di Romano Maria Levante
La mostra “Aftermodernism. A perspective on Contemporary Art. Chapter 1. – James Busby-Justin Samson”, alla Galleria Mucciaccia di Roma dal 9 aprile al 29 giugno 2019 espone 25 opere dei due artisti nell’ambito della collezione di Hurbert Newmann, grande rabdomante di talenti che ha segnato il passaggio nell’arte dalla dimensione modernista dell’opera “chiusa” a quella non-modernista dell’opera “aperta” cui ha dato l’efficace definizione di “aftermodernism”. Curatore della mostra Cesare Biasini Selvaggi, catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.
Il grande collezionista Newmann, arte “aperta” contro le “chiusure”
La mostra non si limita ai due artisti di cui è esposta una selezione di opere, ma fa piena luce sui movimenti che si agitano intorno all’arte contemporanea e trovano nel grande collezionista Hubert Newman un innovatore forte delle sue intuizioni nell’individuare tra i tanti artisti conosciuti e frequentati quelli dalle potenzialità nascoste che sarebbero esplose. In questo figlio d’arte, per così dire, dato che il padre Morton agli inizi del ‘900 a Parigi frequentava giovani artisti allora sconosciuti ma che apprezzava; basta citare alcuni nomi per ammirare il felice intuito del collezionista di allora, imprenditore nel campo della cosmetica, si tratta di Picasso e Braque, Mirò e Giacometti.
Con un simile genitore, agli inizi degli anni ’50 Hubert diventa collezionista seguendo lo stesso principio di seguire giovani sconosciuti nei quali percepiva il talento. Il curatore Cesare Biasini Selvaggi, profondo conoscitoredel mondo artistico americano nel quale è molto addentro, riporta quanto gli ha detto Newman su questo principio, nel corso di un incontro nella sua residenza all’Upper Side di New York: “Tutta la collezione si basa sull’idea di comprare opere non ritenute importanti e sottovalutate dal sistema dell’arte al momento della loro realizzazione”. Nacque così anche il Guggenheim, con un approccio che a parte l’aspetto economico ha la veste di un mecenatismo “sui generis”.
Ma seguiamo le confidenze a Biasini Selvaggi: “Mio padre ed io sapevamo che gli Espressionisti Astratti si ritrovavano a Ney York. Frequentammo diversi incontri al 9th Street Club, come anche al Cedar Bar. Era quella la scena artistica. La domenica pomeriggio gli artisti si incontravano al ristorante all’ultimo piano del Museum of Modern Art. Eravamo attratti da Franz Kline, nonostante molti ne denigrassero i lavori perché non erano colorati e perché utilizzava vernici da edilizia. Franz faceva molta fatica a vendere le sue opere”. Risultato: acquistano un grande dipinto per 1000 dollari, in 4 rate di 250 dollari perché Kline non li spendesse subito in alcolici, poco dopo vinse un premio di 3.000 dollari, “e questo ci rese molto felici”, sentimento suscitato più che dal vantaggio economico dal successo di un artista sconosciuto ma da loro apprezzato. Anche Giacometti entrò nella loro collezione quando “le sculture di questo artista geniale” non avevano il riconoscimento meritato e poi ottenuto come espressione dell’esistenzialismo.
La capacità di sentire lo spirito del tempo, lo “Zeigest”, è stata alla base dell’attività collezionistica della coppia Morton-Hubert in passato, e di Hubert negli ultimi 30 anni, con il nome di “Aftermodernism” dato alla tendenza percepita negli artisti selezionati.
Qual è questo spirito? Lo spiega Biasini Selvaggi: “Il collezionista Hubert Newmann crede che la migliore arte prodotta oggi rifletta la cacofonia , l’asimmetria e l’indeterminatezza della nostra società”. Che non trova espressione nell’arte tradizionale, anche modernista, le cui opere vanno “intese come oggetto con un’identità estetica, formale o materiale rigida, definita una volta per tutte, suggerendo così un mondo di valori altrettanto coerente, ordinato e univoco”, la “dimensione della chiusura”. “Ma se si guarda al tempo attuale – sono parole di Newmann – con Internet, che è probabilmente il maggiore traguardo conseguito dall’uomo, ci si accorge che l’opera d’arte contemporanea soggiace, invece, a tali fattori di variabilità da essere diventata sempre più aperta , un campo di possibilità senza precedenti”.
Apertura equivale a indeterminatezza e variabilità, come nelle sculture riflettenti di Koons che offrono osservazioni sempre diverse ogni volta che cambia il riflesso: “Non è possibile cogliere, pertanto, alcuna chiusura nell’opera/dell’opera che, infatti, non si presenta mai identica a se stessa”, precisa Newmann. Questo dà un ruolo attivo all’osservatore nel considerare l’opera in modo del tutto personale con visioni diverse del tutto asimmetriche che possono divergere dalla stessa interpretazione di base dell’autore. Biasini Selvaggi commenta: “Tuttavia, è opportuno chiarire, nessuna delle molteplici forme che assume può essere considerata ‘migliore’ di un’altra o più vicina ad esprimere l’essenza dell’opera. Il concetto di apertura riguarda infinite nuove idee anche in altri ambiti di ricerca, dalla filosofia alla matematica, dal cinema all’architettura, dalla musica alla letteratura”. Nella stessa direzione la fotografia astratta, che contesta la “chiusura” dell’immagine in un preciso momento, per immagini “aperte” alle continue modificazioni della realtà, come nelle opere del fotografo-artista De Antonis passato all’astrazione.
Il curatore non a caso cita le altre discipline, perché Newmann è stato sempre consapevole che una civiltà è definita dalla propria filosofia, scienza e arte, in rapporto tra loro. E proprio dall’evoluzione del pensiero filosofico, matematico e scientifico rispetto alla nascita di nuovi linguaggi visivi è nata in lui la percezione della “rottura” rispetto al passato e l’interesse per gli artisti con orientamento “post-moderno”, quindi nell’ottica dell’”aftermodernism”.
Le mostre “The Incomplete” con artisti di “rottura”
E’ una sigla che nasce nel 2013, mentre la percezione della “rottura” risale al 1985, tradotta in un’attività collezionistica coerente, con la scelta di artisti operanti in contrasto con l’estetica modernista. Ma, una volta messo insieme un vasto assortimento di artisti ed opere del nuovo corso,, il collezionista diventa anche organizzazione e curatore di mostre innovative dell’arte “aperta”.
Tra l’ottobre 2007 e il gennaio 2008 la mostra al Chelsea Art Museum presenta, oltre a 5 artisti già noti, altri 30, Newmann sostiene che non è indirizzata al mercato ma fa conoscere “opere d’arte che rispecchiano la nostra nuova società aperta”. Dopo aver dichiarato che “rispecchia alcuni concetti filosofici particolari, quali la lacuna, gli antagonismi, la sottrazione, la molteplicità discordante”, ammette subito dopo che “di primo acchito, la presentazione potrebbe disorientare un po’. E’ certamente un’esperienza complicata”. Per questo si rivolge così al visitatore: “Inizia pure dove ti pare e la comprensione dovrebbe crescere man mano. Cerca di considerarla come una rampa di lancio”. E conclude: “Ci auguriamo che il pubblico che verrà alla mostra possa considerarla l’inizio di una lunga indagine sul momento”. Un messaggio che riteniamo valido per ogni esposizione di arte contemporanea, perché il visitatore anche se è disorientato deve sentirsi nello stesso tempo stimolato a capire. La mostra ebbe nel 2010 una trasposizione europea, a Parigi con 29 artisti e 45 opere.
Titolo delle due mostre “The Incomplete”, per trasmettere il senso di incompiutezza delle opere, in quanto “aperte”; ma presto Newmann si accorse che il nuovo corso non poteva restare incompiuto. Così utilizza il termine “Aftermodernism” che pur nella sua definizione almeno temporale, aveva pur sempre una doppia indeterminatezza, come rivela a Biasini Selvaggi: La prima: “Lo trovo suggestivo perché, attraverso la sua natura ambigua, oppone resistenza alla dimensione di chiusura. E’ ambiguo in primo luogo perché la preposizione after ha due significati [dietro e dopo , n.d.a]”; la seconda: “Inoltre, il concetto di modernism (modernismo) nessuno sa bene cosa sia con esattezza. Alcuni sono arrivati persino alla conclusione che il modernismo non sia mai esistito”.
L’Antimodernismo si presenta con una trilogia espositiva
Nel 2013 e 2014 “Aftermodernism” diventa il titolo di tre mostre successive al Nassau Country Museum of Art di New York. La prima, con AM premessa alla fatidica parola, da giugno a ottobre del 1913, con 5 artisti di cui viene sottolineata la “policromia” e la combinazione di “elementi tanto astratti quanto figurativi in modalità nuove e innovative”.
La seconda, da ottobre a febbraio 2014, presenta 19 artisti, di cui 4 della mostra precedente, tra loro anche Justine Samson dell’esposizione attuale, di cui diremo più avanti. Le opere su carta, bozzetti, appunti, studi preparatori, cui è riservata la mostra, per loro stessa natura ne accentuano il carattere personale e asimmetrico e rendono così l’immediatezza dell’espressione.
Solo 3 artisti nella terza mostra dal marzo al luglio 2014, tra loro James Busby, le cui opere, di cui parleremo, sono esposte alla Mucciaccia con quelle di Samson. Biasini Selvaggi commenta: “Le loro opere illustrano il concetto chiave che anima ’Aftermodernism, quello cioè di visioni artistiche fratturate, asimmetriche, e portano questo nuovo linguaggio verso territori inediti , abbracciando tutto lo spettro dal neo-oggettivismo al realismo più spinto, senza mai rinunciare all’importanza dell’astrazione”. Questo significa che nelle loro opere, “in una nuova morfologia di arte minimalista” si può trovare “in modi spesso inediti e innovativi la sintesi tra l’astrazione e la figurazione, tra linguaggi iconici e anticonici”.
Un decisivo passo in avanti nel 2016, dopo la trilogia espositiva terminata due anni prima. Viene aperta nell’Upper Side a New York una nuova galleria d’arte contemporanea, la Newmann Wolfson Art, da due collezioniste, una delle tre figlie di Hubert Newmann, Belinda, e una delle organizzatrici della trilogia espositiva dell’”Aftermodernism” al Nassau Centrum, Alisdon Wolfson. Addirittura la galleria è dedicata agli artisti “accomunati dalla ricerca di una nuova visione del mondo attuale”. Così, tra luglio e settembre dell’anno di apertura della galleria, subito una collettiva di 33 pittori e scultori, intitolata “AftermodernisM in the Hamptons”, presentata con parole che riecheggiano quelle di Hubert Newmann: “ Viviamo in un mondo frammentario e incoerente. Pertanto è fondamentale prendere in esame questo filone della ricerca artistica contemporanea che riflette questa assenza di organicità e sistematicità”.
Tale frammentarietà si riflette sull’osservatore, al quale l’artista presenta un’opera “aperta” suscettibile di una visione molteplice personale: “Dove ogni fruizione è così un’interpretazione e un’esecuzione poiché in ogni fruizione l’opera d’arte rivive in una prospettiva originale”.
La casa-museo di Newmann e l’accordo con la Galleria Mucciaccia
La figlia di Hubert, dunque, continua l’opera del padre, che ha messo insieme una collezione di oltre 2.600 opere, con capolavori del Cubismo e dell’Espressionismo, dell’Astrattismo europeo e americano, della Pop Art e altre correnti, troviamo anche Picasso e Mirò, Kandisky e Giocometti, oltre a Rauschenberg e Liechtenstein, Haring e Basquiat.
Un ventesimo di queste opere è nella sua residenza newyorkese – 5 piani in pietra calcarea nell’Upper East Side – che Biasini Selvaggi descrive dopo una visita al collezionista concludendo con queste parole: ”Un’esposizione fluida orizzontale, eternamente presente, pertanto, quella di questa casa-museo, in cui l’arte moderna contemporanea è offerta alla vista come un intreccio di suggestioni divaricabili quanto intercambiabili, in una galassia di opzione ready-made che veicolano altrettanti messaggi ready-made, esito di una visione del tutto personale…”. E anche “opinabile”, come è giusto che sia.
Si comincia con James Busby e Justin Samson, che hanno esposto nelle due mostre di “Aftermodernism” del 2014 e nella mostra “The Incomplete” del 2007, sono presenti nelle stesse collezioni di New York, le due Newmann ovviamente e Museum of Modern Arts, Minneapolis e Miami, fino ad una collezione di Atene. Di entrambi un gran numero di mostre collettive a partire dal 2001; ne abbiamo contate oltre 50 per Busby e oltre 80 per Samson, mentre per le personali il rapporto si inverte, 20 per Busby e 8 per Samson. Interpretano l’”Aftermodernismo” con delle notevoli peculiarità nell’impostazione e delle evidenti differenze nei materiali utilizzati e nell’uso particolare che ne fanno, come vedremo descrivendo la personale abbinata, con 10 opere di Busby e 15 di Samson.
James Busby, il lavoro sui materiali
L’”Aftermodernismo” di Busby, nato nel 1973 e operante in South Carolina, viene così descritto da Biasini Selvaggi: ”L’ambivalenza tra scultura e pittura è sempre stato un catalizzatore dei suoi lavori. La qualità riflettente della grafite che impiega in abbondanza altera la percezione dello spazio, richiedendo allo spettatore di muoversi. Le opere, infatti, suggeriscono un numero pressoché infinito di esperienze, ogni qual volta un riflesso cambia”. Proprio la caratteristica primaria dell’”Aftermodernismo” con al centro il fruitore nelle molteplici visioni che può avere dai mutevoli punti di vista dati dai riflessi cangianti.
Il curatore va oltre: “Il traguardo per l’artista è quello di condurre lo spettatore alla consapevolezza dell’irrealtà del mondo, del suo carattere transitorio e, in qualche modo, arbitrario, in perfetta armonia con l’insaziabile ricerca di un linguaggio inverosimile e, a sua volta, di un’apertura a sogni esaltati”.
Li vediamo nei titoli, “Ocean Eyes”, con gli “occhi dell’oceano” in una miriade di fori su una superficie argentata, e “One Red Thread”, il filo rosso delineato in alto sopra due forme triangolari giustapposte; “Sweet Sun”, il “sole dolce” nella macchia gialla in basso a sinistra a fronte di due masse nere che tendono a congiungersi, e “Sweep”, la “spazzata” forse evoca il bisogno di pulizia nei tre semicerchi bianchi in fondo alla superficie nera solcata da segni chiari, “Diamonds and Gasoline” , “Get Low” e “Always Alright” , tre dischi gemelli con diversi segni cromatici e vibrazioni, “Gold Panda”, il bianco-nero del simbolo del rischio di estinzione, sia pure a strisce, evocato dal titolo, con il giallo dell’oro, e “Slow Burn”, la “bruciatura lenta” in uno stick sottile nero, dala punta gialla e nera. Mentre “Simple Song”, il “semplice canto” è reso con una forma nera con riflessi verdi che evoca un profilo.
I singoli titoli non sempre aiutano nell’interpretazione, forse sono il motivo di partenza, come abbiamo visto nella mostra attualmente in corso al Museo Bilotti, su Frank Holliday, ma poi l’artista è preso da altre sollecitazioni. A differenza di Holliday, nel quale domina il cromatismo, qui sono i materiali ad avere la prevalenza su qualunque altro elemento. E, si badi bene, non solo i materiali utilizzati, ma la lavorazione cui sono sottoposti.
Sono compresenti nelle opere appena citate gesso e grafite, olio e acrilico nella pittura spray su legno, utilizzati con un’estrema attenzione alla fattura, lo spiega il curatore: “Il suo rigore esecutivo ricalca lo stesso processo della scultura, perché si compie per sottrazione. Anche se la superficie finale dei suoi lavori sembra liscia e del tutto finita, molte volte rappresenta l’esito di una costante pratica decostruttiva. Allo stesso modo di un disegno che passa per diverse fasi di cancellatura”.
Le fasi di realizzazione sono molteplici, dalla sovrapposizione di strati di gesso, uno al giorno perché si devono asciugare, alla levigatura e alla lucidatura, con attrezzi artigianali, che determinano l’effetto riflettente, fondamentale per l’”Aftermodernismo”, senza uso di vernici, ma con ore di lavorazione; completa l’opera la pittura spray su fogli acrilici e l’inchiostro, il tutto in dimensione tridimensionale. Per i tempi di attesa porta avanti più opere contemporaneamente che vedranno la luce al termine del processo.
Le opere vanno considerate in modo unitario, come del resto sembra suggerire il curatore: “L’intervento dell’artista si disloca nello spazio secondo la misura rigorosa, eppure libera, delle sue sequenze che danno vita nel loro insieme a un’unica installazione in cui ciascun elemento è legato e rimanda al successivo”.
James Samson, cromatismo e collage nella nuova pittura
Se i materiali sono l’elemento distintivo delle opere di Busby, il cromatismo lo è per le opere di Justine Samson, classe 1979, dal Connecticut. Artisti in famiglia, zio e nonno pittori, sin da piccolo vissuto tra tele e colori, frequenta l’Istituto d’arte, la considera la sua vocazione, ammira i Fauves e Derain. Ma nell’adolescenza la passione per la musica punk e per le idee politiche del movimento lo prende, e anche di recente, ha confidato al curatore, ha riascoltato quei gruppi.
“Il suo modo di fare arte – spiega Biasini Selvaggi – e le conseguenti modalità di esposizione, mantengono tracce indelebili della cultura del fai da te e della filosofia antisistema del movimento punk”. A questo si aggiunge l’influsso anche delle altre forme musicali, dal Jazz alle più sofisticate, con il concetto di “opera aperta” che attinge alle varie discipline in modo libero, fuori dai tabù, anche quelli delle avanguardie, compreso quello del linguaggio che, nel suo caso, porta al recupero della pittura rifuggendo dalle suggestioni della tecnologia.
Recupero ma nel rinnovamento, perchè “i meccanismi del colore non sono stati ancora sfruttati a fondo. C’è, insomma, ancora molto da inventare, a partire dalla contrapposizione dei medium più contrastanti (olio e acrilico, vernice spray, ecc)”. Il curatore descrive così i risultati: “I suoi sono combine-works in cui la sovrapposizione eclettica di supporti, l’assemblaggio di materiali irrituali, o lo strano accostamento di immagini ritagliate e incollate direttamente… e l’effetto rappresentano una modificazione del medium pittorico, di cui non si riesce, infatti, ad averne una percezione chiusa definita, compiuta”.
Guardiamo le opere esposte per verificare un’operazione artistica collegata all’immagine di società incompiuta e “indefinita” della società contemporanea come è stata percepita da Newmann – lo si è visto all’inizio – e tradotta in opere dai suoi artisti, da Samson in lavori soprattutto pittorici.
La sua nuova pittura utilizza gli oli e acrilici su tela, ne vediamo esposte delle serie molto colorate, a differenza di Busby, con dei titoli dichiaratamente esplicativi.
Nella prima serie, del 2018, abbiamo 6 dipinti di piccole dimensioni, 42 per 35 cm, con piccole figure di vario tipo ritagliate e incollate su fondi a tinta unita, gialla e blu, rossa e verde. I titoli sono descrittivi di situazioni illustrate dai ritagli figurativi: “An Essay on the Picturesque” e “A Description of the Scenery of the Lakes in the North”, “Interior of Tintern Abbey” e “Frost at Midnoght”, “A Description of Keswick” e “She Dwelt among the Untrodden Ways” .
Molto più grandi 4 opere, con sovrapposizione di supporti, evidente in “Gegenschein”, 2012, e “Acropolis of Pergamon”, 2016, quasi 2 metri per lato, mentre in “A Farmhouse near the Water’s Edge”, 2016, e “Gegenschein #22”, 2012 metri 1,30-40 per 1,10 tornano i comparti.
Un’altra serie presenta dipinti verticali, con diversi comparti, che ci ricordano alcune opere di Sergio Ceccotti, come “Avventura e mistero” e “Scena notturna”, del 1966-68. per la divisione in comparti con scene di vita, soprattutto “Inhabitants”, 2018, lo accostiamo a Ceccotti, pur nella radicale differenza nella rappresentazione, qui nessuna pistola ma volti e oggetti ritagliati; mentre in “Farviewer”, 2014, e “Feltzen on the Rhine”, 2019, nei comparti vi sono figure geometriche dai colori brillanti fortemente contrastanti.
Questo viene esaltato nel “quadro-scultura” “Time and Space #13”, 2011, con molti materiali, dal legno alla stoffa fino alla pelliccia sintetica, ma quello che spicca sono i cerchi rosso e blu, il triangolo rosa su uno sfondo che va dal giallo al rosa, dal verde al blu, netti e intensi, quasi un’installazione.
Una vera installazione campeggia all’ingresso della mostra, nel centro della prima sala, “Gemini 1”, 2018, c’è il cerchio azzurro in un’alzata con intense macchie cromatiche, molto spettacolare.
Un “tourbillon” di sensazioni resta negli occhi del visitatore, immagini staccate che si sovrappongono. Forse per questo Biasini Selvaggi conclude che “non è possibile ricordarsi dell’opera, di come sia, una volta che si smette di guardarla”.
Ma non è un dato negativo: “Viviamo in una società incompiuta e questa sua mancanza di definizione o di chiusura nella sua leggibilità si riflette in un campo di possibilità senza precedenti su cui insistono tutti gli aspetti della nostra vita, che nutrono e perpetuano quell’organismo in continua mutazione che è diventato il mondo dell’arte contemporanea”.
Lo vedremo nelle prossime mostre sull’”Aftermodernism” previste nel programma concordato dalla Galleria Mucciaccia con il grande collezionista Hubert Newmann; ora abbiamo avuto il “1° Capitolo.
Info
Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella Borghese 89, Roma Da lunedì a sabato, ore 10.00 – 19.30; domenica chiuso Tel. 06 69923801, segreteria@galleriamucciaccia.it| www.galleriamucciaccia.com. Catalogo “Aftermodernism, a Perspective on Contemporary Art – James Busby – Justin Samson” “, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, aprile 2019, pp. 74, formato 17 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sull’arte americana: in questo sito, “Lachapelle, l’artista scenografo con nuove opere, alla Galleria Mucciaccia” 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com nel 2015: “Lachapelle, la fotografia da set teatrale al Palazzo Esposizioni” 12 luglio; nel 2014: “Warhol. L’artista totale del XX secolo, alla Fondazione Roma” 15 settembre e ”Warhol. Tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma” 22 settembre; nel 2013: “Empire, l’arte americana oggi al Palazzo Esposizioni” 31 maggio; nel 2012: sul Guggenheim: “Il museo mecenate dell’avanguardia artistica americana” 22 novembre, “Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre, “Dal Minimalismo al Fotorealismo” 11 dicembre. Per Ceccotti e l’artista-fotografo citato nel testo: nel 2018: “Ceccotti, la “finestra sul cortile” e il “rebus” nella pittura, al Palazzo Esposizioni” 26 settembre; nel 2016: “De Antonis. Nella fotografia astratta un nuovo realismo” 19 dicembre, “De Antonis. Dai ritratti classici alla fotografia astratta” 25 dicembre. Ci sono molti articoli, dal 2012 in poi, sugli artisti della collezione citati nel testo.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 7 immagini ritraggono opere di Busby, tutte del 2019 meno una espressamente indicata; le successive 8 opere sono di Samson, in varie date. James Busby: in apertura, “Ocean Eyes”, con “Sweep” 2018 e “Sweet Sun” ; seguono, “Diamonds and Gasoline” e “Gold Panda”; poi, “Get Low” e “Simple Song””; quindi, “Always Alright” e “One Red Thread”. Justin Samson: “Gegenschein” e “Gegenschein # 22” 2012; poi, “Acropolis on Pergamon” 2016, e “Inhabitant” 2018; quindi, “Farvieewer” 2914, con “Feltzen on the Rhine”2019; inoltre, “Time and Space #13” 2011, e “Gemini 1” 2018; in chiusura, “An Essay on the Picturesque””, con “Interiorr of Tintern Abbey” e “A Description of Keswick” , del 2018.
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สีแดงออกมาแล้ว3ไม้ ไม้ที่4-6ตัดสวนด้วยอีกฝั่งได้เลย ซึ่งมันก็คือ สีน้ำเงิน