantasia. “Nell’immagine è fissata una rappresentazione della realtà fissata dal nostro inconscio – ha scritto – una rappresentazione trasformata, talora irreale, racchiusa in un’inquadratura che taglia, esclude o addirittura annulla ciò che può disturbare: quello che non interessa e che lascia unicamente spazio a ciò che vogliamo vedere, proprio come un regista che sceglie e confeziona le scene di un film”. Così fa nelle composizioni per i bambini, le immagini le crea e le costruisce, poi le fissa sulla pellicola. Le tecniche sono inedite e innovative per quegli anni, quando i sistemi computerizzati non avevano preso piede con la loro attuale invadenza, e si doveva lavorare artigianalmente.
E’ una rappresentazione fotografica che sconfina con la scultura, essendo fatta di forme e colori virtuali, quasi tridimensionali nel loro impatto visivo, forse è stato il “trait- d’union” tra le due forme espressive. Sono macchie cromatiche e accostamenti arditi con figurazioni fantastiche, a volte sembrano giochi di prestigio e di equilibrismo: delfini, struzzi e altri animali ripresi in simbiosi con i bambini. Fiabe solari ben lontane dalle oscurità di certe favole nordiche fatte per incutere nei piccoli il senso del pericolo, ma che scavano nell’animo solchi di paura.
I successi editoriali e quelli artistici
L’incursione nella fotografia per bambini ad elevato livello di qualità e innovazione, la felice sinergia tra genialità italica e personalità ferrea che predilige l’apprendimento accelerato e l’applicazione, nel 1994, dopo 14 anni si è tradotta in un libro per l’Unicef, “The Wonder of Innocence”. E’ solo una parte del più ampio lavoro che le ha visto pubblicare otto volumi di fotografie nel corso del tempo, uno dei quali, nel 1973, dal titolo “Italia mia” ebbe il Premio “Nadar” come miglior libro fotografico dell’anno e vendette più di 300.000 copie nel mondo.
Fu Vittorio De Sica a suggerire questo titolo al posto di quello da lei pensato “La mia Italia”, titolo del libro fotografico di Tony Vaccaro contemporaneamente in mostra alle Scuderie del Quirinale. Una bella coincidenza di due italiani dilettanti fotografi divenuti presto eccezionali professionisti.
I riconoscimenti artistici non sono mancati. Nel 1992 rappresentò l’Italia all’Expo di Siviglia con la scultura “Vivere insieme”, un bambino che cavalca un’aquila. Chirac le diede la Medaglia d’oro della Città di Parigi di cui era sindaco nel 1980 per la mostra di fotografie al Museo Carnavalet. Le sue sculture sono state esposte in affollate mostre al Museo Puskin di Mosca nel 2003, anno nel quale ha partecipato all’Open di Venezia.
Nel 2008, nella città di Pietrasanta, meta di artisti europei ed americani, dove le piace lavorare come scultrice, si è tenuta una grande retrospettiva delle sue opere. Alcune rappresentano la sua gioventù e la sua bellezza in statue colorate molto grandi, di una leggerezza e leggiadria che le fa apparire come visioni oniriche; nel filmato che si può vedere nella mostra ci sono queste sculture come ci sono anche spezzoni dei suoi film più famosi con la sua disinvolta dizione in francese e in inglese, un portento.
Per l’insieme della sua opera di attrice e artista ha ricevuto nel 1992 la “Legion d’Onore” in Francia dal presidente della Repubblica Francois Mitterand. Ma non vogliamo indugiare oltre su questi riconoscimenti ufficiali, ci piace concludere con alcuni giudizi sulla sua poliedrica personalità e sulle sue doti da parte di personaggi, soprattutto attori e registi che hanno lavorato con lei iniziando con i giudizi più lontani dai campi da lei coltivati.
André Cayatte:”Ha un autentico talento da cantante, una voce carezzevole. Se non si fosse ormai votata alla carriera cinematografica, Gina avrebbe potuto percorrere la carriera di cantante con altrettanto brillanti risultati di quelli raggiunti come attrice”; Cocò Chanel: “Gina è nata per indossare i miei tailleur, è meglio delle mie mannequin”. Ed ora gli attori e registi più famosi: Humphrey Bogart: “In quanto a sex appeal fa apparire Marilyn come una scolaretta”; Sean Connery: “Ho lavorato con molte artiste, di tutte Gina è quella che scelgo”; poi i registi, Renè Clair: “Gi-na-Lol-lo-bri-gi-da, sono le sette sillabe oggi più famose in Europa; Fellini: “Gina non finisce mai di sorprendermi; è straordinaria”.
Fellini parlava di lei come attrice cinematografica, ma il suo potrebbe essere benissimo il sigillo della mostra che ne rivela i tanti profili d’artista: non finisce mai di sorprendere, è straordinaria.
1 Commento
- Rossi Vittorio
Postato settembre 18, 2009 alle 9:55 PM
molto bello e chiaro
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la mostra si è svolta a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, dal 25 giugno al 13 settembre 2009. L’articolo è stato pubblicato in culturainabruzzo.it (non più raggiungibile) il 10 agosto 2009. Catalogo “Gina Lollobrigida fotografa”, Damiani Editore, giugno 2009, pp 320. Il precedente articolo “Gina Lollobrigida, 1. Con Stefano Massini per l’ “utilità” dell’arte, le sue sculture” . è uscito in questo sito nella stessa data del 5 maggio 2020.
Foto
Le immagini si riferiscono alla Lollobrigida fotografa, le tre che precedono le due di chiusra mostrano i suoi disegni e dipinti esposti alle pareti di due sale della mostra a Pietrasanta con al centro sue sculture, alle quali è dedicato l’ articolo appena citato, pubblicato contestualmente. Esse sono tratte dai siti web, che saranno indicati nell’ordine di inserimento delle immagini, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che hanno scopo eminentemente illustrativo senza alcun intento economico, nè commerciale, nè pubblicitario; qualora la pubblicazione non fosse gradita le immagini verranno rimosse immediatamente su semplice richiesta dei titolari dei siti. In apertura, il Catalogo della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 2009; segue, Gina Lollobrigida fotografa tra alcuni dei suoi scatti nel mondo, poi, intervallate da immagini in cui è ritratta mentre è impegnata a fotografare che qui non vengono citate, Gina Lollobrigida, India, Bambini che giocano; quindi, Gina Lollobrigida, Reportage sui mafiosi al confino, Linosa, estate 1971 in 4 immagini, la 1^ è una scena d’ambiente, la 2^ riprende 4 mafiosi al confino, la 3^ mostra Angelo La Basrbera in un incontro “ravvicinato” con un carabiniere, istantanea eccezionale, nella 4^ il boss La Barbera con due mafiosi al confino; inoltre, il libro fotografico “Italia mia”, edizione inglese 1973 , in tedesco, “Mein Italen” 1978; poi, dopo 5 immagini della Lollobrigida con il libro “Italia mia” come fotografa e anche come fotografata, il suo ritratto fotografico di “Paul Newman” ; ancora, mentre fotografa il regista Luchino Visconti, poi un Corazziere, e mentre fotografa a fianco dell’attore David Niven; continua, Il Catalogo delle fotografie risultato della ricerca sui bambini 1993, e lei sui tetti di Roma mentre fotografa una modella; poi il francobollo di San Marino sulla sua arte fotografica, e 3 immagini dei suoi dipinti e disegni della mostra di Pietrasanta, una dalla Sala del Capitolo, 2 dalla Sala dei Putti; infine, il francobollo di San Marino, su lei ambasciatrice FAO; in chiuusra, il Catalogo delle mostre fotografiche all’estero 2010. Sono tratte dai siti web: diamianieditore.it, 06foto.it, pinterest.it, nikoland.it, humusdremawidth.com, 4 reportagesicilia.blogspot.com, intervallati da fotoimesite.net, picclic e profilodidonna.com, poi marieclaire.it, amazon.com, nikoland.it, chi-e.com, gettyimages, fotoalamy.it, 2 nikoland.it, fotografiamoderna.it, 2 fotoalamy.it, intervallati da repubblica.it, 2 nikoland.it, reportagesicilia.blogspot.com, amazon.it archiviopizzi.formiche.net, 2 riminibeach.it intervallati da 3 museodeibozzetti.it, amazon.com.
Caro Romano, ho apprezzato molto i tuoi due articoli in cui, da animo sensibile quale sei, cerchi di mettere in primo piano e di rivalutare, proprio così come fa Massini che io apprezzo molto, i valori della bellezza, dell’arte, della cultura. A mio avviso però la vostra è una battaglia persa, poiché questo nostro mondo si è oramai assuefatto alle nefandezze e alle brutture sviluppate dal capitalismo, si è perso persino il concetto cristiano e non solo cristiano di giustizia che è una delle aspirazioni principali cui dovrenbbe tendere l’animo di ciascuno di noi. Cio che oggi conta, invece, sono gli aspetti materialistici della nostra vita, cioè ciò che si possiede, ciò che si ha. In effetti ciò che più conta in questo sistema ed in ultima analisi, è il dio danaro. Ma queste aspirazioni materialistiche potrebbero avere una loro validità universale se nel mondo ci fosse una redistrubuzione più equa delle ricchezze prodotte. Purtroppo non è così poichè vige lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che produce, come ben sai, una ristretta oligarchia che possiede l’80% della ricchezza prodtta mentre nel mondo continua a proliferare la povertà e la morte. Ho voluto fare questa premessa per affermare che il mondo capitalistico non alimenterà mai, globalizzandola, la cultura, la bellezza, l’arte che sicuramente rende più sensibili e colti gli animi, poiché la loro divulgazione aprirebbe gli occhi degli uomini spingendoli a non accettare più l’attuale vergognoso stato di cose. Il capitalismo preferisce avvalersi di uomini rozzi e poco sensibili come Trump, Salvini, Bolsonaro, Orban e tanti altri che instillano negli animi egoismi, odio, intolleranza, razzismo… E come puoi pretendere, in un mondo simile, che possa essere presa in considerazione e sviluppata capillarmente la cultura e l’arte, in genere la bellezza? In questo tragico momento, che noi abbiamo già dibattuto, accenni alla strage di anziani fatta dal covid-19 ed alla poca considerazione con cui tutti gli Stati trattano l’argomento. Questo sistema vede, dal suo egoistico punto di vista rendendosene pienamente conto, che gli anziani, essendo un peso sociale, sottraggono risorse finanziarie che, pur essendo loro in quanto versate continuamente nel tempo, comunque le sottraggono al sistema attraverso le pensioni, un maggior utilizzo di spese sanitarie e di una minore produttività. Il sistema capitalistico non coglie la loro importanza nel seno delle società in funzione della loro esperienza, della loro cultura maturata nel tempo che può invece ingentilire gli animi dei nipoti e in generale dei giovani. Si giunge così in questa società asservita al solo danaro che: “meglio che muoiano, tanto sono anziani e resta loro poco da vivere”. Parli di Gina Lollobrigida giudicandola una grande artista ed io non ho motivo alcuno per mettere in dubbio il suo valore artistico di fotografa e di scultrice. Pur tuttavia nelle trasmissioni televisive in cui lei spesso appare non si fa cenno alcuno sulla sua figura di personaggio artistico che ha speso tanta parte della sua vita promuovendo, attraverso le sue opere, l’arte e la bellezza ma si parla di lei, come giustamente tu affermi, solo ed esclusivamete come diva cinematografica, come esempio di pura bellezza femminile, alle volte è stata definita anche bomba sexy; si ricordano i suoi amori e si discute sui suoi problemi personali… Già, se si parlasse della sua arte fotografica e scultorea non si farebbero milioni di ascolti e le compagnie televisive non incasserebbero milioni e miloni di euro per diminuiti contratti pubblicitari. Caro Romano, non abbiamo speranze, dobbiamo rassegnarci alla dittatura del capitalismo che impone le sue incivili regole per seguitare ad accumulare danaro e potere.
Caro Gero, ancora una volta un tuo commento approfondito e insieme appassionato, il tuo spirito di ricercatore emerge sempre allorché analizzi in profondità e nel contempo allarghi il campo di osservazione; a questo si aggiunge l’immancabile dimensione politica.
A differenza del nostro scambio di opinioni precedente questa volta non eludo tale dimensione, perché non è legata alla contingenza di un governo o di una forza politica ma ha carattere generale e domina l’intera tua interpretazione. Pur apprezzando – e non poteva essere altrimenti data la tua apertura culturale – la difesa dell’arte e della cultura, nel segno della bellezza, cui è dedicato il mio articolo, la consideri “una battaglia persa”, perché “questo nostro mondo si è ormai assuefatto alle nefandezze e alle brutture sviluppate dal capitalismo”. Magari fosse soltanto “colpa” del capitalismo! Sarebbe stato soppiantato dal comunismo nato in contrapposizione allo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” con la teoria di Marx alla base, ma non solo questo non è avvenuto, ma in quanto a “nefandezze e brutture” non è stato certo da meno, per usare un eufemismo.
Purtroppo le sopraffazioni e gli sfruttamenti, le diseguaglianze e le ingiustizie sono antiche come la storia dell’uomo, vengono prima del capitalismo, sono state sempre subite fino a ribellioni solo locali, anzi oggi con la globalizzazione anche delle notizie non si possono più nascondere. Come le guerre endemiche anch’esse soprattutto nei paesi poveri e tra di loro, per cui nessuno è “innocente”, poveri o ricchi, arretrati o avanzati, spesso sono poveri e arretrati proprio per questo, anche se c’è stato l’indegno sfruttamento coloniale, peraltro cessato ormai da mezzo secolo almeno nelle sue forme più vistose.
Non credo che la causa di tutto questo vada trovata nel capitalismo, tutt’altro, il capitalismo ha una grande capacità di adattamento, e aderire alla natura umana è una delle sue principali caratteristiche. D’altra parte, anche il perdurante comunismo cinese, in economia ha assunto veste capitalistica, e così il nuovo corso nella Russia di Putin. Nè credo che il capitalismo voglia oscurare volutamente arte e cultura perché con la crescita culturale gli uomini aprirebbero gli occhi e non accetterebbero più “l’attuale vergognoso stato di cose”, dove la parola “attuale” è di troppo, non è che nei tempi passati lo stato di cose fosse migliore, anzi è avvenuto il contrario. Il “dio denaro” non è un’invenzione capitalistica, non erano capitalisti quelli che adoravano il “vitello d’oro”; dalla cacciata dal Paradiso terrestre, per i credenti, ha preso avvio la storia dell’umanità nel sudore e nella lotta per la sopravvivenza. “Homo homini lupus” ne è stato il sigillo, lo è molto meno oggi che nelle passate epoche storiche.
E allora, se è stato sempre così, e anche peggio – credo sia evidente – come posso dire che la nostra battaglia può non essere persa? Perché non è solo per l’arte e la cultura, è per la vita, e proprio la globalizzazione dell’emergenza può portare a una nuova globalizzazione virtuosa: far aprire gli occhi, come tu evochi giustamente ma ritenendolo impossibile, mentre io voglio sperare che da ora in poi sia invece possibile. E’ emersa platealmente l’insufficienza delle risorse per la vita, e forse anche la polemica sulle spese per gli armamenti – inquinata finora dalla contrapposizione politica – potrebbe acquisire nuova forza se ispirata dal valore supremo dell’umanità: la difesa della vita. Nella quale rientra anche a buon diritto quella degli anziani che non sono una categoria a parte, ma persone come tutte le altre, alle quali non attribuisco la “marcia in più” dell’esperienza e della funzione fondamentale nell’ambito familiare e sociale, ma nemmeno la “marcia in meno” della presunta loro “inutilità” economica come la respingo per l’arte e la cultura, aderendo all’appello di Stefano Massini.
Scoprire che siamo inermi rispetto a un virus invisibile ma di una famiglia virale ben conosciuta, e dinanzi a un allarme risuonato forte già da alcuni anni – Obama nel 2015 profetizzò l’epidemia “fra cinque o dieci anni” – è stato uno shock mondiale inedito e gravido di conseguenze fino a ieri inimmaginabili. La stessa Unione Europea – pur nei suoi limiti sempre meno comprensibili – ha messo in campo interventi immensamente maggiori di quelli operati nelle più gravi crisi economiche, e un fondo speciale proprio per la sanità. C’è una gara a livello mondiale nella ricerca del vaccino, una nuova coscienza globale sembra possa emergere; in piccolo le riconversioni di una serie di aziende a prodotti per l’emergenza sanitaria potrebbe essere un piccolo campione di una auspicabile riconversione mondiale, il capitalismo ha dato già questo piccolo segno di adatatmento alla novità: dai beni artificiosamente “imposti” con i consumi “indotti” dalla produzione, e non rispondenti a bisogni effettivi, a beni per i bisogni primari come quello della salute e della vita. La denuncia di Galbraith alle economie opulente dopo oltre mezzo secolo vedrebbe finalmente una risposta all’altezza delle più alte aspirazioni della comunità umana. E anche per i paesi arretrati un intervento risolutore alla loro arretratezza rientrerebbe nella lotta allo “stato stazionario” paventato dagli economisti classici, che vedevano un rimedio soltanto nella scoperta di nuove terre. Ebbene, l’Africa potrebbe essere la nuova terra sulla quale esercitare la spinta imprenditoriale invece di accanirsi sulle economie opulente i cui consumi saturi possono venire sostenuti e sviluppati soltanto mediante artifici che mostrano sempre più la corda; altrettanto sarebbe per l’eliminazione delle sacche di povertà. interne alle economie progredite.
Il capitalismo impedirà tutto questo? Lo può dire chi non conosce la sua capacità di adattamento alle nuove situazioni che poi è anche la ragione prima della sua perdurante vitalità, potrebbe trovarvi invece una spinta rigeneratrice. Preferisce – come tu denunci con la tua invettiva politica – di avvalersi di uomini rozzi e poco sensibili come Trump, Salvini, Bolsonaro, Orban? Non mi sembra appropriato citare Trump, che vale come il due di briscola in questo scenario globale, tanto più dopo che la pandemia ha sbugiardato le sue rassicurazioni interessate nell’anno elettorale, e non parliamo di Salvini, Borsonaro, Orban, “fantasmi” inconsistenti a livello mondiale. Nè possono ritenersi imposti dal capitalismo, perché “rozzi e poco sensibili” , che quindi “instillano negli animi egoismi, odio, intolleranza, razzismo”, dato che sono oggi – come lo sono stati ieri Kenendy e Obama – il frutto della libertà assicurata dalla democrazia che ha tanti difetti, ma non c’è un sistema migliore; a meno che non si ritenga tale il comunismo di Stalin, l’alternativa al capitalismo di cui ricorderai anche tu l’amore, la tolleranza, la libertà data agli ebrei di raggiungere Israele… …
Chiusa la parentesi con finale ironico e tornando a quello che conta, la speranza è che la globalizzazione faccia esplodere contraddizioni secolari rimaste finora irrisolte perché c’è stato lo shock rivelatore al mondo intero della possibilità, anzi esigenza, di mobilitare tutti coloro che difendono la vita contro la dissipazione di risorse in impieghi sciagurati per la loro nefandezza, come le armi, e per la loro insignificatività, come i prodotti per i consumi indotti da bisogni artificiali. Il capitalismo con la sua capacità di adattamento non sarebbe assente in questa svolta; sarà assente il comunismo, che è scomparso per il suo fallimento nella realtà dei paesi che lo hanno sperimentato sulla propria pelle; lo cito, caro Gero, non riferendomi a te che non lo nomini affatto, ma come l’alternativa sperimentata fino ad epoca recente al sistema capitalista cui attribuisci tutte le colpe.
La mia risposta non è un “visto da destra” dopo il “visto da sinistra” in cui potrebbe essere classificato il tuo commento. Lasciamo queste divisioni al vecchio “Candido” di Giovannino Guareschi, che il 1° Maggio avrebbe compiuto 112 anni. Si può e si deve ragionare sulle nuove prospettive al di fuori di schemi precostituiti e soprattutto lasciando da parte ogni strumentale preconcetto, tanto più se politico.
Penso che anche tu concorderai, la tua passione politica è espressione di una autentica coscienza civile, ma delle volte può portare a una visione interessata e strumentale. E va evitata, soprattutto quando porta a conclusioni come la tua, secondo cui “non abbiamo speranze, dobbiamo rassegnarci alla dittatura del capitalismo che impone le sue incivili regole per seguitare ad accumulare danaro e potere”. Anche Gina Lollobrigida, a tuo avviso, ne sarebbe vittima, vedendo oscurate le sue opere artistiche nella scultura e nella fotografia perché abbasserebbero l’”audience” e quindi i profitti televisivi. Io invece lo derubrico nel malinteso nazional-popolare – che Benigni smentì con gli alti ascolti dei suoi monologhi culturali – ritenendo altamente spettacolare una tale storia artistica eccezionale proprio perché segue una storia divistica altrettanto straordinaria.
Ed è proprio la tenacia della Lollobrigida un esempio e non arrendersi e a non ritenere “battaglia persa” quella nella quale modestamente mi sono riconosciuto. Io credo che anche se fosse una “battaglia contro la dittatura del capitalismo” si dovrebbe combattere, come contro tutte le dittature, ma temo che lo sia contro qualcosa di più difficile da contrastare, certi aspetti della natura umana. Mi confortano, ripeto, le nuove condizioni globali che danno una nuova speranza, e a quella penso che possiamo e dobbiamo aggrapparci, e lottare come possiamo. Nel mio piccolo cerco di farlo, sulla scia dello scrittore-predicatore Massini e con una “testimonial” come la Gina nazionale.
Caro Romano, sicuramente la sopraffazione, lo sfuttamento, la diseguaglianze sono antiche quanto il mondo e seguono di pari passo la storia dell’uomo: ai tempi dell’antico Egitto schiere di schiavi erano costretti a costruire le grandi piramidi e la sfinge per il cosidetto piatto di lenticchie, cioè per la sopravvivenza, cosi come avvenne con gli antichi romani e nel medioevo per arrivare fino alla gestione del potere delle grandi monarchie le quali, per mantenere sfarzi di corte e ricchezze dei re e degli imperatori consideravano gli uomini poco più di una merce. Nel mio articolo di risposta io mi riferivo, senza averlo specificato, a quello spartiacque, a quella linea di demarcazione storica in cui per la prima volta gli uomini vennero a conoscenza di una verità sociale scientificamente provata: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che la classe dominante, cioè il capitalismo, operava da secoli sull’umanità. Il Capitale di Karl Marx segnò quello spartiacque e divenne il nuovo vangelo che spiegava la ferocia che le classi dominanti avevano esercitato sulla gran massa di uomini. Ma il Capitale non si limitò ad illustrare alle masse gli elementi dello sfruttamento sociale, ma fornì anche una ricetta affinché i popoli potessero liberarsi dalle catene della sopraffazione attraverso una lotta di classe per arrivare alla dittatura del proletariato. In un primo momento, secondo Marx ci sarebbe stata la rivoluzione proletaria per arrivare poi alla dittatura del proletariato cioè alla dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Questa fase sarebbe durata fino alla completa eliminazione dello Stato ed avrebbe portato al trionfo della messa in comune di tutti i mezzi di produzione sotto la gestione diretta del popolo, cioè all’avvento del comunismo. Bisogna dire però che il primo tentativo concreto della realizzazione del comunismo fallì proprio in occasione della rivoluzione russa di ottobre per il semplice fatto che Lenin non applicò le regole dettate da Karl Marx per avviarsi verso il comunismo affermando che il popolo non era in possesso di una appropriata cultura per gestire le riforme così come le aveva immaginato il marxismo, ma serviva una ristretta oligarchia che facesse da guida al popolo e quando a Lenin successe Stalin costui abolì l’oligarchia leninista per diventare un dittatore ed un assassino di popolo. Quindi si può affermare che il comunismo così come stabilito dalle regole marxiste non si è mai concretizzato in nessun paese del mondo. Fatta questa doverosa premessa è utile constatare che ogni opera d’arte è espressione del proprio tempo e risente quindi di un’influenza meccanicistica dovuta al progresso della stessa società. Ora nel capitalismo si esalta la libertà di concepimento dell’arte, ma in ultima istanza bisogna chiedersi che cosa rappresenta l’opera d’arte nel capitalismo ma anche in che posizione sociale si pone l’artista. L’opera d’arte nel seno del capitalismo è considerata una merce come tutte le altre per cui l’artista altro non è se non l’operaio che è costretto a vendere la propria forza lavoro per produrre materialità. Questa impostazione non è creatrice di un’arte svincolata dalla società in cui si vive, ma è un’arte che svilisce la cultura, la bellezza, ciè un’arte meccanicistica depotenziata legata ai bisogni quotidiani della società in cui si vive: in poche parole l’artista deve portare a casa la pagnotta. Se le opere di Gina Lollobrigida, così come quelle di tanti altri artisti, avessero veramente lo scopo tendente solo ed esclusivamente a far conoscere alla società la bellezza vera, la bellezza pura che sgorga dal più profondo dell’animo dell’artista, materializzandosi attrverso la pittura, la scultura. la poesia, la letteratura non si avrebbe bisogno di fare solo ed esclusivamente ascolti per fare profitto e solo profitto. Ecco che il capitalismo, sotto la concessione di un’apparente libertà artistica considera, in realtà l’arte, la cultura, la bellezza solo ed esclusivamente dal punto di vista meccanicistico, considera cioè l’arte e il prodotto di essa come una merce.
Caro Gero, con il mio accenno alla storia dell’umanità fatta di sopraffazione e sfruttamento prima che si parlasse di capitalismo non volevo portare la nostra discussione fino alle Piramidi, e non pensavo di scomodare addirittura Carlo Marx. Ho molto apprezzato la tua “lezione”, oltre che ricercatore scientifico hai la visione dello storico, sperimentata nei tuoi libri, ma in questo caso, come in altre più banali note occasionali, è condizionata dalla tua passione politica, che emerge di nuovo con forza, ed è del tutto legittimo e comprensibile, ma porta a conclusioni per lo meno discutibili.
Consideri ancora provvidenziale – anche se senza l’esito sperato – l’intervento di Carlo Marx che avrebbe aperto gli occhi agli sfruttati fornendo la ricetta infallibile perché la classe operaia andasse in paradiso! Libero di pensarlo, ma mi sembra avventato dire che solo la miopia di Lenin e l’autoritarismo di Stalin avrebbero compromesso quel disegno salvifico di cui già con la “rivoluzione proletaria” si erano poste le necessarie premesse. Secondo la tua perorazione, se alla Rivoluzione di ottobre fosse seguita la “dittatura del proletariato” impersonata dalla “maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori” si sarebbe giunti “al trionfo della messa in comune di tutti mezzi di produzione sotto la gestione diretta del popolo, cioè all’avvento del comunismo”. Nel provare un brivido per questo evento, per fortuna scongiurato, mi sorprende che ci si possa entusiasmare dinanzi a una dittatura, anche se del proletariato, perché sappiamo come finiscono, anche qui la storia di ogni nazione ne dà esempi a iosa; e non vedo come poteva essere un “trionfo” la gestione diretta del popolo di “tutti i mezzi di produzione” messi in comune. Il popolo senza intermediari mi sembra lo volesse Gheddafi, ed è un eufemismo parlare di utopia, perché alla base di tutto c’è stato l’errore di fondo che gli economisti neoclassici hanno evidenziato.
Il “plusvalore” di cui si appropriavano i capitalisti togliendolo ai lavoratori, secondo la teoria marxiana, in realtà aveva perduto di significato perché il valore era dato dall’utilità del prodotto per i consumatori e non dal lavoro che incorporava, tanto è vero che non si è avuta quella “caduta tendenziale del saggio di profitto” che Marx vaticinava con la meccanizzazione che avrebbe ridotto l’incidenza del lavoro. Il valore non dipendeva più dal lavoro ma da altri parametri, quindi non potevano esserne espropriati i lavoratori, era il mercato a dominare, nel raffronto tra domanda generata dai bisogni e offerta fornita dalla produzione. Ed è qui che il capitalismo ha agito – e l’ho detto chiaramente in altra mia risposta – attraverso i consumi non generati correttamente dai bisogni ma indotti artificiosamente dalla produzione, sacrificando i bisogni essenziali come quelli dei “beni comuni” legati anche alla salute e alla vita: e lo shock del coronavirus potrebbe correggere questa deviazione fornendo nuovi motivi di convenienza a un capitalismo che sa adattarsi alle novità, è questa almeno la mia speranza che riconfermo.
Non avrei mai pensato di scivolare da Gina Lollobrigida a Carlo Marx e al suo paradiso terrestre dei lavoratori svanito, mentre si stava realizzando, per l’errore di Lenin, un po’ come il paradiso terrestre di Adamo ed Eva svanito per l’errore di Adamo; con lacrime e sangue per lavoratori e umanità. Lo dico con un sorriso, “si parva licet… “, per tornare subito al tema. Sono del tutto pertinenti le riflessioni sull’arte che, caro Gero, presenti con pari passione, anche se il capitalismo c’entra poco, mentre c’entra direttamente il mercato: che fa parte del sistema, sì, ma è ineliminabile se si è amanti della libertà e si rifiuta qualunque dittatura. E’ giusto ciò che dici sul rischio di mercificazione dell’arte, con le opere ridotte a merce e gli artisti a esecutori dei dettati del mercato. In realtà, anche quando eseguivano commissioni ben più imperative, come quelle della Chiesa e della nobiltà, la creatività dei veri maestri non ne è stata compromessa, se stiamo ai capolavori del Rinascimento e delle altre epoche d’oro; e quando non c’erano queste commissioni, come per Van Gogh, per citare uno dei più grandi, la creatività non è stata riconosciuta al momento, mentre il “ribelle” Caravaggio pur con le rigide commissioni, non mancava di essere trasgressivo, riusciva a liberare il proprio talento creativo. Anche gli artisti del Realismo socialista, pur obbligati dalla mistica di regime ad opere propagandistiche, mantenevano il loro spazio di libertà.
Il tema che tu poni è interessante quanto dibattuto e complesso. Duchamp cercò di far esplodere queste contraddizioni con i “ready made”, gli oggetti in vendita tolti dal loro uso abituale e trasformati in opere d’arte solo perché firmati dall’artista; voleva opporsi al mercato, che disertava, ma il risultato fu l’opposto, invece di democratizzare l’arte rese l’artista una specie di re Mida. Però sottoposto alla “dittatura del mercato”, che spaccia una banana con lo scotch come opera d’arte valutata 130 mila dollari, prima di essere mangiata da un altro “artista”, e mai le virgolette sono state meglio apposte.
Il “Manifesto per l’arte” cerca di opporsi a questo evidente deterioramento dell’arte sottoposta a squallide regole mercantili; pubblicato nel 2017 riunisce una serie di artisti italiani dalle tendenze e stili diversissimi, in un impegno comune nel riaffermare il valore della individualità come base per dei valori universali, una sorta di ossimoro intrigante. Partono dalla constatazione che l’attuale società svuota gli individui di ogni valore e li rende meri oggetti di sfruttamento e di consumo, in quanto si fonda sulla “categoria della convenienza” che considera irrilevante l’identità umana. La risposta è fare appello alla coscienza individuale, la vera antitesi radicale nei confronti del pensiero unico dominante; che però non si deve rinchiudere in sé stessa, ma deve cercare forme di aggregazione che possono rendere universale ciò che nasce dalla coscienza personale libera e consapevole.
Ho analizzato questi temi in due articoli che pubblicherò in questi giorni, entro la settimana saranno in questo sito, per cui non aggiungo altro se non il riconoscimento che hai visto giusto, a parte il mantra del capitalismo…. a cui si danno colpe che purtroppo sono della società, e dell’intera umanità; magari, ripeto, derivassero soltanto da un tipo di organizzazione economica!
L’arte di Gina Lollobrigida è emblematica per la sua tenacia nel ribellarsi a chi vorrebbe confinarla dove la vuole la “vulgata” nazional-popolare, peraltro a mio avviso malintesa e male interpretata, In lei vengono riaffermate le ragioni dell’arte, non come merce ma come espressione creativa della sensibilità e del talento degli artisti. Per questo credo che siamo d’accordo nel plaudire alla Gina nazionale nel suo opporsi al mercato televisivo che considera merce il divismo da lei impersonato e vuol oscurare la sua arte che non interessa perché il conduttore di turno crede di non poterla “vendere” con altrettanta facilità.
Ma proprio ora leggo la notizia che una misura giudiziaria, con la pretesa di “tutelarla”, avrebbe autorizzato il suo “anmministratore di sostegno” a “prelevare e collocare in un deposito”, contro la sua volontà, “gioielli, quadri, suppellettili, mobili, lampadari”, tutti i suoi ricordi, spogliando la sua residenza di ciò che la arreda e l’ha circondata per una vita: bel “sostegno” e bel “giudice tutelare”! Ho appena scorso la nota su Internet, non vorrei crederci, nè ho altri elementi al riguardo. Anche se certi magistrati, come hanno fatto uscire 400 mafiosi dal carcere, compresi i più pericolosi isolati dal 41 bis, così potrebbero compiere persino un atto come questo, che sembra insensato in nome dell’umanità, al di là dei cavilli legali; si deve sperare che altri magistrati di buon senso impediscano un atto che appare comunque disumano. Ha reagito con queste parole accorate: “Hanno deciso di farmi morire in modo ignobile, neanche come si farebbe con i delinquenti. In un paese civile non è tollerabile che avvengano soprusi così gravi e ingiusti”. Lo sentiamo come un appello rivolto a tutti gli italiani che l’hanno amata, ma almeno gli artisti dovrebbero mobilitarsi in sua difesa. Oltretutto, per i motivi che abbiamo evocato – l’oscuramento mercantilistico dei valori dell’arte nei suoi confronti – sarebbe il capofila ideale del “Manifesto per l’arte” da noi citato, unendosi a Ennio Calabria che ne è il capofila effettivo: diversissimi come artisti, pari nella strenua difesa dell’arte autentica. Per questo pensiamo che potrebbero accorrere subito in suo sostegno – in questo caso sarebbe la parola giusta – gli artisti firmatari; tantissimi, ne sono certo, si unirebbero a loro, noi tra questi, perchè credo che anche tu, caro Gero, lo faresti. Sempre se la notizia verrà confermata.
Come vedi, il tuo commento mi ha portato lontano e mi ha consentito questo appello finale, ti ringrazio di cuore.
Ciao Romano…..”Purtroppo le sopraffazioni e gli sfruttamenti, le diseguaglianze e le ingiustizie sono antiche come la storia dell’uomo”. Mi è parso giusto, sulla scia di questa tua osservazione, darle concretezza storica enumerando non solo le piramidi, gli antichi romani e il medioevo, ma anche per delineare quello spartiacque in Cui Karl Marx spiegò, per la prima volta in maniera scientifica nel 1867, i meccanismi dello sfruttamento capitalistico attraveso la sua più grande opera: Il Capitale. Ti chiedi per quale motivo, in questo tuo articolo che parla di Arte ho scomodato Karl Marx. A mio avviso non sono andato fuori tema, poiché ho considerato l’arte come un prodotto dei contesti storici rilevando che oggi, in questo regime capitalistico, mi correggo… imperialistico, in piena decadenza morale ed etica, l’arte vera che permea l’animo umano e che poi la restituisce attaverso la bellezza e la cultura è tenuta in pochissima considerazione e tu me ne dai conferma in questo tuo articolo argomentando sull’arte della Lollobrigida. Detto ciò debbo dire che Marx afferma che vi è un legame inscindibile fra operaio, il proprio lavoro e la produzione che genera l’alienazione dell’uomo che dà origine poi allo sfruttamento con cui il capitalismo prospera attraverso il plus valore. E’ vero che nel tempo il plusvalore si è arricchito di altri presupposti, ma in pratica rimane sempre il principio basilare su cui ancora oggi si pratica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per superare questa indegna prassi il Capitale di Marx dà anche una ricetta: la rivoluzione proletaria che, dopo aver conquistato il potere instaura la dittatura del proletariato che avrebbe dato origine ad una nuova società in cui tutti i beni prodotti sarebbero stati messi in comune e restituiti a seconda del bisogno do ognuno. E’ utopia? E’ una prassi politico-economica irrealizzabile? Non importa in quanto dobbiamo discutere solo della bontà dei principi che enuncia essendo alternativa alll’inperialismo. Caro Romano, io penso che tu non debba spaventarti del termine “dittatura del proletariato” così come succedeva in Italia nel primo dopoguerra quando con il termine “comunisti” la propaganda capitalistica faceva intendere che i comunisti mangiavano i bambini e non è una barzelletta ma era ciò che la DC inculcava nelle menti più fragili. Al contrario queste terminologie marxiste racchiudono sentimenti molto nobili come solidarietà,eguaglianza, tolleranza, amore per il proprio prossimo, cioè tutto l’opposto di ciò che avveniva e che avviene nel regime imperialistico in cui non si adora il Dio di Abramo, Giuseppe , Giacobbe ma il pagano dio danaro che tutto distrugge e corrompe e i cui drammatici risultati sono sotto gli occhi di tutti. Caro Romano ora però mi debbo dilungare ancora sul tema ideologico per dare più forza storica al mio pensiero. Anche il più conosciuto rivoluzionario della storia del mondo, elevato al rango di figlio di Dio, cioè Cristo, fu un riformatore dalle cui linee generali del suo pensiero e dalla sua prassi rivoluzionaria emerge con certezza la sua condanna nei confronti di coloro che accumulano ricchezze (i capitalisti odierni): Egli afferma: ” Beati voi poveri che ora avete fame perché sarete saziati….(Lc 6,20,23) e subito dopo avverte. “Ma guai a voi o ricchi che ora siete sazi perché patirete la fame…..(Lc 6, 24-26). Le prime comunità cristiane che sorsero a Gerusalemme nel 2° secolo DC non lasciarono cadere il suo messaggio riformatore e costruirono una società in cui l’economia era regolata da principi comunistici. “Tutti i credenti, poi, erano insieme ed avevano le cose in comune e vendevano le possessioni e gli averi e li ripartivano fra tutti secondo che alcuni ne avessero bisogno (At 2, 44-45). Le prime comunità cristiane regolate da questi principi di eguaglianza diventasrono molto numerose vivendo nella prpsperità, nella pace e nell’amore: “Non c’era infatti alcun indigente fra loro, giacché quanti si trovavano a possedere terreni o case vendendoli portavano i prezzi delle cose vendute e le ponevano ai piedi degli apostoli di Cristo” (At 4, 34-35). Quando, sotto Costantino che fece la religione cristiana la religione dello Stato tutto cambiò. La gestione verticistica distrusse la società “comunista” voluta da Cristo ed assunse tutti i poteri con Papi, vescovi, preti etc. etc. etc.. Scusa Romano per questa lunga digressione, ma quanto esposto ci fa vedere chiaramente che sia il rivoluzionario Cristo prima e Karl Marx dopo volevano costruire una società di tipo comunista. Sembra un paradosso per la nostra impostazione mentale falso-cristiana che ha voluto farci credere Gesù come figlio di Dio asservendolo ai suoi disegni capitalistici in vece di considerarl nella sua veste di rivoluzionaro propugnatore di una società comunista. Oggi, come ho detto in precedenza, il comunismo di tipo marxista ancora non si è potuto realizzare in questo mondo, ma ciò il grande fiosofo lo aveva intuito preconizzando l’avvento della rivoluzione proletaria nella fase piùà avanzata del capitalismo cioè l’imperialismo e voglio comunicarti che… Quasi ci siamo. I tuoi brividi per questo evento, a mio avviso sicuramente non scongiurato, non sono pertinenti perché la dittatura del proletariato o comunismo producono speranza, pace, fratellanza a differenza della dittatura del capitalismo che, opprimendo i popoli, dà luogo a stragi ed olocausti: Hitler, Mussolini, Franco, Pinochet. Si può avere speranza in questo regime in cui una ristretta oligarchia possiede l’80% delle ricchezze prodotte mentre nel mondo continua a proliferare la povertà e la morte. E rispetto ai 5 miloni di bambini che muoiono ogni anno per denutrizione al ritmo di 5 bambini al minuto che mi dici? Si parla di pace in questo falso mondo quando invece i Paesi più sviluppati seguitano a produrre ed a vendere armi fomentando micidiali guerre fra popoli ancora sottosviluppati con centinaia di migliaia di morti. Non capisco poi la tua affermazione: “Sono del tutto pertinenti le riflessioni sull’arte che, caro Gero, presenti con pari passione, anche se il capitalismo c’entra poco, c’entra il mercato ma che è ineliminabile se si è amanti della libertà e rifiuta qualunque dittatura” e allora, con uguale passione dico: Ricordi lo scandalo partito dagli USA nel 2008 sui titoli subpprime? Ebbene in questo caso le grandi banche, che sono parte integrante del capitalismo, misero in atto la brutale truffa del titoli immobiliari subprime vendendo più volte a diversi clienti gli stessi identici pacchetti azionari disperdendoli poi in tutto il mondo per non permetere la loro rintracciabilità. Quando poi, inevitabilmente scoppiò la bolla immobiliare, tutta l’economia mondiale fu messa in ginocchio e fu proprio grazie ad un intervento di tipo socialista che, con danaro pubblico, vennero ricapitalizzate tutte la banche sull’orlo del fallimento. Ora ripeto: ti pare possibile che in questo brutale siatema di sfruttamento, di egoismi, di accaparramenti, l’arte, che è l’espressione della bellezza che esprime l’animo umano possa trovare un suo posto privilegiato? E’ questa la domanda, caro Romano che poi ci ha portato a discutere sulla minore o maggiore bontà dei sistemi socio-economici. L’arte, a mio avviso, quella vera, sponsorizzata da mecenati importanti come papi e principi che avevano una vera e propria passione per l’arte, ancora oggi trova un posto importantissimo nel nostro mondo, non dimentichiamo, però, che quelle opere monumentali furono realizzate cinque secoli or sono: la Pietà di Michelangelo in cui era l’anima dell’artista a guidare la sua mano munita di scalpello ed a imprimere il dolore sul volto di Mariao a far emergere dalla pietra il delicato abbandono del corpo di Cristo. Il Mosè dello stesso artista, tomba meravigliosa del papa Giulio II che è quasi un’esplosione della cultura israeliana dell’Esodo: la sua barba fluente da profeta, il libro della Thorà fra le sue mani, il largho mantello, le due corna che voglino rappresentare i raggi solari che illuminano la testa del profeta e l’ aneddoto secondo cui Mchelangelo, osservando la magnificenza della sua opera, ebbro dall’emozione, con un martello colpì il ginocchio della statua urlando:”perché non parli”. E poi la Cappella Sistina, le splendide sale del Vaticano affrescate da Michelangelo da Raffaello ed altri, la magnificenza della cupola della Basilica di S. Pietro alta 110 metri e più non mi dilungo. Caro Romano, la continua decadenza dell’arte da quei tempi memorabili non si è mai arrestata anche se ci sono stati dei lampi di luce con gli impressioniti in pittura come Van Gogh, Cesanne, Monet e tanti altri oppure con i macchiaioli. Oggi. in piena e totale decadenza come si può considerare arte una banana tagliata e dopo un pò ingurgitata, oppure una scarpa rotta. Come si possono considerare opere d’arte i ferri, i legni, le plastiche di Burri oppure i tagli netti che Lucio Fontana imprime su vecchi sacchi di iuta spacciando l’opera come visioni spaziali. Questa è un’arte talmente decaduta che, non suscitando alcuna emozione o senzazione di bellezza, almeno il mercato cerca di attribuirgli un valore solo ed esclusivamente venale. In effetti dal capitalismo, proprio in funzione dei valori negativi che produce in tutte le branche dell’attività umana, non può nascere un’arte caratterizzata da bellezza, leggerezza, grazia che sono espressioni nobili dell’animo umano. Caro Romano spero di non essere stato troppo lungo e noioso ma sono sicuro che darai una risposta a tutte le domande che ho sollecitato in questo mio scritto. Sarò ben lieto di unirmi a te, se me lo chiederai, nel firmare il Manifesto per l’arte. Un saluto.
Caro Gero,
la mia osservazione di aver innescato la tua cavalcata sulle iniquità secolari con il semplice riferimento che citi all’inizio della tua risposta non voleva essere una critica, dato che il sito non si occupa solo di arte ma anche di cultura in senso più vasto, quindi sono benvenute le argomentazioni culturali come le tue. Era soltanto il rammarico di aver aperto un campo troppo vasto rischiando di perdere di vista il tema posto, molto, ma molto più modesto e circoscritto, com’è evidente.
E’ vero che l’arte dipende dai contesti storici, ma poi questi vengono declinati nello specifico, dove bisogna approfondire, altrimenti inutile parlarne. Altrettanto per il riferimento a Carlo Marx, scomodarlo mi è sembrato eccessivo come mi è sembrato fuori posto, a proposito dei “contesti storici”, il tuo “piove, capitalismo ladro” – anzi “imperialismo ladro” nella tua escalation polemica che riesuma una accusa da tempo in disuso – e scusami se ti ho attribuito, parafrasandolo, un vecchio modo di dire riferito al governo. Anche perché, quando si dice “è colpa del sistema”, quale esso sia, si evita la ricerca di quelle che possono essere precise responsabilità, come nel caso della Lollobrigida a mio avviso la miopia, per non dire peggio, dei conduttori televisivi nazional-popolari.
Nella mia risposta non mi ero sottratto a un breve commento su Marx per non sembrare elusivo, non per innescare le tue ulteriori argomentazioni che però sono benvenute, anche se non possono rovesciare i termini della realtà. In questo, pur nel materialismo marxiano, ti vedo come un idealista hegeliano nel suo “tanto peggio per la realtà” se non corrisponde alla propria costruzione ideale, un bell’ossimoro.
Mi sembra semplicistico, ripeto, ridurre “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” al capitalismo negando la promozione dell’uomo e del lavoro umano per merito dell’imprenditore che organizza i fattori di produzione, innova, rischia, e così via; non c’è soltanto il lavoro dell’operaio ma un insieme di iniziative di altri che lavorano a un diverso livello senza i quali l’operaio non lavorerebbe. Né il capitalismo di Stato ha dato migliori risultati in termini di rispetto del lavoro, la cui dignità è alla base della corretta gestione imprenditoriale, che però deve essere riconosciuta come fattore di produzione altrettanto determinante. La divisione tra i fattori di produzione dei risultati dipende da elementi talmente complessi che non è neppure il caso di accennarvi – altro che il “plusvalore”! – non va neppure dimenticato il potere dei sindacati, economico e politico, dei tempi moderni.
Prima di mettere il punto su questo aspetto, però, devo riconfermare che la “ricetta” salvifica contro lo sfruttamento che tu riproponi, dalla “dittatura del proletariato” ad “una nuova società in cui tutti i beni prodotti sarebbero stati messi in comune e restituiti a seconda del bisogno di ognuno” non la considero una utopia illusoria ma qualcosa di molto diverso. E’ tutt’altro che auspicabile la dittatura comunista da te evocata, e non sembra realizzabile la seconda utopia, socialista più che comunista: “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. Alla realizzabilità si frappone la natura umana, richiede stimoli personali e individuali per contribuire al maggior benessere collettivo che nasce dagli sforzi dei singoli.
Nasce il problema delle disuguaglianze oltre un livello accettabile, anzi fisiologico, inevitabile e anche per certi versi incentivante: ma riguarda la distribuzione di una “torta” prodotta, e questo è già un risultato, mentre altrimenti non verrebbe prodotta nella misura auspicabile e l’uguaglianza sarebbe in una miseria ed arretratezza non più limitata a determinate aree – quindi eliminabile o comunque contenibile – ma generalizzata.
Sul fallimento nella realtà ben più che sull’errore ideologico è crollato il sistema economico comunista, quando non ha potuto più reggere a livello internazionale, dopo aver realizzato una sostanziale parificazione – elite politiche a parte – ma nella miseria e nell’arretratezza più tragiche.
Mi sorprende il tuo fideismo quando dici che “queste terminologie marxiste racchiudono sentimenti molto nobili come solidarietà,eguaglianza, tolleranza, amore per il proprio prossimo”; erano i miraggi dell’ideologia, dissolti bruscamente dalla realtà in tutto il mondo. La Cina ne è l’esempio “vivente”, abbracciata una forma di capitalismo nell’economia, da paese sottosviluppato con 1,4 miliardi di abitanti è diventata la “fabbrica del mondo” in sviluppo impetuoso. Si può dire che in Cina c’è la “dittatura del proletariato” perché ha mantenuto il regime politico “socialista”? Credo che ne sia il definitvo superamento in una concezione ben più aperta, anche se molti aspetti restano contraddittori o misteriosi.
Sul comunismo non c’è bisogno di avanzare giudizi, li ha dati la storia, non “mangiavano i bambini” ma non portavano neppure i lavoratori in paradiso, nelle risibili, sin da allora, propagande elettorali contrapposte. Il mio brivido dinanzi alla “dittatura del proletariato” riflette il brivido per ogni dittatura per chi è amante della libertà e non crede alle favole, soprattutto queste che ignorano la natura umana. Non dico, quindi, come fai tu, che è una “utopia non realizzabile” ma che se non lo fosse sarebbe una sciagura risparmiataci dalla storia: prima le libere elezioni l’hanno scongiurata, poi la caduta del MMro di Berlino l’ha seppellita, si spera, per sempre.
Oltre a Carlo Marx, nella tua appassionata evocazione anticapitalista scomodi addirittura Gesù Cristo, che definisci “il più conosciuto rivoluzionario della storia dl mondo”, sulla scia del tuo interessante libro in cui ti proponi di “far emergere dalla dogmatica cattolica il Gesù uomo”, e questo “contro la tendenza prevalente dei Vangeli di esaltare il Gesù divino”. Mi dispiace anche in questo caso di essere più preso dalla divinità di Cristo, pur ammirando il suo messaggio all’umanità, e di non considerarlo un Che Gevara ante litteram. Vederlo affiancato a Carlo Marx, nella volontà di “costruire una società comunista” e vedere considerata la sua natura divina come una falsificazione storica della Chiesa per la propria inconfessabili convenienza suscita in me sorpresa e incredulità, e non da semplice credente. Pur essendo legittimo in una visione laicista negare il Cristo figlio di Dio, come lo è per il credente ribellarsi a una operazione ideologica in materia di fede.
Parli delle prime comunità cristiane assimilabili a quelle vaticinate dal comunismo, ma siamo ai primordi in economie primitive, richiamare questi esempi con la immensa complessità attuale mi sembra almeno fuorviante. Magari bastasse l’amore a muovere il mondo, se era il sogno evangelico putroppo è rimasto tale! Il denaro non è più considerato “lo sterco del diavolo”, ma il tramite non eliminabile degli scambi non volendo tornare al baratto; sono le Borse azionarie con i “derivati”, i “future” e gli altri artifici da rivedere radicalmente, dopo la “deregulation” che ha prodotto danni al mercato, il cui funzionamento non manipolato è la base del capitalismo sano. Poi c’è lo Stato che può e deve intervenire con politiche regolatorie e redistributive per ridurre le fisiologiche disparità a livelli accettabili per tutti. La “Dottrina sociale della chiesa” non postula di certo il “comunismo” che evochi. Il problema è sempre la produzione di ricchezza, base del benessere, se il sistema economico funziona bene possono operare meccanismi redistributivi, fiscali e non solo su questo indispensabile presupposto da materializzare nella realtà dell’economia; se non funziona e non nasce la “torta”, il “mal comune mezzo gaudio” non può essere la consolazione che possa appagare nella miseria di tutti.
Che poi nel capitalismo ci siano le deviazioni denunciate da Galbraith dei consumi indotti dalla produzione per scongiurare lo “stato stazionario” delle economie opulente, e non si eviti invece tale stato stazionario seguendo l’insegnamento degli economisti classici nelle “nuove terre” come il continente africano è un problema basilare per il quale lo shock globale del coronavirus potrebbe portare a una nuova destinazione di risorse verso i “beni comuni” essenziali non disperdendole per i bisogni artificiali , e verso le aree depresse del mondo. Questo una volta superato lo stress da coronavirus con l’ausilio dell’ingegneria finanziaria che, essendo tutti i paesi coinvolti, può operare evitando di affossare l’economia reale. Mi piace alimentare questa speranza, gli investimenti nelle “nuove terer” li stanno facendo da tempo i cinesi in Africa, e sappiamo che il capitalismo sa modificarsi e adattarsi alle nuove esigenze.
Mi torna in mente un ricordo, a Colonnella il paese collinare della mia infanzia ai confini tar Abruzzi e Marche, il parroco don Alfredo era in odore di comunismo, consentì che innestassero la bandiera con la falce e martello in cima al campanile della chiesa madre che si trovava proprio di fronte alla nostra abitazione. La sera dei risultati elettorali del 1946, alla sconfitta dei comunisti – “Nell’urna Dio ti vede e Stalin no”, ricordo bene i manifesti – il vice parroco don Angelo guidò la riscossa, giovani del paese salirono sul campanile ed ammainarono quella bandiera, la piazza principale era gremita, c’ero anch’io decenne e mi emozionai molto, avrei voluto essere su con loro: quindi, come conclude Sartre il suo “Mani sporche”, sono “non recuperabile”.
Dopo questa risposta che avrei voluto evitare sul capitalismo e Marx, non posso soffermarmi altrettanto riguardo alle tue considerazioni sull’arte, anch’esse precise e articolate e te ne ringrazio: la tua evocazione dei maestri del passato e dei loro capolavori è veramente suggestiva.
Ma pur nel mio scetticismo su tante manifestazioni contemporanee, alcune trasgressive fino a suscitare repulsione, non possiamo pensare che l’arte vera si sia fermata al Rinascimento con le eccezioni che indichi, dall’isolato Van Gogh agli impressionisti e, aggiungi, i macchiaioli. Forse sarebbe così se fosse rimasto il presupposto dell’arte come espressione della bellezza, ma già Caravaggio lo superò con quelle che per quei tempi erano trasgressioni. Riguarda epoche passate, non è più così, per questo ho apprezzato l’impegno della Lollobrigida nella scultura volto proprio a riaffermare il valore della bellezza. Non possiamo negare il valore di arte all’italianissimo futurismo, come alla metafisica, e non solo, di de Chirico, alle struggenti immagini di Modigliani, al realismo di Guttuso; ma neppure a visioni concettuali meno comprensibili come quelle di Calabria e Cagli, per citare Maestri quasi dimenticati che hanno esposto di recente a Roma.
L’arte è espressione di creatività, quindi di sentimenti e sensazioni al di là di ogni vincolo di natura estetica, quindi non solo o non più espressione di bellezza. Spesso esprime inquietudine e angoscia, ma riesce a comunicare anche altre espressioni dell’animo, oltre a quelle “più nobili” che tu evochi, e non possono considerarsi le uniche. Mi sembra curioso ritenere liberi gli artisti su rigide commissioni da parte di Papi e Sovrani che consideri illuminati e non “imperialisti”, cosa di cui mi complimento dopo le tue veementi accuse al “capitalismo imperialista”. Che, naturalmente, fai rientrare come “colpevole” attraverso la dittatura del mercato e la conseguente mercificazione dell’arte.
Non si può per questo pensare che debba scomparire il mercato per far tornare l’arte, magari abbattendo il sistema capitalista con la “dittatura del proletariato” che riporterebbe alla ribalta il “Realismo socialista” dell’Unione sovietica con l’arte al servizio della propaganda di regime, com’è avvenuto storicamente. Meglio il mercato con tutte le sue aberrazioni.
Sta agli artisti sviluppare la propria creatività senza vincoli e condizionamenti, ribellandosi a quanto può limitare la loro libertà di concepire e realizzare l’opera. Per questo ho citato il “Manifesto per l’arte” con gli artisti firmatari – in primis Ennio Calabria – e ho citato la ribellione di Marcel Duchamp attraverso i “ready made” divenuti ammonimento, anzi boomerang. Su questi temi non mi soffermo oltre, sono ampiamente illustrati nei tre articoli che ho pubblicato nel fine settimana appena trascorso, dal 15 al 17 maggio, e possono costituire oggetto di una discussione motivata e circostanziata: sono sul “Manifesto per l’arte”, il “Duchamp politico” di Echaurren e il suo profilo di artista movimentista.
Tra l’altro, nel primo dei tre articoli sono riprodotte le opere dei firmatari del “Manifesto” esposte nell’apposita mostra, sono anche di avanguardia, senza alcuna concessione alla mistica della bellezza. Ma le hanno create nella libertà, anzi in dichiarata opposizione non solo al mercato, ma al condizionamento del sistema, inteso come omologazione del “pensiero unico” cui opporsi nella valorizzazione della vita individuale che diventa pensiero collettivo, “sum ergo cogito” è il motto. Quindi, nonostante questa ispirazione e impostazione di base, la loro non è un’arte di tipo tradizionale “caratterizzata da bellezza, leggerezza, grazia che sono espressioni nobili dell’animo umano”, da te evocata nella conclusione del tuo commento, che sarebbe inibita dal capitalismo “proprio in funzione dei valori negativi che produce in tutte le branche dell’attività umana”. Dunque anche nell’arte torna il “piove, capitalismo ladro” della mia provocazione iniziale.
Grazie, caro Gero, delle tue considerazioni, la passione che ti anima è ammirevole, ma non posso nasconderti la mia sorpresa dinanzi a un accanimento ideologico – o, se lo preferisci, ideale – che non accetta la lezione della storia; per l’arte i nostri giudizi sono meno lontani, anzi per la Lollobrigida coincidono in positivo perché per te oltre all’impegno strenuo da me ammirato, c’è anche la celebrazione della bellezza in cui riassumi il contenuto dell’arte. In questo oggi la Gina è proprio unica! E per questo va tutelata e difesa come un preziosissimo “Panda”.
Caro Romano, avrei molti motivi per dare un respiro più ampio alle tue argomentazioni che, fra le altre cose, come ti chiedevo, penso non abbiano dato risposte esaustive alle mie domande. Purtuttavia debbo dire che ce n’è una che più mi sorprende e che mi ha indotto a risponderti: “Vederlo (Cristo) affiancato a Karl Marx, nella volontà di costruire una società comunista e vedere la sua natura divina come una falsificazione storica della Chiesa per la propria inconfessabile convenienza, suscita in me sorpresa ed incredulità e non solo da semplice credente” Ora, queste mie convinzioni di una falsificazione vera e propria del ruolo della chiesa nella storia, non derivano da una semplicistica elucubrazione partorita dal mio cervello, ma da un’analisi dei testi evangelici che tu, da credente, ritieni non solo sacri, ma sicuramente veri in quanto storici. Ma al di là di questi aspetti io ritengo che l’uomo, per essere libero, deve poter esercitare il diritto-dovere di critica. Non ripeto i versetti evangelici… Li enumero solamente: (Lc 6, 20-23), (Lc 6, 24-26), ( At 2, 44-45). A mio avviso sono due le ipotesi che posso arguire circa le tue perplessità su questo tema: 1) se ritieni i testi evangelici sacri e qundi veritieri non puoi negare che le prime comunità cristiane, come da (At 2, 44-45), crearono una società di tipo “comunista” avendo esse le “cose in comune”. Ridurre questa fatto storico di una società comunista dopo il 100 d. C. come un fenomeno nato ai “primordi delle economie primitive” mi sembra non solo riduttivo, ma anche non pertinente. Se invece ritieni che nei tre secoli successivi alla redazione dei Vangeli le comunità cristiane non vissero nella comunione dei beni materiali cioe nel “comunismo” allora devi ammettere che quei testi o almeno quei versetti da me riportati sono non veritieri cioè falsi. Per quanto attiene all’arte, naturalmente tu sei un maestro e le mie osservazioni forse ti sono apparse banali e non pertinenti. Purtuttava debbo ammettere che la nostra discussione è stata sicuramente molto utile, anzi direi preziosa per poter arricchire, dalle tue profonde e dotte riflessioni, la mia cultura nel campo artistico. Un saluto
Caro Gero,
potrei non essere entrato in alcuni aspetti particolari, come dici, ma se è così non l’ho fatto volutamente, ho cercato di rispondere alle questioni che hai posto, se hai riscontrato qualche omissione è stata involontaria e me ne scuso. Ora mi interessa commentare la tua risposta sgombrando il campo da quello che non è il mio pensiero, se ti ho dato la sensazione di voler negare “il diritto-dovere di critica”, è un’altra impressione del tutto infondata D’altra parte, ci mancherebbe che un giornalista di lungo corso come me si permettesse una simile aberrazione, e lo sai perché sei venuto con un bel gesto di cui ti sono grato alla Federazione della stampa il 21 marzo 2017 quando hanno consegnato la targa per i 50 anni di professione a me e ad altri giornalisti tra cui Furio Colombo, ci fotografasti, ricordi? Sai pure che conosco benissimo il tuo libro del 2013 “Dio, fede e inganno”, avendolo commentato “on line” 6 anni fa, rispettando le tue idee.
Ciò premesso, ed è importante sottolinearlo, vedere affiancato Cristo a Marx in una discussione a cui anche Marx sarebbe dovuto restare estraneo – figurarsi Cristo! – mi ha sorpreso, tutto qui, ma lungi da me negarne la legittimità, ci mancherebbe; come mi ha sorpreso sentir dare alla Chiesa in questa sede la patente di falsificatrice interessata in un modo apodittico e “tranchant”.
Dietro la tua convinzione c’è l’approfondita ricerca pubblicata nel tuo precedente libro del 2008 di oltre 300 pagine “Gesù l’uomo”, ma proprio perché conoscevo l’immagine soltanto “umana” e da “rivoluzionario” che ne davi mi è parso sorprendente ritrovarla nel contesto della nostra discussione in cui la fede mi sembrava attaccata in modo immotivato in nome dell’ideologia. Nella comunicazione le percezioni contano, tra l’altro che non ho preso un abbaglio lo prova che confermi la mia interpretazione pur riaffermando ovviamente la tua posizione. Al riguardo ribadisco che mi sembra una commistione, fonte di disorientamento, l’associare le prime comunità cristiane, con gli epigoni successivi, alla società comunista vaticinata da Marx. Confermo quanto ho detto sulla improponibilità, a mio avviso, di organizzazioni siffatte in una società complessa e articolata come quella determinatasi storicamente. E sulla impossibilità di trasferire tal quale i messaggi di natura etica e ideale propri della visione religiosa, nell’organizzazione della società moderna, in particolare nei sistemi economici avanzati. Perciò ho citato la “Dottrina sociale della Chiesa” che, pur con tutte le critiche al capitalismo, non ha di certo abbracciato il comunismo.
Non entro nell’esegesi dei Vangeli, i quali, pur essendo un riferimento ideale per il credente, non costituiscono di certo in alcune loro parti “datate”, modelli praticabili di società per il mondo di oggi, a meno di essere fondamentalisti, e ce ne sono stati, creando sette visionarie ed eretiche.
I messaggi credo vadano storicizzati, come vada storicizzata la Bibbia, per questo ti confesso che sono stupito perfino dinanzi a certe letture nella Messa domenicale di brani biblici chiaramente “datati” che potrebbero fuorviare se interpretati alla lettera; ma vanno visti essenzialmente nel loro valore simbolico e riportati alle società di allora, altrimenti sarebbero improponibili, me lo hanno confermato anche autorevoli religiosi. Per questo i messaggi comunitari – non li chiamo “comunisti”, come vedi sono “non recuperabile” alla Sartre – delle prime forme associative dei cristiani che tu evochi non possiamo prenderli come organizzazioni possibili in qualunque contesto storico; al pari, aggiungo, del messaggio francescano, di povertà e rinunzia ai beni terreni, che è stato adottato dalle comunità monastiche sorte nel suo nome, ma non potrebbero mai venire generalizzate, anche se l’animo umano fosse disponibile, cosa di cui dubito fortemente.
Sono certo di deluderti se ti dico che non mi sono posto il problema di “quei versetti del Vangelo”, e neppure sulla veridicità dell’esistenza o meno della società che tu definisci “comunista”, e ripeto che a me piace chiamarla comunitaria anche se sembra improprio, dato che la qualifica di “comunista”, volere o non volere, ha assunto il significato “sinistro” che tutti conosciamo, per cui lo stesso partito che ne aveva il nome ha voluto cambiarlo, evidentemente per prenderne le distanze in via definitiva. Figurarsi se riprendere quel nome che gli stessi “comunisti” di professione hanno rigettato, per riferirlo ai Vangeli e a Cristo, anche se si è liberi di farlo come si è liberi di criticarlo!
Sull’arte non sono affatto un “maestro” come generosamente mi definisci, e ti ringrazio; e non sono neppure un “critico”, sono un “cronista d’arte” con l’occhio del visitatore avveduto, cioè che si è documentato ma senza avere le prevenzioni dei critici; dopo oltre mille recensioni di mostre d’arte nell’ultimo decennio mi affido alle percezioni e alle mie emozioni che racconto “on line”, tutto qui.
Per questo ti consiglio di nuovo di leggere i tre articoli pubblicati in questo sito nel week end 15-17 maggio, vi troverai molte sorprese, ti farà piacere sentirti in buona compagnia, non solo con i firmatari del “Manifesto per l’arte”, ma con Echaurren e addirittura con Duchamp, e non è poco.
Ho citato i tuoi libri su “Gesù l’uomo” e “Dio, fede e inganno”, mi viene in mente l’altro tuo libro intitolato “L’uomo il virus di Dio”, che ha preceduto di sei anni l’irruzione del “Covid 19, il virus dell’uomo”. Hai studiato tanto le Sacre scrittore con i Profeti della Bibbia, e intitolare al virus nel 2014 ha di certo del profetico. Ti ha seguito di recente lo scrittore Sandro Veronesi nell’articolo dell’aprile scorso dal titolo “Il virus sono io”, l’uomo virus del pianeta perché come il coronavirus ha la stupidità di distruggere l’ospite che gli assicura la vita, assonante con la tesi che hai espresso sei anni prima analizzandone i processi in modo così accurato che sembra scritta oggi.
Con questa citazione, caro Gero, ti saluto, grato per i tuoi interventi a commento così stimolanti che spaziano in profondità ed estensione, e mi scuso se cerco di restringere il campo in una visione giornalistica più pragmatica. Ma ce ne fossero di idealisti appassionati come te! Anche se da alcuni dei modelli elogiati dalle tue parole mi sento molto, ma molto lontano. E proprio per questo ritengo quanto mai benvenuta e costruttiva la dialettica che si è sviluppata tra noi. Grazie!
Dear Romano,
I accept your warm invitation to offer this very modest comment on your own recent observations and those of your interlocutors, prompted both by this historic moment of the coronavirus pandemic but also by your stimulating articles (both your new piece of this month of May, and the older one of 2009) dedicated to the remarkable artistry of Gina Lollobrigida: to myself in Boston, a revelation, that beyond her stunning career as actress (of which I as a child in the 1950’s had scarcely any awareness) this “diva” has also offered to the world the fruits of her remarkable talent as photographer and as sculptress.
As you described of your own lively encounter in the context of this blog with your friend Sig. Giardetti, so I too would never have imagined “di scivolare da Gina Lollobrigida a Carlo Marx.” But the vigor of your exchange moves me to offer this brief take of my own, strictly as an “outsider” to the world of political economy and economic history, but as someone always drawn to the scene of recent and contemporary political affairs. As I wrote to you privately in recent days, I have always been a “person of the left,” though one who abandoned half a century ago the once attractive dream of the viability of an “authentic communism.” The varying catastrophes of the Soviet Union and of the People’s Republic of China (especially under Mao) were more than persuasive in this regard. I certainly do not find myself “the last Japanese” attached to a vision of the “dictatorship of the proletariat”! But to some degree like your friend Giardetti I view capitalism today — in its “globalized” form, perhaps more than ever “imperialist” (new-style) — with a deep sense of dismay, often tinged with anger. I certainly am not expecting either in the short or the long term the victory of a genuine “socialism” (not even “socialism in one country” of the old project of Stalin). I hope rather for the building in the United States of a Bernie Sanders-style “social welfare state,” along the lines of your European model (especially as practiced in Sweden or the Netherlands?). But if we must accept that capitalism is the one sustainable social-economic mechanism that can provide humanity with sufficient or even abundant material resources (the essential ones, from food to shelter, from health care to means of communication to “education” [in its richest form including “culture”]; and only then, to the inessential ones like the plethora of consumer goods ever more dangled before our eyes ) — if entrepreneurial, profit-driven capitalism must reign as the “answer” for all these, then in my view it must be a capitalism subject to democratically (!) regulated supervision far more rigorous than that which prevails today: as regards the distribution of resources; the extraction of “profits”; the working conditions of employees of all categories (including the removal of discriminatory barriers as regards gender and racial or ethnic background); and above all the environmental (including climatic) dimension. Without infinitely more attention paid to this latter, all the other parameters of social-economic organization may become moot, in a world scarcely habitable at all — whether by ourselves or by all our fellow species. The best solution? Some kind of “socialized capitalism,” or a “capitalistic socialism,” Chinese-style? (I certainly not the latter, as regards the full range of civil and political freedoms.) As I already acknowledged in our private exchange, dear Romano, I beg your indulgence and that of your readers for my having stepped far outside my own field of ancient history. But I was stimulated sufficiently by what you described as your “ping pong” with Sig. Giardetti (and others) that I could not resist picking up the paddle for a minute myself!
Per tornare da capo, (ri-)scivolando dal mondo di Marx a quello della carriera brillante dellla Signora Lollobrigida: To have the courage, the “chutzpah” (as we say often in America) to put herself forward, on top of a magnificent career in film, as someone possessed of other outstanding talents, is more than admirable — it represents a generosity of heart tied to an energy and a kind of artistic genius that consoles and inspires at one and the same time. How priceless, that image of this diva with her brave neck heavy with photographers’ apparatus! For all of these gifts, I and all will be ever grateful, and offer renewed and sincere applause: un ringraziamento di tutto cuore!
And a thank-you to you, Romano, for all the energy and insight you bring to crucial “questions of the day,” and beyond.
The warmest of greetings,
Steven
My dear Steven,
it’s very interesting your comment come from Boston, written by a professor who has spent his life in Massachuset Institute of Technology and continues in teaching classic culture and Art in another institute, with a special attention for Italian artistic treasures also visiting our country with his students, I remember your visit in last January, Naples and then Rome, where I saw you one month before the coronavirus-emergency. Your contribution to our discussion regards not only the famous cinematographic star in the years ’60, become a true artist in sculpture and photography, but also the theme added by the very interesting comment of the reader Giardetti: the capitalism and its guilt not only against the culture and art – and so at the basis of the lack of interest for Gina Lollobrigida’s second life as artist in front of her first life as star more profitable in terms of Tv listening share – but, over all, against the social justice to reach the economic profit exploiting the employees, behaviour that Karl Marx explained and condemned in his famous book “The capital”.
As Giardetti, you too have a severe criticism towards a lot of negative effects of an economic vision which can damage the main values of human life if doesn’t include their defence. I agree with some aspects of your criticism but I haven’t a left-vision, over all a communist vision that I’ve fond in Giardetti’s comment, with Marx’s myth and the dream of the working class’s dictatorship, you have not such a vision. Communists didn’t bring the workers in the Heaven, as they had promised, but in the Hell of poverty out of the internazional market – id est without many positive results of the progress in the life of the citizens – and in the Hell of lack of freedom, in the economic, political, social field; freedom that I think is the maximum value in the human life.
Obviously the freedom can’t be used against other values which are the most important in the life. I think that the main goal of the capitalism is the wealth’s production, fundamental basis to promote economic and social development in the whole society. It’s a necessary but not sufficient condition, I know very well this problem, but it’s possible to put into practice an efficient e policy for redistribution when the wealth has been produced, while if the wealth hasn’t been created, only the poverty can be distributed, as in the communist systems. The abysmal differences in the wealth’s distribution has to be reduced with fiscal measures and other political economic means, but the equality can be in the starting-points, it isn’t neither possible and nor useful to have the utopian dream in equalizing the arrival-points, because the personal success, also in economic sense, is a very strong stimulus to push the private enterprises and the individual efforts. Could be much better if the private enterprises and individual efforts would be independent from the economic interests, but the human activities want to have a personal result measured in the economic advantage. The international market is the field where the economic activities have a competition between them, source of continuous push toward the innovation and then the progress with positive benefits for all; but it’s necessary to have a strong regulation of the market to avoid dominant positions and other violations with negative effects on the collective interests. The State has this role, it must stop actions which deform the market or bring effects not acceptable by the community.
I agree with you that the present rules are not enough and some of them are harmful: for example, the deregulation of financial markets- made a lot of years ago – I think was a very serious mistake, the capital markets are the source of a general destabilization with the speculative actions without a true and effective controls. But also in the economic field the capitalist degeneration is much older, if Kenneth Galbraith denounced 60 years ago the artificial methods to push private consumptions in “The affluent society” creating the “induced needs”, artificial and not not true; and then he denounced the power without control of companies’s managers in “The new industrial State” , very far and often opposed to the real needs of the citizens. I think that the right way is to improve public consumptions and so may be possible to avoid the “stationary state” feared by the classic economists. Coronavirus-emergency can have this positive effect, the strong increase of public investments in the health , environment, and other linked fields, as you say and I agree completely. The capitalism is able to adapt itself at the changes, also if deep, in the contest and this is the reason of its strength , as the democracy the capitalism it’s no good but there isn’t better system in the world’s history. Europe with its social system has a better situation then United States, the richest country of the world hasn’t an health public system, after the end of “Obama care”; it’s true that USA have a lower level of the taxation, but it’s not admissible that there isn’t a universal health service as in less rich countries as European countries and, over all, Italy.
You are not the “last Japanise fighting in the forest” after the end of the communism – a part the Chinese State capitalism – and you say may be better a “socialist capitalism”; id est “market social economy”, the mix between market and regulations to defend the public interest, this is also my position; my professional life was in the first 10 years in Confederation of Italian private industries, then 25 years in ENI, Italian public industry for the Energy and sectors linked, before in Economic study office in both, then in strategies and planning in ENI, so after my direct experience in the two sides of Italian economic life, I think that the solution may be a joined vision between free private enterprise and public action for the development of sectors linked to the collective needs, always with a public general regulation.
I think that it’s neither useful nor possible to push too much hard the private consumptions, by now saturated – a part the poor people to help with a public assistance – while there is a very wide field of public consumption, as you say, to defend not only the quality of life but the survival in front of threatening climate changes; and for the underdeveloped continents, as Africa, is possible a “Marshall Plan” in the interest not only of those countries but also of rich countries to stop the migrations and to find new occasions for their investments being saturated internal consumptions, as just said. The financial problems find solutions, the money can be created easily, the most important effort must be in improving the economic activity inside the developed countries in sectors linked to the public consumptions, and abroad, for the third world’s countries, in all the sectors linked to private consumptions to improve at very higher levels . Coronavirus’s lesson, I repeat, can be an occasion to go along a “third way” better for all of us. The Europe seems it’s changing its way, may be an optimism for the following decisions towards a development more green and sustainable, for “The next generation”, the new evocative name of “Recovery fund”.
At this point, I return to Gina Lollobrigida, very glad that my friend Steven reading the two articles has appreciated another side of Italian famous actress become artist with an admirable effort for more then an half of a century; and not as a sudden and temporary idea, but as the realization of her sincere vocation born when she was adolescent in an artistic school, leaved for the cinema’s occasion and took again not in old age but before she was 40 years old, and then never more leaved. I think that she is unique in this behaviour not easy but full of efforts and difficulties without any true help, on the contrary with many obstacles. For Gina Lollobrigida, the Art is not a commodity to sell, but is a vocation to follow till the end. And so I see her as an example for so many, perhaps for all, because today the art is slave of the market. But this is another theme very hard, you can find it in three my articles, on Echaurren-Duchamp and “Manifesto per l’arte”, in this web site, at the date of 3, 6, 9 april 2020; I give you this notice only for your cultural curiosity.
Dear Steven, your comment has moved my answer, long as a “tsunami” of the words, but it’s an honour for me to have a dialogue on these very important themes with a MIT professor, who loves our country and our art and culture. The readers of my web site can appreciate your comment come from the far Boston that someone of them can imagine much nearer now. If this would be an effect of our dialogue, its result would be very important! Thank you, my friend professor Steven!
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