di Romano Maria Levante
In precedenza, seguendo il racconto vasto e documentato del libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, abbiamo rievocato i suoi 15 anni nell’Eni fino al risanamento con la privatizzazione, la quotazione in Borsa e la divisionalizzazione nella posizione di amministratore delegato, in mezzo la tempesta Enimont in piena Tangentopoli con la scoperta del’iceberg corruttivo; poi l’intenso semestre in Telecom con la resistenza sfortunata contro l’armata Brancaleone dei “capitani coraggiosi” cari a D’Alema, e il naufragio loro e degli epigoni ugualmente speculatori intemerati. Ora una variante aziendale ma in positivo del “rieccolo” tipico della politica: il ritorno di Bernabè al vertice di Telecom, questa volta per restarci 6 anni, dopo il tormentato semestre del primo incarico, fino al nuovo ribaltone azionario. E, in direzione opposta, del tutto innovativa, i 13 anni da amministratore del colosso petrolifero cinese PetroChina, preceduti e seguiti dal “salto di specie”, da top manager a imprenditore.
Il ritorno in Telecom, l’impegno per la rete
Abbiamo chiuso la rievocazione precedente con le dimissioni di Marco Tronchetti Provera da presidente di Telecom, preludio di quella che il libro definisce “l’affannosa ricerca di un socio” per l’uscita definitiva dal gruppo che, dopo 4 anni dall’acquisizione, nel 2005 aveva raggiunto il massimo di indebitamento con circa 40 miliardi di euro rispetto a un patrimonio netto inferiore a 27 miliardi. Dopo un approccio con Murdoch e dei negoziati con l’americana At&t e la messicana América Mòvil – presto interrotti per il mito di comodo dell’italinaità, poi rinnegato – la trattativa con Telefonica quale socio industriale in una cordata di Intesa San Paolo e Generali, Mediobanca e Sintonia, sfociata nella “Telco” che nell’aprile 2007 rilevò interamente “Olimpia”, di Pirelli e Benetton, incorporandola, e quindi Telecom dalla stessa controllata.
Occorreva trovare chi si assumesse un compito da far tremare le vene e i polsi, e la società di “cacciatori di teste” Spencer Stuart non ebbe dubbi nel designare Bernabè, che non solo conosceva bene la società per averla guidata, ma aveva lottato per prevenire il grave dissesto provocato poi dai “capitani coraggiosi” e dai loro epigoni, e in precedenza aveva guidato l’Eni per diversi anni con successo pur in condizioni difficili.
Mentre la Spencer Stuart individuava il candidato ideale, la “Telco alla ricerca di un capoazienda” – tramite l’AD di Banca Intesa Corrado Passera, a nome degli altri componenti della compagine creata per rilevare Telecom – lo invitava ad accettare la nomina ad amministratore delegato; poi tornarono alla carica direttamente anche Bazoli, Geronzi, e Bolloré, per le banche e Telefonica. Si era nell’ottobre 2007, Vincent Bolloré aveva cercato di contrastare Tronchetti Provera nell’acquisizione del controllo su Telecom, poi ne diventerà primo azionista, tenterà persino di scalare Mediaset, fino a controllare oggi Telecom con “Vivendi”. E’ un mastino delle telecomunicazioni, si era interessato alla Telecom-Tim sin dal 2001 allorchè aveva cercato di competere senza successo con Olivetti per acquisirne il controllo.
Bernabè esitava ad accettare la pur allettante offerta: era impegnato con ottimi risultati nelle società da lui costituite o rilevate nel “salto di specie” da top manager a imprenditore, di cui parleremo più avanti, e avrebbe dovuto dismetterle per i potenziali “conflitti di interesse”; mentre non era certa la solidità della base azionaria di Telecom, un’aggregazione temporanea con visioni diverse tra le banche e Telefonica.
Ed ecco la decisione, anche qui con la motivazione personale che l’ha determinata: “Abbandonare tutto quello che facevo per tornare al vertice di Telecom mi comportava notevoli problemi. Allo stesso tempo, l’idea di concludere un lavoro interrotto così brutalmente sette anni prima mi stimolava. La ragione avrebbe dovuto consigliarmi di rinunciare, ma le emozioni sono spesso un catalizzatore più efficace delle decisioni”. Senz’altro c’era da emozionarsi: “In questo caso prevaleva la voglia di rivincita, l’idea di riuscire dove altri avevano fallito, ma anche il legame con tanti dipendenti e dirigenti che negli anni avevano continuato a scrivermi, raccontandomi la loro sofferenza per la crisi di una società alla quale erano molto legati”. Inoltre presidente sarebbe stato Gabriele Galateri di Genola, con cui aveva fatto i primi passi in Fiat, e “anche se i nostri profili erano molto simili”, conclude Bernabè, secondo Passera “la combinazione di persone con evidenti affinità professionali rappresentava un punto di forza”.
Nella nostra similitudine omerica, “dei remi fece ali al folle volo”, e si rivelò tale, molto più prolungato della brevissima quanto tormentata esperienza precedente e con un contenuto ben diverso. Nel 1999 si era dovuto confrontare con la scalata ostile di finanzieri d’assalto sostenuti dal presidente del Consiglio D’Alema, i cosiddetti “capitali coraggiosi”, e abbiamo detto in precedenza, nel rievocarne la storia, di quale “coraggio” si trattasse. Si era trovato contro altre massime istituzioni, la Consob e la Banca d’Italia che ne avevano avallato la scorribanda perniciosa per la società e per il Paese; ora doveva raccogliere i cocci di una società indebitata e dissestata per rilanciarla nel sistema di telecomunicazioni, un’impresa titanica.
Questa volta il campo di battaglia non era solo la finanza, c’era un indebitamento fuori misura, oltretutto dopo le dismissioni operate da Tronchetti Provera di quasi tutto quanto c’era da vendere – e abbiamo visto come ciò avvenne per gli immobili poi riaffittati a Telecom! – che imponeva interventi radicali; e questi, non essendo disponibili i nuovi azionisti ad aumenti di capitale “per abbattere il debito e far ripartire gli investimenti”, dovevano essere forzatamente a livello industriale, la vocazione primaria di Bernabè.
Ma il promettente piano di “rilancio graduale, comprimere il debito e aumentare il flusso di cassa di Telecom riducendone i costi, dosando gli investimenti e tagliando il dividendo” presentato agli investitori “spiazzava coloro che avevano investito in Telecom contando su una robusta cedola” e si trovavano dinanzi al “dimezzamento del dividendo”, inevitabile dopo la politica di dividendi delle gestioni precedenti: “Tra cedole e riserve distribuite il gruppo Telecom tra il 2000 e il 2007 aveva versato ai suoi azionisti 20 miliardi, 15,6 dei quali imputabili alla gestione Tronchetti” che “per garantire un flusso finanziario sufficiente a sostenere il debito di Olimpia… erogava la quasi totalità degli utili, mentre a livello internazionale il payout (la percentuale di profitti corrisposti in dividendi) superava di poco il 50%”. I soliti speculatori intemerati!
Era il 7 marzo 2008, la risposta della Borsa al piano di risanamento fu il crollo del titolo, come del resto era avvenuto in Deutsche Telekom e nelle altre imprese europee di telecomunicazioni; in più c’era stata la caduta del governo con le elezioni anticipate nel gennaio e incombeva la crisi finanziaria a livello globale che portò a metà settembre al fallimento della Lehman Brothers. “In questo quadro recessivo Telecom aveva cominciato a subire l’erosione dei ricavi e dei margini. Bisognava dunque accelerare sulla riduzione del debito sapendo di non poter contare sugli azionisti e nemmeno sui tempi lunghi di un miglioramento graduale della gestione del programma iniziale”.
La risposta, nelle corde di Bernabè, è un progetto industriale: la “’societarizzazione’ della rete” conferendo l’infrastruttura di accesso e le attività connesse a una società separata, controllata da Telecom, che sarebbe stata apprezzata dagli investitori, in modo che potevano provenirne “le risorse per abbattere il debito e rilanciare gli investimenti”.
Non si trattava di generiche aspettative e neppure di qualcosa di inedito, con l’iniziativa “Open Access” nel febbraio 2008 si era già attuata la separazione, sia pure parziale, della rete con una struttura autonoma staccata dalle attività commerciali all’interno della divisione “Technology”. In tal modo si rispondeva alle sollecitazioni delle autorità di regolazione e del governo di “scorporare” le infrastrutture ai fini di una maggiore parità concorrenziale; nel contempo era stata chiesta all’autorità Agcom la chiusura delle controversie mediante “cospicue oblazioni”, risolvendo i problemi con il regolatore e avviando rapporti più distesi con i concorrenti che lamentavano la scarsa neutralità del passato da cui si sentivano danneggiati.
I ricavi della progettata “Opac” (dalle iniziali di Open Access) erano stimati in 5 miliardi di euro con un margine operativo lordo del 50% per un valore totale d’impresa di 18 miliardi di euro: il progetto fu presentato al C.d.A. nel settembre 2008 ma incontrò l’opposizione di Telefonica, preoccupata di doverlo replicare nelle sue attività in Spagna, e di Mediobanca che si mostrò contraria alla frammentazione e duplicazione di strutture; anche i concorrenti erano ostili anche se per ragioni diverse temendo che nella nuova società fossero scaricate le inefficienze di Telecom. Perciò il progetto fu ritirato.
Aveva anticipato un’esigenza divenuta sempre più pressante, senonché l’intervento delle istituzioni pubbliche aveva complicato invece che semplificare la situazione, pur con lo stesso obiettivo: lo scorporo della rete infrastrutturale affidata a una società separata. La Commissione Trasporti e Telecomunicazioni presieduta da Mario Valducci chiuse l’apposita indagine conoscitiva con la richiesta di una norma che obbligasse alla separazione funzionale della rete. Seguì “il tavolo Romani”, del viceministro con delega alle telecomunicazioni e poi ministro dello Sviluppo Paolo Romani, che si concluse con un memorandum di intenti siglato il 30 novembre 2010 dalle principali società del settore con il quale tra le due alternative poste dal rapporto di Francesco Caio si scartò a sorpresa lo scorporo della rete Telecom e si scelse la costituzione di un’unica rete di accesso ottica di nuova generazione gestita da una società consortile cui i singoli operatori avrebbero dovuto conferire le proprie infrastrutture in fibra, con gran parte degli oneri a carico di Telecom. Intanto nell’aprile 2011 Bernabè da amministratore delegato passa a presidente esecutivo, A.D. diventa Marco Patuano, che aveva nominato all’inizio direttore finanziario facendolo rientrare da Telecom Argentina di cui era direttore generale dopo una carriera nella finanza Telecom.
Bernabè mette in guardia sull’impraticabilità di tale progetto industriale per le divergenze tra gli operatori chiamati a parteciparvi sull’architettura di rete e sulle dimensioni dell’investimento; ma soprattutto per l’insostenibilità economica dell’architettura prescelta, discutibile anche sul piano tecnologico rispetto alle possibilità di valorizzare l’infrastruttura in rame integrandola con la fibra, ritenuta la migliore soluzione.
Fu anche esplorata la possibilità di far convergere telecomunicazioni e “media”, come richiedeva l’evoluzione in atto nel settore, ipotizzando di conferire Mediaset a Telecom – cosa che avrebbe risolto anche il conflitto di interessi di Berlusconi rendendo Mediaset minoritaria – ma il progetto non fu neppure discusso per motivi politici, o meglio per sospetti di chissà quale intento; inoltre passava per la modifica della legge Gasparri che impediva di acquisire altre piattaforme a chi era nel settore con oltre il 20%.
Nel luglio 2012 l’annuncio della Commissaria europea per l’agenda digitale di incentivare gli investimenti nelle nuove reti si aggiunge alla forte dinamica della domanda per ulteriori servizi digitali aperti agli apparecchi connessi alla rete, come tablet e smartphone, videogiochi e gli stessi televisori. Ne viene un nuovo impulso all’accelerazione nello sviluppo della rete a banda larga già in atto in Telecom: il libro descrive “il cantiere per l’autostrada digitale” anche negli aspetti tecnici e nella diffusione raggiunta.
Ma non mancò l’attenzione ai servizi, sebbene l’interesse alla rete fosse prevalente in tutti gli operatori. Il motivo “per cui non è nata una Google in Europa” risiede, secondo Bernabè, nel fatto che le imprese di telecomunicazioni assicurano la “garanzia di qualità del servizio, che richiede infrastrutture complesse e costose, mentre il web ruota intorno all’idea di best effort, cioè del migliore sforzo per offrire un servizio prescindendo da un’immediata garanzia di qualità”. Cita l’impegno per l’Sms multimediale, promosso anche come presidente, dal 2011 al 2013, del “Gsma” – l’organismo che raggruppa gli operatori mondiali di telefonia mobile – superato però dal WhatsApp che ha conquistato il mercato per tali motivi: ecco “come hanno fatto due giovani sviluppatori a mettere fuori gioco migliaia di ingegneri di telecomunicazione”.
Poi ci offre uno spaccato umano, al di là della tecnologia, dei suoi “incontri e scontri con i personaggi del web”. Ed ecco i “guru” da lui incontrati, Tim Berners-Lee creatore del world wide web, e Steve Jobs nel Campus Apple di Cupertino con l’allora vice Tim Cook, Eric Schmidt ex presidente di Google a Sankt Moritz e Jeff Bezos fondatore di Amazon, Peter Thiel e Alex Karp fondatori di Palantir Technologies, leader mondiale di “Data analytics”, che analizza informazioni da usare anche nell’intelligence, ripensiamo all’analoga attività di una agenzia della Cia nel film “I tre giorni del Condor”.
E nell’alternativa tra lo scorporo della rete Telecom e la società consortile per un’unica nuova rete in fibra ottica va dunque avanti quest’ultima che sembrava prescelta? Ebbene no, “Cassa Depositi e Prestiti gioca su due tavoli” ed entra in una società che controllava Metroweb, la quale aveva un piano di diffondere la fibra, ed “era più che una minaccia, come si vide in seguito con la costituzione di Ope Fiber”. Per questo Bernabè propone “di riconsiderare il progetto di scorporo e di ‘societarizzazione’ dell’infrastruttura, abbandonato tre anni prima”, nel quale sarebbe potuta entrare Cassa Depositi e Prestiti con un aumento di capitale che avrebbe reso compatibile l’accelerazione degli investimenti con la riduzione del debito.
Aprile 2013, il progetto viene presentato e approfondito con qualificati “advisor” di grandi banche; il 30 dello stesso mese approvato con la direttiva di dar corso alla costituzione della nuova società con la Cassa Depositi e Prestiti previe le autorizzazioni regolatorie. Ma “il Cda approva lo scorporo e Agecom lo affonda”, si intitola uno dei paragrafi conclusivi sulla vicenda Telecom bis. “Anche questa volta il progetto era destinato a non partire. Fu però sorprendentemente un atto dell’Autorità di regolazione a provocarne l’abbandono”, e lo fece riducendo le tariffe di accesso alla rete fissa, cosa che paradossalmente rendeva più conveniente ai gestori rispetto alla società consortile un’offerta basata sul diritto di accesso all’infrastruttura della Telecom che invece a sua volta ne era penalizzata e scoraggiata dall’investire in infrastrutture di nuova generazione. Non ebbe esito il ricorso alla Commissione Europea, la cui pronuncia era solo consultiva, contro l’ “intervento muscolare” dell’Agecom, e anche se il Consiglio di Stato qualche anno dopo darà ragione a Telecom dichiarando illegittima quella decisione di Agecom, la frittata ormai era stata fatta.
Bernabè cerca un investitore che possa sottoscrivere l’aumento di capitale necessario a Telecom, ma gli azionisti di Telco chiedono troppo per cedere parte delle loro quote e il mercato è depresso. Soltanto mediante l’integrazione con Telefonica “italiani e spagnoli avrebbero potuto dar vita, con un progetto di ampio respiro, alla più grande public company mondiale di telecomunicazioni, un’impresa con soci italiani e spagnoli in posizione paritetica e con una struttura di governo condivisa”: interessi complementari non sovrapposti, Telefonica in Spagna e Sudamerica, Telecom in Italia. Ma Mediobanca e Intesa San Paolo restarono fredde dinanzi alla proposta di Bernabè, Mediobanca poi fu contraria: “Il progetto fu comunque liquidato a mezzo stampa mentre era sul nascere”. Ma si vide molto presto che era stato anticipatore.
A questo punto Bernabè lascia il gruppo, siamo a settembre 2013. Pochi giorni dopo Telefonica annuncia un accordo per il controllo di “Telco”, quindi di Telecom, e l’intenzione di vendere Tim Brasil, la più importante consociata estera sopravvissuta alle dismissioni di Tronchetti Provera. Nel frattempo stava perfezionando l’acquisto di Portugal Telecom in Vivo per controllare il primo operatore mobile del Brasile, ma l’Autorità delle telecomunicazioni brasiliana condizionò l’approvazione all’abbandono del controllo di Telecom Italia. E allora Telefonica decise di lasciare l’azienda italiana con una operazione che portò al controllo di Telecom il gruppo francese “Vivendi” di Bolloré, che Bernabè aveva interessato, con progetti e trattative prima della sua uscita, in sostituzione dell’integrazione mancata con Telefonica. Un’altra sua indiscutibile preveggenza frustrata dalle cecità di turno, siano dei governi o dei manager miopi.
Alla fine di questa nuova fase della sua odissea manageriale Bernabè conclude: “Mi sono chiesto spesso dove avrei potuto fare meglio o che cosa avrei dovuto fare diversamente, ma non trovo una risposta che mi soddisfi”. In realtà, una risposta c’è ed è lui stesso a fornirla: “Riflettendo mi sono convinto che, pur nelle drammatiche vicende che hanno attraversato il mio percorso in Eni lo Stato abbia garantito all’impresa la stabilità necessaria a realizzare un impegnativo programma di recupero, e che invece il mercato, con i suoi traguardi brevi dettati dai vincoli della finanza, lo abbia impedito a Telecom”. E’ così chiaro che qualsiasi commento guasterebbe, tanto più che sono parole di chi si è sempre speso per il mercato, quello vero.
Tornerà nelle telecomunicazioni con la presidenza di Cellnex dal luglio 2019, è la maggiore impresa europea di infrastrutture wireless, il libro non ne parla ma non possiamo tacere l’attualità più viva.
Dalla Cina con amore, nel C.d.A di PetroChina, il colosso petrolifero
Prima del ritorno in Telecom Italia Bernabè inizia un’esperienza quanto mai interessante nel cuore del capitalismo cinese, come membro indipendente nel Consiglio di amministrazione di PetroChina, il colosso petrolifero nato dalla privatizzazione, con una capitalizzazione al debutto alla Borsa di Shangai di 1.000 miliardi di dollari, il doppio di quella di Exxon alla Borsa di New York. Tante similitudini con l’Eni, all’interno del quale aveva già avuto molti contatti con il mondo petrolifero cinese per importanti permessi di ricerca. A partire da un fondatore mitico, come Enrico Mattei in l’Italia Wang Jinxi in Cina, fino alla privatizzazione, in Cina con lo scorporo dalla China National Petroleum Corporation, la Cnpc. Quando andò in Consiglio di amministrazione la decisione da prendere su un grande gasdotto di importazione, Bernabè si impegnò molto nel sostenerlo, forte dell’esperienza con la rete dei metanodotti italiani che aveva costituito un’infrastruttura strategica per il Paese e una rilevante fonte di reddito per l’azienda Eni.
Fu posto alla presidenza dell’ “Audit Committee”, il “Comitato di controllo interno” con l’impegnativo compito di valutare la congruità degli scambi con la Cnpc e mantenere l’impegno di ridurli assunto con il mercato. Nel Consiglio di amministrazione, insieme a lui, proposto come garante dei grandi investitori internazionali dalla Goldman Sachs – che lo aveva visto all’opera nella quotazione dell’Eni alla Borsa di New York – gli altri due consiglieri indipendenti, Tung Chee-Chen, fratello del governatore di Hong Kong e Wim Jinglian, un noto economista cinese.
Ha occupato per tredici anni, dal 2000 al 2013, tale posizione, ben di più di un osservatorio privilegiato già di per sè molto interessante: una “governance occidentale in un’impresa comunista” regolata da “una lunga lista di norme” sui rapporti con la Cnpc e i conflitti di interesse, le attribuzioni e i rapporti reciproci regolamentati con precisione; ma anche rilevanti operazioni sul mercato con acquisizioni di società in Kazakistan, Egitto, Algeria e altri paesi oltre a grandi progetti interni per l’estrazione di gas naturale e colossali programmi di importazione di metano dall’Asia centrale con la West East Gas Pipeline, 8.700 km di metanodotti da Est a Ovest. Ma anche “controlli, nomine e carriere all’ombra del partito” in un grande paese dove le antiche radici e tradizioni superano le motivazioni politiche rappresentando una solida base culturale e ideale che alla fine prevale su quanto si rivela incompatibile con essa.
Da Ulisse a Marco Polo, vediamo il nostro protagonista alle prese con un mondo nuovo, un regime sospettoso che nel 2010 condannerà un geologo americano di origine cinese ad otto anni di prigione “con l’accusa di aver trafugato informazioni segrete sull’industria petrolifera cinese apparentemente costituite da dati sismici su 30mila pozzi messi in vendita da Cnpc”. Dieci anni prima, all’inizio dell’esperienza di Bernabè, i cinesi erano ancora più sospettosi, dopo vent’anni di capitalismo di Stato : “Mi chiedevo come mai il partito consentisse a un occidentale di accedere a documenti di PetroChina strettamente riservati e gli lasciasse esprimere liberamente le sue opinioni sulle modalità di gestione della società”.
La risposta la dà di nuovo lui: “Agli inizi era evidente che il governo cinese avesse preso le sue precauzioni. Con la scusa di assistermi per qualsiasi necessità, la società mi aveva messo a disposizione un assistente che veniva a prelevarmi all’aeroporto al mio arrivo dall’Italia, dormiva nel mio stesso albergo e non mi lasciava se non al gate di imbarco al momento della partenza”. Ma non continuò così, la fiducia fu conquistata sul campo, e la marcatura stretta di impronta comunista cessò: “Con il passare del tempo, venute meno all’apparenza le esigenze di controllo, l’assistente si limitò ad essere presente solo quando effettivamente serviva”. Come per accompagnarlo “a visitare impianti industriali, e zone della Cina che probabilmente neanche lui aveva mai visto”. Ne nacque “una relazione umana fatta anche di scambi d’opinione sulla società cinese”. Questa notazione personale dà un sapore speciale alla importante vicenda manageriale.
Non si sarebbe mai aspettato Bernabè di trovare un’altra affinità con l’Eni, di certo indesiderata, “la Tangentopoli cinese” e, data la sua posizione di responsabilità dell’”audit” interno se ne occupò sia dal punto di vista legale sia investendo il management di PetroChina. E anche qui, come era stato all’Eni, in tanti cercarono di ridimensionare i fatti come “episodi isolati in un corpo sostanzialmente sano”.
Erano implicati l’ex vice-presidente e segretario del Consiglio di amministrazione Li Hualin, il geologo capo Daofu e un direttore esecutivo, Ran Xinquan; ma soprattutto l’ex presidente di Cnpc e PetroChina, Jiang Jiemin, che aveva lasciato l’incarico e se ne erano addirittura perse le tracce. Competenti delle inchieste negli organismi controllati dal governo sono le Commissioni per le ispezioni della disciplina che poi trasmettono alla magistratura i risultati, mentre per le grandi imprese di Stato occorre l’autorizzazione preventiva dell’organo politico, il Politburo. In questo caso l’inchiesta era partita proprio dai vertici politici e governativi per colpire Zhou Yongkang, sospettato di aver tentato nel 2012 un colpo di stato con l’ex governatore di una provincia petrolifera.
Risultato: Jang Jiemin viene arrestato il 1° settembre 2013 e nell’ottobre 2015 verrà condannato a 16 anni di carcere per corruzione e abuso di potere. Ma come nell’Eni c’era un “iceberg corruttivo”, anche lì quello scoperto non era un caso isolato, fu portata alla luce “la rete corruttiva di Zhou Yongkang” mediante cessione di giacimenti marginali difficili agli operatori privati che “ne sviluppavano la produzione e poi li cedevano nuovamente a Cnpc lucrando ampie plusvalenze”; è spontanea l’associazione di idee con le vendite di immobili di Telecom poi riaffittati alla stessa, ma forse ancora una volta stiamo “pensando male” e quindi “facciamo peccato….”. Ondata di arresti, “class action” per risarcimenti collettivi archiviata in seguito, e azione privata per danni, crollo azionario e successivo più stretto controllo sulle partecipate.
Commenta Bernabè: “Come era avvenuto per Eni, anche nel caso di Petrochina l’effetto dell’inchiesta era stato quello di riportare al centro la capacità di governo sull’intero sistema organizzativo e produttivo dell’azienda”.
Il “salto di specie”, da top manager a imprenditore
L’invito a entrare nel Consiglio di amministrazione di PetroChina era arrivato a Bernabè mentre era impegnato a livello imprenditoriale nelle attività che aveva creato o rilevato al termine della prima esperienza in Telecom, scottato dalla brevità del percorso troncato dalla scalata dei “capitani coraggiosi” e desideroso di un riscatto sul piano personale, anche se non aveva nulla da rimproverarsi: si era battuto fino all’ultimo, sconfitto dai finanzieri d’assalto con l’appoggio di governo e di altre istituzioni.
Una prima iniziativa fu la costituzione il 18 novembre 1999, con un investimento iniziale di 10 miliardi di lire e una propria partecipazione al 10%, insieme a Renato Soru – il creatore di Tiscali che nella bolla speculativa della new economy nel febbraio 2000 capitalizzava quanto la Fiat – di “Andala”, la società di cui assunse la presidenza, per partecipare alla gara sulle frequenze Umts per il radiomobile di nuova generazione. Furono acquisite le migliori competenze specialistiche con l’intento di “dare al cliente nuovi contenuti, andando oltre il servizio voce e i messaggi sms che caratterizzavano in quel momento l’offerta radiomobile”. Inizialmente fecero parte di Andala la Banca Imi e Rothschild, poi la svedese Ericsson, la Cir di Carlo de Benedetti e la Gemina Hdp di Cesare Romiti, insolitamente insieme in un’iniziativa: “Eravamo riusciti a infilare Silvestro nella gabbia di Titti senza che il gatto sbranasse il canarino”.
Per la gara il governo D’Alema aveva previsto la licitazione privata, e l’Autorità per le comunicazioni il prezzo minimo di 350-500 miliardi di lire per licenza, accessibile anche in previsione di ragionevoli rilanci; ma il successivo governo Amato, sulla base delle più recenti esperienze inglese e tedesca, alzò molto il tiro, ponendosi come obiettivo di incassare per le 5 licenze “non meno di 25mila miliardi di lire”: dunque il prezzo veniva decuplicato e la gara non era più alla portata della compagine creata, pur con soci prestigiosi.
E allora, dopo i primi contatti con Deutsche Telekom, si entra in trattative con la Hutchinson Whampoa, il colosso cinese di Hong Kong interessato alle telecomunicazioni mobili di terza generazione che acquisirà il 51%, di Andala, gli altri soci iniziali restano con varie quote, a Bernabè rimane il 2%. All’asta fu acquisita da parte di Andala una licenza per 6.500 miliardi di lire – “Amato aveva visto giusto sul prezzo delle licenze” – al quale si sarebbe dovuto aggiungere altrettanto capitale per gli investimenti. Erano esborsi insostenibili per gli italiani, quindi uscirono: Andala diviene H3G, con Hutchinson nel gennaio 2002 all’88% del capitale, l’attivissima “3” che si è fusa con Wind nell’attuale “Wind Tre”. Alla base c’è l’intuizione imprenditoriale di Bernabè con Soru, poi la crescita esponenziale con i cinesi ha portato all’attuale prestigioso operatore.
“L’esperienza da imprenditore mi entusiasmava – commenta Bernabè – La febbre della new economy, che sembrava così ricca di opportunità aveva contagiato anche me e l’occasione di intraprendere una nuova iniziativa si presentò quasi per caso”: la lettera di un giovane ingegnere, Luca Tomassini, che aveva lasciato la Telecom per mettersi in proprio dopo la scalata di Colaninno e soci. “Avviammo un progetto da cui nacque Kelyan, un’azienda tecnologica rivolta soprattutto al mercato delle imprese”, a Orvieto; la società fornisce soluzioni Ict e applicative gestionali orientate alla rete, già nel 2001 fatturava 18 milioni di euro, poi è cresciuta. Il gruppo Kelyan fu ceduto ad altro gruppo nell’ottobre 2009, al suo ritorno in Telecom.
Ma non finisce qui, nella sua nuova vita da imprenditore in proprio Bernabè, da azionista delle imprese di telecomunicazioni Netscalibur e Telit contribuisce alla loro ristrutturazione e alla successiva riammissione sul mercato, secondo l’impostazione di fondo per la quale quando le prospettive di sviluppo dell’azienda superano gli intendimenti e le possibilità dei proprietari va ceduta a chi può assicurare ad essa le risorse necessarie per sostenerne la crescita e non tenuta a vivacchiare; come per Andala che è divenuta, con la radicale mutazione nella “3”, una delle maggiori reti italiane. Ha attivato una consulenza finanziaria di qualità poi ceduta, per tale impostazione, alla Rotschild nella quale ha rivestito il ruolo di Vicepresidente di “Rotschild Europe” dal 2004 al 2007 realizzando importanti operazioni di M&A su scala europea.
Le sue attività di imprenditore sono riunite nell’”Fb Group” costituito nel 2000, alla prima uscita da Telecom: è una holding di “partecipazioni e management company” di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica, dell’Ict e delle energie rinnovabili, inizialmente con un partner ome l’Imi e successivamente Banca Intesa. Vi rientra alla seconda uscita da Telecom, e come “advisor finanziario” dei fondi di “private equity” Advent e Bain capital contribuisce ad acquisire ICBPI, banca specializzata nei servizi di pagamento creata dalle Banche Popolari, del cui Istituto diventa Presidente il 22 giugno 2016.
Dall’impegno manageriale al massimo livello e imprenditoriale in settori innovativi vengono tratte da Bernabè valutazioni preziose su quarant’anni di capitalismo, e non solo italiano, andando oltre il sottotitolo del libro. Ne parleremo presto concludendo la nostra rievocazione della sua odissea.
Info
Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 3 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito dal 20 al 22 novembre, il 5° e ultimo articolo uscirà il 24 novembre 2020.
Foto
Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono, secondo l’inserimento delle immagini nel testo: ilsole24ore.it, ansa324.it, ilsole24ore.it, camera.it. notizietiscali.it, corrierecomunicazioni.it, pinterest.it, worldarchitecturecommunity.org, tiscali.it, borto.net, bernabe.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato Telecom Italia dicembre 2007-aprile 2011, presidente esecutivo aprile 2011-
ottobre 2013; seguono, Bernabè amministratore delegato di Telecom Italia con Gabriele Galateri di Gemona presidente, e Bernabè presidente esecutivo di Telecom Italia con Marco Patuano amministratore delegato; poi, la Commissione Valducci per l’indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni e Vincent Bolloré, presidente del gruppo francese “Vivendi”; quindi, Palazzo uffici di Telecom Italia e l’impresa petrolifera cinese PetroChina; inoltre, la sede di PetroChina a Pechino, e Renato Soru, fondatore con Bernabè di “Andala” ; infine, La “3”, nata da “Andala” e, in chiusura, il Franco Bernabè Group.