di Romano Maria Levante
Nei giorni in cui ferve il dibattito sulla maggiore o minore incidenza delle restrizioni nelle festività natalizie, la dolente elegia del giornalista Gian Luca Rocco in morte del padre Gian Luigi, apprezzato psichiatra forense ghermito dal Covid a 71 anni, richiama alla meditazione, oltre all’omaggio commosso e alla partecipazione più sentita al suo dolore che diventa dolore di tutti. Dalla meditazione dovrebbe scaturire una ragionevolezza che sembra svanita in molti, mentre mai come in questo caso può essere salvifica.
L’elegia in prosa del collega Rocco risplende come una meteora luminosa nel buio della ragione che fa allentare il divieto di spostamento tra regioni e comuni – e vorremmo anche nel loro ambito – nei giorni fatidici di Natale e Capodanno per visitare genitori, nonni e persone anziane in modo da non lasciarle sole nelle festività dedicate agli affetti familiari; e soprattutto sta creando un clima nel quale chi pensa di non andare a trovare genitori e nonni per il “principio di precauzione” viene considerato ingrato senza cuore.
Ma è affetto sottoporre le persone fragili per età o patologie a un rischio che può essere mortale ed è comunque drammatico nelle forme gravi anche se non letali, a stare ai racconti dei sopravvissuti? E anche se il clima del Natale o dell’ultimo dell’anno può far prevalere al momento l’affetto sulla precauzione, subito dopo il congedo, con i saluti che culminano negli abbracci, non verrà il tarlo del timore per l’eventuale contagio che toglierà serenità sia all’anziano oggetto dell’affetto, sia ai più giovani che lo hanno nanifestato e non li lascerà nei giorni della pur improbabile ma non impossibile incubazione? E vale più la gioia di un abbraccio momentaneo oppure l’ansia successiva prolungata per giorni del pssibile contagio?
Il dottor Gian Luigi Rocco non si è sottoposto volutamente ad alcun rischio di questo tipo, non avrebbe voluto l’abbraccio del figlio nelle prossime festività, stava molto attento; ma per serietà professionale ha dovuto continuare a frequentare il tribunale come psichiatra forense di alto livello; e il tribunale è stato definito da Giulia Bongiorno – che pur attentissima nella vita personale pensa di esservi stata contagiata dal virus – una delle “zone franche in cui è impossibile difendersi” pur adottando tutte le precauzioni personali.
Sono “zone franche in cui è impossibile difendersi” anche i pranzi natalizi e i cenoni di Capodanno nell’ambito familiare se oltre ai conviventi si aggiungono presenze venute da fuori, sia dello stesso o di altro comune, siano o no aree a maggiore carica epidemica. E la possibilità di ammettervi i familiari più stretti, figli e nipoti, non è dare una “licenza di contagiare”, per non dire peggio, proprio a chi dovrebbe sentirsi ancora più protettivo verso chi è esposto? La ragionevolezza singola dovrebbe sopperire a questa sorta di impazzimento collettivo che rischia di fare dei giorni dedicati alla famiglia una temibile “livella”, ad opera di coloro che alla famiglia sono più legati, le cui vittime sarebbero i loro cari, e non basta fare gli scongiuri. Come ci si può proteggere con i distanziamenti e le mascherine nel pranzo di Natale e nel cenone di fine anno? E anche se fosse possibile, si esprimono così gli affetti familiari senza abbracci nè contatti? Non è meglio manifestare l’affetto a distanza nei vari modi consentiti, fino a una telefonata calda e affettuosa? Accompagnata da un regalo: l’assenza per non far correre un rischio evitable a chi è fragile ed esposto.
Ieri sera – su “La 7” nella trasmissione televisiva “Piazza Pulita” – lo scrittore Stefano Massini ha dedicato la sua settimanale allocuzione televisiva allo “spazio delle emozioni”, sottolineando da par suo come sono mortificate in questo momento critico fino a portare un uomo a sfogarsi di un litigio familiare percorrendo 400 Km a piedi e una donna andando a piangere in modo sommesso in garage per non farne accorgere le proprie bambine. “Stiamo contenendo le emozioni, le freniamo, le blocchiamo come la nostra vita sociale bloccata dal Dpcm. Ma dove ci porterà tutto questo?” Noi che ne abbiamo condiviso spesso le perorazioni, questa volta dobbiamo dare una risposta diversa dalla sua, che ritenendo le emozioni incontenibili spinge di fatto ad allentare restrizioni e cautele. E la troviamo nella appassionata perorazione di Rocco che ha voluto condividere le sue emozioni nate dalla più triste tragedia personale per lanciare un ammonimento.
Riporteremo le sue parole di alto valore umano e civile al termine di questa nostra breve nota introduttiva al suo ricordo espresso in un prosa, ma ispirata e poetica come un’elegia. Intanto vorremmo fare alcune semplici considerazioni. La prima è che tanta preoccupazione per le emozioni “bloccate” non considera che i blocchi in qualche misura deprecati ne hanno “bloccate” ben altre, quelle che ha dovuto patire Rocco nella tragedia della scomparsa del padre. E ben per Massini se ha avuto il virus nella forma più lieve e se l’è cavata in un mese di isolamento da asintomatico, con queste sensazioni declinate all’annuncio: “Ho il Covid: incertezza, attesa e solitudine sono i sentimenti prevalenti”. “Beato lui” – diranno Rocco e i tanti altri colpiti dalla sconvolgentre tragedialui – per questo Massini amplifica le difficoltà della “nostra vita sociale bloccata dal Dpcm” e sottovaluta indirettamente tutto il resto che non ci sentiamo neppure di rievocare.
Ma non viene considerato un altro aspetto, ed è qui la nostra seconda considerazione: il fatto che non si tratta di una condizione permanente, assolutamente insopportabile nella sua persistenza indefinita, cosa che potrebbe portare ad assumere dei rischi altrimenti evitati volentieri se fosse solo temporanea. Ebbene, la perorazione di Massini viene paradossalmente proprio dopo l’annuncio ufficiale – che segue le recenti anticipazioni sui vaccini in via di approvazione – del programma delle vaccinazioni contro il Coronavirus che iniziarebbero poco dopo la fine dei “blocchi” antifestività natalizie e di fine anno. Quindi i contagi ai familiari più cari che si potrebbero diffondere per non “bloccare la vita sociale” e non “contenere le emozioni” natalizie e di fine anno si manifesterebbero nei giorni in cui presumibilmente si comincerà a festaggiare l’uscita dal tunnel verso l’immunità. Torna in mente il finale di “All’Ovest niente di nuovo” con il protagonista colpito da una pallottola all’annuncio festoso della fine della guerra, incautamente si era spinto oltre il bordo della trincea. Chi vorrà fare la stessa fine? L’augurio è che siano pochi, speriamo nessuno.
Si dirà che la solennità natalizia può giustificare questo ed altro, è una ricorrenza sacra legata a una tradizione così radicata che ne ha fatto anche una solennità civile, mentre il fine anno ha il fascino connaturato con il passaggio al futuro con tutte le sue aspettative; di qui i festeggiamenti irrinunciabili. Ne conveniamo, ma in tempo di guerra non ci si è mai sognati di porsi problemi del genere, e il Natale lo si è festeggiato come si poteva, a distanza, con i poveri mezzi di allora, ora moltiplicati a dismisura, del resto si è sempre detto che questa è una guerra, sia pure asimmetrica contro un nemico invisibile. E se l’arma di difesa personale e di offesa al virus è evitare simili situazioni rischiose perchè non utilizzarla fino in fondo? Tanto più che, pur con il rispetto per la tempistica radicata nel costume e nella coscienza di tutti, la ricorrenza non è legata a un evento non ripetibile, al quale non si può mancare di assistere nel momento stesso, come alle apparizioni religiose e ai fenomeni naturali, quali le comete, le eclissi e altri analoghi.
I festeggiamenti con le famiglie riunite “in presenza”, quanto più allargate e affettuose, si possono benissimo rinviare al momento in cui i convenuti e convitati non faranno più correre gravi rischi ai più fragili di loro, e questo momento si intravvede in una prospettiva ravvicinata, i mesi si contano sulle dita di una mano, e neppure tutte. Questo non vuol dire ignorare la ricorrenza tradizionale, tutt’altro, ma viverla in modo diverso e anche intenso: come la “didattica a distanza” il “Natale e il Capodanno a distanza” facendo sentire la presenza in uno dei vari modi virtuali che oggi vivaddio sono possibili. La stessa Chiesa nella sua saggezza millenaria non si è trincerata sulla mezzanotte per la Messa natalizia ma l’ha anticipata di quattro ore proprio perchè l’ora della nascita del Bambino è una convezione per quanto radicata e sempre seguita. E se fosse stata annullata come è avvenuto per tutte le messe nel “lockdown” totale, sarebbe bastato ai fedeli assistere in televisione alla messa del papa nella Basilica di San Pietro, come già avvenuto nei mesi scorsi. D’altra parte Natale e Capodanno del 2020 vengono di venerdì, due “long week end” da vivere come tali, pur con intense telefonate augurali, rinviando pranzo e cenone ai tempi migliori che sembrano imminenti.
Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha così commentato la morte del compianto Gian Luigi Rocco: “Le persone morte di Covid non sono numeri. Vorrei ricordare questo bravo, grande medico, impegnato come tantissimi suoi colleghi nella professione medica, nel momento in cui si levano preoccupazioni e proteste più sui mancati festeggiamenti per le prossime festività che sulle cautele dirette a contenere la strage che ogni giorno si consuma a causa del Covid”. E ieri si è avuto il record dei decessi in Italia, quasi 1.000 in 24 ore. Abbiamo letto il commento del procuratore dopo aver scritto la nostra nota, precisiamo solo che le cautele di cui parla il dott. Cozzi sono quelle che “bloccano la nostra vita sociale”, per cui doverosamente e maggiormente dovrebbero e devono “bloccarla” in queste festività per i motivi anzidetti.
Ma lasciamo la parola a Gian Luca Rocco, per le sue conclusioni – che seguono con le sue evidenziazioni – prima di riprodurre interamente quella da noi definita “dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid 19”:
“Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica” . Ed ecco, riportate di seguito, “queste righe” che invita a leggere, con il loro titolo.
di Gian Luca Rocco
“Mio padre senza Covid avrebbe vissuto altri 20 anni. E c’è chi pensa al Natale e allo sci”
Il nostro collega Gian Luca Rocco ricorda così il padre, uno delle 993 vittime di ieri: “Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa allʼinferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi”
Uso questa foto perché è sfuocata, perché siamo noi e soprattutto perché siamo al Tempio, anche conosciuto come Stadio Luigi Ferraris di Genova. Un, anzi IL, campo da calcio, luogo (di provincia, a 5, a 7, polveroso, fangoso) che ci ha visto passare più tempo insieme. Ore, giorni, se li sommiamo, mesi. Oggi sono morte per il Covid-19 993 persone, mai così tante in un giorno. Gian Luigi Rocco era mio padre e, in modo poco originale, è stato uno di quei morti. Aveva 71 anni e, pur non potendolo definire “in forma”, non aveva nulla se non un lieve diabete. Fino al mese scorso, era stato in ospedale solo due volte (al Pronto soccorso per la precisione). La prima perché si era rotto il braccio giocando a calcio e la seconda per dei calcoli alla cistifellea, poi spariti con dieta e tanta plin plin.
Il 3 novembre il tampone è risultato positivo al Covid 19. Aveva il raffreddore da una settimana e perso gusto e olfatto. Il 6 novembre è stato portato al pronto soccorso di San Martino perché la sua saturazione era crollata. Durante la breve degenza, non lo hanno ossigenato, perché l’ossigeno era finito a causa dei troppi accessi. E’ stato 12 ore su di una sedia di un reparto traboccante di pazienti anche messi peggio di lui. Gli hanno fatto l’esame del sangue, una lastra e poi hanno deciso che insomma, non stava così male, nonostante una serie di asterischi vicini alle analisi che anche Pinco Palla dottore di Wikipedia avrebbe storto il naso. Hanno detto che dalla lastra forse c’era una lieve insufficienza respiratoria, ma niente di grave. Lo hanno rimandato a casa alle 20. Alle 20,30 aveva 40 di febbre e non respirava più. L’hanno portato di nuovo via, questa volta verso un altro ospedale. Il 3 dicembre, cioè quell’oggi che ora volge al termine, è morto, da solo, in un reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Galliera di Genova dopo oltre due settimane di rianimazione e altrettante di degenza (sempre da solo) sotto un caschetto cpap che faceva lo stesso rumore, quando cercavamo di parlare, di un sottomarino russo atomico, con tanto di bip. Appena entrato gli hanno fatto una TAC che sentenziava: broncopolmonite interstiziale bilaterale con il 70% dei polmoni compromessi.
L’ultima volta che l’ho sentito, alle 15,30 del giorno in cui è finito in terapia intensiva, abbiamo parlato (faticosamente) di Trump che non accettava il verdetto delle elezioni (la cosa lo preoccupava inspiegabilmente molto) ma soprattutto di Preziosi che non aveva venduto il Genoa. Lui mi ha ricordato che avremmo giocato la domenica alle 18 contro l’Udinese una sfida decisiva per la salvezza (persa, ovviamente).
Mio padre era un papà a volte distratto, ma sempre presente. Ci sentivamo ogni santissimo giorno alle 20 (cioè in realtà esattamente quando io stavo per iniziare a mangiare, manco avesse una webcam sopra di me). Due parole, giusto per ricordarci che c’eravamo sempre, anche a distanza. Abbiamo fatto tante cose insieme, forse più che tanti altri padri e figli. Abbiamo condiviso gioie e tanto dolore, forse più che tanti altri padri e figli. Non ho rimpianti, non li aveva nemmeno lui, ne sono certo.
Mio padre era un medico (ok, uno psichiatra e uno psicoanalista, facciamo finta che fosse anche un vero dottore, dai) preparato e attento. Metteva il suo lavoro al di sopra di ogni cosa. Ho odiato senza conoscerlo, ogni suo singolo paziente, perché senza una faccia e senza una voce, a volte sembrava contare più di me e di mia sorella. Ma crescendo ho capito anche che quella era una parte della sua vita fondamentale, come me e mia sorella. Mio padre era uno psichiatra forense eccezionale, forse uno dei più bravi in Italia. Non ha mai voluto le luci della ribalta. A parte “Un giorno in Procura”, dove non aveva scelta, non è mai finito in tv, nonostante i corteggiamenti serrati di diverse primedonne dei talk show. Diceva che se vai in tv, non segui i pazienti. O fai la soubrette o fai il medico, il clinico. Oggi questo discorso, è valido più che mai.
Mio padre era un marito affettuoso e fortunato. Ha amato due donne con tutto se stesso. Mia madre, morta prematuramente, e poi negli ultimi 19 anni ha avuto la fortuna di trovare un’altra persona con la quale condividere ogni aspetto della sua vita.
Mio padre era un nonno orgoglioso. Non era tanto capace, diciamocelo. Un po’ distratto se vogliamo, non certo il nonno che si metteva a giocare per ore con il o i nipoti, ma Beatrice, Leonardo e Ginevra erano la luce che faceva brillare i suoi occhi. Per tutti e tre aveva una sorta di adorazione cieca, proprio quella che contestava a suo padre quando mio nonno parlava di me o di mia sorella. La legge del contrappasso.
Mio padre era tante altre cose che nemmeno conoscevo. Magari amici, colleghi, persone che lo frequentavano in altre vesti, lo sanno anche meglio di me. Mio padre sarebbe ancora vivo e probabilmente, nonostante una forma scadente e un girovita abbondante, lo sarebbe stato per i prossimi 20 anni se non ci fosse stato e se non si fosse preso il Covid.
Perché mio padre diceva che stava attento, ma riceveva i pazienti. Che metteva la mascherina, ma andava in Tribunale. Che insomma, non poteva stare in casa, aveva cose da fare, persone da vedere. Mio padre non c’è più, ma là fuori ci sono ancora persone che si lamentano perché Natale lo faranno da soli. Perché non possono andare al ristorante, perché non possono inforcare gli sci, perché è tutta una truffa, una dittatura sanitaria orchestrata, tra l’altro, non si sa bene da chi. Bene, pensate che nel 2021 tornerete a fare tutte queste cose con i vostri cari. Mio padre non potrà più. Noi non potremo più.
Scrivo, e se volete condividetelo, anche per questo. Perché una piccola sofferenza oggi (se sofferenza si può chiamare la distanza per un periodo limitato dai propri cari, il rispetto di misure minime di precauzione, l’idea che sia un anno, un periodo particolare), vi può risparmiare una grande sofferenza domani. Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa all’inferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi. L’impossibilità di vedere, salutare, abbracciare il proprio caro. L’attesa di una telefonata per sperare in qualche miglioramento. Seppellirlo sapendolo in un sacco come un soldato in guerra (ironia della sorte, nemmeno aveva fatto il servizio militare), magari vestito con il pigiama sporco con cui è morto.
Non ho rabbia, non ho rancore. Non mi sento nemmeno una persona sfortunata, né posso dire che mio padre lo sia stato. E’ persino riuscito a finire di leggere il libro che suo figlio e sua nuora hanno scritto. Abbiamo avuto tanto, abbiamo dato tanto. Papà non credeva in Dio, al massimo in Freud, ma diceva sempre (parafrasando Epicuro): “Non ho paura della morte, perché dove ci sono io non c’è lei e dove c’è lei, non ci sono io”. Oggi lui non c’è più, e la morte al massimo ce l’ha lasciata un po’ addosso.
Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica.
Info e Photo
Il commosso scritto di Gian Luca Rocco, con l’immagine insieme al padre Gian Luigi in un momento felice prima della tragedia causata dal Covid, è stato tratto dal sito di TgCom24, che si ringrazia.
I due articoli – dello scrittore giornalista Romano Levante in risposta al precedente articolo scritto dal giornalista Gian Luca Rocco a seguito della perdita del padre Gian LuIgi per coronavirus – lasciano, a chi li legge, un cuore colmo di dolore e di infinito amore per chi si ama, di amarezza e di rabbia nei confronti di questa pandemia che sembra non avere pietà per nessuno; ma soprattutto nella sua bieca e feroce crudeltà, probabilmente senza volerlo, questo flagello insegna a chi desidera imparare e capire una fondamentale verità sull’egoismo e sull’altruismo.
Non desidero entrare nel merito dei due argomenti per non dilungarmi, ma quello che desidero esprimere oltre ai veri e sentiti complimenti sugli articoli dei due giornalisti, è il senso di superficialità da un lato e di propaganda elettorale dall’altra che in questo particolare momento di difficoltà e di pericolo mi sembra non solo inopportuno ma crudele, cinico e fuori luogo.
C’è un pericolo che si deve e si dovrebbe affrontare con tutte le precauzioni che vengono richieste per salvaguardare noi e gli altri. I falsi sentimentalismi di unità familiare che emergono solo in determinate circostanze non fanno che creare un vero disservizio sociale e un malcontento che non aiuta di certo a risolvere il problema. Penso che di fronte ad una calamità del genere TUTTI dovrebbero adottare un’unica linea di comportamento utile alla salute delle persone e rinviare a tempi migliori i cartelloni pubblicitari delle diverse correnti. In questo momento non dovrebbero esistere diversità di opinioni sulla tutela da questo “mostro”, ma un solo metodo per salvaguardare un popolo composto da giovani e “putroppo” – o meglio “per fortuna” – da persone anziane che rappresentano non lo scarto ma la ricchezza, la saggezza, l’esperienza di un mondo che dovrebbe ringraziare di averle ancora in vita. Ci sono tantissime persone che lavorano ogni giorno scrupolosamente alla soluzione di questa guerra, il cui nemico è invisibile, perciò noi dobbiamo avere fiducia e speranza e molta pazienza. L’attività economica riprenderà, con non poche difficoltà, ma riprenderà, mentre la morte non consente nessuna ripresa.
La pandemia c’è – non si conosce ancora bene e a fondo la sua origine – e noi dobbiamo tutelarci stringendoci con fatica in periodi di difficoltà e sacrifici uniti e non in guerra tra di noi, ma insieme per sconfiggere un virus che vedrà la sua fine solo nell’intelligenza e nell’unità di una popolo.
Nel commento di Anna più che la sua fine vena poetica, espressa in tante delicate poesie, si avverte lo sfogo del suo senso di umanità sconvolto da una tempesta senza fine, inaudita nelle sue modalità: la guerra contro un nemico invisibile che nelle società del mondo intero ha rimesso in discussione ciò che era acquisito da tempo immemorabile e ciò che è il portato della civiltà moderna, ponendo angosciosi dilemmi sulle priorità imposte dall’emergenza rispetto a priorità radicate nel costume e nell’anima delle genti. Tutto questo fa nascere una selva di problemi che vengono affrontati con affermazioni di facciata, su cui tutti appprentemente concordano, cui corrispondono i fatti spesso in palese dissonanza. Come sulla priorità della salute sull’economia, la solidarietà generazionale, e tanto altro ancora. Lo sfogo di Anna accenna all’egoismo e all’altruismo e poi, pur senza farvi riferimento, parla dei giovani e degli anziani, mi fa venire in mente di collegare l’egoismo delle “movide” dei giovani che mettono a rischio gli anziani nel tornare a casa, all’altruismo di tanti giovani volontari che li assistono nel loro prudente isolamento. Dallo sfogo alla denuncia, Anna mette il dito nella piaga natalizia, se così si può definire, cui si riferisce l’accorato appello di Gian Luca Rocco; e non parla tanto di leggerezza nell’anteporre la tradizione del pranzo di Natale al “principio di precauzione” come ho fatto nel mio scritto; ma di colpevoli confusioni e soprattutto dei sentimentalismi di unità familiare che definisce falsi perchè vengono rispolverati solo in certe circostanze, mentre i “cartelloni pubblicitari” che lei cita evocano sia il consumismo delle spese natalizie sia le diverse correnti, credo anche politiche, con la ricerca del consenso e la motivazione economica prima di tutto. Ma l’economia può riprendere, ammonisce, la vita no, se non la si protegge, Gian Luca lo ha raccomandato nel suo dolore. E conclude che il virus si sconfigge solo con l’intelligenza e l’unità di un popolo. “Intelligenti pauca” si diceva una volta, ma il nostro è un popolo intelligente? Ed è unito? Ci piacerebbe che fosse l’uno e l’altro e lo dimostrasse in questa emergenza, con Anna vogliamo sperarlo.
Nei giorni in cui ferve il dibattito sulla maggiore o minore incidenza delle restrizioni nelle festività natalizie, il Levante richiama alla meditazione del giornalista Gian Luca Rocco in morte del padre Gian Luigi apprezzato psichiatra forense di 71 anni colpito da Covid associandosi al dolore con ragionevolezza che sembra svanita in molti.
Descrive, poi, a suo modo, illuminato dal suo dire con correttezza e stile da vero giornalista trattando il divieto di spostamento tra regioni nei giorni di Natale e Capodanno per la necessità di visitare genitori, nonni e altre persone bisognevoli di assistenza da non lasciare sole nelle festività, nel rispetto degli affetti familiari.
Accenna al contagio che riesce a togliere serenità non solo all’anziano ma a tutti, chiarendo che il dott. Gian Luigi Rocco non si è sottoposto ad alcun rischio, che stava molto attento, anche se per serietà professionale ha dovuto continuare a recarsi in tribunale.
La ragionevolezza singola dovrebbe sopperire a questa sorta di impazzimento collettivo ad opera di coloro che alla famiglia sono più legati, le cui vittime sarebbero i loro cari, mentre ci si deve proteggere
con i distanziamenti, le mascherine ed esprimere gli affetti familiari senza abbracci né contatti, utilizzando i modi consentiti, come una telefonata calda e affettuosa.
Stiamo contenendo le emozioni, come la nostra vita sociale bloccata dal Dpcm che abbiamo condiviso spesso e questa volta dobbiamo dare una risposta diversa che ritenendo le emozioni incontenibili spinge di fatto ad allentare restrizioni e cautele.
Non viene considerato un altro aspetto, che non si tratta di una condizione permanente, cosa che potrebbe portare ad assumere dei rischi evitati volentieri se fosse solo temporanea. Ebbene, la perorazione di Massini viene paradossalmente proprio dopo l’annuncio ufficiale sui vaccini in via di approvazione contro il Coronavirus che si manifesterebbero nei giorni in cui si comincerà a festeggiare l’uscita dal tunnel verso l’immunità.
La solennità natalizia può giustificare questo ed altro, è una ricorrenza sacra legata a una tradizione, il fine anno ha il fascino del passaggio al futuro con tutte le sue aspettative; il Natale lo si è festeggiato come si poteva, a distanza, del resto si è sempre detto che questa è una guerra.
I festeggiamenti con le famiglie riunite, quanto più allargate e affettuose, si possono benissimo rinviare al momento in cui non si correranno gravi rischi e questo momento si intravvede in una prospettiva ravvicinata.
Questo non vuol dire ignorare la ricorrenza tradizionale, tutt’altro, ma viverla in modo diverso e anche intenso: come la “didattica a distanza” il “Natale e il Capodanno a distanza in uno dei vari modi virtuali che oggi sono possibili.
La stessa Chiesa nella sua saggezza millenaria non si è trincerata sulla mezzanotte per la Messa natalizia ma l’ha anticipata di parecchie ore proprio perché l’ora della nascita del Bambino è una convezione, anche se sempre seguita.
A questo punto il Levante lascia la parola a Gian Luca Rocco, per le sue conclusioni – che seguono con le sue evidenziazioni – prima di riprodurre interamente quella che viene definita “dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid 19” ed io invito i lettori a seguirne il contenuto come ho fatto anch’io accogliendo il suo invito e leggendo anche i due commenti che vi sono riportati.
Voglio solo aggiungere qualcosa di personale, quello che sento di dire con la mia cultura e religiosità che mi animano e lo voglio dire riconoscendo, innanzitutto, le qualità professionali e personali del Levante, che unisce l’utilizzo del suo pensiero alla capacità di esprimersi con proprietà, completezza e sincerità, riuscendo a creare servizi brillanti su qualsiasi tema anche per la spiritualità
Esempio ne sia riconoscere alla Chiesa la sua saggezza millenaria di comportamento, non trincerandosi sulla mezzanotte per la Messa natalizia, spostando di diverse ore la celebrazione della nascita del Bambino che è solo convenzione.
Spinto proprio dal suo dire, in me si è risvegliata la mia religiosità nel vedere la Chiesa inizialmente insicura, ma subito indirizzata dal Papa a rafforzare la Sua preghiera e a stimolare l’umanità a farlo, consapevole della sola Misericordia di Dio atta a proteggerci. Con piacere, infatti, nella Parola del Papa, ci ha colpito il suo dire “La preghiera ossigena il cuore” nel corso della Santa Messa trasmessa in TV, risvegliando il nostro intelletto nel bisogno di pregare sempre e non solo quando se ne ha motivo.
Il coronavirus ha mutato il nostro modo di vivere, condizionando anche la nostra mente e il nostro spirito, senza riuscire a privarci dell’affetto che continua ad animarci.
Considero un regalo dell’Anno Nuovo leggere l’adesione all’appello di Gian Luca Rocco e mio, di un lettore attento e appassionato come Francesco, al quale non sfugge ciò che possa colpire la sensibilità individuale e che attiene alla vita sociale. Francesco, con una generosità da me immeritata di cui lo ringrazio, sottolinea alcuni aspetti cruciali, di cui ho parlato, del rapporto tra festività e affetti familiari divenuto conflittuale mentre è stato per secoli intimamente connaturato alle riunioni festose nel Pranzo di Natale e nel Cenone di San Silvestro; è uno dei tanti paradossi come quello per cui il nemico che “ti ascolta” ora è il familiare più stretto e più caro, potenzialmente asintomatico, quindi possibilmente contagioso. Basterebbe un semplice rilevatore della positività, come quello sulla “saturazione” o sulla glicemia, per eliminare la probabilità, limitata ma putroppo esistente, del contagio, la scienza non ci ha regalato un tale strumento, apparentemente più semplice del vaccino, e di questo sono molto deluso e penso lo siamo tutti. Ma Francesco approfondisce il tema religioso con la sua sensibilità e cita le parole di Papa Francesco secondo cui “la preghiera ossigena il cuore”; ora la “saturazione di ossigeno”, l’ossigenazione, è il segno dell’allontanamento della micidiale carica virale, se questo vale per il corpo conta anche per l’anima, assistita dalla preghiera. Non è “ora et labora” una massima secolare? Applichiamola lavorando per superare quest’incredibile impasse che ha bloccato la nostra vita, aiutandoci con la preghiera per “ossigenare” il nostro cuore, anche chi non è credente potrà farlo. Con queste parole che mi hai stimolato, caro Francesco, ti auguro un felice Anno Nuovo e ti ringrazio ancora.