di Romano Maria Levante
Dal 12 aprile 2019 al Palazzo Barberini sono aperte al pubblico le 10 sale restituite alla funzione espositiva dal Ministero della Difesa, che le ha detenute per 80 anni, dopo tre anni di restauro, con il nuovo allestimento che nel nuovo spazio di 750 mq ha collocato 78 opere con una nuova illuminazione e una nuova grafica, nuovi pannelli e didascalie, nella valorizzazione degli apparati per la migliore conoscenza del visitatore. Le nuove sale prima dell’allestimento definitivo sono state presentate nella seconda metà del 2018 con la mostra “Eco e Narciso”, opere antiche e contemporanee del Maxxi inserite in dialogo tra loro e con gli ambienti finalmente recuperati. Il nuovo allestimento è a cura della direttrice Flaminia Gennari Sartori, con Maurizia Cicconi e Michele Di Monte.
Cosa si è guadagnato nel recupero delle sale adibite per 60 anni a Circolo Ufficiali lo si vede nell’allestimento in cui le sale costituiscono un itinerario coerente di arte e di storia; con il rammarico incontenibile che per tanto tempo si è dovuto rinunciare a una destinazione doverosa a causa di una prepotenza ottusa favorita da una burocrazia altrettanto ottusa.
Lo spettacolo è nelle sale ancor prima che nelle opere esposte nel nuovo allestimento, per ognuna l’origine storica evoca la vita che vi svolgeva la famiglia Barberini; mentre le opere sono raggruppate secondo una vicinanza tematica, la cronologia in secondo piano. “Parlano tra loro” ,ma anche “parlano al visitatore” con gli apparati particolarmente esaurienti da non poter essere chiamati “didascalie” ma vere e proprie schede d’arte.
Una visita guidata d’eccezione con i curatori consente di esplorare entrambe le dimensioni della mostra – sale e opere – unite in un mix la cui decifrazione è altrettanto intrigante del legame tra arte antica e arte contemporanea della precedente “Ego e Narciso”.
La “teatralità” nelle prime sale del nuovo allestimento
Nella prima sala dell’ala meridionale, la n. 33, “Sala del trono”, si trova la vasta anticamera che separava le due ali dell’”appartamento di Sua Eminenza” destinato ai cardinali Barberini, cioè l’appartamento estivo, orientato ad Est verso il giardino, e l’appartamento invernale, ad Ovest verso via delle Quattro Fontane.
In questa sala, con un lampadario monumentale, spiccano le copie d’epoca, una eseguita da Carluccio Napoletano (al secolo Carlo Viva) dell’affresco di Giulio Romano ai Musei Vaticani con la“Battaglia di Costantino e Massenzio”; gli altri due di Giuseppe Belloni, copie degli originali commissionati a Giovan Francesco Romanelli con “Le nozze di Peleo e Teti” e “Bacco e Arianna”. realizzate pochi anni dopo la morte di Romanelli. Si accede al giardino attraverso il Ponte di Lorenzo Bernini .
La teatralità è il tema della seconda sala, la n. 34, dal titolo “Teatro e pittura”, che evidenzia questo carattere della pittura seicentesca, espresso negli interni mediante il movimenti dei tendaggi, e nelle persone attraverso il linguaggio del corpo alla ricerca del dialogo complice con l’osservatore. Ma c’è un’altra componente, la sensualità, che introduce elementi ambigui ed allusivi in scene spesso arricchite da figure allegoriche e da metafore.
Lo vediamo nelle opere esposte in questa sala, “Maria Maddalena”, 1626-27, di Guido Cagnacci, e “Venere che suona l’arpa” 1630,di Giovanni Lanfranco, “Giuditta e Oloferne” 1630-35, di Francesco Furini, e “Calcagnini” inizi XVI sec., Manifattura veneziana.
Tra Napoli e Roma
Sono questi pittori del centro Italia, a parte l’anonimo veneziano, mentre nella sala successiva , la n. 35, troviamo la “Pittura di Napoli”. Il teatro diventa quello anatomico, con le dissezioni dei corpi esibite anche per i curiosi, e non solo nelle scuole di medicina; in tale clima l’ostentazione del corpo nella pittura non si limita alle forme nobilitate dall’ideale di bellezza, ma ne rappresenta anche la decadenza fisica e ogni tensione che lo trasfigura, data dall’età fino alla morte, e anche dal’ascesi e l’estasi. La pittura diventa corporea e densa, cerca il coinvolgimento dell’osservatore.
Incontriamo grossi calibri come Luca Giordano con “Il filosofo” 1980 e Jusepe de Ribeira con “San Giacomo Maggiore” 1632-35, poi i santi di Giovanni Battista Caracciolo,“Sant’Onofrio”1625, di Hendrick van Somer, “San Girolamo” 1652, Bernardo Cavallino, “Il commiato di Pietro e Paolo” 1645-50, e la biblica “Cacciata di Eliodoro dal tempio”1725, di Francesco Solimena.
L a sala n. 36 è quasi monografica, intitolata a “Mattia Preti”, abbiamo scritto “quasi” perché delle 5 opere solo 3 sono di Mattia – “La fuga da Troia” 1635, “Resurrezione di Lazzaro” e “La cena del ricco epulone”1655-60. le prime 2 sono state esposte alla recente mostra, nello stesso Palazzo Barberini, sui fratelli Preti; in entrambe le mostre l’”Allegoria dei cinque sensi” 1642-46, del fratello Gregorio. L’unico “estraneo” è Massimo Stanzione, “Compianto del Cristo morto” 1621-27.
C’è il superamento del caravaggismo, pur presente nelle opere dei due fratelli, al pathos si aggiungono motivi più sottili, ci cerca ancora di più il coinvolgimento emotivo dell’osservatore alla scena. E questo avviene sia con motivi religiosi che con temi biblici o mitologici, e non mancano i richiami ai maestri veneti del secolo anteriore, da Tiziano a Tintoretto.
Ed ora Roma, cui sono dedicate due sale, la prima è la n. 37 intitolata “Roma 1670-1750”. tra l’ultima parte del ‘600 e la prima metà del ‘700. Un periodo di transizione e per questo una grande varietà di forme espressive con un motivo classico comune: “l’eloquenza retorica delle immagini, sia pure declinata secondo intonazioni variabili”.
L’energia di Gian Lorenzo Bernini e la solennità di Carlo Maratti, grandi esponenti del Barocco che si avvia a chiudere il suo ciclo, vengono evocati, per il primo dal “Busto di papa Clemente X Altieri” 1676-1680. per il secondo da “San Paolo” 1667 e “San Giovanni Evangelista” 1690.
Il nuovo “secolo dei lumi” trova una primissima testimonianza in “America, Europa, Asia, Africa”1707, di Francesco Trevisani, prima dell’irrompere di Marco Benafial con 4 opere, alcune intrise di ironia, come “”La famiglia Quarantotti” 1756; oltre a quest’opera, fuori dai generi consueti troviamo “Santa Margherita da Cortona ritrova il cadavere dell’amante” 1728-32, dal titolo eloquente sul contenuto, e le mitologiche ”Ercole e Onfale” 1735-40, e ’“Piramo e Tisbe”, i Romeo e Giulietta dell’antichità che abbiamo visto in varie interpretazioni antiche e moderne alla mostra celebrativa del bimillenario di Ovidio alle Scuderie del Quirinale.
Oltre che sui dipinti alle pareti, l’attenzione si sofferma sull’affresco del soffitto, di Giuseppe Bartolomeo Chiari, allievo di Carlo Maratti, una “Nascita di Pindaro” all’altezza dei voli pindarici, come omaggio alla vis oratoria e alla forza poetica di Urbano VIII e dei Barberini nella sala delle Udienze. I curatori .a questo riguardo parlano di “oratoria visiva” e citano Quintiliano il quale nell’”Institutio oratoria” scriveva che un dipinto, “per quanto muto e immobile, penetra a tal punto nei più intimi sentimenti che sembra a volte superare la forza stessa delle parole”.
Passiamo alla sala n. 40, saltando per un momento le n. 38 e 39, su cui torneremo, per proseguire con “La veduta romana”, una sorta di piccola personale su Gaspar Van Wittel di cui sono presentate 8 opere, insieme a “Capriccio con i più celebri monumenti e sculture dell’antichità di Roma” 1734, di Giovanni Paolo Panini.
Van Wittel è olandese e viene in Italia portando il livello più avanzato raggiunto nel suo paese nel campo dell’ottica, sia come facoltà visive sia come uso di lenti speciali dai microscopi per l’infinitamente piccolo ai cannocchiali e telescopi per l’infinitamente grande.
Nelle sue riproduzioni del paesaggio è come se l’artista si avvalesse di occhiali speciali, tanto che venne chiamato “Gaspare dagli occhiali”. Il suo sigillo sulle vedute romane rimase molto a lungo. ma in cosa consiste questo approccio del tutto particolare? L’assommarsi della visione cartografica e del rilievo architettonico allo stile calligrafico e all’espressione della vitalità cittadina che va oltre il fascino monumentale e paesaggistico. Una sorta di ossimoro pittorico, in cui convivono la precisione e l’accuratezza della veduta con una visione scenografica che unisce alle architetture e rovine antiche aspetti pittoreschi in un realismo misto alla fantasia. Trascendendo così la rappresentazione realistica.
Il “Grand tour” e ritratti
A parte l’antichità romana, che era il piatto forte del “viaggio in Italia”, le motivazioni erano più ampie, riguardavano più in generale il “genio italiano” manifestato anche nella storia e nell’arte, quindi con carattere universale. Ma non venivano trascurati aspetti apparentemente contrastanti con questa visione globale, i caratteri peculiari delle varie località, geografici ed etnici, climatici e ambientali, una sorta del “glocal” dei nostri tempi, globale e locale insieme.
Era una nuova sfida, confrontare il “gusto” italiano con i modelli stranieri, come fece lo scrittore Karl Philip Moritz dopo aver conosciuto Goethe nel suo viaggio in Italia nel 1786. Ma il significato e il risultato andavano ben oltre, come ricordano i curatori: “Il soggiorno in Italia non è solo la scoperta del paesaggio, dell’antichità, del classico, ma anche di sé stessi e della propria patria d’elezione, perché in fondo – come già sapeva Seneca – il luogo non basta, e per ritrovarsi ‘non occorre che tu sia altrove, ma che tu sia un altro’”.
Anche per questo solo una delle opere esposte nella sala dedicata al “grand tour” ha carattere paesaggistico: “La cascata di Tivoli” 1769, di Jacob Philipp Hackert”. Le altre sono ritratti – a parte “Giove e Ganimede” 1760, di Anton Raphael Mengs – nevediamo due di Anton von Maron, di “Sir Robert Clive” 1766, e del “Cardinale Vincenzo Maria Altieri” 1780, oltre a quello di “Filippo Agricola” 1820, di Emile-Jean Horace Vernet“. Non sono di personaggi, ma di figure simboliche il “Ritratto di giovane donna in veste di baccante” 1801, di Angelica Kauffmann, e il “Busto di gentiluomo” II metà XVIII sec., di Jean-Jacques Caffieri.
Sono 2 tedeschi, 2 francesi, un austriaco e una svizzera. tutti trasferiti in Italia, tre sono morti a Roma, solo uno all’estero. Non solo “grand tour”, dunque, spesso era una scelta di vita.
Il “viaggio in Italia” poteva avere anche motivazioni pratiche, sempre legate a una positiva peculiarità del nostro paese. Se ne ha testimonianza nella sala n. 38, dedicata a “Pompeo Batoni, Pierre Subleyras”, accostati per un altro intrigante ossimoro. Batoni, al quale fu dedicata una delle prime mostre “tematiche” della nuova direzione, all’insegna del “Gran Signore”, era divenuto una sorta di “arbiter elegantiarum” esprimendo l’identità sociale dei personaggi ritratti anche attraverso l’estrema cura dei dettagli dell’abbigliamento secondo l’etichetta del tempo. Siamo a metà del XVIII sec., la pittura di Batoni è al passo con le regole di comportamento e “bon ton”, il “ritratto d’occasione” prende sempre più piede e lui ne è l’interprete insuperato avendo il privilegio di essere il ritrattista della famiglia del Pontefice, della nobiltà e dei gentiluomini. Chiaro che gli aristocratici straneri, in particolare inglesi, facessero la fila per avere un suo dipinto che li ritraesse all’insegna del “buon gusto”!
E’ del 1775 il “Ritratto di Henry Peirse” di Pompeo Batoni, e oltre al gentiluomo inglese vediamo raffigurati due italiani, “”Conte Niccolò Soderini” 1765, e Abbondio Rezzonico” 1766; di dieci anni successivo “Agor e l’angelo” 1766, non solo ritratti, dunque.
Abbiamo detto che la sala è intestata anche a Pierre Subleyras di cui non viene presentato un ritratto curato nei dettagli dell’abito, ma “Nudo femminile di schiena” 1740, con il quale, secondo i curatori, l’artista “prova a mettere a nudo il rituale di finzione che detta le regole del gusto nel gioco della pittura”: e lo fa non rispetto a una figura mitologica, come avveniva di regola, ma a una donna qualsiasi, forse vicina a lui, colta in un momento di intimità, cosa che “per un momento lascia lo spettatore da solo, non già davanti al soggetto, così com’è, ma davanti al proprio stesso sguardo”.
Venezia e i bozzetti
Il “Grand tour” comprendeva Venezia alla quale è dedicata la sala n. 39 con il titolo La veduta veneziana. Vediamo 8 dipinti non su Venezia, ma di 3 artisti di Venezia, uno dei quali, Bernardo Bellotto, ritrae “La Piazza del Mercato della città nuova di Dresda” 1747, e “Veduta del castello di Schloshof” 1760-63, in una sorta di “gran tour” all’inverso; mentre di Francesco Guardi, abbiamo “Capriccio con vedute romane” e finalmente “Veduta di Venezia con san Giorgio visto dalla Giudecca”, entrambi del 1770-80.
Invece “Veduta di Venezia” apre il titolo dei quattro i dipinti di Giovanni Antonio Canal, detto “Canaletto”, tutti del 1735-40:“Con la Piazzetta” e “Con il Ponte di Rialto”, “Con piazza san Marco e delle procuratie” e “Dal Canal Grande”. Sono spettacolari e possono dare anche l’idea di un estremo realismo, ma è vero il contrario. Il Canaletto – così i curatori – “fonde appunto la consumata sapienza della prospettiva scenografica con gli strumenti della nuova scienza ottica e, ovviamente, con la ‘sensibilità’, la facoltà intuitiva di cogliere il bello che è ormai diventata una categoria estetica dominante”. Quindi le immagini sono rese incredibilmente nitide dall’“occhio artificiale” della camera ottica di cui si servono ormai i vedutisti, in una “combinazione, talvolta ‘capricciosa’, di natura e artificio” che diviene molto popolare trasformando le opere in “souvenir”. Ritroviamo l’artificio ottico dei vedutisti che veniva dall’Olanda, a Roma lo portò “Gaspare degli occhiali”, Canaletto, 45 anni dopo è veneziano,
Tutt’altra cosa i bozzetti, nei quali l’artista delinea il contenuto dell’opera, non servono al ricordo ex post come i “souvenir” veneziani, ma a presentarla ex ante anche per l’assenso del committente a realizzarla.
Nella sala n. 42 troviamo la “Donazione Lemme, una ventina di bozzetti donati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini nel 1998 da Fabrizio e Fiammetta Lemme. Una serie per il ciclo del soffitto della Basilica di San Clemente, autori gli artisti romani Giuseppe Chiari, Sebastiano Conca e Pier Luigi Ghezzi, per i santi carmelitani della Chiesa di san Martino ai Monti da Antonio Cavallucci con 2 bozzetti,per i laterali della cappella in San Marcello al Corso da Domenico Corvi, con 2 bozzetti. Inoltre abbiamo Mariano Rossi, con 2 bozzetti di tema religioso, e Stefano Pozzi con l’”Allegoria dei Quattro elementi” in 4 bozzetti.
Viene riportata la “prescrizione” scritta da Piero Selvatico nel 1842 nell’“Educazione del pittore storico”, che ne evidenzia le caratteristiche: “Sia, dunque il bozzetto né troppo, né troppo poco studiato. Non lo sia troppo nei particolari, non troppo poco nell’effetto generale”.
Ciò perché il bozzetto non va visto soltanto come un ”memento” all’artista per l’opera definitiva, nel qual caso potrebbe sembrare sorprendente non prendere nota dei particolari; ma anche – ed è il caso della collezione Lemme – come presentazione ex ante da cui dipende l’affidamento dell’opera da parte del committente. “Ciò spiega, concludono i curatori, perché spesso i pittori, preoccupati di assicurarsi la commissione, abbiano profuso maggior impegno e maggior cura nell’esecuzione dei modelli che nella realizzazione dell’opera finale”.
La conclusione della ricognizione nell’arte del ‘700 del nuovo allestimento delle sale recuperate, con i bozzetti della Fondazione Lemme, ne esprime anche il dinamismo, implicito nel bozzetto come preludio alla realizzazione dell’opera. Viene già annunciato un nuovo allestimento dall’ottobre 2019, di 3 sale. Nella n. 35 sulla “Pittura di Napoli” , dopo il “Filosofo” si avrà l’ “Autoritratto” di Luca Giordano, con 2 opere di Salvator Rosa, “Ritratto della moglie”, “La Poesia, la Musica”, e “San Pietro” di Giuseppe Sammartino; nella n. 37, “Roma 1670-1750”, 2 opere di Ercole Ferrata, “Putti che sorreggono un medaglione”, e “La Fede con il ritratto di Lella Falconieri”; nella n. 38, “Pompeo Batoni, Pierre Subleyras”, di Batoni, “Ritratto di Clemente XIII Rezzonico” , di Subleyras, “Madonna che legge”, dopo il nudo femminile ora esposto; anche la sala n. 40 aggiornata con l’opera di Giovanni Paolo Panini, “Capriccio con la statua equestre di Marco Aurelio”.
Questo l’annuncio, pensiamo che ci saranno anche tante sorprese, la nuova direzione non le farà mancare certamente.
Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org. Cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi. com: sulla mostra di presentazione delle stesse sale, “Eco e Narciso, 1. La mostra nelle sale recuperate: le prime 7, a Palazzo Barberini” 25 settembre, ed “Eco e Narciso, 2. Le altre 6 sale recuperate in mostra, a Palazzo Barberini” 30 settembre 2018; su uno degli artisti in mostra: “Mattia e Gregorio Preti, i due fratelli insieme a Palazzo Barberini” 24 febbraio 2019.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Francesco Furini, “Giuditta e Oloferne” 1630-35; seguono, Luca Giordano, “Filosofo (Cratete ?)” 1660 con Jusepe de Ribera, “San Giacomo Maggiore” 1632-35, e Giovanni Battista Caracciolo, “Sant’Onofrio” 1625; poi, Hendrick van Somer, “San Girolamo” 1652, e Mattia Preti, “La cena del ricco epulone” 1655-60; quindi, Gian Lorenzo Bernini, “Busto di papa Clemente X Altieri” 1676-80 e Carlo Maratti, “San Paolo” 1667 con “San Giovanni Evangelista” 1690; inoltre, Marco Benefial, La famiglia Quarantotti” 1756, e Gaspar Van Wittel, “Veduta di Roma dalla Piazza del Quirinale”, “Veduta di Roma con Ponte Rotto e Ripa Grande”, 1681; ancora, Gaspar Van Wittel, altre quattro vedute di Roma, e Anton von Maron, “Ritratto di Sir Robert Clive” 1766; prosegue, Angelica Kauffmann, “Ritratto di giovane donna in veste di baccante” 1801, con Emile-Jean Horace Vernet, “Ritratto di Filippo Agricola” 1820e Jacob Philipp Hackert, “La cascata di Tivoli” 1769, e Pompeo Batoni, “Ritratto di Abbondio Rezzonico” 1766; quindi, Pierre Subleyras, “”Nudo femminile di schiena” 1740, e Bernardo Bellotto, “Veduta del castello di Schlosshof” 1760-63; infine, Canaletto, Giovan Antonio Canal, “Veduta di Venezia con il Ponte di Rialto”, e “Veduta di Venezia con la Piazzetta”, 1735-40; in chiusura, “Donazione Fabrizio e Fiammetta Lemme” due scorci della quadreria di bozzetti di vari artisti del ‘700.
Doverosamente diamo spazio a questa comunicazione di servizio che riguarda i musei e i luoghi della cultura statali ai quali rivolgiamo continuamente la nostra attenzione nelle recensioni alle mostre d’arte e agli altri eventi culturali, anche se non sembra aggiornata all’attuale emergenza per il coronavirus. SE riceveremo un aggiornamento non mancheremo di pubblicarlo
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