17^ Quadriennale d’Arte, 2. “Fuori”, inizia la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Inizia il nostro racconto della galleria di opere dei 43 artisti presentati al  Palazzo delle Esposizioni  con la mostra “FUORI” , dalla  Fondazione Quadriennale di Roma nella  17^ edizione della Quadriennale d’Arte, curata dal direttore artistico della Fondazione Sarah Cosulich  con Stefano Collicelli Cagol, selezionatori degli artisti. Ha collaborato con la Fondazione nel realizzare la mostra l’Azienda speciale Palaexpo, ha dato il suo contributo il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo. La mostra, aperta il 20 ottobre 2020  e chiusa a lungo per la pandemia, dopo la riapertura del 4  febbraio 2021  per i giorni feriali, si potrà visitare fino alla primavera;  ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Il Catalogo, bilingue, è della Treccani.

Micol Assaël, “Stone Broken Circuit” , 2016-20

Abbiamo già indicato sommariamente l’impostazione e le  motivazioni  della mostra sulla base di quanto contenuto nella presentazione dei due curatori, dalle cui argomentazioni abbiamo cercato di trarre, invero con qualche difficoltà data la materia spesso imperscrutabile, quello che ci è sembrato l’essenziale, non risparmiando un  giudizio critico su alcuni passaggi: in sintesi, i quattro “vertici del perimetro” della mostra, aperto all’esterno, sono Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali  e l’Arte italiana, con tre” linee di ricerca” già illustrate: il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. E abbiamo cercato di precisarne i contenuti,  nella nostra interpretazione di quanto indicato nel Catalogo.

Le interpretazioni e i contenuti indecifrabili, l’effetto spettacolare

Siamo giunti al momento di confrontare  la sensazione ex ante tratta dalla sintesi iniziale del  Catalogo con quella analitica ex post. Lo faremo descrivendo le opere esposte dai 43 artisti sulla base delle interpretazioni fornite dai due curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, nonché delle schede illustrative che sono particolarmente ampie e, come si dice con un orribile neologismo, esaustive.

Micol Assaël, “Reality is Not Contemporary” , 2020

Ma proprio tale loro caratteristica positiva sottolinea e approfondisce ulteriormente il solco tra la visione del visitatore –  al quale possiamo aggiungere il cronista –  e quella del curatore e del critico.  Infatti  i significati e i contenuti sono indecifrabili e spesso sorprende quando vengono descritti con parole  e iperboli inenarrabili  che vanno oltre  l’immaginazione, quindi ben al di là della  comprensione. Da semplici cronisti ne daremo conto  fedelmente,  confessando che non  riusciremo a trattenere le nostre reazioni istintive, lo premettiamo, nessuno è perfetto….

Ciò detto, però, va aggiunta una considerazione fondamentale. Al di fuori delle interpretazioni e dei contenuti  la mostra ha una straordinaria forza spettacolare. Le opere esposte hanno un impatto visivo intrigante  e coinvolgente al quale nulla toglie l’indecifrabilità, anzi aggiunge quel tocco di mistero che spinge il visitatore a dare sue interpretazioni senza peraltro potersi avvicinare alla lettura dei “sacerdoti” che sanno, solo loro, decifrare i geroglifici…   

Chiara Camoni, “Kabira” , 2019

Sebbene negli intenti dichiarati affondi spesso nel passato, come impressione immediata nell’approccio visivo suscita la stessa sensazione della 16^ Quadriennale “Altri tempi, altri miti” del 2016,  che definimmo “un salto nel futuro”. Ed è quello che conta per una grande mostra di arte contemporanea, quindi possiamo dire “missione compiuta” anche in questo anomalo 2020-2021; anzi soprattutto ora,  risultando la maggiore esposizione nel suo genere, l’unica a livello internazionale della sua caratura.     

Nei nostri commenti sui singoli artisti e sulle loro opere, ripetiamo, citeremo le interpretazioni dei curatori quando disponibili – e lo diremo espressamente –  e quelle delle  schede illustrative che riporteremo virgolettate, delle volte senza indicare la provenienza dalla scheda avendolo già detto ora per tutte.

Chiara Camoni, “Senza titolo (una tenda)”, 2019

Ciò premesso, apriamo la nostra  galleria espositiva iniziando da  Micol Assael, la cui opera “Stone Broken Circuit”  2016, è un  circuito elettrico di bachelite definito dalla Cosulich  “una potente mappa mentale di opposti: da immagine simbolo di conducibilità  il circuito diviene, attraverso l’uso di un materiale isolante,  corto circuito mentale”. 

In questa ottica si collegano leggi fisiche e visione filosofica,  i dadi sparsi indicano la casualità,  il circuito è come lo spago del gioco della matassa in mano al visitatore. Forse  lo giudicherebbe un gioco, se i voli pindarici interpretativi non lo riportassero alla realtà sorprendente dell’arte contemporanea, alla quale si riferisce esplicitamente un’altra opera, intitolata appunto “Reality is Not Contemporary” 2020;  è una finestra con polvere, mentre è un libro l’opera intitolata “Free Fall in the Vortex of Time” 2006, un “vortice”…  di 14 anni.  

Cuoghi Corsello, “Anima diversa”, 2019

Non sembra un gioco, sebbene nella scheda le opere di Assael…. “mettono in gioco  aspetti cognitivi e sensoriali coinvolgendo il pubblico  in situazioni impossibili da prevedere e controllare assumendo la fisionomia di veri e propri esperimenti”. E dinanzi ad essi non si può restare in situazione passiva: “I lavori della  Assael provocano e contemporaneamente impongono un ’interazione da cui potrebbe scaturire un disagio psicologico  causato  da uno stimolo fisico”.  Provare per credere, intanto non possiamo negare che il “disagio psicologico” lo proviamo già nel leggere queste parole magniloquenti. 

Anche nell’opera di Chiara Camoni, “Senza titolo (una tenda)” 2019,  la curatrice vede il gioco della matassa, questa volta da parte della natura, con “le impronte liquide di fiori e piante selvatiche a imprimere la  tela” per la grande tenda simbolo di “protezione collettiva, in continuità con il considerare la creazione artistica un gesto comunitario”; l’altro curatore osserva che viene considerata   “l’arte come bene comune”. 

Cuoghi Corsello, “Adoro diventare una principessa”, 2020

Secondo la scheda, la Camoni “ si prende cura degli oggetti trovati, dei processi naturali a cui sottopone i materiali che usa, delle persone che coinvolge nella propria pratica e  delle forme che reclamano la sua mediazione per materializzarsi”. Sembra semplice, ma non è così, si innesca un processo imperscrutabile: “Il recupero della dimensione spirituale dell’individuo crea delle sacche di resistenza morale e passa attraverso  l’esplorazione di una dimensione intima, uno spazio partecipato, un tempo di creazione e di fruizione che diventa  lento e di cui mettersi in ascolto”. Chi saprà farlo?

Oltre all’opera citata, della Camoni abbiamo “Kabira” 2019: un grande cavallo nero, con lunghe collane di pezzi di creta assemblati,  dà l’impressione di poter  essere “abitato” come “riparo e capanna”,  una riedizione… pacifica  del Cavallo di Troia. Aggiungiamo quest’associazione di idee all’interpretazione di curatori e scheda.

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Simone Forti, “Zuma News” , 2014, # 1, fotogramma video

 “Cuoghi  Corsello”  sono due artisti ma non formano un duo, non c’è la congiunzione tra i loro nomi. Hanno rivisitato spazi industriali abbandonati occupandoli e trasformandoli in studi d’artista  e in dimore temporanee, ed eccone l’effetto secondo la scheda: “L’atto dell’occupazione raccoglie intorno a Cuoghi Corsello  una comunità reattiva  e riunita ma non  viene vissuto collettivamente, bensì con il rimando a una dimensione domestica e intima”.  E’ la dimensione di  “Anima diversa” 2019: un viso quasi in dissolvenza  emerge in tinta spray su una moquette,  che “in mostra si srotola come un papiro, una sacra scrittura”.

Cosa evocano Cuoghi Corsello? Per la Cosulich “mondi altrettanto familiari eppure misteriosi, risultati di cortocircuiti in cui la narrazione è fuoruscita dall’opera per entrare nella vita degli artisti, e viceversa”, per Collicelli Cagol sono “immersioni negli incommensurabili sé”.  Non abbiamo solo un viso specchio dell’anima, ancheMutandine”, “Ciclamini”, “Tulipani” , del 2016, nella stessa tecnica, con questo intento preciso: “Il mondo  che ci circonda viene dissacrato e ripensato attraverso uno sguardo aguzzo e ironico e la creazione di  un’alternativa immaginifica popolata di icone che, facendosi risorse, generano una nuova grammatica”. Forse per questo chi, come noi, non la conosce, ne resta irrimediabilmente escluso.

Simone Forti, “Zuma News” , 2014, # 2, fotogramma video

Di  Simone Forti i video “Zuma News”  2014 e “A Free Consultation” 2016, il primo una sorta di danza nel cercare di recuperare dei giornali sulla spiaggia da parte dell’artista, che in genere si ispira al movimento degli animali. Per la Cosulich “usa il corpo  come elastico primordiale e strumento d’avanguardia, anticipatore, sensibile a narrazioni private e ai cambiamenti nel mondo” , con l’aggiunta qui di sabbia e carta;  Collicelli Cagol vi vede “l’approccio multidisciplinare”.

Ci sono  anche 16 disegni su carta intitolati “Animal Study- Gorilla” 1990, risalgono a 30 anni fa le sue osservazioni sul modo con cui gli animali in cattività nello Zoo di Roma si misuravano con “lo spazio del confinamento”, nelle loro relazioni con l’esterno: disegni appena abbozzati, poche linee, quindi criptici per l’osservatore, come d’altra parte tante opere anche ben  definite dell’arte contemporanea.

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Irma Blank, “Bleu Carnac”,1992

Pur essendo la danza il suo campo – essendo coreografa e danzatrice, oltre che artista e scrittrice –  “Forti si allontana dalle coreografie strutturate della danza moderna in favore dell’improvvisazione e dello studio dei movimenti del quotidiano, descrivendo se stessa più come un’artista del movimento che come un’artista performativa”. 

Viene declinato ulteriormente tale concetto: “Pensare con il corpo per Forti  vuol dire relazionarsi con lo spazio, gli oggetti, i suoni, attraverso strumenti cinetici e visivi, stabilire un dialogo, domandare e rispondere al movimento con il movimento”.  Si deve  essere “artisti” per farlo, non ci  provi il volenteroso vsitatore.

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Radical Writings, Abecedarium 27-3-91″, 1991

Irma Blank  presenta “Bleu Carnac” 1992, 38 oli su tela dell’installazione al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, riadattata per il Palazzo delle Esposizioni, disposti lungo un corridoio nel quale si vorrebbero evocare gli “allineamenti megalitici” della località Carnac in Bretagna che dà il nome all’opera: “Quello che si crea è quasi un percorso sacro, celebrativo, scandito dal ritmo creato dal colore e dalle pause tra una tela e l’altra”.

Vediamo  uno dei “Radical Writings, Abecedarium”  1991 che vi sono inseriti. Ed ecco l’interpretazione della Cosulich: ”La sua è una scrittura asemantica, svuotata di significato culturale e riempita di significato metafisico, autonomo nella sua potenzialità universale di insegnare a guardare e non a leggere… Non c’è figura nè figurazione nel suo lavoro ma un movimento trasformativo di linee che corrono parallele, imitano, in alcuni casi si intersecano”.  

Lydia Silvestri, “Sogno di una vergine araba”, 1970

Un minimo di decifrazione delle parole sulla Blank è necessario, non sappiamo se possibile. Forse tutto nasce dal suo trasferimento dalla Germania alla Sicilia con i problemi linguistici che ha approfondito tornando ai segni primordiali, “ogni segno tracciato risponde al ritmo della respirazione”. Si legge nella scheda:  “Il blu delle tele non è colore di sfondo o suggestione, ma è lo spazio megalitico stesso, che prende forma e pulsa al centro di Palazzo delle Esposizioni”. I visitatori lo potranno vedere, ma dubitiamo che penseranno allo “spazio megalitico”.   

Con  Lydia Silvestri irrompe  il desiderio. Per la Cosulich “nella sua dimensione di ossessione ripetuta”, la sua ricerca incentrata “sulla liberazione della sessualità e del desiderio, personifica un erotismo fluido di cui è sorprendente pioniera”; per Collicelli Cagol è “la fusione del maschile e del femminile, corpi i cui sessi e generi diventano  irriconoscibili”.

Lydia Silvestri, “He”, 1974

Sono riconoscibili, eccome, le sculture falliche in bronzo  della Silvestri come “He” 1974 e semigres come due “Incontro” 1981-83, preceduti da  “Sogno d’ambra”  e “Sogno di una vergine araba” del 1970 in cristallo, prima ancora da  “Aspide”  1969, una bella immagine di africana con collana e anello;  tornando ancora indietro nel tempo abbiamo i marmi “Ex voto – per un amore perduto e ritrovato” 1965 e  “Torso di G. FA”  1963 i quali, secondo la descrizione della scheda, “lasciano che l’atmosfera sensuale ed erotica pervada il tema sacro”.

Ma non si tratta di atmosfera sensuale senza altre implicazioni: “La dualità ambigua dei sessi, il rapporto attrattivo tra di essi  e lo scontro-incontro che in ragione di questo si scatena, viene esplorato dall’artista attraverso lo studio e la composizione di forme sinuose e conturbanti”.  Sono quanto mai esplicite le sculture falliche sopra citate, se  possono definirsi conturbanti potranno giudicarlo i visitatori, in base alla rispettiva propensione personale a siffatto coinvolgimento.

Halilaj-Urbano, “Work in progress”, 2020

“Il rapporto simbiotico tra sessualità e natura è incarnato dai  “Fiori giganti” di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, simbolo unico  di unione sentimentale, fisica e politica”, quella  tra i due artisti che hanno dovuto rinviare il loro matrimonio a causa del Covid. Così li presenta la Cosulich che aggiunge: “I tre livelli di lettura  di quest’opera  (ma possono essere molti di più) confluiscono  in un’unica immagine di libertà personale che appare al visitatore nella forma di un paesaggio fiabesco e protettivo”.

Nella scheda questo “paesaggio” spettacolare viene descritto così: “Halilaj e  Urbano invadono infatti le pareti e il soffitto di uno dei due scaloni interni al Palazzo delle Esposizioni con un bouquet di fiori giganti i cui petali, su tela dipinta o tinta, hanno delicate anime di acciaio”. Ed ecco il significato: “Testimoni dell’amore per la poesia simbolista, i fiori attestano la cura dell’altro, la fragilità della bellezza… l’uguaglianza dell’amore  in tutte le sue forme…”.

Halilaj-Urbano,“7 aprile 2020 (Quince)”, 2020

Sull’opera di Halilaj e Urbano si precisa che viene “reclamato” addirittura “uno spazio di visibilità e di affermazione di diritti”, premesso che i fiori sono “sospesi su uno scalone che negli anni Trenta era  palco per la propaganda fascista”. Ci sorprende tale inattesa evocazione: un tenero richiamo alla dolcezza della vita e all’amore, senza confini né barriere, sembrerebbe lontano da pulsioni di altro tipo, però non è così, l’ideologia porta lontano ma all’indietro dove il cuore non penserebbe mai di tornare….  

Dal collettivo di artiste – ne abbiamo  contate 13 italiane e internazionali –  Tomboys Don’t  Cry,  viene presentata “la loro ricerca sulla neutralità del linguaggio di genere e il loro focalizzarsi sulla lacrima come espressione del corpo universale transitorio  e liquido”.  Si definisce “un corpo polifonico di voci unite in un percorso che esplora l’idea di corpo nella sua presenza, latenza, ed emanazione”.

Tomboys Don’t Cry, “Training Coincidences”, 2017, di Dafne Ruggeri

C’è fisicità e linguaggio, emozione e desiderio, con le radici nella “ricerca intersesezionale queer femminista”.  La vediamo in “Training Coincidences” 2017, di Dafne Ruggeri, con le dita che incontrano sottili cactus spinosi in un’edizione di poster, e soprattutto in”Pravda” 2019,  dolente viso di donna  con basco nero  di Rada Kozelj, simbolo della lotta in Bosnia.

Nei video, come quello di Tarek  Lakhrisssi Gli alieni invadono la terra per sovvertire il capitalismo” – dove arriva l’ideologia! –   e nei disegni di Cinzia Ruggeri, che ritroveremo più avanti come “solista”,  si incontrano  “creature mutanti, al confine con l’extraterrestre”; fino ai poster grafici “Malelingue” di Idroletta in “un linguaggio di narratori fantasiosi” e agli “Stivali feticcio” di Eleonora Luccarini, “dispositivo accompagnato da 13 poemi”  che sono stati letti all’inaugurazione della mostra.

Tomboys Don’t Cry,”Pravda”, 2019, di Rada Kozelj

 “Nella minima distanza” è un’installazione – sempre del gruppo Tomboys Don’t Cry – datata 1990-2020, con una “serie di lenti a contatto usate dalle partner dell’artista”,  Collicelli Cagol parla di “Body Language” definendola “mostra nella mostra”  che “condensa in una temporalità e spazialità precise energie, pulsioni erotiche, forme sospese tra sarcasmo e coscienza della propria luminosità”. Non è poco, capirlo non è facile, né la serie di lenti a contatto aiuta a vedere…

Il tratto sottile a matita o a penna di Bruna Esposito  disegna “Due gabinetti pubblici  biologici”  e 2 “Espositoilette”  1987-88, “il suo progetto di bagni pubblici autosufficienti dai canali d’acqua non rappresenta solo una forma di architettura utopica ma è un modello di ecologia e rigenerazione che guarda all’idea di scarto umano come nutrimento, nell’ottica di un diverso tipo di ecosistema, interconnesso e interdipendente”: essendo dei gabinetti si immagina di quali “scarti umani” si tratti.

Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 1, disegno

Per Collicelli Cagol più semplicemente “spazi pubblici alternativi” nell’ottica dell’”Arte come bene comune”, mentre nella scheda si legge: “Quella che si crea è una fruizione scultorea di un luogo generalmente nascosto e appartato, in cui il corpo umano è inserito nella natura che contribuisce  ad alimentare, riacquisendo la propria posizione di equilibrio dinamico con l’ecosistema in cui è inserito”. Si resta senza parole dinanzi  a tale exploit descrittivo…

Il  protagonista involontario nella pandemia del Coronavirus e nel tremendo atto delittuoso che ha  dato avvio al Black Lives Matter, è alla ribalta con “Respiro” di Cloti  Ricciardi ,  presentato addirittura nel 1968  al circolo romano “La Fede”.  Secondo la Cosulich, “Ricciardi si interroga sul respiro dello spazio espositivo e sulla vitalità della creazione rispetto allo spettatore” , secondo Collicelli Cagol  “le pareti si sfaldano nel ‘respiro’”,  è la sala a essere antropomorfizzata  e a respirare attraverso l’azione del visitatore che muove i fili come un burattinaio.   

Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 2, disegno

La scheda precisa: “Respiro è una stanza rivestita da una grande tela che viene attivata dai visitatori tramite fettucce che, connesse  a un sistema nascosto di carrucole, fanno in modo che la stanza intera respiri, dilatandosi e contraendosi come un grande diaframma”. L’autrice “adotta una posizione che la porta ad analizzare il rapporto artista-opera d’arte-sguardo e a rivendicare lo ‘sguardo’ laterale delle artiste donne come strumento di consapevolezza  con cui scardinare e introdurre elementi di profonda modifica nella struttura simbolica dell’arte”.  Lo esprime “con uno spazio-corpo che si svincola dalle costrizioni e prevaricazioni del patriarcato, creando un nuovo terreno di interazione confronto con l’opera”. Ci sembrava di aver capito, fino al riferimento alle “prevaricazioni del patriarcato”, poi…

Altrettanto coinvolgente  è il “respiro” non di una stanza ma dell’intero Palazzo: per la Cosulich “con Norma Jeane  è il battito del cuore dell’artista stesso a far respirare il Palazzo delle Esposizioni” in modo ancora più spettacolare ed emblematico nei lunghi giorni di chiusura della mostra per il lockdown  dando il senso che continuava a vivere, e forse anche a soffrire.

Cloti Ricciardi, “Respiro”, 1968, # 1, l’artista al montaggio

Oltre a questi  “Battiti del cuore” , che fanno respirare” il “Corpo di fabbrica” nel 2020, l’artista anonimo “senza corpo, senza genere, senza biografia” – che come Norma Jeane ha preso il nome anagrafico di Marilyn Monroe evocandone la storia – “crea un disorientamento fisico, mentale  e temporale attraverso l’esposizione di oggetti e macchine della vita quotidiana a particolari condizioni di stress e fuori dal loro contesto”: da “Loops of Fury” e“Lady Loo/ Rrose Sélavy vs R. Mutt” , tra il 2004 e il 2006,  a ”ShyBot” e “Loony Park”, tra il 2017 e il 2019.  

Il visitatore  ne viene coinvolto, “uno degli aspetti fondamentali della sua pratica è infatti la rottura della barriera che divide l’artista dal pubblico”. In questo caso addirittura il pubblico non è quello dei visitatori, a mostra chiusa,  ma quello all’esterno, sono i cittadini che passano con le mascherine davanti al Palazzo delle Esposizioni.

Cloti Ricciardi, “Respiro”, 1968, # 2, inaugurazione a Napoli

Norma Jeane “non vuole far riferimento a sé ma alla relazione sempre più centrale tra corpo umano e tecnologia”, espressa negli elettrodi che collegano la sua frequenza respiratoria all’impianto di illuminazione del palazzo e “lo fa pulsare di notte, disorientando il rapporto tra vita biologica e artificiale”. Nella chiusura della mostra, del Palazzo e in parte della città dettata dalla pandemia , è un messaggio di vita, “una soglia liminale di passaggio tra dentro e fuori, tra lo spazio espositivo e quello della realtà, tra l’arte e la città”. E questo lo si vede e lo si sente, “chapeau”!

Cinzia Ruggeri, che abbiamo trovato prima nel gruppo Tomboys Don’t Cry, “pensa il corpo e veste il pensiero: il suo è un costante uscire disciplinatamente dalle discipline, incrociando sentimenti, disegnando libertà, concretizzando manie indipendentemente dalla categoria creativa a cui i suoi oggetti e abiti appartengono”, scrive la Cosulich. Moda e design, scultura e architetture sono collegate in quelle che Collicelli Cagol chiama le “riflessioni corrosive”  che fa l’artista “mettendo in scacco topoi dell’arte italiana, del made in Italy e dei costumi correnti”. Una sorta di  “ready made” tra il 1984 e il 1989, “Scarpe scale” e “Abito salame” , “Stivali Italia” e “Guanto borsa schiaffo”, fino al “Gioiello per lampadina”  1978-2018.

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Norma Jeane, “Loony Park”, 2019

C’è ironia nelle decontestualizzazioni che fa la Ruggeri degli oggetti, ma ci sembra esagerato far irrompere l’ideologia, come si legge nella scheda: “Gli ‘Stivali Italia’ (1986), per esempio, ironizzano sul concetto del made in Italy e contemporaneamente mettono in dubbio il valore dell’unicità, tramite lo sdoppiamento della penisola italiana”, e fin qui “nulla quaestio”, ma ecco la conclusione: “Il machismo insito nel sentimento nazionalista viene ribaltato da un’estrema femminilizzazione della geografia italiana”, forse dagli stivali maschili alla penisola femminile…

Anche in Maurizio Vetrugno   troviamo oggetti di moda che raccoglie per ispirarsi ad essi nelle sue composizioni inizialmente realizzate in set fotografici, poi in ricami di artigiani. Vediamo, in progressione temporale, l’incisione “I feel Mysterious Today”  e i polimeri su seta di “E’ più che bella” 1994-95, poi i ricami  a mano in filo di seta su tela “Patty Hearst” , “Nico Chelsea Girl” e “Divine I’m so Bautiful” del 2005,  Jane B.” e “Rolling Stones. Stocky Fingers” 2007.

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Norma Jeane, “Corpo di fabbrica”, 2020

Si legge nella scheda: “Artista concettuale in grado di dialogare con il glamour, Vetrugno ci invita ad individuare valori estetici al di là di quelli sanzionati dai confini della storia dell’arte, per rappresentare l’irrappresentabile”, con questa conclusione:  “L’artista è un autore virtuale che crea ipertesti di folgorante e onnivora bellezza”.  Lo fa mescolando icone dello spettacolo a persone sconosciute, spesso suoi amici, perché nei suoi ipertesti “l’importante non è tanto la riconoscibilità del ritrattato, quanto la raffinatezza del ritratto e la sua messinscena”, E ci sembra non solo condivisibile, ma addirittura ovvio, è questo che si è sempre ammirato nella ritrattistica anche se spesso i soggetti raffigurati sono noti e ben riconoscibili.

Giulia Crispiani è invece radicata nell’oggi più angoscioso, la pandemia del coronavirus che ha stravolto in modo disumano ogni socializzazione e, leggiamo nella scheda, “porta all’interno delle sale di Palazzo delle Esposizioni le pulsioni di una collettività, mette in scacco la visione autoriale dell’artista, pone al centro della discussione il desiderio e promuove, allo stesso tempo, la circolazione  di pensieri e idee all’esterno della mostra”. In pratica, espone le risposte a una lettera inviata a 60 amici e colleghi per superare l’isolamento, e un pallet di cartoni di pizza con stampata la lettera, 3000 distribuiti nelle pizzerie di Roma per consegna a domicilio. E’ “un’opera collettiva che si infiltra nel palazzo ma origina al di fuori di esso”.

Cinzia Ruggeri, “Stivali Italia”, 1986

Riguardo all’autrice dell’iniziativa, si legge che  “Crispiani si confronta con la tradizione dei movimenti femministi,  considerandone  la forza non solo oppositiva  ma anche contro generativa. Il desiderio e il piacere sono stampati nella sua riflessione come avviene nella raccolta di lettere mai spedite ma pubblicate ‘What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter’”  2020. Sono in mostra, non riusciamo a vederci la “celebrazione di un’erotica del fare  artistico che non rappresenti solo una visione individualista, ma un espediente per la cura reciproca, dove lo spazio della distanza diventa spazio del possibile”.

Con le sue ceramiche smaltate e  molte “piastre esposte a muro” Alessandro Pessoli “costruisce i propri dipinti come fossero dei collage materici e insieme concettuali”. Ne sono esposte molte del 2013, intitolate “L’ultimo impero” e “La Rivoluzione”, “Repubblica” e “Zombie Market”, “Autoritratto rosso” e “Futuro”, “Il sol dell’avvenire” e “la veglia”, ”Italietta” e “La mia gente che”.

Cinzia Ruggeri, “Gioiello per lampadina”, 1978-2018

Inoltre abbiamo, sempre in ceramica, le sculture che “ in modo tridimensionale e tuttavia pittorico, ne riprendono le atmosfere”, ”Kippenberg” 2012, “Ritratto di Zucca”e  “Il Paese (Periferia)” 2013. “La storia diventa per Pessoli un prisma attraverso cui guardare e capire il mondo contemporaneo: nei suoi lavori eventi e personaggi storici subiscono un processo di trasformazione che li radica fortemente nel tempo presente”.

Partendo da tali considerazioni, la scheda considera le sue opere “un catalogo di esperienze intime e collettive” in cui  – con uno “sdoganamento”  inatteso dopo la “damnatio memoriae” di quel passato –  risuonano echi di Umberto Boccioni, Arturo Martini, Mario Sironi, Fausto Melotti, il terzo è stato a lungo innominabile. Ma non basta, l’impostazione ideologica di cui si è detto all’inizio fa affermare che  “l’intento di Pessoli è quello di mostrare la percezione di un artista italiano di fronte al ventennio  berlusconiano, constatandole le conseguenze lasciate nella società”. Sì, in effetti anche quello “berlusconiano” è stato un ventennio, con “le conseguenze lasciate nella società”, però ci chiediamo  cosa c’entri…

Maurizio Vetrugno, “Ivy Nicholson/ Dahl-Wolfe”, 2004

Andiamo avanti. “Le partiture musicali di Sylvano Bussotti – scrive la Cosulich –  sono opere autonome,  pentagrammi sorprendenti in cui le linee si incrociano formando figure umane o geometriche, aperte all’interpretazione personale di cantanti e musicisti intenti a leggerli: un altro gioco della matassa, altre mani”. Secondo la scheda,  “l’eros, forza dionisiaca in grado di  liberare l’uomo, permea la sua arte come la sua musica, entrambe intese come  sensualismo e gestualità”.

La sua ricerca “segue la direzione di un’esuberanza sognante  e vitale, eppure elegantissima e colta”.  Si passa da “Il tappezziere”  del 1953, che mostra la schiena e il sedere nudo,  all’”Arlequin Poupi” del 1955, dal diversissimo “Autoquartetto (il quinto)” con partitura musicale e due volti  a “Il catalogo è questo” 1981 e “La vera foglia di Adamo” 1991.

Maurizio Vetrugno,“Divine, I’m so Beautiful”, 2006

“Autore poliedrico dalla “scrittura proliferante” – musicista e compositore, regista e artista –  Bussotti “immagina ogni singolo dettaglio della scena, per realizzare un ambiente dove musica, testo e scenografia si fondono seguendo la spregiudicatezza del desiderio, e pervertendo così la tradizione dell’opera d’arte totale”. Queste parole della scheda riportano alla visione interdisciplinare che è una della peculiarità della mostra; sulla pregiudicatezza e perversione… sarà colpa nostra non riuscire a sentirvi il desiderio.  

Prossimamente  proseguirà la nostra galleria della Quadriennale con altri 16 artisti, per terminare successivamente con i restanti 11 artisti.

Giulia Crispiani, “Rivolta”, 2019

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Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”, Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, il 1° è uscito in questo sito il 1° marzo,  gli altri 3  usciranno il 3, 4, 5 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  il 20 luglio, 12 febbraio 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016. Per gli artisti citati nel testo,  nel sito ora indicato, Boccioni 1° ottobre 2018,  Sironi  2 novembre 2015, 1°, 14, 29 dicembre 2014;  in cultura.inabruzzo.it, Sironi 26 gennaio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Giulia Crispiani, “Lettere”, 2020, parte di “Incontri in luoghi straordinari”

Photo

Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 3° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 2, 5, 14, 15, 16, 18, 20, 21, 27; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel testo, sono riportate all’inizio del 3° articolo. In apertura, Micol Assaël, “Stone Broken Circuit” 2016-20, e “Reality is Not Contemporary” 2020; seguono, Chiara Camoni, “Kabira“, e “Senza titolo (una tenda)” 2019; poi, Cuoghi Corsello, “Anima diversa” 2019, e “Adoro diventare una principessa” 2020; quindi, Simone Forti, “Zuma News” 2014, 1 # e # 2, due fotogrammi video ; inoltre, Irma Blank, “Bleu Carnac” 1992, e“Radical Writings, Abecedarium 27-3-91” 1991, e ancora, Lydia Silvestri, “Sogno di una vergine araba” 1970, e “He” 1974; continua, Halilaj-Urbano, “Work in progress” 2020, e “7 aprile 2020 (Quince)” 2020; poi, Tomboys Don’t Cry, “Training Coincidences” 2017 di Dafne Ruggeri, e ”Pravda” 2019 di Rada Kozelj; quindi, Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 1 e # 2, disegni; inoltre, Cloti Ricciardi, “Respiro” 1968, # 1 e # 2, l’artista al montaggio e inaugurazione a Napoli ; ancora, Norma Jeane, “Corpo di fabbrica” 2020, e“Loony Park” 2019; continua, Cinzia Ruggeri, “Stivali Italia” 1986, e “Gioiello per lampadina”, 1978-2018; poi, Maurizio Vetrugno, “Ivy Nicholson/ Dahl-Wolfe” 2004, e “Divine, I’m so Beautiful” 2006; quindi, Giulia Crispiani, “Rivolta” 2019, e “Lettere” 2020 parte di “Incontri in luoghi straordinari” ; in chiusura, Maurizio Pessoli, “La mia gente che va in pezzi” 2013.

Maurizio Pessoli, “La mia gente che va in pezzi”, 2013

17^ Quadriennale d’Arte, 1. “Fuori”, le ideologie e i contenuti, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Al Palazzo delle Esposizioni, con la mostra “FUORI”, la  Fondazione Quadriennale di Roma  presenta la 17^ edizione della Quadriennale d’Arte  con le opere di 43 artisti selezionati da due curatori, il direttore artistico della Fondazione Sarah Cosulich  e Stefano Collicelli Cagol. La mostra è realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, in collaborazione con l’Azienda Palaexpo per la sede espositiva. L’esposizione, inizialmente prevista dal 20 ottobre 2020 al febbraio 2021, a seguito della chiusura prolungata per l’inasprirsi della  pandemia  è stata  prorogata fino alla primavera 2021, dopo la riapertura dal 4  febbraio per i giorni feriali; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci.  Catalogo Treccani,  bilingue.

Il Palazzo delle Esposizioni, sede storica della mostra  

L’anomalia di una mostra chiusa poco tempo dopo l’inaugurazione per la pandemia Coronavirus consente di trarre dalla minaccia un’opportunità, pur se relativa, secondo l’imperativo manageriale che trasferiamo all’ambito artistico: rovesciare la modalità ordinaria che consiste nell’iniziare con  la visita alla mostra – magari documentandosi prima con  qualche  notizia di massima sugli artisti espositori  – per poi procedere all’eventuale approfondimento successivo sul Catalogo. Vale per il visitatore come per il cronista  che la racconta, anche nel nostro caso dopo le anticipazioni che abbiamo fornito nel luglio 2020 sugli artisti e sull’impostazione allorché è stata presentata la 17^ Quadriennale d’Arte “Fuori”.   

Un primo accenno all’interpretazione dell’arte contemporanea

In questa inversione di approccio passiamo subito all’approfondimento dei contenuti tramite il voluminoso Catalogo, cogliendo l’occasione per iniziare con la questione che si apre sull’arte contemporanea al visitatore e al cronista: annosa questione che nasce dalla lunga assuefazione al concetto che l’arte è l’espressione della bellezza, la quale, tra l’altro, salverà il mondo….   e non è stato facile superare un’idea così fascinosa rendendo l’arte espressione dei tormenti dell’artista e  del mondo esterno.

Romeo Castellucci-Socìetas

Ma per l’arte contemporanea tale evoluzione non basta, data  l’assenza di qualsiasi  limite, anche estremo, alla stravaganza, per cui vengono ritenute artisticamente valide espressioni che secondo la percezione comune  non sono altro che assurdità inenarrabili. Ed è qui che va portata la riflessione del cronista vicino al visitatore, senza la presunzione di certi critici nella loro torre d’avorio chiusa all’evidenza.  E l’evidenza è la sensibilità della gente comune che va semmai educata, non ignorata.

Il nuovo presidente  della Quadriennale di Roma – succeduto nell’ultimo anno a Franco Bernabè, che negli anni precedenti ha preparato la mostra – Umberto Croppi, anticipa l’impatto che si ha dinanzi alle opere esposte esordendo così: “L’arte non è rappresentazione del mondo… nel migliore dei casi l’arte ne è un’interpretazione, è un medium, è uno strumento rivelatore di essenze latenti. E’ una metafora. E quando l’arte è viva…  nel momento in cui si manifesta,  dispiega per intero questa sua capacità rivelatrice”.  Ma se deve rivelare, non può non avere il requisito della  comprensibilità e della accessibilità, anche se con i dilemmi da oracolo di Delfo.

  Sylvano Bussotti

Per questo forse Croppi afferma: “Sembra banale in questa sede sfatare il luogo comune  per cui l’arte contemporanea sia difficile da capire”, e lo spiega così: “Ogni produzione creativa è contemporanea al proprio tempo ed è semmai questo uno strumento per la sua comprensione”.  Addirittura,  non soltanto contenuto e significato delle opere sarebbero trasparenti, o comunque “non difficili da capire”, ma anzi aiuterebbero a comprendere la  realtà esterna ancora più criptica e incomprensibile della trasposizione artistica.

Accettiamo questo apparente capovolgimento della “vulgata” corrente secondo la quale la realtà si spiega con la sua evidenza, mentre l’arte contemporanea si sottrae alla comprensione sovvertendo ogni criterio interpretativo e valutativo.  E cerchiamo di  capirne  noi stessi, per comunicarlo ai lettori, il background culturale e artistico, affidandoci ai curatori della mostra; e riprendendo – alla fine della nostra narrazione degli artisti e delle loro opere esposte nella 17^ Quadriennale d’Arte –  il tema per noi basilare della comprensibilità, che le parole di Croppi non possono di certo esaurire.  

Anna Franceschini

Sarah Cosulich, dal “gioco della matassa” interdisciplinarietà e apertura

Facciamo  riferimento innanzitutto alle considerazioni introduttive dei curatori, cominciando da  Sarah Cosulich, direttore artistico della Quadriennale, scelta dal presidente che ha preceduto Croppi, Franco Bernabè, dopo una selezione in base al suo programma collimante con lo spirito della Quadriennale: la promozione dei giovani talenti con formazione qualificata e il loro sostegno anche all’estero.

Di qui sono nati i due programmi “Q-Rated” e “Q-International”, e  la lunga e attenta  ricognizione nel territorio che ha portato alla scoperta di energie artistiche valide e spesso ignorate, alcune delle quali sono tra i 43 espositori, insieme a “pionieri” degli ultimi sessant’anni  rivisitati perché in loro sono stati trovati  fermenti anticipatori del futuro che allora non erano percepibili.

Raffaela Naldi Rossano in primo piano, Diego Gualandris alle pareti

La Cosulich  collega le proprie argomentazioni al “gioco della matassa”, ricordando l’allestimento  dell’architetto Piero Sartogo della mostra  curata da Achille Bonitoliva nel  1970 sulla “Vitalità del negativo”: “I lunghi elastici a forma di X posizionati sopra la testa degli spettatori tagliavano  e abbassavano la sala che, con la volta oscurata, diventava incombente”. Ora questo le ispira “un ambiente fluido e aperto,  come parte di un paesaggio virtuale e futuristico in potenziale espansione”.

Si ha la sensazione che toccando i fili si generino conformazioni nuove  e diverse: “La Quadriennale d’arte 2020 non vuole rappresentare più solo una tensione, ma un’esplosione dei fili che possa dissolvere in modo metaforico il binarismo tra dentro e fuori e, in un rinnovato senso di connessione tra discipline, aprire al senso di trasversalità e di contaminazione”.  

Chiara Camoni in primo piano, Raffaela Naldi Rossano sul pavimento, Diego Gualandris alle pareti

In questa visione, “il gioco dello spago è simbolo di una Quadriennale che vuole aprirsi a nuove letture dell’arte italiana, procedendo non tanto per movimenti, ma partendo da immaginari interdipendenti costruiti da fili che  possono tendersi e  allentarsi senza mai delimitare uno spazio”. L’allentarsi dei fili senza delimitare lo spazio, insieme ai nuovi talenti, ha  fatto pescare fino a  mezzo secolo indietro, “inglobando nella contemporaneità, con uno spirito antigerarchico e multidisciplinare, anche approcci artistici d’avanguardia”: i pionieri cui abbiamo accennato.

Quindi un primo punto fermo, alquanto sorprendente:  nell’esaltazione della contemporaneità proiettata nel futuro ci si aggrappa alle opere d’arte lontane nel tempo e dimenticate, viste come  anticipatrici e preveggenti: “Significa partire da un passato da  riscoprire e ricontestualizzare e vivere il presente attraverso una possibilità di futuro difficile ma necessaria da considerare”.

Tomboys Don’t Cry

Un secondo punto fermo è che non ci si muove in un tempo  “linearmente progressivo”, ma attraverso “immagini interconnesse come quelle del gioco della matassa”, che investono diverse modalità espressive, e cancellano “i confini tra spazio interno ed esterno a favore di uno spazio fluido, narrativo, immaginativo e  aperto a nuove configurazioni”. 

Interdisciplinarità e apertura, dunque: la Cosulich inquadra le opere presentate dai singoli artisti in questa visione complessiva, ne parleremo ancora quando le passeremo in rassegna una per una.  

Lorenza Longhi

Stefano Collicelli Cagol, l’ideologia dalla “ riparazione”  e la critica sui “pionieri” 

Il co-curatore Stefano Collicelli Cagol  cerca una inaspettata quanto  improbabile  “riparazione”  delle origini del Palazzo delle Esposizioni, realizzato dal fascismo per la propria celebrazione con quattro Quadriennali, nel 1931, 1935, 1939  e 1943, inframmezzate da una  grande manifestazione sulla Rivoluzione fascista. Al riguardo cita “la Storia” di Elsa Morante per “giustificare“ che viene accettata  tale sede con un simile peccato originale, e come “riparazione” pubblica il documento del 1938 per l’esclusione degli ebrei dopo le leggi razziali dalla mostra del 1939, tra loro Corrado Cagli.

Comprendiamo la foga del curatore “newcomer”, ma ci sembrerebbe ingeneroso per le tante Quadriennali dal dopoguerra ad oggi volere e dover fare una “riparazione” soltanto adesso.  Non vorremmo che si ripetesse la “damnatio memoriae” degli artisti, e non solo, di quel periodo, come  Mario  Sironi presente nella prima Quadriennale e, in campo letterario, Gabriele D’Annunzio. Tanto più che il fascismo non volle creare “un’arte di Stato”,  quindi “di regime”, come documentato da Fabio Benzi nel  presentare la  mostra  da lui curata di recente alla Galleria Russo, “Margherita Sarfatti,  e l’arte italiana tra le due guerre”.  Comunque,  non si può tornare indietro rispetto ai  doverosi  “sdoganamenti”  susseguitisi negli scorsi decenni  rispetto al lungo ostracismo seguito alla foga iconoclasta che distrusse nell’immediato la scultura di Adolfo Wildt con il busto di Mussolini.

Lorenza Longhi in primo piano, Irma Blank in secondo piano

Ma forse la “riparazione” si deve al fatto che il Palazzo delle Esposizioni assume un ruolo centrale nella mostra. Sia nel senso visionario di Pasolini, che viene citato, di sede del potere quanto mai lontana dal popolo che resta “Fuori” – di qui il titolo della 17^ edizione – sia per i rapporti  tra arte e potere che vi furono consumati. Oltre al Palazzo, gli altri “vertici del perimetro all’interno e all’esterno del quale ci siamo posizionati”sono Roma, le precedenti Quadriennali, l’Arte italiana.

Delle  Quadriennali del passato vengono criticati “passaggi fugaci o omissioni sorprendenti tra la generazione che, in questa mostra, chiamiamo pionieri”. Anche questo ci sembra ingeneroso dirlo ex post e sulla base di una impostazione ideologica che appare subito dalle immagini in apertura del Catalogo per riassumere l’ultimo decennio. Si pensi che c’è anche il leader del partito della Lega,  Matteo Salvini, fra le 30 immagini di apertura, e il curatore definisce la decade cui le immagini si riferiscono “di sovranismo rampante  tornato a esaltare in modo sguaiato e obsoleto  concetti come patria  e famiglia, su cui si regge la cultura patriarcale italiana”, poi parla  del “ritorno  di richieste di censimenti per le minoranze e di un vocabolario da ‘ventennio’ che si pensavano estinti”. 

Micol Assael in primo piano, Irma Blank  nella parete

Con questo pensiero dominante  vi sarebbe stato il rischio di un’impostazione ideologica, della scelta di artisti collimanti, in una sorta di inedita  “arte di Stato” che neppure il fascismo aveva promosso lasciando libertà agli artisti, a differenza del “Realismo socialista” imposto nei regimi dell’Est, come si è visto nelle mostre allo stesso Palazzo delle Esposizioni con la presidenza di Emmanuele F. M. Emanuele. Ma per fortuna “il gioco della matassa”, su cui la curatrice direttore artistico Cosulich  ha imperniato la propria presentazione, sembra rassicurare sotto questo aspetto.

I capisaldi della mostra secondo i due curatori

Vediamo allora come i due curatori insieme presentano la mostra, dopo aver riassunto le loro singole posizioni, ne riferiamo  precisando quanto accennato in precedenza al riguardo.

Micol Assael al centro, Irma Blank alle pareti

Il collegamento tra “pionieri” del passato e talenti di oggi è il più evidente, sono i percorsi “transgenerazionali”, con le “posizioni d’avanguardia” di allora affiancate agli “immaginari delle giovani generazioni”; inoltre i percorsi “transdisciplinari” con altre discipline – musica e teatro, moda, danza e cinema –  “in continuo dialogo con le arti visive”.

Si spera non sia troppo ideologico neppure “l’arricchimento dato alle espressioni artistiche da visioni queer, femministe, femminili e decoloniali della società e della sua organizzazione politica”, perché vi sono tante altre espressioni che hanno cittadinanza nella società, quindi  devono  essere presentate se hanno sbocco nell’arte. E speriamo non sia contraddittorio riferirsi alle “visioni indipendenti, a modelli artistici alternativi alle narrazioni dominanti”  limitandosi a citare la “radicalità del discorso femminista e omosessuale, transessuale non binario, che ha consentito un inedito approccio all’arte e alla sua tradizione”.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 1

A parte questo aspetto, si afferma che la scelta dei 43 artisti non ha seguito tendenze e correnti, ma individualità  e “soggettività” senza alcun “disegno identitario”, che hanno “condiviso uno spazio e un tempo poliedrico e niente affatto irreggimentato”:  non limitato, cioè, neppure alle “visioni” indicate come fossero le uniche meritevoli. Mentre il dubbio viene allorché si legge che la selezione degli artisti è stata effettuata in base alla loro “capacità di sconfinare  in ambiti non strettamente legati alle arti visive ed esprimere immaginari inquadrabili in una lettura più femminile, femminista  e queer”.

Il  rispetto dovuto alla libertà creativa degli artisti – che sembra fosse assicurato anche dall’aborrito regime fascista – non vorremmo fosse condizionato dalla scelta basata sulla coerenza ideologica, tanto  più  nelle opere create  per la Quadriennale d’Arte: ne minerebbe valore e significato.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 2

Ci auguriamo che non sia così, le parole della presentazione possono aver tradito le intenzioni oppure  essere state male interpretate da noi, nel qual caso chiediamo venia. Però diverso è avere in mente dei contenuti,  e selezionare i giovani artisti che si sono posti spontaneamente in tale lunghezza d’onda, come nella Quadriennale del 2016 con i suoi 10 percorsi curatoriali, dal selezionarli per la loro adesione a una visione ideologica, magari ex post con opere realizzate quasi su commissione.

Tornando ai contenuti della mostra, vengono riassunti in tre  parole,  il Palazzo,  il Desiderio, l’Incommensurabile. Naturalmente siamo incuriositi oltre che interessati ad approfondirne i risvolti.

Il Palazzo con il riferimento a Pasolini che denunciava  l’arroccamento della politica in un bunker chiuso alla società – il “Fuori” evocato dal titolo della mostra – è “la prima linea di ricerca”. Viene  presentato come metafora “in un momento storico che ha visto movimenti e partiti nati in opposizione al sistema del Palazzo entrare e impegnarsi nel governo del paese”; ma senza osservare subito, come avviene  dopo, che tali movimenti  di fatto sono diventati  connaturati al Palazzo come i partiti  preesistenti,  si afferma che “questa metafora diventa volano per legare alla vita politica momenti differenti della storia italiana e della Quadriennale. Potere e arte sono stati sempre uniti”.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 3

Questo è un male, ma lo è pure legare l’arte all’ideologia, non da parte dei singoli artisti, ma da chi li può condizionare in base alla posizione ideologica. “Il tema del Palazzo si declina anche nelle sfarzose feste in maschera nelle quali si sovvertiva  l’ordine  sociale e di cui ci sono rimaste ampie testimonianze”.

Si resta ancora di più senza parole per la conclusione: “La cosmesi delle feste è la medesima che aiuta di volta in volta a cambiare le narrazioni di una società, riposizionandola all’interno di una storia più complessa”. Tanto più che non si tratta di considerazioni generiche: “In questi diversi livelli di significati si è sviluppata la prima linea di ricerca della mostra”. Ci sembra una linea tutta ideologica, e siamo incuriositi di verificare come sarà declinata nell’arte.

Amedeo Polazzo   

Andiamo avanti, sperando di entrare “in più spirabil aere”, e forse ci siamo. La “seconda linea di ricerca”  vede al centro  “il Desiderio come espressione delle proprie pulsioni erotiche o ossessioni personali”. Viene visto come  “tematica queer, internazionale, di rivendicazione del proprio ruolo di artista indipendentemente dal genere”; e ci mancherebbe altro che l’arte dipendesse dal genere,  sono prove del contrario grandi artiste quali Arthemisia Gentileschi e Frida Kahlo, o  come Tamara de Lempicka, se si può citare un’artista del “ventennio”.

Ma qui ci si riferisce a una rilettura degli ultimi 60 anni di arte italiana con la lente erotica per concentrarsi sugli anni ’70 nel “forte movimento di autocoscienza tra gruppi femministi e circoli omosessuali e transessuali”, in chiave  trans-generazionale. Anche su questa linea di frontiera aspettiamo al varco gli artisti.

Alessandro Pessoli

Sembrerebbe ancora più criptica “la terza linea di ricerca”: “Il tema dell’Incommensurabile, di qualcosa che va oltre la capacità di misurare, di razionalizzare attraverso le parole  e il discorso”.  Questo ci riporta alla creatività dell’artista che deve sfuggire a collocazioni artificiose di qualsiasi tipo: “L’ossessione, la necessità di esprimersi come artisti al di là dei riconoscimenti sociali, culturali o economici”.  In altre parole: “L’indicibile che si fa forma o prende forme e mette in scacco la misurazione come elemento attraverso cui fare esperienza della realtà”. 

Ebbene, finalmente siamo d’accordo, vi vediamo  una bella definizione dell’arte contemporanea. Anche perché  si precisa subito dopo: “Per molti giovani artisti la principale sfida oggi è superare la rappresentazione del reale  in favore di nuovi immaginari  e forme in grado di complicare e arricchire la percezione della realtà e la relazione con essa”. Senza ingabbiarli in costruzioni ideologiche  preordinate, come quelle che abbiamo prima criticato, anche se l’ideologia fa parte della loro vita come ne fa parte ovviamente la realtà.

Maurizio Vetrugno # 1

Ed è chiaro che si tratta di “storie personali che si intrecciano a esigenze comunitarie” e le loro sensazioni, se tradotte nell’autentica espressione artistica, “si vogliono far provare e far vivere ai visitatori”. Ma se non è il caso di condizionare gli artisti lo stesso vale  per i visitatori, e allora perché  invitare “il pubblico a prendere posizione, cambiare postura e arricchire il proprio bagaglio di immagini?   Avverrà per la magia dell’arte, se  sarà autentica e  in tal caso – ci riferiamo ancora  al pensiero del presidente Croppi – non solo non è difficile da capire ma aiuta a capire il proprio tempo, purché non caricata di troppi pesi ideologici.

Ci fanno sperare che sia così, dopo i toni  ideologici che abbiamo criticato, le parole con cui Collicelli Cagol definisce l’esposizione: “Una mostra eccentrica, inaspettata e, ci auguriamo, bella”. E spiega quest’ultimo aspetto: “Bella perché la bellezza – in tutte le sue forme, anche quelle più respingenti – è stata da subito per noi il principale orizzonte, un filtro attraverso cui leggere l’arte prodotta dagli artisti italiani  – anche fuori d’Italia – per rinvigorire l’interesse del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea”:  e  ce n’è tanto bisogno, aggiungiamo noi, perché spesso è criptica e “respingente”.

Maurizio Vetrugno # 2

Ma la bellezza è un passepartout, anche se nelle forme “più respingenti” può non essere percepita. L’ansia  di contemplarla nelle opere esposte accresce l’interesse per la visita alla mostra, dopo la presentazione del Catalogo di cui abbiamo citato e citeremo i passaggi  più eloquenti e rivelatori..

Vediamo ora come tutto  si ritrovi nella esibizione degli artisti di cui – nel nostro servizio sulle anticipazioni date a suo tempo – fornimmo già qualche sommaria indicazione, sottolineando che 4 di loro erano già presenti nella 16^ edizione del 2016. Li descriveremo tutti, uno per uno, con le opere presentate,  e in questa  ricognizione ci faremo accompagnare dai commenti dei due curatori, che hanno inserito  le citazioni degli artisti nella loro presentazione della mostra, e dalle esaurienti schede illustrative. 

  Lisetta Carmi

Senza una guida simile – che andrebbe tenuta presente da tutti i visitatori – sarebbe forse impossibile e non solo arduo dare qualsivoglia interpretazione a gran parte delle opere esposte e all’intento degli autori: tanto indecifrabili nei contenuti e spesso nella forma che qualche volta  riuscirebbe difficile al comune osservatore persino ricondurre le opere all’arte. Sono esempi di arte contemporanea che non può essere compresa e interpretata  senza una spiegazione dell’intento recondito dell’artista che altrimenti resta, e lo vedremo, imperscrutabile ai più.   

L’allestimento di Bava,  connaturato all’impostazione ideologica 

Ci  prepariamo a entrare nel cuore della mostra parlando dei  43 artisti e delle loro opere, non prima di dire qualcosa sull’allestimento seguendo la spiegazione dell’architetto Alessandro Bava il quale  lo ha realizzato partendo dall’idea che sembra essere alla base dell’esposizione.

Monica Bonvicini

Inizia indicando “la difficoltà esistente nel chiarire quale sia il contributo apportato da un architetto a una mostra”, e questo consente di accennare a uno dei temi più generali, mentre l’altro tema riguarda le difficoltà, per usare un eufemismo, di comprensione e interpretazione dell’arte contemporanea che si pongono con particolare evidenza in questa mostra: l’intervento dell’architetto per un certo stravolgimento ambientale, la comprensibilità per espressioni estreme al limite tra l’arte  e la provocazione.

Soprattutto per  l’arte contemporanea, osserva Bava, si è avuto in passato  “un processo di ‘disinvito’ dell’architetto dalle mostre”, e  ne cita alcune che “mettono in discussione il concetto di forma espositiva quale spazializzazione di conoscenza e idee”.

Cuoghi Corsello

 Ma poi c’è stata un’evoluzione, l’intervento degli architetti viene visto “in un contesto di continuo cambiamento con la visione del mondo degli artisti  e delle pratiche creative tour court,   le quali possono offrire narrazioni e quadri interpretativi attraverso cui guardare. al mondo contemporaneo”. In questa prospettiva ecco la formula adottata: “Il compito di un progettista di allestimenti non si esaurisce nell’offerta di un’’intensità’ da vivere a spese della cognizione e delle emozioni innescate dalle opere d’arte; piuttosto, fornisce un’infrastruttura calibrata su di esse”.

Quindi l’architetto deve resistere alla tentazione di “sviluppare un proprio ‘brand’ riconoscibile in un mercato competitivo”  per realizzare invece “una proposta progettuale senza porsi in antagonismo con le pratiche degli artisti, ovvero senza metterle in ombra, ma piuttosto coesistendo con esse”.

Nanda Vigo

E allora Bava è partito dalla constatazione che “la Quadriennale d’Arte 2020  cerca per la prima volta di superare il proprio modello istituzionale, basato su una mappatura delle forme artistiche attualmente presenti in Italia, con l’intenzione di offrire  una nuova lettura delle ricerche e dei paradigmi artistici  del presente e del passato” ignorati dalle istituzioni, cioè quelli che “sfidano i rigidi confini disciplinari e che travalicano medium e canoni”, in particolare le forme che, “per ragioni di genere e di identità sessuale, si collocano saldamente al di fuori del canone patriarcale”.

E quale risposta dà l’architetto all’esigenza di rovesciare i canoni  dato che “spazio e architettura sono diventati un medium fondamentale sia per gli artisti che per i curatori”?   Ci aspettiamo che sia un capovolgimento anche della forma  espositiva perché il medium architettonico sia coerente con il suo contenuto artistico.

Davide Stucchi

Infatti, entrando nello specifico, spiega che “l’aggiunta di pareti in cartongesso provvisorie determina una nuova spazialità e al tempo stesso nasconde e incornicia il Palazzo”. L’“effetto prospettico forzato” dell’“infilata” di stanze artificiali amplifica il “classicismo simmetrico”, mentre una nuova “stanza” all’interno della rotonda centrale interrompe il flusso consueto di “accesso monumentale”  ai sette  consueti ambienti espositivi storici.

Anche l’architetto, come il curatore, la butta in politica per così dire, e non poteva fare altrimenti per essere coerente con l’impostazione: “L’ethos del progetto può essere definito  come ‘razionalista’, costituendo un tentativo deliberato…  di sradicare dal razionalismo la sua semantica autoritaria, ben espressa nel contesto romano, avvicinandolo a una spazialità democratica, inclusiva e ‘gentile’”.

Tomaso De Luca # 1

Si deve dire che l’architetto mette tra parentesi “considerata la specifica missione della mostra” dove abbiamo posto i puntini di sospensione; ma questa che appare  una  “damnatio memoriae” fuori tempo perfino dell’edificio, ci sembra superi quella comminata per decenni agli artisti e letterati del ventennio;  e per fortuna non si è scatenata nell’immediato, altrimenti il Palazzo delle Esposizioni avrebbe fatto la fine della Bastiglia parigina.

Prossimamente  faremo la nostra visita virtuale  seguendo il percorso delineato dai curatori con l’inserire i  singoli artisti nella presentazione introduttiva, e citando testualmente  le loro interpretazioni e quelle indicate nelle esaurienti schede illustrative. Intanto abbiamo cominciato ad ammirare nelle immagini delle sale l’alto valore spettacolare della mostra, mentre i contenuti risulteranno dalla presentazione dei singoli artisti e delle opere esposte, fino a concludere con alcune riflessioni sull’impatto dell’arte contemporanea presso il grande pubblico, e il tema conseguente della sua comprensibilità.

Tomaso De Luca # 2

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311.  Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo.  Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i prossimi 4 usciranno in questo sito da domani 2 all’8 marzo 2021.   Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra. per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016; per gli artisti e movimenti citati, Sarfatti, 11 dicembre 2020, Arthemisia Gentileschi 16 giugno 2020, Corrado Cagli, 5, 7, 9 dicembre 2019; in www.arteculturaoggi.com, Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Pasolini 27 ottobre 2015, 27 maggio, 15 giugno 2014,  11, 16 novembre 2012, Frida Kahlo 24 marzo, 12 aprile 2014,  D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, Arte  e potere 29 marzo, 2 aprile 2013,  Arthemisia Gentileschi 7 febbraio 2013, Deineka (Realismi socialisti) 26 novembre, 1° e 16 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it,  Realismi socialisti 3 articoli il 31 dicembre 2011, De Lempicka  3 articoli il 30 giugno 2011,  D’Annunzio 2 maggio 2011, 22 giugno 2010, 10 aprile 2009, Sironi 26 gennaio 2009; in fotografia.guidaconsumatore.com De Lempicka  5 luglio 2011, Pasolini 22 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Cinzia Ruggeri

 Photo

Tutte le immagini dell’allestimento con le opere e le installazioni nelle sale sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata anche fornendo il Catalogo; nelle didascalie è indicato solo il nome degli artisti che espongono in tali sale, le immagini sono inserite nell’ordine in cui sono state fornite. Altrettante immagini delle sale illustrano il 5° articolo, mentre il 2°, 3° e 4° articolo sono illustrati con 2 opere per ognuno dei 43 espositori, nelle didascalie sono indicati anche titolo e anno di realizzazione, nel testo vengono commentati. Le immagini sono state tutte inserite “courtesy Fondazione Quadriennale di Roma, photo DSL Studio”, a loro va il nostro ringraziamento. In apertura, il Palazzo delle Esposizioni, sede storica della mostra; seguono, Romeo Castellucci-Socìetas,Sylvano Bussotti; poi, Anna Franceschini, e Raffaela Naldi Rossano in primo piano, Diego Gualandris alle pareti, e Chiara Camoni in primo piano, Raffaela Naldi Rossano sul pavimento, Diego Gualandris alle pareti; quindi,  Tomboys don’t cry, e Lorenza Longhi; inoltre, Lorenza Longhi in primo piano, Irma Blank in secondo piano, e Micol Assael in primo piano, Irma Blank  nella parete; ancora, Micol Assael al centro, Irma Blank alle pareti, e Petrit Halilaj e Alvaro Urbano; continua, altre 3 immagini delle installazioni di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano; poi, Amedeo Polazzo e Alessandro Pessoli; quindi, 2 immagini delle installazioni di Maurizio Vetrugno Lisetta Carmi; inoltre, Monica Bonvicini e Cuoghi Corsello; ancora, NandaVigo e Davide Stucchi; continua, 2 immagini delle installazioni di Tomaso De Luca, e Cinzia Ruggeri; in chiusura, la “foto-opportunity” alla presentazione della mostra il 12 febbraio 2020 al Tempio di Adriano a Roma. Da sin., il direttore artistico-curatore Sarah Cosulich e il presidente Umberto Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT, ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio.   

La “foto-opportunity” alla presentazione della mostra il 12 febbraio 2020. al Tempio di Adriano a Roma, Da sin., il direttore artistico-curatore Sarah Cosulich e il presidente Umberto Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT, ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio

Adami, 2. Segno e colore nella mostra all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 12 marzo 2017]

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“Studio per carte postali (J. Derrida), 2012-13

di Romano Maria Levante

Abbiamo già presentato in anticipo la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi”  che dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 ha esposto 60 opere pittoriche dell’artista i cui capisaldi sono l’interpretazione molto personale della funzione della linea e del colore, con l’importanza fondamentale del disegno preparatorio. La mostra si è svolta  nell’Accademia d’Ungheria, e in altre due “location” collegate, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia, ed è stata curata da Lea Mattarella con il catalogo di Carlo Cambi Editore in cui vi sono 10 saggi a corredo della ricca iconografia; la raccontiamo brevemente.

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“La fine di un mondo”, 2013

La linea narrativa dell’artista: il segno e il colore

Prima di dare conto della galleria di opere esposte completiamo l’inquadramento della peculiare cifra artistica di Valerio Adami, di cui abbiamo già indicato i capisaldi stilistici e di contenuto, con quella che Octavio Paz definisce la sua “linea narrativa” ispirandosi alle parole della stesso artista il quale è prodigo di analisi dell’arte e autoanalisi della propria, cosa che lo avvicina a De Chirico al quale lo accostano anche altri aspetti peculiari, come abbiamo evidenziato in precedenza.

Ecco cosa scrive: “Disegnare è una occupazione letteraria. Io non abbandono un disegno fino a quando posso scriverci la parola fine… Mi piacerebbe che anche in pittura si potessero usare le parole prosa e poesia per definire così il mio lavoro come una pittura in prosa. L’impulso narrativo è essenziale”, e, aggiungiamo, in lui si manifesta in forma sintetica attraverso il segno.

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Senza titolo” , 2014

Ha una propria autonomia, il disegno non segue qualcosa di preordinato ma si sviluppa in sequenza. “La linea, da parte sua – rileva Paz – è una successione di punti o, se si vuole, una successione di ponti fra un punto e un altro”. In quanto tale è la forma migliore di rappresentare il tempo: “Retta o sinuosa, circolare o spiraliforme, la linea va sempre da un qui a un altrove. La linea cammina, si raddoppia senza fine e senza fine ci racconta il suo tragitto: la linea va sempre transitando. per questo è narrativa”.

Così si esprime: “E che cosa racconta la linea? Ogni sorta di eventi e di idee nel tempo, e che sono tempo. Tuttavia, la linea non parla: per raccontare deve inventare delle forme adatte a farlo. I racconti della linea sono le forme che essa disegna”. Anche perché, spiega nelle “Sinopie”, “cerco nel disegno gli equivalenti di passato remoto, presente & futuro”.

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“La ruota”, 2014

Ma come decifrare questo racconto? Lo spiega l’artista: “Lo strumento per leggere il disegno è il colore, come la voce è lo strumento per leggere la parola scritta”, torna l’equiparazione tra pittura e letteratura, lo ribadisce Paz: “La voce – l’intonazione, è il colore della scrittura; il colore è la voce della pittura . I colori danno voce alle forme di Adami… Via via che avanza, la linea racconta e traccia una storia o diverse storie; i colori danno corpo e voce a queste storie”.

E come sono questi colori? .Netti e precisi, senza chiaroscuri né modulazioni, quasi fossero  creati incontaminati dall’aria e dalla luce, ma non sono colori puri sebbene possano sembrare tali. Lo stesso artista  nell’intervista a Penot dello scorso anno dice che si tratta di “colori piatti, sì, ma non sono stesure di colori puri. Io preparo sempre in anticipo,  nei barattoli, centinaia di toni diversi che utilizzo a seconda delle emozioni che cerco di creare”. E aggiunge: “Io non disegno mai senza pensare al colore, E’ quella la finalità del mio viaggio! Tutte le mie esitazioni iniziali, tutte le mie  cancellature debbono scomparire dietro le stesure di colore… Tutto partecipa alla scelta: il braccio, gli occhi, il cuore, il pensiero”. Conclude così: “Alla fin fine, .mi lascerò trasportare da uno stato d’animo malinconico? O mi lascerò guidare da un’idea puramente plastica?”.

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Ikaros (all’alba)”, 2014

Il risultato lo sottolinea con un’immagine efficace la curatrice Lea Mattarella: “Adami ha tolto la corona dalla testa di quella che è stata la regina della pittura del Novecento, della cosiddetta modernità nata con gli impressionisti: la pennellata”.

E spiega come: “Adami elimina il tocco, il segno del pennello che colpisce la tela”. Così “il colore è dato per campiture, è intatto, non conosce incertezze né comunica tensioni coi suoi contorni. Sta bene, è al sicuro tra linee chiuse che ne proteggono l’integrità, la certezza, la fermezza del ruolo”.

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Opera non identificata in catalogo

L’autoanalisi artistica nelle “Stanze” di Adami

Nelle “Stanze” l’artista sintetizza: “Contorno chiuso, campiture, ordine compositivo: sono queste le regole”. E precisa: “Solo il cuore può capire di che si tratta – e se di stile si tratta , questo nasce dall’idea ma si produce nel tatto delle mani”, una manualità che spesso sottolinea.

Si sofferma sulla forma, lui che mette in primo piano il segno libero da vincoli: “La forma è parola diurna e con questa ci si deve rivolgere agli altri, mentre la non forma è quel silenzio notturno che ci chiude in noi stessi e nel sogno – l’uno e l’altra convivono, e giorno e notte si susseguono”.

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“Le bouquetin (studio)”, 2014

E spiega: “La forma è persistente. Chiusa nel palmo di una mano, se ne sta ben ferma nella stanza della memoria. Da qui nascono le forme, molteplici e complicate, l’occhio del pittore le fissa nel contorno e ne cerca la ragione -ma questa abita il cuore… Infinite combinazioni ruotano disegnando, poi appare di nuovo una forma finita”.

Torna ancora sul tema: “Dapprima la forma appare chiusa in se stessa, specchio di quel che l’occhio vede e la mano tocca; vedendola, toccandola e pensandola in un percorso metaforico, la forma uscirà da se stessa e sarà diversa – diversa nel procedere, nell’aggiungere e nel togliere per somiglianze, per stanze poetiche, ecc.”.

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The portrait of the artist as a young man James Joyce”, 2014

Ed ecco come opera praticamente: “Disegno di ora in ora, disegno il destino del colore, disegno quel che vedo e quel che tocco, cancello più volte: l’oggetto si attraversa meglio nel cancellarlo e meglio si conosce nel ripeterlo. La gomma nella mano sinistra è l’attesa del tempo che passa – il mio volto che invecchia. L’unico augurio appropriato, quello di buon viaggio”.

Il suo viaggio artistico ha l’orizzonte indefinito, in una visione di tipo filosofico: “Rappresentabile/ non rappresentabile/ rappresentabile. Ossia figurabile/non figurabile/figurabile. E ancora, visibile/invisibile/visibile; e così via, per mettere fine alla linea del tempo, per manifestare in un gesto la linea che corre veloce. Così devitalizzato, però, il disegno lascia il suo posto allo schizzo – l’emozione in prima persona!”.

Schizzo, disegno, con segno e colore abbinati in modo personalissimo nei grandi acrilici su tela che colpiscono per la loro forza espressiva hanno l’eco profonda che  viene dal passato delle antiche incisioni, vivono  nel presente con le assonanze ai fumetti e alla Pop Art,  si proiettano nel futuro  con il loro messaggio di modernità fantascientifica. E’ giunto il momento della visita alla mostra.

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“Da un giallo alla TV”, 2014

La galleria di metafisiche e metamorfosi di Adami

Introduciamo la galleria di dipinti con le parole della curatrice, che sono state da guida alla nostra visita: “Le figure di Valerio Adami, le sue immagini, non vanno prese di petto, non devi cercare di comprenderle. Le devi ascoltare… I suoi quadri richiedono contemplazione”.

E non parla a caso di “ascoltare”, cita l’altro grande scrittore che, come Calvino, gli ha dedicato uno scritto intenso riferito costantemente a lui, Antonio Tabucchi, il quale ricordava “un’affermazione di Adami nella quale l’artista cercava un colore per i suoi disegni, ‘come se cercasse un suono, perché esso ha per lui lo stesso statuto delle note musicali’. Così ascoltare questi quadri non significa solo prendere parte di una storia, ma sentire la nota di un colore, il suo particolare suono”. E’ una visione in cui “questi dipinti sono partiture, l’elemento cromatico le modula, dà il ritmo, le fa vibrare anche laddove, apparentemente, tutto sembra immobile”.  L’artista lo conferma rivelando come i suoi barattoli, che sui coperchi recano scritta l’indicazione del colore, “appaiono come la tastiera di un grande strumento” 

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“Passeggiata sulle Alpi”, 2014

La curatrice commenta: “A lui, dunque, non resta che suonarlo”, e lo collega a Kandinsky, che gli ispirato il valore della pittura oltre la stessa pittura in una feconda frequentazione: “Per l’artista russo la relazione tra colore/suono/emozione è molto potente. Intitola le sue opere composizioni, improvvisazioni perché hanno uno stretto rapporto con la musica. Adami e Kandinsky non hanno quasi niente in comune, in pratica. Ma la teoria di una connessione tra colore, suono, emozione, trova qui , tra queste metafisiche e metamorfosi, un suo sviluppo originale  infallibile”.

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“Come down, please”, 2015

Ecco come l’artista esemplifica, rispondendo a una domanda di Penot nell’intervista del 2016,  il rapporto tra colore ed emozione: “La Morte di Colombina è dipinta in blu – diversi blu – ritenuti adatti a tradurre un sentimento di malinconia. Se, invece di questo blu, avessi privilegiato un fondo giallo, avrei senza dubbio raccontato un’altra storia, che sarebbe stata quella d’una Colombina solare, luminosa. Ma questa visione serena non mi ha sollecitato, d’istinto, quando ho riportato il disegno sulla tela, sono stato preso da questa malinconia che ho cercato di tradurre in toni blu”.

Tante sono le emozioni, più o meno intense o leggere, come tanti i colori piatti elaborati dall’artista e modellati sulla tela senza pennellate come vengono modulati i suoni su una tastiera.

Li abbiamo visti nei dipinti posti nelle pareti del Palazzo Falconieri – e delle due gallerie collegate -.dove sono state esposte composizioni di soggetti diversi accomunate dalle peculiarità della cifra artistica di Adami che abbiamo cercato di evidenziare, tra il segno e il colore, con  la base del disegno. Tanto che per metà delle opere, quasi tutte quelle degli ultimi anni, il Catalogo presenta il disegno a matita su carta oltre all’acrilico su tela eseguito dopo uno-due anni.

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“”Bombardier Billy Wells” , 2015

Il segno marcato non solo delimita i contorni ma fa da nervatura alle immagini percorrendole come con arabeschi o cicatrici, e il colore è piatto e monocorde all’interno delle forti linee che delimitano la forma. Evocano il passato delle incisioni settecentesche in un presente da fumetti d’autore e da Pop Art, mentre irrompe il futuro di una modernità evoluta, tra memoria, tradizione e meditazione.

Ci sono da un lato soggetti singoli – e ritratti, tra i quali diversi personaggi celebri – i più numerosi, dall’altro scene con più figure, e anche quadri di denuncia. Le opere esposte per la maggior parte erano dell’ultimo triennio, ma non sono mancate opere a testimonianza della sua produzione negli anni 70, 80, ’90, e del primo decennio del 2000, in una antologica fortemente selettiva.

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“Scena con due cani” , 2016

Sulle opere dagli anni ’70 al 2013 rileviamo che la mostra ne ha presentate 3 per gli anni ’70, i “Ritratti” di “Freud”  e “Benjamin”, la “Morte di Orfeo”; 2 per gli anni ’80 tra cui “Il ritorno del figliol prodigo” e l’evocativo “Metamorfosi” il dipinto di maggiori dimensioni, 2 metri per 2,60; 5 per gli anni ’90, tra cui il “Ritratto di Berio”, il “Passaggio sul Gange” e il “Muro del Pianto”, due sacralità rituali a confronto; 10 per gli anni ‘2000 fino all’ultimo triennio, tra questi il “Ritratto di Herman Hesse” e di “Antonio Tabucchi”, che come abbiamo visto gli dedicò una citazione molto significativa sul “suono” della sua pittura e un “diario cretese” con annesso racconto mitico sulla “cefalea del Minotauro”; troviamo altri riferimenti in“I nuovi Argonauti (news from Palestine)”, rivisitazione metafisica in occasione di un viaggio in quei luoghi. E una visione paesaggistica in “Quadro in un tramonto”, di vita quotidiana in “Home Sweet Home” e “Folding Screen”, ” Lezioni di nuoto” e “Cine Cine”, fino all’ impegno antimilitarista in”Figura crocifissa – We Want Peace dedicato a Ben Shan”, “La passione della Mira” e soprattutto in “Non ci sono guerre giuste (Ezra Pound)”..

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Opera non identificata in catalogo

Prevalgono nelle opere citate le tinte calde, come i gialli e i rossi, mentre nell’ultimo triennio sono sempre presenti le tinte fredde, come il verde e soprattutto il blu, in cui identifica la malinconia, in competizione con le tinte calde che persistono fino ad essere dominate in “Studio per brutti Presagi” e a sparire del tutto nell’ultimo quadro esposto, “Giacomo Leopardi recanatese nel letto di morte”, dove la malinconia diventa angoscia con tinte tenebrose, entrambi sono del 2016.

Soffermiamoci sulle opere del triennio 2014-16, cominciando da due composizioni enigmatiche del 2014, “Le Singe (disegno senza parole)” e “Il muro ‘capriccio turco’”, in entrambe una presenza umana dominante con misteriose piccole figure o parti di esse quale contorno allusivo.

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“Nietsche“, 2016

Niente di  misterioso, invece, nei  “Ritratti“, degli 8 che ricordiamo, 6 sono del 2016: 2 “Autoritratti” uno da giovane, l’altro come un “Giovane James Joyce”, 4 Ritratti di personaggi, “Nietsche” e “Riccardo Wagner”, “Giuseppe Verdi”  e “Gioacchino Rossini”, fino a “Filottete morso da una serpe (omaggio a Hayez)” e “Le bouquetin (studio)”.

Poi la quotidianità di “Un giallo alla TV”, il volo pindarico di “Sarasvati, Dea della Poesia” e le evocazioni alpestri di “Muflone” e “Passeggiata sulle Alpi”, del 2015, con l’animale a fianco dell’uomo in una serie che parte da “La notte dello stambecco” del 1988. fino a “Scena con due cani” e “Scena d’amore con cane e due violini”, del 2016. Ancora figure singole in primo piano negli“Angeli” raffigurati in 3 suggestive composizioni, “L’ange Dechu”, “L’angelo della sera” e “L’angelo e l’elefante”, immagini serene rispetto all’angoscioso “L’angelo” del 1992, un angelo della morte con la falce che scende accanto al letto del malato.

Diventano due i protagonisti della quotidianità evocata in “Le ore della sera, il passare del giorno”, e“Cercando l’ispirazione” del 2015, “L’incontro” e “Ballo al chiaro di luna” del 2016, accomunati da vitalità e passione anche nel cromatismo addirittura carnale;  mentre in “L’arcangelo San Michele che abbatte il demonio da Pelagio Palagi” e  “L’ora dell’angelo“, ambedue del 2016, la seconda figura è uno scheletro. La scena si anima con più figure gioiose in “Teatro (‘Sei figure per una Commedia)” e “Siedo e guardo il giorno di un pugile”, anch’essi del 2016, oltre al precedente “Tenerezza (la famiglia)”, 2014.

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“Giuseppe Verdi”, 2016

Non è mancato il paesaggio, come sfondo in “Uomo e donna (durante una vacanza alpestre)”, con la figura femminile dominante rispetto a quella maschile e all’animale nonché all’orizzonte con montagne, cielo azzurro percorso da qualche nuvola e caseggiato; e in primo piano, ma con evocazioni militaresche, nei due soldati che si immaginano contrapposti dalle diverse “uniformi” in “Paesaggio”,  e “Sulla spiaggia”, alla figura in divisa in primo piano si aggiungono il paracadute che scende dall’ alto e la minuscola tenda in basso.

L’antimilitarismo è apparso esplicito in “La rancon de la guerre”, e “Memoria del tempo di guerra”, “Commando” e, “Niente di nuovo all’est”, del 2016, che segue di tre anni “La fine di un mondo”  del 2013, è quello dei “communists”, una vistosa scritta con la grande falce e martello, una sorta di “si scopron le tombe…” al contrario, tra il rosso e il giallo. Forse anche “Au depart de l’avion” si può leggere in chiave antimilitarista, dinanzi al pianto della madre che viene consolata mentre sullo sfondo si vede un aereo militare in attesa; così, sia pure con maggiori dubbi, “Western con Pinocchio”, del 2016, ce lo fa pensare il fucile in alto e la bandiera piantata in basso. E poi la “Nemesi”, composizione in 4 quadri, nel primo la casa, nel secondo la partenza verso un radioso orizzonte, negli ultimi due i volti affranti con la croce del cimitero sullo sfondo grigio.

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Gioacchinno Rossini”, 2016

Alla scena tragica di “Une Famme chasse la mort” vogliamo contrapporre  le immagini volitive di “Ikaros (all’alba)” del 2014 e “Il sogno di volare”, del 2016, che dimostra come la vitalità non solo non sia venuta mai meno ma anzi appaia sublimata nei tempi più recenti.

La lezione di vita per tutti

Un’ultima notazione: la maggior parte delle opere esposte è stata realizzata nel nuovo millennio, dopo il 2000, e quasi un terzo nello scorso anno: precisamente, dei 65 dipinti, circa 10 fino al 2000, e dei 55 realizzati  nel nuovo millennio, 15 fino al 2013, e 40 nell’ultimo triennio, di cui 10 nel 2014 e 10 nel 2015, mentre 20 nell’ultimo anno, il 2016.

Quindi l’artista, classe 1935,è  ancora attivo eccome! Una longevità artistica non comune, considerando che la sua prima mostra collettiva risale al 1960 e la prima personale al 1964, oltre mezzo secolo di successi in tanti paesi nei vari continenti con una creatività mai scemata nel tempo.

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Opera non identificata in catalogo

E’ un’ulteriore, straordinaria peculiarità, oggetto dell’ultima domanda all’artista da parte di Penot, nell’intervista del 2016 cui ci siamo riferiti in precedenza. La domanda è stata questa: “”‘Amate la vita! E’ ciò che deve dire un quadro, tanto a chi lo fa, quanto a chi lo guarda’ affermavate all’alba dell’anno 2000. E’ perché amate la vita che continuate a dipingere, a ottant’anni passati?”. La risposta dell’artista è eloquente: “Io continuo a dipingere perché sono in vita e la pittura è tutta la mia vita… E’ una necessità profonda, reale. Il mio cuore batte; il mio cuore dipinge. Quando cesserà di battere cesserà di dipingere”.

Una lezione di vita anche per noi giornalisti, collimante con quella di Indro Montanelli, e chi scrive, quasi coetaneo dell’artista, la mette in pratica quotidianamente. E una lezione esemplare per tutti, perché trovino nella quotidianità motivi di stimolo: la linfa prodigiosa dell’amore per la vita.

Per tutti, quindi, oltre che per l’artista, vale l'”augurio di buon viaggio” con cui si chiudono le sue “Stanze”.

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“La Satyre et sa femme”, 2016

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma,  Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è uscito in questo sito il 16 gennaio u.s. [Aggiornamento : il primo articolo è uscito in questo nuovo sito nei giorni scorsi. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, su De Chirico in questo sito nel 2019, novembre 22, 24, 26, settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29; in www.arteculturaoggi.com, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013: in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); nei periodici “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013. Sulla Pop Art in www.arteculturaoggi.com 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012].

Photo

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne quelle da 1 a 5, 8, 9, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono tutte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 2012 al 2016, nel precedente dal 1971 al 2010. In apertura, “Studio per carte postali (J. Derrida) 2012-13; seguono, “La fine di un mondo” 2013 e “Senza titolo” 2014; poi, “La ruota” e “Ikaros (all’alba)”, 2014; quindi, opera non identificata in catalogo e “Le bouquetin (studio)” 2014; inoltre,”The portrait of the artist as a young man James Joyce” 2014 e “Da un giallo alla TV” 2014, ancora, “Passeggiata sulle Alpi” 2014 e “Come down, please” 2015; ancora, “”Bombardier Billy Wells” 2015 e “Scena con due cani” 2016; continua, opera non identificata in catalogo e “Nietsche” 2016; prosegue, “Giuseppe Verdi” e Gioacchinno Rossini” 2016; infine, opera non identificata in catalogo e “La Satyre et sa femme” 2016; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Adami, 1. Metafisiche e metamorfosi, all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 16 gennaio 2017]

di Romano Maria Levante

In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo.  La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.

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“La morte di Orfeo”, 1971

Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia  di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni  in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre  erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.

Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.

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Doctor Sigm. Freud”, 1972

Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data  a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.

Le origini e i capisaldi della sua arte

L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu  alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano  a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che  non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire  che “la pittura è molto di più che la pittura”. 

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Ritratto di Walter Benjamin“, 1973

Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle  autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.

Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”.  Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa.

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“L’angelo”, 1992

Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un  punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.

Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze  passate e dalla mia vita quotidiana”. 

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“Luciano Berio”, 1996,

E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”.

Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.

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Opera non identificata in catalogo

Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”;  e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in  seguito ha difeso”.

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“Passaggio sul Gange (Banaras)”, 1996

Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo  nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.

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“Il muro del Pianto 2”, 1996 i

Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.

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“Herman Hesse”, 2000

Tutto ciò porta alle  visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene  apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione  per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.

Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.

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“Antonio Tabucchi”, 2000

Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi

Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino  nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo;  poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala  nel mondo dell’artista con delle favole i cui  protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.

In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano  perché senza linea non esisterebbe più.

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“Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” , 2002

Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere  dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.

“La linea orizzontale e il colore blu”  presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo  o del mare –  mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano  spazio e tempo.

Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.

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Opera non identificata in catalogo

Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.

Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !°  e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.  

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“Home sweet home”, 2004

Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che  rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.

Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”;  fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”,  provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.

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“Davanti alla betulla”, 2005

A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata  la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.

Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali,  c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.

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“La lezione di nuoto”, 2008

Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue  meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.

Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .

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“Quadro in un tramonto”, 2008

E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.

Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.

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I nuovi Argonauti (news from Palestine” , 2009

Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è  un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.

Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.

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Opera non identificata in catalogo

E ci sembra che quanto abbiamo citato  – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.

Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica.

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“Studio per le ali dell’angelo”, 2010

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo saarà pubblicato in questo sito il  12 marzo p.v.  [Aggiornamento : il secondo articolo sarà pubblicato prossimamente in questo nuovo sito. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29, ; in www.arteculturaoggi.com su De Chirico, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, Strazza 11 marzo 2017,  Pollock 3 luglio 2015. Chagall 30 maggio 2015, Matisse 23 maggio 2015, Isgrò 16 settembre 2013, Braque e i cubisti 16 maggio 2013 ,  Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013. Pollock e Pop Art, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, Mirò 15 ottobre 2012; su De Chirico in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito), e nei periodici a stampa “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013].

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne le n. 1, 3, 5, 10, 13, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; utte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 1971 al 2010, nel successivo dal 2010 al 2016. In apertura, “La morte di Orfeo” 1971; seguono, “Doctor Sigm. Freud” 1972 e “Ritratto di Walter Benjamin” 1973; poi, “L’angelo” 1992 e “Luciano Berio” 1996, opera non identificata in catalogo e “Passaggio sul Gange (Banaras)” 1996; quindi, “Il muro del Pianto 2” 1996 e “Herman Hesse” 2000; inoltre, “Antonio Tabucchi” 2000 e “Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” 2002; opera non identificata in catalogo e “Home sweet home” 2004: ancora, “Davanti alla betulla” 2005 e “La lezione di nuoto” 2008; continua, “Quadro in un tramonto” 2008 e “I nuovi Argonauti (news from Palestine” 2009; infine, opera non identificata in catalogo e Studio per le ali dell’angelo” 2010; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Margherita Sarfatti, l’arte italianissima nella prima metà del ‘900, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

All’inizio dell’autunno, dopo i rinvii e con le limitazioni del Coronavirus, alla Galleria  Russo a Roma si è svolta dal 10 ottobre al 7 novembre 2020 una mostra molto significativa: “Margherita Sarfatti e l’arte italiana tra le due guerre”, a cura di Fabio Benzi.  Con questa iniziativa  la Galleria Russo ha aggiunto un capitolo importante al racconto che prosegue da anni dell’arte italianissima  troppo trascurata dai principali centri espositivi, anche se la “damnatio memoriae” del periodo considerato dalla mostra è ormai superata: un periodo che vede il suo prologo 106 anni fa, con la fondazione l’11 dicembre 1914 dei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista da parte di Filippo Corridoni con il patrocinio di Benito Mussolini. La mostra ha aggiunto alla rievocazione artistica quella storica e di costume ponendo al centro dell’evento espositivo una figura che è stata una protagonista dal profilo intrigante sotto tanti aspetti: la collezionista delle opere.

Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916-17

Per qualificarne la sua figura bastano le parole  con cui Fabio Benzi apre il saggio introduttivo: “Margherita Sarfatti fu una donna  di straordinaria forza, di sofisticata cultura e di autentica intelligenza”; e per il suo profilo intrigante quelle di Corrado Augias: “Delle due amanti ‘ufficiali’ la più famosa è stata Claretta, l’altra Margherita, nelle cronache postume quasi scompare”. Mussolini “anche per Margherita Sarfatti è stato un grande, appassionato amore  ma nel loro rapporto c’era  dell’altro”. E vediamo cosa: “Margherita giocava su due piani. Amante appassionata ma per certi aspetti era lei a dominare, quanto meno ad essergli abile guida nel suo apprendistato al mondo”.

Le sue lettere d’amore del 1923, che Augias cita, hanno espressioni ardenti. Si erano incontrati nel 1912  quando andò nella sede dell’”Avanti” da  Mussolini leader della corrente socialista “rivoluzionaria”, lei della corrente di Turati “meno dogmatica”, per comunicargli di  volersi dimettere dal “Popolo d’Italia: “Durante il colloquio scocca l’attrazione reciproca che sfocerà nel loro lungo rapporto ufficialmente segreto, in realtà noto a tutti”. 

Medardo Rosso, “Ecce Puer”, 1906

E’ al suo fianco nel marzo 2019, quando a San Sepolcro lui fonda i fasci, nell’ottobre 1922 dopo la marcia su Roma, nel giugno 1924 dopo l’assassinio Matteotti, e lo sostiene nella sua rivendicazione del gennaio 1925, nel dramamtico 1924 ne pubblica la biografia in Inghilterra; dal 1935 invece è con lui Claretta Petacci, lei nel 1938 è costretta dalle leggi razziali del “suo” Mussolini a lasciare l’Italia per Montevideo dove il figlio Amedeo era espatriato per quel motivo. Nel corso della permanenza in Sudamerica pubblica “My Fault”, un memoriale sulla sua “colpa” di essere stata con Mussolini. Torna in Italia nel 1947, non citerà mai in pubblico il suo passato; muore nell’ottobre 1961 a Como.

Dopo  questi accenni, non intendiamo ripercorrerne la vita in senso biografico, pur essendo  ricca di motivi di  interesse storico e di costume, data la sua forte personalità e la posizione che ha occupato nella società in un periodo così particolare della nostra storia nazionale. Ma ci limitiamo  a qualche spunto del percorso che l’ha portata alla ricca collezione da cui è alimentata  la mostra di opere di artisti che commenteremo quando entreranno nella sua vita nel corso della sua indiscussa  affermazione nella critica d’arte e nel mondo artistico e culturale di cui fu protagonista.

Umberto Boccioni, “Periferia” , 1909

Nella sua formazione, in una colta famiglia borghese veneziana,  ebbe maestri d’eccezione, lo storico Oddi, il letterato Molmenti, il critico  Fradeletto, parla 4 lingue oltre quella materna, gia nell’adolescenza legge oltre a Carducci e Pascoli, Schopenauer e Nietzsche, Ruskin, Byron e Shelley, e  sposa la causa socialista. A 18 anni si sposa veramente contro il volere dei genitori per la differenza di età,  nel 1900 comincia una fitta collaborazione sulla stampa socialista, in materia politica e con impegno femminista nella rivista “Unione femminile”  per l’emancipazione della donna.

Negli anni successivi si concentra  essenzialmente  sulle Biennali di Venezia del 1901 – 03 – 05, il suo maestro Fradeletto, fondatore ne era il dominus. Collabora al “Popolo d‘Italia” dal 1917 e nel 1922 partecipa alla fondazione di “Gerarchia”, di cui diviene condirettore con Mussolini nel 1925,  dopo la direzione per 3 anni di Arnaldo Mussolini, della rivista sono esposti  degli “Studi di copertina”  del 1928 di  Mario Sironi a cui fu legata da un “duraturo e appassionato rapporto, anche umano e privato, intimo”, come lo definisce Benzi.

Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1908

Gli  interessi artistici resteranno al centro della sua attività,  estesi anche all’arte internazionale, le sue preferenze vanno agli artisti più moderni.  Tra loro Alberto Martini e  Auguste Rodin, Gaetano Previati, è in mostra il suo “Fanciulli con cesti di fritta” 1916,  e  Romolo Romani con “Figura femminile”  1908. Inoltre Medardo Rosso,  del quale vediamo esposte 3 sculture “Innamorati sotto il lampione” 1883, una straordinaria anticipazione di “Lilì Marlene”,  ”Femme à la voilette (Impression  de boulevard, Dama della veletta)”, un bronzo che sembra uscire dal marmo, e soprattutto “Ecce puer”  1906, una straordinaria scultura “impressionista” con il dissolversi della forma tipico dello scultore.

Di Boccioni  fu amica, tanto che lui le dipinse il “Ritratto della figlia Fiammetta”,  lei lo aveva insieme ad “Antigrazioso”, Benzi ricorda di aver visto questi due dipinti esposti nella sua casa roomana. Nell’attuale mostra sono esposti, sempre di Umberto Boccioni,  “Periferia” 1909 e  Busto di donna – Ritratto di Nerina Paggio” 1916: entrambi speculari a due quadri di Sironi di quegli stessi anni, Paesaggio urbano” del 1908 con la desolazione e la solitudine,  “Margherita Sarfatti” del 1916-17 con il ritratto elegante.

Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie”, 1924

All’opposto dello stretto rapporto personale con  Sironi,  che fece parte dei Futuristi in modo atipico, verso Marinetti l’atteggiamento sembra “non fosse di istintiva simpatia”, date le posizioni maschiliste del pioniere del Futurismo rispetto a una femminista “ante litteram” com’era lei; ciò non toglie che collaborasse con lui nella mostra del 1919 al  Palazzo Cova in cui espose anche un ritratto che Sironi le aveva fatto.

Verso il Futurismo ebbe una posizione distaccata mostrando predilezione per le “Nuove tendenze” di artisti che se ne discostavano,  a parte la comune  spinta verso la modernità. Il suo non allinearsi alla corrente  che dopo il “Manifesto” di Marinetti del 1909 aveva fatto irruzione nel mondo dell’arte e nel costume non derivava certo dalla scarsa simpatia verso il suo fondatore, ma dalla  ricerca di  qualcosa di più ambizioso che si tradusse in iniziative concrete. 

Pippo Rizzo, “Canottieri”, 1929

Se questo è vero, va sottolineato che al distacco non corrisponde un’assenza dei Futuristi dalla sua collezione, com’era avvenuto invece per Renato Guttuso nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea per l’ostilità, se così la si può definire, della direttrice Bucarelli nella sua foga innovatrice; fino alla donazione da parte dell’artista e la “riparazione”  con due recenti mostre affiancate di Renato Guttuso e Palma Bucarelli come collezionista.

Troviamo, in mostra, oltre alle 2 opere di Boccioni già citate e alle 13 di Sironi di cui parleremo,  Lorenzo Balla con 2 opere (“S’è rotto l’incanto” 1922 e  “Balfiore- Petunie” 1924) “ e  Carlo Erba con 4 (“Studio di figura maschile” 1910-11 e “Soggetto eroico” 1911-12, “Casolari” 1912 e “Donna che cuce” 1914; Gino Severini con “Un ritratto (Autoritratto)”  1905, ed Enrico Prampolini  con  “Danzatrice” 1916 dalle forme cubiste.

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Enrico Pampolini, “Danzatrice”, 1929

Già nel novembre 1922, subito dopo la marcia su Roma, lei fonda  a Milano il gruppo “Sette Pittori del Novecento” con Sironi – su cui torneremo – Funi, Bucci e Marussig, Dudreville,  Malerba e Oppi. Di Achille Funi sono esposte 3 opere: “Famiglia a tavola” 1915, “Marina” 1921-22, e “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”  1930, quando lei era caduta in disgrazia con Mussolini e il mondo artistico; di  Anselmo Bucci vediamo  “Olga Lapidos”,  di Piero Marussig “Case  e tetti” 1928, e “Nudo” 1930.

Con questa iniziativa  mostrò  la volontà di  superare la posizione di pur apprezzata critica d’arte per “sostenere, al di là delle teorie estetiche specifiche (orientate sul ‘ritorno all’ordine’), un suo ruolo determinante non solo di organizzatrice, ma di esclusiva enunciatrice di un’arte di Stato” , forte della sua vicinanza a Mussolini.  Vi si impegnò talmente da allontanarsi dal giovane scultore Arturo Martini,  vicino ai Futuristi e alla “Secessione” –  che prima prediligeva e aveva fatto ospitare a Ravenna  con Funi da un amico – perché aveva aderito al gruppo romano di “Valori plastici” che sentiva come concorrente.  

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Achille Funi, “Famiglia a tavola”, 1915

Se fosse riuscita o meno nell’intento ambizioso di promuovere un’Arte di Stato”, cioè di regime, è un tema che va oltre la sua figura, investe  l’arte italiana in un periodo storico con manifestazioni artistiche di notevole rilievo liquidate superficialmente quanto erroneamente nella “damnatio memoriae”  che ha accomunato oltre agli artisti anche poeti e letterati, primo tra tutti Gabriele d’Annunzio.

Benzi prende di petto questo problema definendo “fondamentalmente falsa nella sostanza”  la vulgata diffusa nel dopoguerra  in cui ”si è parlato con superficialità e francamente con  semplicismo di ‘arte fascista’ come del prodotto evidente, necessario e scontato della politica di uno stato totalitario, cui faceva  da eventuale (ma non verificato) controcanto  minoritario un’arte di fronda, antifascista” soprattutto nei giovani artisti degli anni ’30 e ’40.  Ci viene in mente al riguardo il “Realismo socialista”, l’”arte di Stato” dei regimi comunisti  che doveva incarnare i valori dell’ideologia totalizzante con l’”uomo nuovo” e quanto costruito intorno a lui, e per questo agli artisti restava soltanto il ristretto spazio “privato” per esprimere in incognito la libera creatività; tra i suoi massimi esponenti Deineka, però, sentiva quei valori come propri.

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Piero Marussig, “Nudo”, 1930

Invece Mussolini fece una scelta ben diversa, forse per effetto dell’iniziativa prima ricordata messa in campo dalla  Sarfatti dopo la marcia su Roma, che aveva suscitato “una fronda assai diffusa tra  gli artisti e i critici di tutt’Italia” nel timore che, dati i suoi stretti rapporti con Mussolini, lei volesse divenire “il deus ex machina del fascismo nel campo delle belle arti, incarnando col suo nuovo movimento  l’arte ufficiale del nuovo regime”;  con la conseguenza di  “un inevitabile privilegio riservato  ai ‘suoi’ artisti milanesi a discapito di altre situazioni e personalità nazionali”.  Visto che artisti e critici temevano questo, Mussolini ne tenne conto e mise subito in chiaro la sua posizione di contrasto netto senza possibilità di equivoci.

Lo fece addirittura nella mostra  dei “Sette Pittori del Novecento”  organizzata dalla Sarfatti  nel marzo 1923, a soli quattro mesi dalla creazione del gruppo. Vi intervenne con un discorso in cui, dopo aver sottolineato che “non si può governare ignorando l’arte e gli artisti” affermò: “E’ lungi da me l’idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all’arte di Stato”; e aggiunse che “l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano… lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale”, in tal modo il governo è “un amico sincero dell’arte e degli artisti”. Commenta Benzi  che “queste parole, probabilmente inattese da parte della Sarfatti, dovettero cadere come un macigno  sul progetto egemonico sarfattiano”, l’arte di Stato.

Virgilio Guidi, “Donna che cammina”, 1918

A questo riguardo si potrebbe dire che se per lei fu una doccia fredda, poteva riscontrare come era invece riuscita nel suo intento di fare da “Pigmalione” a Mussolini, operando da vera femminista alla rovescia, trasformandolo “da ruvido provinciale in un avvertito politico e statista”. In quanto tale,  “da sensibile animale politico” aveva avvertito  dalle reazioni sopra citate una possibile perdita di consenso e ne aveva tratto le conseguenze fermando sul nascere ciò che poteva creargli dei problemi indesiderati e scomodi.

Siamo nel marzo 1923, il fascismo muove i primi passi, la Sarfatti gli resta vicino, e lo abbiamo già ricordato; nel 1924 pubblica in Inghilterra “Life of Mussolini” che esce in Italia nel 1926 come ”Dux”, tradotta in oltre 18 lingue, un successo internazionale. Ma non demorde dalla sua iniziativa  di promuovere un’arte “diversa” dal Futurismo, nel 1926  organizza la “I mostra del Novecento italiano” sempre a Milano, sulla scia della mostra del 1923 ma il cui titolo, ben più ambizioso, rivela l’intento di farla diventare “arte di Stato”. Mussolini non lancia un nuovo “macigno”, del resto è uscito “Dux”, ma le lodi alle “qualità” e alla “modernità” degli artisti, e non alla rispondenza delle opere all’ideologia fascista, mostrano la sua volontà di lasciarne libera la creatività, secondo il pensiero di Cipriano Efisio Oppo, suo amico  personale e fascista antemarcia cui saranno affidate importanti  iniziative pubbliche in campo artistico. 

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Francesco Trombadori, “Natura morta”, 1924

Lei va avanti nel suo proposito, con la morte del marito nel 1924 non ha più vincoli, si trasferisce a Roma e intende rendere annuale la mostra nella capitale come esposizione ufficiale del regime, spera nell’appoggio di Mussolini cui è più vicina anche fisicamente. Perciò vuole ripeterla nel 1927, ma scattano subito le contromisure per rassicurare l’ambiente romano, sono  orchestrate da Oppo, che suggerisce di prendere tempo:  il 26 settembre del 1926 Mussolini le scrive di  rinviarla al 1929 con un doppio motivo, evitare che coincidesse con la Biennale e per “creare del nuovo”, avendo tre anni invece di pochi mesi a disposizione.

Sarà o no una contromossa, lei nello stesso 1927, alla mostra  degli “Amatori e Cultori” presenta una collettiva di “Dieci artisti del Novecento”, tutti romani, e acquista loro opere di cui vediamo in mostra una selezione: di  Gino Severini è esposto “Maternità” 1916, e di  Virgilio Guidi Donna che cammina” 1918, di Francesco Trombadori” “Natura morta” 1924, e di Alberto SaliettiNatura morta” 1926, di  Ardengo Soffici  “Cabine”  1927, di  Pasquarosa “Pappagallo” , e di Quirino Ruggeri   il  bronzo “Ritratto di Margherita Sarfatti” , entrambi del 1928.

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Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)”, 1920

 Commenta Benzi: “La manovra seduttiva non riesce e la tensione fra Margherita Sarfatti e Oppo – portavoce del gruppo romano – traspare chiaramente in una minuta di lettera di Oppo alla Sarfatti”. Forse perché, sia pure con artisti romani, aveva aggirato proprio nel 1927 il blocco alla  mostra del Novecento impostole da Mussolini.  “Un altro smacco per la Sarfatti fu alla Biennale veneziana del 1928, della quale Oppo era consigliere, le fu negata una sala per i suoi artisti del “Novecento”.  

E quando finalmente tenne la “II mostra del Novecento italiano” nel 1929, rispettando il rinvio richiesto da Mussolini nella sua lettera, dovette organizzarla  a Milano non essendo stato possibile farlo a Roma; ma lei, tetragona, intendeva proporla come “arte fascista”, secondo il suo disegno ambizioso. Però non aveva fatto i conti con il raffreddamento del suo “rapporto personale e affettivo” con Mussolini il quale non solo non andò all’inaugurazione costringendola a rifare il comunicato stampa che prevedeva la sua presenza; ma le mandò una lettera ufficiale su carta intestata “Il capo del Governo”  in cui le si rivolgeva con ostentato distacco chiamandola “gentilissima Signora” e le intimava perentoriamente di non parlare di  “arte fascista”.

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Gisberto Ceccherini, “Alla fontana”, 1928

In particolare, dopo averle detto  di “disapprovare nella maniera più energica ” che lei tesseva “l’apologia  del cosiddetto ‘900 , facendosi alibi del fascismo” e di lui stesso,  arrivava ad affermare addirittura: “Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del fascismo fu il vostro ‘900 è ormai inutile ed è un trucco”; fino a rifiutare “la solita sviolinata nei miei riguardi”. La conclusione è l’avvertimento – poiché lei non sente “ancora  l’elementare pudore  di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre  invenzioni artistiche o sedicenti tali” – che lui stesso avrebbe provveduto a rendere esplicita al più presto la posizione sua e del Fascismo “di fronte al cosiddetto ‘Novecento’ o quel che resta del fu ‘Novecento’”.

Lascia sconcertato tale atteggiamento verso una critica d’arte e soprattutto una donna che – pur se sono passati più di sei anni – nella lettera del 1° gennaio 1923 lo chiamava “Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua, ora, per tutto il 1923 e, se , perché mi ami come io ti amo, per sempre Tua”. Un amore corrisposto finché  quella che è stata chiamata “l’altra donna del Duce” – espressione corretta da Benzi in quella speculare riferita  a Mussolini “l’altro uomo di Margherita” – viene in sostanza allontanata, anche per l’intransigenza di Rachele; e perdette ogni influenza su di lui e sul mondo artistico nazionale.

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Filippo de Pisis, “Vaso di fiori”, 1928

Ma non si diede per vinta, “Margherita non ebbe difficoltà a  riproporsi con rinnovato entusiasmo  in una veste nuova, di organizzatrice delle mostre del ‘Novecento’  all’estero anziché in Italia, dove i suoi margini di manovra si erano nevralgicamente ridotti”. Del resto, la sua visione artistica aveva avuto sempre un raggio più vasto di quello nazionale, a 18 anni in viaggio di nozze a Parigi acquistò litografie di Toulouse Lautrec. In seguito prese opere di Modigliani e Utrillo, Rouault e Kokoschka, Jean Cocteau e Picasso, Diego Rivera e Raoul Dufy. Oltre a questi, opere di artisti di cui ne vediamo alcune esposte: di Aristide Maillol il bronzo di fine ‘800 “Nu debut se coffant (Baigneuse aux  bras levés)” 1898, di André Derain  un dipinto, “Natura morta con caffettiera” 1911, e tre disegni di nudi femminili degli anni ’30, un “Nudo sdraiato”  e 2 “Nudi in piedi”.

Aveva  iniziato l’attività all’estero nel 1926 presentando a Parigi gli artisti del Novecento italiano,  seguirono mostre tra il 1927 e il 1932 nell’Europa del Nord e nell’America del Sud.  Intanto , nel declinare del “ritorno all’ordine” dell’arte,  dal 1928 si interessa  ai giovani artisti, dagli esponenti della “Scuola romana” come  Mario Mafai,  Corrado Cagli di cui è esposto “Paesaggio” , e Fausto Pirandello del quale vediamo  “Natura morta”  1926-27;  ai “Nuovi Futuristi” come Pippo Rizza, di cui è esposto “Canottieri” 1929, agli espressionisti come Lorenzo Viani, in mostra  “Maternità” 1920) . 

Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti”, 1928

Nel 1931  Giorgio de Chirico le dedica due opere del 1927, una “Testa di Gladiatore” e  un  “Ritratto”  come “omaggio alla gentilissima signora”, qui esposto, le si rivolge  come aveva fatto Mussolini nel 1929, ma  questo distacco era giustificato, da quando  nell’intervista dl 1927 alla rivista francese “Comoedia” il grande metafisico aveva dichiarato che “non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna… la pittura italiana non esiste” – tranne  se stesso e Modigliani che come lui considerava “francese” – e per questo lei lo aveva ignorato.  Poi le dediche e gli “omaggi”e lei acquistò da De Chirico “Cavalli in riva al mare”, dell’inizio degli anni ’30. Per associazione di idee vi colleghiamo il carboncino “Figure” 1920 e l’acquerello e china “Figure sedute”  1924 di Gino Rossi per le teste a uovo che richiamano l’arte metafisica anche se su un corpo tozzo non da manichino.

Nel 1931 la“Quadriennale d’arte” di Roma ha rafforzato la posizione, a lei contrapposta,  di Oppo, che dirigerà anche le tre Quadriennali successive, nel 1935, 1939, 1943. Lei – che nel 1930 era stata segnalata dalla polizia politica come “agente dell’internazionale ebraica” – ormai caduta in disgrazia, non è ammessa all’inaugurazione della Mostra del decennale della Rivoluzione Fascista nel 1932, con una scenata sulla scalinata del Palazzo delle Esposizioni.

Corrado Cagli, “Paesaggio”, 1915

Poi l’ostracismo si aggravò con il razzismo antisemita che creò una barriera invalicabile tra lei e Mussolini, fino al suo espatrio dopo quello del figlio a seguito  delle leggi razziali del 1938, con tappa in Svizzera e a Parigi e destinazione Uruguay, precisamente Montevideo, come si è accennato all’inizio.  Negli anni precedenti aveva scritto e collaborato a giornali ed editori stranieri.

Del ritorno in Italia a guerra finita  nel 1947 citiamo una coincidenza intrigante. Dimora all’Hotel Ambasciatori in Via Veneto dove il pittore Guido Cadorin raffigura lei e la figlia Fiammetta, Piacentini e Giò Ponti negli affreschi  dipinti nel salone. Intrigante perchè  è il pittore degli affreschi nel soffitto della “Stanza del lebbroso” al Vittoriale  di Gabriele d’Annunzio, che lei aveva conosciuto negli anni ruggenti.  “Circondata dai suoi quadri – commenta Benzi –  mi fa pensare a Sunset boulevard”, ma senza il dramma finale, serenamente “muore nella sua villa del Soldo,  che aveva visto centinaia di ospiti illustri, italiani e internazionali, tra le sue mura, nel 1961”.

Giorgio de Chirico, Ritratto”, 1927 con dedica

E come collezionista? Benzi la definisce “una Guggenheim italiana, potremmo dire”, e parlando degli artisti da lei avvicinati ricorda: “Si innamora di loro e della loro arte, collezionando molte centinaia, migliaia di opere: un catalogo completo della sua collezione non è stato mai fatto. Essa fu smembrata già lei in vita per permetterle di vivere in esilio”,  fino alle divisioni ereditarie.

Abbiamo già citato una serie di artisti di cui acquistava le opere, indicandone alcune  esposte in questa mostra. Aggiungiamo gli altri artisti con le opere in esposizione: Mario Tozzi con “Le pére Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920  e Gianfilippo Usellini con  “Ritratto dell’alpinista. Ritratto di Vittorio Ponti” 1927,  Gisberto Cerracchini con “Alla fontana” Filippo de Pisis conVaso di fiori”  entrambi 1928, Ferruccio Ferrazzi con “Maremma” 1930. 

Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste”,1922

Un rilievo particolare spetta allo scultore della “secessione” Adolfo Wildt del quale sono esposte 11 opere, le sue sono forme gotiche in chiave simbolica, senso plastico nel marno estremamente levigato. Scolpì una serie di busti di Mussolini, uno dei quali per il primo anniversario della Marcia su Roma, un altro distrutto dalla frenesia iconoclasta dei simboli del regime nei giorni della Liberazione.

Non sono esposti quei busti, ma 5 teste scultoree, “L’anima  e la sua veste” 1916 in gesso, 1922 in bronzo e l’altorielevo in marmo con il profilo reclinato della “Mater purissima”  1918, ben diverso dal profilo aggressivo nel bronzo “Vittoria” 1919. Non solo gesso, bronzo e marmo per le statue, anche pergamena per i 2 disegni quasi naif “Casa di Gesù” 1919 e “Mi dolgon, fanciullo, le pene che più non mi dai” 1921, e bronzo per le medaglie “Humanitas – Cave canem”” 1918, “Il Risparmio” 1921, l’albero con i suoi frutti.

Adolfo Wildt, “Vittoria”, 1919

Infine siamo giunti a Mario Sironi, nell’ambito della  mostra c’è una “piccola personale” con 18 opere, a testimonianza del rapporto quanto mai stretto con la Sarfatti “tra avanguardia e moderno classicismo”, come lo definisce Raffaele Ferrario che ne rievoca aspetti e momenti. Il primo incontro nel 1915, con entrambi a Milano –  anche se l’amicizia con Boccioni, già comune amico da cinque anni, anticipa la conoscenza virtuale al 1910 –   fece scattare  una intesa straordinaria e la morte di Boccioni l’anno dopo nell’agosto 2016 li avvicinò ulteriormente, e la loro condivisione non fu turbata dalel vicende politiche.

“Il loro rapporto si fonda  sulla condivisione di ideali comuni e dello stesso modo di  percepire il presente attraverso l’arte, il segno, la parola”.  Tanto che – sottolinea Ferrario – “alcuni dettagli della sua pittura corrispondono al ritmo sintetico e sincopato della  scrittura di Margherita Sarfatti, che pone l’accento sui tratti ‘tipografici’ di Sironi nella composizione”.

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Adolfo Wildt “La Vergine”,1924

Sul piano personale il rapporto viene rafforzato dalla tragedia della prima guerra mondiale, il primogenito della Sarfatti Roberto ucciso da una mina sull’Altipiano di Asiago nel 1919, lui disegna la copertina di “I vivi  e l’ombra”, il racconto disperato della madre e figure simboliche definite “anti monumentali”. “La sintesi essenziale delle forme che Sironi usa negli anni venti nelle opere e per gli interventi sulle copertine e soprattutto negli studi preparatori ha molto in comune con l’incisività  delle parole  della sintassi ritmata e sintetica che la Sarfatti  usa nel 1925 in Dux per descrivere la scrittura di Mussolini”  definita “breve, apodittica”, come lo stile di Sironi “rude, apodittico fino alla brutalità”.

La condivisione biunivoca, se così si può dire, tra pensiero della Sarfatti ed espressione artistica di Sironi è evidente soprattutto nelle “periferie”: “Se Sironi la segue nella funzione sociale e narrativa dell’arte, lei sposa la sua proposta di una nuova estetica moderna e urbana”, e lo sostiene con acquisti personali e del Comune di Milano: “Entrambi hanno talento per il racconto epico e la capacità di creare una mitologia quotidiana”.  Ma  pur se Sironi aderisce al  mito futurista della velocità e del futuro, “la sua visione già avverte il dramma esistenziale dell’uomo moderno, l’angoscia, la solitudine, l’alienazione, ciò che sarà definito in seguito ‘il male di vivere’”. 

Mario Sironi, “La ballerina”, 1916

E’ dalla parte della Sarfatti nelle polemiche su “Novecento” e quando cade in disgrazia “Sironi resta fedele al loro sodalizio, tradirlo sarebbe come tradire un’utopia”. Lei gli scrive definendo i quadri che continua ad acquistare “ veramente splendidi”, considera “un capolavoro “Il bevitore”, dice che “Il ciclista” regge al tempo “in modo vittorioso”. Sironi, nel 1926 dirigente del Sindacato nazionale degli  artisti fascisti,  dall’interno dell’organizzazione le scrive che “il fascismo è nettamente a-artistico e le cose dell’arte sempre più dimenticate come superflue o intempestive”, per cui nell’azione del partito “l’arte non c’entra per niente”. L’opposto del “Realismo socialista” con l’arte strumento dell’ideologia con “l’uomo nuovo”  del comunismo bolscevico al centro della propaganda imposta, a parte il grande  Deineka interprete convinto. Era la pietra tombale su quella che era stata l’illusione e l’azione della Sarfatti; “l’arte di Stato”, di regime.  

Ed ecco la piccola personale di Sironi nella mostra alla Galliera Russo: il “Paesaggio” e “Paesaggio urbano” 1908, citati all’inizio, anticipano lo squallore delle Periferie, mentre il nuovo “Paesaggio urbano” del 1921 è monumentale, con il segno futurista dell’automobile; tra questi, del 2016, “La ballerina” e “Danzatrice” con una stilizzazione cubista, mentre il “Progetto di copertina per la rivista ‘Ardita’”, del 1919,  ha qualcosa del manichino metafisico  Il corpo femminile della “Figura con lo specchio” 1924 anticipa il “Nudo” di Marussig del 1930 ed è contemporaneo ai nudi della pittrice Tamara de Lempicka.

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Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1921

Seguono due disegni del 1925-26 “Aratore e morte” e “Figure”,  3 “Studi di copertina per  ‘Gerarchia’”  del 1928 e 2 disegni “politici” del 1934, “La guardia” e “Pace europea” che fanno parte della sua attività di vignettista impegnato. E’ del 1930 “All’osteria – Fiaccheraio”, immagine della stanchezza e della solitudine. Chiudiamo la galleria espositiva con i 4 ritratti: andando indietro nel tempo i 3 disegni, del 1917-18 “Ritratto di compositore”  a matita, del 1916 a puntasecca “Ritratto di Cesare Sarfatti” e “Ritratto di Margherita Sarfatti”; infine, del 1916-17 la tempera-pastello su carta nella luminosità veramente solare che fa risaltare il sorriso coinvolgente della protagonista nel “Ritratto di Caterina Sarfatti” , l’abbiamo lasciato in chiusura come il commiato della “star” al termine dello spettacolo.

A questo punto non resta che concludere, e lo facciamo con le chiare parole di Benzi: “Nel contesto internazionale delle donne del XX secolo, che con la loro personalità  hanno contribuito a costruire il mondo moderno… Margherita Sarfatti spicca come un astro di prima grandezza”.  Questa sintesi della sua figura rende meritoria la rievocazione della  Galleria Russo nella mostra di opere della sua collezione, simboli dell’arte italianissima tra le due guerre ed espressione della sua sensibilità e impegno nell’arte.

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Mario Sironi, “All’osteria-Fiaccheraio”,1930

 Info

Galleria Russo, Roma, via Alibert  20, Roma. Tranne nell’emergenza coronavirus, è aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiusa; ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com. Catalogo: “Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre”, Silvana Editoriale, marzo 2020, pp. 130, formato 23 x 23; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e movimenti citati nel testo cfr. i nostri articoli di seguito indicati. In questo sito, 2019: Cagli 5, 7, 9 dicembre, De Chirico novembre mostra Milano 22, 24, 26; settembre mostra Torino 25, 27, 29, mostra Genova 18, 20, 22, libro Fabio Benzi 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15. Nel sito www.arteculturaoggi.com, i futuristi: nelle mostre alla Galleria Russo, 2018: Floreani per Boccioni 7 ottobre, Futuristi e moderni 7 marzo; 2017: Marchi 24 novembre, Thayhat 27 febbraio; 2015: Sironi 2 novembre, Tato 19 febbraio; 2014: Dottori 2 marzo; 2013: Erba 1° febbraio, Marinetti 2 marzo; l'”ultima futurista” Lina Passalacqua, 2018: 10 gennaio; 2015: 1° aprile; 2014: 28 maggio; 2013: 25 aprile. Altri artisti e movimenti citati nel testo: su De Chirico 2016: 17, 21 dicembre, 2015: 20, 26 giugno, 2013: 1° luglio; Picasso 2018: 6 gennaio, 2017: 5, 25 dicembre; Guttuso 2018: 14, 26, 30 luglio, 2017: 16 ottobre, 2016: 27 settembre, 2, 4 ottobre, 2013: 25, 30 gennaio; Bucarelli 2017: 22 ottobre, Sironi 2015: 2 dicembre, 2014: 1, 14, 29 dicembre, 7 gennaio; Secessione 2015: 12, 21 gennaio, Modigliani, Utrillo 2014: 22 febbraio, 5, 7 marzo, Cubisti 2013: 16 maggio, D’Annunzio 2013: marzo 14, 16, 18, 20, 22; Deineka 2012: 26 novembre, 1, 14 dicembre. Nel sito cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 2011: 3 articoli 31 dicembre, De Chirico 2010: 8, 10, 11 luglio; 2009: 27 agosto, 23 novembre, 22 dicembre; Futuristi 2009: 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre; Picasso 4 febbraio (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono disponibili), Sironi 26 gennaio. In “Metafisica”, rivista semestrale a stampa della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, articolo sulla mostra De Chirico e la natura 2013: ottobre, n. 11-13.

Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”, 1930

Photo

Le immagini sono tratte dal Catalogo fornito cortesemente dalla Galleria Russo, si ringrazia Fabrizio Russo, con l’Editore e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti” 1916-17; seguono, Medardo Rosso, “Ecce Puer” 1906, e Umberto Boccioni, “Periferia” 1909; poi, Mario Sironi, “Paesaggio urbano” 1908, e Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie” 1924; quindi, Pippo Rizzo, “Canottieri” 1929, ed Enrico Pampolini, “Danzatrice” 1929; inoltre, Achille Funi, “Famiglia a tavola” 1915, e Piero Marussig, “Nudo” 1930; ancora, Virgilio Guidi, “Donna che cammina” 1918, e Francesco Trombadori, “Natura morta” 1924; continua, Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920, e Gisberto Ceccherini, “Alla fontana” 1928 , prosegue Filippo de Pisis, “Vaso di fiori” 1928, e Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti” 1928; poi, Corrado Cagli, “Paesaggio” 1915, e Giorgio de Chirico, Ritratto” 1927 con dedica; quindi, Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste” 1922, “Vittoria” 1919, e “La Vergine” 1924; inoltre, Mario Sironi, “La ballerina” 1916, “Paesaggio urbano” 1921, e “All’osteria-Fiaccheraio” 1930; infine, Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta” 1930 e, in chiusura, “Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930 circa.

“Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930

Gian Luca Rocco, dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid

di Romano Maria Levante

Nei giorni in cui ferve il dibattito sulla maggiore o minore incidenza delle restrizioni nelle festività natalizie, la dolente elegia del giornalista Gian Luca Rocco in morte del padre Gian Luigi, apprezzato psichiatra forense ghermito dal Covid a 71 anni, richiama alla meditazione, oltre all’omaggio commosso e alla partecipazione più sentita al suo dolore che diventa dolore di tutti. Dalla meditazione dovrebbe scaturire una ragionevolezza che sembra svanita in molti, mentre mai come in questo caso può essere salvifica.

Gian Luca Rocco con il padre Gian Luigi

L’elegia in prosa del collega Rocco risplende come una meteora luminosa nel buio della ragione che fa allentare il divieto di spostamento tra regioni e comuni – e vorremmo anche nel loro ambito – nei giorni fatidici di Natale e Capodanno per visitare genitori, nonni e persone anziane in modo da non lasciarle sole nelle festività dedicate agli affetti familiari; e soprattutto sta creando un clima nel quale chi pensa di non andare a trovare genitori e nonni per il “principio di precauzione” viene considerato ingrato senza cuore.

Ma è affetto sottoporre le persone fragili per età o patologie a un rischio che può essere mortale ed è comunque drammatico nelle forme gravi anche se non letali, a stare ai racconti dei sopravvissuti? E anche se il clima del Natale o dell’ultimo dell’anno può far prevalere al momento l’affetto sulla precauzione, subito dopo il congedo, con i saluti che culminano negli abbracci, non verrà il tarlo del timore per l’eventuale contagio che toglierà serenità sia all’anziano oggetto dell’affetto, sia ai più giovani che lo hanno nanifestato e non li lascerà nei giorni della pur improbabile ma non impossibile incubazione? E vale più la gioia di un abbraccio momentaneo oppure l’ansia successiva prolungata per giorni del pssibile contagio?

Il dottor Gian Luigi Rocco non si è sottoposto volutamente ad alcun rischio di questo tipo, non avrebbe voluto l’abbraccio del figlio nelle prossime festività, stava molto attento; ma per serietà professionale ha dovuto continuare a frequentare il tribunale come psichiatra forense di alto livello; e il tribunale è stato definito da Giulia Bongiorno – che pur attentissima nella vita personale pensa di esservi stata contagiata dal virus – una delle “zone franche in cui è impossibile difendersi” pur adottando tutte le precauzioni personali.

Sono “zone franche in cui è impossibile difendersi” anche i pranzi natalizi e i cenoni di Capodanno nell’ambito familiare se oltre ai conviventi si aggiungono presenze venute da fuori, sia dello stesso o di altro comune, siano o no aree a maggiore carica epidemica. E la possibilità di ammettervi i familiari più stretti, figli e nipoti, non è dare una “licenza di contagiare”, per non dire peggio, proprio a chi dovrebbe sentirsi ancora più protettivo verso chi è esposto? La ragionevolezza singola dovrebbe sopperire a questa sorta di impazzimento collettivo che rischia di fare dei giorni dedicati alla famiglia una temibile “livella”, ad opera di coloro che alla famiglia sono più legati, le cui vittime sarebbero i loro cari, e non basta fare gli scongiuri. Come ci si può proteggere con i distanziamenti e le mascherine nel pranzo di Natale e nel cenone di fine anno? E anche se fosse possibile, si esprimono così gli affetti familiari senza abbracci nè contatti? Non è meglio manifestare l’affetto a distanza nei vari modi consentiti, fino a una telefonata calda e affettuosa? Accompagnata da un regalo: l’assenza per non far correre un rischio evitable a chi è fragile ed esposto.

Ieri sera – su “La 7” nella trasmissione televisiva “Piazza Pulita” – lo scrittore Stefano Massini ha dedicato la sua settimanale allocuzione televisiva allo “spazio delle emozioni”, sottolineando da par suo come sono mortificate in questo momento critico fino a portare un uomo a sfogarsi di un litigio familiare percorrendo 400 Km a piedi e una donna andando a piangere in modo sommesso in garage per non farne accorgere le proprie bambine. “Stiamo contenendo le emozioni, le freniamo, le blocchiamo come la nostra vita sociale bloccata dal Dpcm. Ma dove ci porterà tutto questo?” Noi che ne abbiamo condiviso spesso le perorazioni, questa volta dobbiamo dare una risposta diversa dalla sua, che ritenendo le emozioni incontenibili spinge di fatto ad allentare restrizioni e cautele. E la troviamo nella appassionata perorazione di Rocco che ha voluto condividere le sue emozioni nate dalla più triste tragedia personale per lanciare un ammonimento.

Riporteremo le sue parole di alto valore umano e civile al termine di questa nostra breve nota introduttiva al suo ricordo espresso in un prosa, ma ispirata e poetica come un’elegia. Intanto vorremmo fare alcune semplici considerazioni. La prima è che tanta preoccupazione per le emozioni “bloccate” non considera che i blocchi in qualche misura deprecati ne hanno “bloccate” ben altre, quelle che ha dovuto patire Rocco nella tragedia della scomparsa del padre. E ben per Massini se ha avuto il virus nella forma più lieve e se l’è cavata in un mese di isolamento da asintomatico, con queste sensazioni declinate all’annuncio: “Ho il Covid: incertezza, attesa e solitudine sono i sentimenti prevalenti”. “Beato lui” – diranno Rocco e i tanti altri colpiti dalla sconvolgentre tragedialui – per questo Massini amplifica le difficoltà della “nostra vita sociale bloccata dal Dpcm” e sottovaluta indirettamente tutto il resto che non ci sentiamo neppure di rievocare.

Ma non viene considerato un altro aspetto, ed è qui la nostra seconda considerazione: il fatto che non si tratta di una condizione permanente, assolutamente insopportabile nella sua persistenza indefinita, cosa che potrebbe portare ad assumere dei rischi altrimenti evitati volentieri se fosse solo temporanea. Ebbene, la perorazione di Massini viene paradossalmente proprio dopo l’annuncio ufficiale – che segue le recenti anticipazioni sui vaccini in via di approvazione – del programma delle vaccinazioni contro il Coronavirus che iniziarebbero poco dopo la fine dei “blocchi” antifestività natalizie e di fine anno. Quindi i contagi ai familiari più cari che si potrebbero diffondere per non “bloccare la vita sociale” e non “contenere le emozioni” natalizie e di fine anno si manifesterebbero nei giorni in cui presumibilmente si comincerà a festaggiare l’uscita dal tunnel verso l’immunità. Torna in mente il finale di “All’Ovest niente di nuovo” con il protagonista colpito da una pallottola all’annuncio festoso della fine della guerra, incautamente si era spinto oltre il bordo della trincea. Chi vorrà fare la stessa fine? L’augurio è che siano pochi, speriamo nessuno.

Si dirà che la solennità natalizia può giustificare questo ed altro, è una ricorrenza sacra legata a una tradizione così radicata che ne ha fatto anche una solennità civile, mentre il fine anno ha il fascino connaturato con il passaggio al futuro con tutte le sue aspettative; di qui i festeggiamenti irrinunciabili. Ne conveniamo, ma in tempo di guerra non ci si è mai sognati di porsi problemi del genere, e il Natale lo si è festeggiato come si poteva, a distanza, con i poveri mezzi di allora, ora moltiplicati a dismisura, del resto si è sempre detto che questa è una guerra, sia pure asimmetrica contro un nemico invisibile. E se l’arma di difesa personale e di offesa al virus è evitare simili situazioni rischiose perchè non utilizzarla fino in fondo? Tanto più che, pur con il rispetto per la tempistica radicata nel costume e nella coscienza di tutti, la ricorrenza non è legata a un evento non ripetibile, al quale non si può mancare di assistere nel momento stesso, come alle apparizioni religiose e ai fenomeni naturali, quali le comete, le eclissi e altri analoghi.

I festeggiamenti con le famiglie riunite “in presenza”, quanto più allargate e affettuose, si possono benissimo rinviare al momento in cui i convenuti e convitati non faranno più correre gravi rischi ai più fragili di loro, e questo momento si intravvede in una prospettiva ravvicinata, i mesi si contano sulle dita di una mano, e neppure tutte. Questo non vuol dire ignorare la ricorrenza tradizionale, tutt’altro, ma viverla in modo diverso e anche intenso: come la “didattica a distanza” il “Natale e il Capodanno a distanza” facendo sentire la presenza in uno dei vari modi virtuali che oggi vivaddio sono possibili. La stessa Chiesa nella sua saggezza millenaria non si è trincerata sulla mezzanotte per la Messa natalizia ma l’ha anticipata di quattro ore proprio perchè l’ora della nascita del Bambino è una convezione per quanto radicata e sempre seguita. E se fosse stata annullata come è avvenuto per tutte le messe nel “lockdown” totale, sarebbe bastato ai fedeli assistere in televisione alla messa del papa nella Basilica di San Pietro, come già avvenuto nei mesi scorsi. D’altra parte Natale e Capodanno del 2020 vengono di venerdì, due “long week end” da vivere come tali, pur con intense telefonate augurali, rinviando pranzo e cenone ai tempi migliori che sembrano imminenti.

Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha così commentato la morte del compianto Gian Luigi Rocco: “Le persone morte di Covid non sono numeri. Vorrei ricordare questo bravo, grande medico, impegnato come tantissimi suoi colleghi nella professione medica, nel momento in cui si levano preoccupazioni e proteste più sui mancati festeggiamenti per le prossime festività che sulle cautele dirette a contenere la strage che ogni giorno si consuma a causa del Covid”. E ieri si è avuto il record dei decessi in Italia, quasi 1.000 in 24 ore. Abbiamo letto il commento del procuratore dopo aver scritto la nostra nota, precisiamo solo che le cautele di cui parla il dott. Cozzi sono quelle che “bloccano la nostra vita sociale”, per cui doverosamente e maggiormente dovrebbero e devono “bloccarla” in queste festività per i motivi anzidetti.

Ma lasciamo la parola a Gian Luca Rocco, per le sue conclusioni – che seguono con le sue evidenziazioni – prima di riprodurre interamente quella da noi definita “dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid 19”:

Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica” . Ed ecco, riportate di seguito, “queste righe” che invita a leggere, con il loro titolo.

di Gian Luca Rocco

“Mio padre senza Covid avrebbe vissuto altri  20 anni. E c’è chi pensa al Natale e allo sci”

Il nostro collega Gian Luca Rocco ricorda così il padre, uno delle 993 vittime di ieri: “Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa allʼinferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi”

Uso questa foto perché è sfuocata, perché siamo noi e soprattutto perché siamo al Tempio, anche conosciuto come Stadio Luigi Ferraris di Genova. Un, anzi IL, campo da calcio, luogo (di provincia, a 5, a 7, polveroso, fangoso) che ci ha visto passare più tempo insieme. Ore, giorni, se li sommiamo, mesi. Oggi sono morte per il Covid-19 993 persone, mai così tante in un giorno. Gian Luigi Rocco era mio padre e, in modo poco originale, è stato uno di quei morti. Aveva 71 anni e, pur non potendolo definire “in forma”, non aveva nulla se non un lieve diabete. Fino al mese scorso, era stato in ospedale solo due volte (al Pronto soccorso per la precisione). La prima perché si era rotto il braccio giocando a calcio e la seconda per dei calcoli alla cistifellea, poi spariti con dieta e tanta plin plin.

Il 3 novembre il tampone è risultato positivo al Covid 19. Aveva il raffreddore da una settimana e perso gusto e olfatto. Il 6 novembre è stato portato al pronto soccorso di San Martino perché la sua saturazione era crollata. Durante la breve degenza, non lo hanno ossigenato, perché l’ossigeno era finito a causa dei troppi accessi. E’ stato 12 ore su di una sedia di un reparto traboccante di pazienti anche messi peggio di lui. Gli hanno fatto l’esame del sangue, una lastra e poi hanno deciso che insomma, non stava così male, nonostante una serie di asterischi vicini alle analisi che anche Pinco Palla dottore di Wikipedia avrebbe storto il naso. Hanno detto che dalla lastra forse c’era una lieve insufficienza respiratoria, ma niente di grave. Lo hanno rimandato a casa alle 20. Alle 20,30 aveva 40 di febbre e non respirava più. L’hanno portato di nuovo via, questa volta verso un altro ospedale. Il 3 dicembre, cioè quell’oggi che ora volge al termine, è morto, da solo, in un reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Galliera di Genova dopo oltre due settimane di rianimazione e altrettante di degenza (sempre da solo) sotto un caschetto cpap che faceva lo stesso rumore, quando cercavamo di parlare, di un sottomarino russo atomico, con tanto di bip. Appena entrato gli hanno fatto una TAC che sentenziava: broncopolmonite interstiziale bilaterale con il 70% dei polmoni compromessi.

L’ultima volta che l’ho sentito, alle 15,30 del giorno in cui è finito in terapia intensiva, abbiamo parlato (faticosamente) di Trump che non accettava il verdetto delle elezioni (la cosa lo preoccupava inspiegabilmente molto) ma soprattutto di Preziosi che non aveva venduto il Genoa. Lui mi ha ricordato che avremmo giocato la domenica alle 18 contro l’Udinese una sfida decisiva per la salvezza (persa, ovviamente).

Mio padre era un papà a volte distratto, ma sempre presente. Ci sentivamo ogni santissimo giorno alle 20 (cioè in realtà esattamente quando io stavo per iniziare a mangiare, manco avesse una webcam sopra di me). Due parole, giusto per ricordarci che c’eravamo sempre, anche a distanza. Abbiamo fatto tante cose insieme, forse più che tanti altri padri e figli. Abbiamo condiviso gioie e tanto dolore, forse più che tanti altri padri e figli. Non ho rimpianti, non li aveva nemmeno lui, ne sono certo.

Mio padre era un medico (ok, uno psichiatra e uno psicoanalista, facciamo finta che fosse anche un vero dottore, dai) preparato e attento. Metteva il suo lavoro al di sopra di ogni cosa. Ho odiato senza conoscerlo, ogni suo singolo paziente, perché senza una faccia e senza una voce, a volte sembrava contare più di me e di mia sorella. Ma crescendo ho capito anche che quella era una parte della sua vita fondamentale, come me e mia sorella. Mio padre era uno psichiatra forense eccezionale, forse uno dei più bravi in Italia. Non ha mai voluto le luci della ribalta. A parte “Un giorno in Procura”, dove non aveva scelta, non è mai finito in tv, nonostante i corteggiamenti serrati di diverse primedonne dei talk show. Diceva che se vai in tv, non segui i pazienti. O fai la soubrette o fai il medico, il clinico. Oggi questo discorso, è valido più che mai.

Mio padre era un marito affettuoso e fortunato. Ha amato due donne con tutto se stesso. Mia madre, morta prematuramente, e poi negli ultimi 19 anni ha avuto la fortuna di trovare un’altra persona con la quale condividere ogni aspetto della sua vita.

Mio padre era un nonno orgoglioso. Non era tanto capace, diciamocelo. Un po’ distratto se vogliamo, non certo il nonno che si metteva a giocare per ore con il o i nipoti, ma Beatrice, Leonardo e Ginevra erano la luce che faceva brillare i suoi occhi. Per tutti e tre aveva una sorta di adorazione cieca, proprio quella che contestava a suo padre quando mio nonno parlava di me o di mia sorella. La legge del contrappasso.

Mio padre era tante altre cose che nemmeno conoscevo. Magari amici, colleghi, persone che lo frequentavano in altre vesti, lo sanno anche meglio di me. Mio padre sarebbe ancora vivo e probabilmente, nonostante una forma scadente e un girovita abbondante, lo sarebbe stato per i prossimi 20 anni se non ci fosse stato e se non si fosse preso il Covid.

Perché mio padre diceva che stava attento, ma riceveva i pazienti. Che metteva la mascherina, ma andava in Tribunale. Che insomma, non poteva stare in casa, aveva cose da fare, persone da vedere. Mio padre non c’è più, ma là fuori ci sono ancora persone che si lamentano perché Natale lo faranno da soli. Perché non possono andare al ristorante, perché non possono inforcare gli sci, perché è tutta una truffa, una dittatura sanitaria orchestrata, tra l’altro, non si sa bene da chi. Bene, pensate che nel 2021 tornerete a fare tutte queste cose con i vostri cari. Mio padre non potrà più. Noi non potremo più.

Scrivo, e se volete condividetelo, anche per questo. Perché una piccola sofferenza oggi (se sofferenza si può chiamare la distanza per un periodo limitato dai propri cari, il rispetto di misure minime di precauzione, l’idea che sia un anno, un periodo particolare), vi può risparmiare una grande sofferenza domani. Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa all’inferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi. L’impossibilità di vedere, salutare, abbracciare il proprio caro. L’attesa di una telefonata per sperare in qualche miglioramento. Seppellirlo sapendolo in un sacco come un soldato in guerra (ironia della sorte, nemmeno aveva fatto il servizio militare), magari vestito con il pigiama sporco con cui è morto.

Non ho rabbia, non ho rancore. Non mi sento nemmeno una persona sfortunata, né posso dire che mio padre lo sia stato. E’ persino riuscito a finire di leggere il libro che suo figlio e sua nuora hanno scritto. Abbiamo avuto tanto, abbiamo dato tanto. Papà non credeva in Dio, al massimo in Freud, ma diceva sempre (parafrasando Epicuro): “Non ho paura della morte, perché dove ci sono io non c’è lei e dove c’è lei, non ci sono io”. Oggi lui non c’è più, e la morte al massimo ce l’ha lasciata un po’ addosso.

Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica.

Info e Photo

Il commosso scritto di Gian Luca Rocco, con l’immagine insieme al padre Gian Luigi in un momento felice prima della tragedia causata dal Covid, è stato tratto dal sito di TgCom24, che si ringrazia.

Renata Rampazzi, “Cruor”, il sangue delle donne nella mostra al museo Bilotti

di  Romano Maria Levante

Nella “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” del 25 novembre 2020, spicca la mostra “Cruor” di Renata Rampazzi, a cura di Claudio Strinati, prevista dal 17 settembre 2020 al 10 gennaio 2021 al museo Carlo Bilotti, all’Arancera di Villa Borghese a Roma, chiuso per coronavirus, in attesa della riapertura. La  mostra spicca pur se non visitabile perché con una iniziativa celebrativa è stato diffuso oggi 25 novembre dal museo sulla pagina Facebook il video di Giorgio Treves sulla genesi e sui significati profondi delle opere esposte sul tema da un’artista che si è battuta  per il mondo femminile  fin dagli anni ‘70. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra è organizzata dallo studio dell’artista, i servizi museali sono  a cura di Zètema Progetto Cultura. E’ prevista una Tavola rotonda sul tema con Dacia Maraini e Luciana Castellina, Chiara Valentini e Margaretha Von Trotta, Francesca Medioli e Massimo Ammannati con la partecipazione dell’artista. Catalogo bilingue delle “Edizioni Sabinae”, con testi di Maria Vittoria Marini Ciarelli e Dacia Maraini, Cludio Strinati e l’artista, parte delle vendite sarà devoluta all’Associazione Differenza Donna.   

L’artista nell’installazione

Il sigillo  della  carica interpretativa della Rampazzi  che accomuna le sue opere è un colore, il rosso, come forma espressiva, e il sangue come elemento rappresentativo dotato di forza non solo simbolica. E’ un sangue speciale, come sottolinea  Maria Vittoria Marini Clarelli, quello della violenza e della morte che sgorga dalle ferite,  il “cruor” , distinto dal “sanguis” della vita che circola nel corpo: ma  ”è nel sangue che si diventa donna, moglie, madre”, e non è il “sanguis” perchè “il termine cruor definiva anche il sangue mestruale, quello della deflorazione e quello del parto”, come altrettante ferite. Tutti momenti cruciali della vita, ugualmente cruenti, in cui l’uomo è solo spettatore con il suo “sanguis”, ma può diventare disumano protagonista del femminicidio versando il “cruor” della donna.

Le dimensioni del femminicidio e il contesto familiare 

Ma come si può concepire una simile aberrazione criminale contro quella che viene chiamata “l’altra metà del cielo”, angelicata, destinataria di liriche e serenate, di amori dolci e delicati? Tentiamo di dare una risposta  a questa domanda che non si dovrebbe porre neppure, ma presenta in tutta la sua drammaticità la tragica realtà dei “femminicidi”, parola che fa rabbrividire.  Omicidio non è l’uccisione dell’homo, l’uomo,  a cui deve corrispondere il femminicidio, l’uccisione della donna, ma dell’omo, il proprio simile. Si è voluto creare il termine di genere, femminicidio e non c’è il maschicidio, per la sua inconcepibile ma reale e vasta diffusione, però non si è modificata la sanzione, resta la stessa dell’omicidio anche se la vittima è una donna. Le nuove norme penali che portano questo nome con la qualifica del “codice rosso”, non si riferiscono al momento delittuoso, ma alle  molestie e alle violenze, spesso preludio del reato più grave, con doverose corsie preferenziali  per la necessaria tempestività nella prevenzione e nella repressione.

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“Composizione”, 1977 parte sin.

Qual è la dimensione di un fenomeno così aberrante e  disumano, e quali sono le  sue espressioni criminali?  Rispondere a questa domanda può essere un preludio per l’altra ben più difficile, sulle radici di tale violenza; per poi passare alle opere della Rampazzi che dà corpo artistico alla ribellione contro questo massacro. Perché tale si deve definire l’uccisione di una donna ogni tre giorni in Italia nei primi 10 mesi del 2020, 91 vittime per il 95% ad opera di uomini, altissima percentuale questa quasi costante, è variata solo tra il 90 e il 95% dal 2000.  Con la particolarità che quasi il 90% dell’uccisione delle donne avviene nell’ambito familiare e, al suo interno,  quasi il 70% nel rapporto di  coppia. Le donne assassinate dalla criminalità comune  nei 10 mesi del 2020  sono  state 3, mentre nel 2019 erano state 14, quindi la maggiore esposizione alla violenza all’esterno da parte dei delinquenti di strada come “sesso debole” fisicamente non c’entra affatto, anche se la diminuzione degli assassinii nell’ultimo anno è dovuta al “lockdown”, putroppo più che compensata dall’aumento delle violenze all’interno delle mura domestiche.

“Composizione”, 1977 parte dx.

Sono dati dell’ultimo Rapporto Eures sul femminicidio in Italia,  rilevatori dell’aggravarsi del fenomeno anche quest’anno, dato che nell’ultimo ventennio  l’incidenza nell’ambito familiare è stata del 73,5% e quella all’interno della coppia del 66%, aggravamento peraltro progressivo dal 2000 ad oggi. E’ in forte aumento una circostanza che richiederebbe maggiore attenzione: oggi almeno la metà di questi assassinii è stata preceduta da violenze pregresse, mentre in passato la percentuale era inferiore. Questo dato significativo potrebbe dipendere dallo scarso peso  dato agli allarmi dinanzi a violenze di ogni tipo: psicologiche per il 20%, fisiche per il 18%, le molestie dello  stalking  per il 13%, infine per l’11% violenze note a terzi; soltanto il 4,4% vengono denunciate, quindi non è neppure scarsa efficacia degli interventi delle autorità, ma sottovalutazione o meglio paura di aggravare la situazione con il ricorso alle autorità delle potenziali vittime. Il “lockdown” ha aggravato il fenomeno, come è stato evidenziato rilevando l’aumento dei reati nella convivenza dal 58% del totale nel 2019, al 67,5% nei primi mesi del 2020 fino a superare l’80% nel periodo di chiusura completa nelle abitazioni, per cui tra marzo e giugno “ben 21 delle 26 vittime convivevano con il proprio assassino” mentre è sceso il numero di vittime non conviventi del 28%.

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“Composizione”, 1978

 Ci siamo soffermati su dati inequivocabili che riportano alla famiglia  e alla coppia, dove le donne sono più protette che all’esterno nella normalità; troppo spesso, però, nell’alterazione trascurano i segnali pericolosi delle violenze pregresse, a parte i timori cui abbiamo appena accennato, e su questo si dovrebbe fare leva per combattere la degenerazione insensata della convivenza. Ma  tale situazione deve far riflettere anche  sulla natura umana, in particolare sulla differenza di genere, per ricavarne elementi utili a fini propositivi.

Le radici sociologiche e l’espressione individuale di una violenza aberrante

Partiamo da una prima riflessione: a differenza dei primordi in cui la maggiore forza fisica poteva determinare il divario criminale tra uomo e donna, ora non può essere più questa l’origine: tanti sono i modi subdoli cui si può far ricorso soprattutto nella convivenza e del resto la storia di Sansone e Dalila insegna a quali artifici la donna potrebbe ricorrere, con tanti mezzi di offesa a sua disposizione.

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“Composizione”, 1978

Su quali possano essere i motivi della maggiore aggressività maschile si è interrogata Dacia Maraini nel presentare la mostra. La sensibile scrittrice parte da lontano, dal patriarcato tradizionale quando le donne erano sottomesse in tutti i sensi all’uomo. E non si può che darle piena ragione ripensando che nel nostro paese fino a pochi decenni fa era nel codice penale  il “delitto d’onore” – divenuto “divorzio all’italiana” nel film di Pietro Germi – cioè il femminicidio di coppia quasi depenalizzato, mentre l’”adulterio” della donna era punito dalla legge addirittura con il carcere in base alla prova del “letto caldo”, più di quello maschile che richiedeva una “relazione adulterina”. La scrittrice parla di “una vera azione punitiva da parte di una società dei padri nei riguardi delle nuove figlie” cresciute con l’emancipazione “demolendo le roccaforti dei privilegi patriarcali”, considerando che “per ogni diritto conquistato c’è un privilegio che viene negato”.

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Ferita”, 1979

Questo porterebbe “i più deboli e impauriti” tra  gli uomini a ribellarsi alla perdita della superiorità che sentivano acquisita soprattutto nel rapporto di coppia: “il dominio sulle femmine  della famiglia, la libertà di scelta sessuale, la possibilità di imporre ubbidienza e fedeltà  alla donna che dicono di amare, l’arbitrio della conquista  e della predazione, la solitudine del comando”.  Mentre “l’uomo che guarda con occhi saggi il mondo che cambia si adegua”,  e con la donna affronta i cambiamenti cercando di “governarli per il meglio”, una minoranza di loro “usano la violenza estrema sulle loro donne”; e questo avviene anche in modo virtuale sulla rete, dove “il clima di intolleranza circola anche tra i giovanissimi” e  “monta il rifiuto verso le donne che diventano sempre più autonome e indipendenti”; in particolare con “l’accanimento contro quelle che agiscono, che si fanno riconoscere, che prendono decisioni pubbliche, che dispongono di una qualche forma di potere”.  Sgombriamo il campo da quest’ultima estensione, che appare “ultronea” e non considera che sulla rete si trova di tutto, è generalizzato l’”accanimento” in particolare verso quelli che “dispongono di una qualche forma di potere”, uomini e donne che siano, razzismo compreso.

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Ferita”, 1980

Ma la Maraini ha usato due parole chiave sugli uomini che non accetterebbero l’emancipazione femminile: “i più deboli e indifesi”. Vediamo come interpretare questo riferimento, anche se in modo estensivo e al di là del pensiero della scrittrice,  o comunque traiamone le conseguenze.  Crediamo che non si debba attribuire eccessivo raziocinio ai “più deboli e indifesi” che si macchiano di simili orrendi misfatti collegandoli  alla criminale riaffermazione di un potere che sono consapevoli di avere perduto e vogliono riconquistare con la forza andando contro la storia. Non riaffermano nessun potere ma sanciscono la propria definitiva  impotenza,  quindi avviene proprio l’inverso in quanto non possono sfuggire al potere repressivo dello Stato – spesso addirittura si costituiscono dopo il delitto –  e oltre a cedere  i”privilegi” di cui parla la Maraini devono cedere la propria libertà senza per questo riconquistarne alcuno, l’opposto! 

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Ferita”, 1981

Sarebbe pura demenza un atto pseudo razionale di questo tipo, com’è pura demenza l’atto barbarico e irrazionale compiuto. Che poi ci siano i motivi citati dalla sensibile scrittrice può anche verificarsi in determinati casi, ma in generale non troviamo spiegazioni e giustificazioni razionali a qualcosa che è bestiale, irragionevole e inqualificabile. Perciò è importante avvertire i sintomi nelle violenze pregresse prima che la follia criminale esploda in tutta la sua forza belluina. Non “nobilitiamo” con patenti di sociologia ciò che è uno scoppio di pazzia  di menti malate come avviene nei “deboli e indifesi”! Ma chiediamoci perché sono solo dell’uomo e non anche della donna interrogandoci su ormoni e Dna.

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Ferita”, 1982

Al contrario della naturale maggiore forza data dalla prestanza fisica e dalla massa di muscoli i maschi in generale – e non solo “i deboli e indifesi” citati dalla Maraini – mostrano una maggiore fragilità psichica rispetto alla donna, nella cui matrice genetica  ci sono le risorse fisiologiche e interiori a sostegno della maternità, e queste le danno una forza mentale superiore. Anche nei primordi, mentre il maschio andava a caccia del cibo che si procurava con la forza muscolare unita all’inventiva, la femmina doveva provvedere ai piccoli nella solitudine e nell’insicurezza. Quindi ha rafforzato le sue risorse interiori  già superiori per i motivi naturali anzidetti. Con l’emancipazione ha acquisito una nuova consapevolezza e ulteriori sicurezze, confermandosi ben più solida del maschio dal punto di vista psichico. Di qui l’assenza di maschicidi comparabili ai femminicidi – per usare due termini equivalenti  ugualmente aberranti – mentre potrebbe essere una  conseguenza dell’emancipazione della donna il far valere le proprie ragioni nello stesso modo. 

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“Lacerazioni”, 1980 parte sin.

Non ci sembra contrastare con questa visione il fatto che  il fenomeno della violenza sulle donne fino all’assassinio sia di intensità crescente, come mostrano i dati degli ultimi vent’anni.  Crediamo infatti che non sia collegato alla maggiore emancipazione della donna, ma piuttosto alla continua crescita dei disturbi neurologici e mentali soprattutto nei paesi ad alto reddito, forse in parallelo alla diminuita tensione per le necessità quotidiane che porta alla luce le insicurezze interiori facendole esplodere in patologie. E’ stata evidenziata una stretta relazione tra i disturbi neurologici e  mentali e lo sviluppo, dato che già Freud parlava del “disagio della civiltà” e oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità collega  alla crescita del reddito l’aumento dei disturbi mentali; il fenomeno si spiegherebbe non perché il progresso economico crei tali disturbi, ma perché fa nascere maggiori occasioni in cui possono verificarsi gli squilibri interiori.

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“Lacerazioni”, 1980 parte dx.

Va anche sottolineato che spesso quelli che sono considerati “tratti caratteriali”  ai quali vengono riferiti i comportamenti violenti sottovalutandoli, possono essere invece i sintomi di un disturbo che viene così ignorato, anche perché per ovvie ragioni né i soggetti interessati né i familiari sono disposti  a parlarne. Oltre ai farmaci appositi, c’è la terapia cognitivo-comportamentale per rompere gli schemi distruttivi e sostituirli con qualcosa di positivo. L’Economist avanza questa previsione: “A causa del legame tra sviluppo economico, invecchiamento e malattia mentale i prossimi decenni rischiano di assomigliare a un’età dell’irragionevolezza”. In questa tendenza si può collocare il mostruoso fenomeno del femminicidio che ci sembra vada affrontato anche e soprattutto sul piano sanitario piuttosto che limitarsi a quello sociologico. Soprattutto per mettere in campo una prevenzione efficace che colga i primi segni di violenza come prodromi da non trascurare ma contrastare non solo con doverose misure repressive ma pure curative.

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“Lacerazione”, 1981

I singoli dipinti nelle forme astratte e coinvolgenti tipiche dell’artista

Renata Rampazzi è molto qualificata a dare veste artistica alla ribellione a un fenomeno così aberrante e disumano dato che combatte per la l’emancipazione e la parità delle donne sin dagli anni ’70, e nell’arte esprime la sua denuncia contro la discriminazione: ora la fa direttamente contro il femminicidio!

Pur nella forma astratta dei suoi dipinti ha trovato un modo per rendere percepibile l’oggetto della propria denuncia senza bisogno di interpretazioni sofisticate. E lo ha fatto prendendo come soggetto e oggetto della sua rappresentazione il sangue: il sangue delle donne portato  a livello del sangue dei martiri cristiani, fino allo stesso Cristo, come osserva Claudio Strinati , rifacendosi “a una tradizione antichissima e ricchissima” portata ai giorni nostri “per farsi strumento  di vera  e propria lotta intellettuale e morale in sé e per sé”.  A tal fine sconvolge la sua cifra stilistica, con illustri riferimenti all’”Action Painting”, alla “Pop Art” e alla stessa classicità, trasformando il tema del sangue “nel tema più specifico e molto forte  e coinvolgente della ferita, della lacerazione,  della violazione, verrebbe da dire,  dello spazio figurativo”; in tal modo facendovi irrompere “un elemento di violenta  e  perturbante disarmonia proprio in un contesto che nasce  invece con l’intento di dare bellezza, forma ed equilibrio”.  Ma l’equilibrio l’artista riesce comunque ad assicurarlo “tra la denuncia della vita e la sublimazione dell’arte che assimila ma non dimentica il male”.

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“Rosso”, 1984 parte sin.

Questo equilibrio viene raggiunto con le forme quasi evanescenti descritte così dalla Maraini: “Renata Rampazzi trasforma i corpi di carne in visioni fluttuanti, di tela e nuvole, tela e sogni, i cieli sembrano stillare dall’alto un sangue simbolico, più pesante  e torbido di quello reale, per rivelare lo spessore sordido e terribile delle ferite”.  E la Marini Ciarelli precisa che l’artista “non poteva usare i corpi per stigmatizzare i femminicidi e ha concentrato tutta l’attenzione sul sangue, o meglio sulle sue tracce: le gocce, le macchie, gli aloni, il rapprendersi sulle ferite”. Nessun segno del carnefice, e anche nel riferimento alla vittima, “tutto è sfumato, sbiadito, come se qualcuno avesse cominciato a lavare  quei panni  e li avesse stesi prima di riuscire a renderli di nuovo bianchi”.

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“Rosso”, 1984 parte dx

Anzi in molti dipinti è il bianco a prevalere,  come nelle 3 opere intitolate ”Composizione” : la prima, del 1977, è una grande tela di 2 metri di larghezza in cui il candore della parte centrale è rotto ai due estremi dalle ferite inferte con il rosso che si incupisce fino al marrone scuro nella profondità della lacerazione; nelle due successive, del 1978, larghe poco più della metà,  in una il rosso così incupito occupa il centro ma i suoi rivoli hanno arrossato la parte bianca circostante, nell’altra, sulla destra e in parte a sinistra una macchia nera invade il bianco anch’esso arrossato.

Seguono di poco – a fine anni ’70-inizio anni ’80 – 4 dipinti intitolati “Ferita”:  anche in questi, delle stesse misure delle “Composizioni” di dimensioni minori, il sangue evocativo ugualmente incupito è al centro della tela bianca, in parte appena arrossata.  Negli stessi anni  con le 2 “Lacerazioni“ si approfondiscono di più le ferite, nella forma più elaborata delle “Composizioni”, una delle due richiama quella del 1977, oltre che per la larghezza quasi doppia, per l’analoga collocazione dei tratti cromatici, questa volta più forti con un verde evocativo, ai due estremi della tela. Anche “Rosso” torna alla larghezza doppia, con la differenza che il colore nelle varie tonalità fino all’incupimento dilaga nell’intera superficie, non è più solo una ferita.

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Studi preparatori”, 2018

Dal periodo più lontano, 1970-80 –  che dimostra un impegno artistico sul tema costante e intenso da oltre un quarantennio – si passa agli anni più recenti: nel 2018  troviamo gli “Studi preparatori” per realizzare l’installazione della mostra: strisce larghe 25 cm e alte poco più di un metro, il motivo della ferita è sempre presente, in metà di quelli esposti c’è solo il rosso, negli altri intervengono tinte più scure sfumate.

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Studi preparatori”, 2018

Sono preparatori della straordinaria installazione che rende particolarmente emozionante la visita alla mostra, così descritta da Strinati: C’è  “una specie di cammino marcato nello spazio da una serie di pannelli, fatti  di garze e teli, che sembrano evocare una vera e propria processione, una sfilata di dolenti che accompagnano il visitatore nella visita alla mostra ma sono la mostra stessa”. E lo spiega: “Il visitatore è sollecitato a muoversi come il pellegrino  che va  al Santuario, ma questo è un santuario laico e non ci sono immagini di santi o di martiri”. Ed ecco  cosa vi si trova all’interno: “Ci sono soltanto lacerazioni  e aggregazioni che ci fanno vedere ciò che di fatto non c’è: il dolore, la ferita, il pianto, il grido”. E questo artisticamente è “ tradotto in un’immagine che in ogni caso rappresenta se stessa. Ma quel se stesso è appunto il monito, l’indignazione, la meditazione, tutti coagulati in una essenzialità visiva che dice molto di più di mille descrizioni o perorazioni piene di episodi, aneddoti, dettagli”. In questa rappresentazione laica “non esiste l’episodio o il dettaglio. Esiste con sobrio e solenne vigore l’immagine che evoca senza dire, sollecita senza retorica, commuove senza accumulare una infinità di particolari  precisazioni”.

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Studi preparatori”, 2018

L’arte di denuncia di Renata Rampazzi

E’ così intenso tutto  questo da portare  Strinati a interrogarsi sull’arte di denuncia per rispondere che esiste ma l’obiettivo dell’artista è sempre la creazione e, quando riguarda qualcosa da condannare, la sua forza espressiva è tale “da generare forza emotiva e costernazione in chi guarda che vede svelati orrori e miserie altrimenti meno percepibili e comprensibili”.  Ma sempre all’insegna dell’ “armonia e della bellezza” in una contraddizione almeno apparente con una materia di contenuto opposto che nelle opere della  Rampazzi, e in particolare nel percorso della mostra, trova la sua composizione “nel segno significante  che è bello, sovente bellissimo in sé  ma resta carico del residuo di male e di colpa da cui è scaturito”.  Strinati vi vede addirittura una dimostrazione, nell’arte, della filosofia estetica di Kant,  in quanto “fa sì che la denuncia sia veicolata nella forma di una  convincente e vincente immagine. L’immagine che descrive il male non è scaturita dal male ma dalla positività della creazione artistica”. 

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Studi preparatori”, 2018

Non si pensi, però, che  il male venga nascosto nella trasposizione operata dall’arte.  Strinati è molto chiaro, si deve constatare che “la bellezza dunque non edulcora il male ma ci rende conoscibile l’aspetto più profondo di ogni problema”; e questo avviene quasi in chiave psicanalitica perché, “portando alla chiarezza di sé l’individuo, lo mette in condizione di esorcizzare il male che è in lui”, in una specie di catarsi benefica, come quella che Aristotele attribuiva al teatro.

Del resto, l’installazione esposta in mostra può essere vista in una prospettiva teatrale, “in modo tale da portare il visitatore verso quel sentimento di condivisione e quindi di compassione” che è il fine dell’arte. “I personaggi sono i singoli dipinti  e l’azione consiste nel loro accostamento e nell’essere posti in una sequenza   che genera dialogo, dialettico contrasto e composizione finale dei contrari”.

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Studi preparatori”, 2018

Ma non finisce qui: nell’installazione che rappresenta la sublimazione dei dipinti prima citati, “le opere dialogano veramente tra loro, come attori  sulla scena, e proprio da questo dialogo scaturisce una dimensione di armonia e pienezza interiore che è l’approdo  finale di un singolare viaggio nella pittura…”.  Si tratta, in definitiva,   di “una attraversamento di segni che vogliono dire qualcosa di ben preciso  e ci accompagnano fino ad una conclusione”. La conclusione di Strinati: “Benefico e in questo caso ammirevole bersaglio colpito dall’arte.  Doloroso indubbiamente ma rivelatore”.

Un  giudizio simile, da parte di una maestro della critica e della storia dell’arte come Strinati, fa onore a una coerente linea artistica tenuta per mezzo secolo e approdata a questa realizzazione nella quale con l’installazione si dà corpo a questo coinvolgimento emotivo che arriva alla catarsi.

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Studi preparatori”, 2018

Gli “appunti di viaggio” dell’artista nel “labirinto” della mostra

Questo risulta essere negli intendimenti dell’artista, oltre che nella puntuale interpretazione del critico: lo vediamo nei suoi “appunti di viaggio” – il “singolare viaggio nella pittura” con “l’approdo finale” di cui parla Strinati – in cui la Rampazzi  definisce così questa esposizione che le realizzò per la prima volta nel 2018 per la Fondazione Giorgio Cini di Venezia: “Una mostra  che pensavo come un mio atto di denuncia  per scuotere l’indifferenza della gente  e per sensibilizzare chi, uomo o donna, fosse venuto a vederla”.  Con questo intento ambizioso capì subito che non si poteva limitare a dei quadri, pur se shockanti, dato che il visitatore sarebbe rimasto sempre “spettatore esterno”, coinvolto in “un’azione meramente estetica che doveva successivamente fare da tramite verso una presa di coscienza e di rifiuto a posteriori”. 

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Un momento del lavoro per l’installazione

L’artista si mise alla ricerca di una formula  nuova perché “il visitatore vivesse un’esperienza totalizzante  in cui sensi e riflessione fossero coinvolti contemporaneamente”  e  le singole opere “non dovessero solo dialogare tra loro, essere una galleria di esempi”, ma fossero organicamente  inserite in “un’installazione in cui ogni quadro ne fosse una componente”. Come “momenti autonomi, ma allo stesso tempo parti interdipendenti di un complesso più ampio. Organi vitali di un corpo più articolato”.  Doveva trovare “nella tridimensionalità dello spazio” , ciò che “la spatola o la pennellata sulla tela erano la realizzazione bidimensionale della mia denuncia”. Senza rinunciare ai propri quadri, anzi “dovevano essere  tutti lì presenti e avvolgere chi entrava in un labirinto”.

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Un altro momento del lavoro per l’installazione

Come si compone tale labirinto ce lo dice l’artista per prepararci a percorrerlo, e non le è stato semplice realizzarlo. Perché si è trattato “della trasfigurazione dei singoli quadri in altrettanti teli di cinque metri di altezza per un metro di larghezza”, e questo ha comportato l’uso di materiali diversi da quelli consueti che non avendo la necessaria trasparenza alla luce avrebbero spento le emozioni: invece della tela la garza, che ricorda la cura delle ferite con le bende, invece dei colori ad olio mescole e impasti di pigmenti e terre col siero organico come per richiamo “degli umori dei corpi”; inoltre le grandi dimensioni dell’installazione hanno richiesto che dall’estro individuale dell’artista si passasse a un lavoro collettivo tradottosi in una condivisione più ampia. Finché nel dipingere le garze con i pigmenti di nuovo tipo, in una “Action painting” non voluta ma sopravvenuta, “il colore passava attraverso la trama del tessuto   alterando ulteriormente l’idea originale del modello  rispetto a quello che sarebbe stato il risultato finale che dovevo immaginare”. Quindi, “non semplice copiatura in scala, ma imprevedibilità che mi permetteva di seguire l’estro del momento, l’urgenza del gesto e delle sfumature che le grosse pennellesse mi sollecitavano”.

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Il momento finale del lavoro per l’installazione

Seguiamo ancora l’artista nella sua confidenza in cui presenta il risultato: “Non più tanto lacerazioni, ferite, spessori di olio e di grumi come sulle piccole tele, ma sfumature, diluizioni, ombre ‘tracce’…”. Questo sul piano tecnico, sul piano dei contenuti l’evocazione si fa sofferta: “Lo spazio in cui chi entrava si doveva immergere o si sarebbe trovato circondato, non era più quello della brutalità, ma quello di un grande dolore, di una condivisione emozionale, spirituale, mentale ma anche fisica della sofferenza”. Fino alla rivelazione più accorata: “La vittima del femminicidio non era più il corpus  di un’ingiustizia e di un reato, ma un essere umano di sesso femminile che soffre e con cui il visitatore o, purtroppo, ancora di più la visitatrice deve condividere l’orrore della ripulsa  e l’esperienza del patimento”. 

La conclusione ci sembra il migliore sigillo alla mostra  e non solo: “Non più un’arringa e un proclama, ma un dialogo e un conforto”, dal momento che si viene a creare “un’atmosfera avvolgente in cui lasciarsi immergere e trasportare  dall’emozione e dalla commozione”.  Ha scritto queste parole Renata Rampazzi  nei suoi “Appunti di viaggio” il 20 giugno 2020, le ripetiamo anche noi oggi, 25 novembre 2020, annuale “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne“, unendoci con la nostra viva cronaca all’artista che attraverso “Cruor” ne è stata la combattiva e appassionata protagonista.

Il percorso dell’installazione

Info

Museo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, Roma, sospesa per il Dpcm del 3 novembre 2020. Per la ripresa, da martedì a venerdì e festivi ore 13-19, sabato 10-19, entrata fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 060608. Catalogo “Cruor. Renata Rampazzi”, Edizioni Sabinae, pp. 60, bilingue italiano-inglese, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la Pop Art e l’Action Painting cfr.nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese dal Catalogo fornito cortesemente – e provvidenzialmente nel regime di lockdown che lo ha reso ancora più necessario per la recensione – dall’ufficio stampa di Maria Bonmassar che si ringrazia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’artista nell’installazione; seguono, “Composizione” 1977, parte sin. e parte dx; poi, 2 “Composizione” 1978; quindi 2 Ferite” 1979, 1980; inoltre, altre 2 “Ferite” 1981, 1982; ancora, “Lacerazioni” 1980, parte sin. e parte dx, e altro 1981; continua, “Rosso” 1984, parte sin. e parte dx; poi, 6 “Studi preparatori” 2018; quindi, 3 momenti del lavoro per l’installazione; infine, il percorso dell’installazione e, in chiusura, l’artista mentre prepara i bozzetti.

L’artista mentre prepara i bozzetti.

Franco Bernabè, 5. Le riflessioni del top manager e imprenditore

di  Romano Maria Levante

Si conclude la nostra rievocazione dei momenti culminanti delle tante vicende ricostruite con molta cura e dovizia di particolari nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, con le riflessioni che l’autore e protagonista ha tratto da una esperienza che lo ha visto al vertice di grandi imprese nel settore pubblico e privato, in settori strategici per il Paese, alle prese con difficoltà di ogni tipo. Abbiamo ripercorso gli anni nell’Eni, le battaglie per la concentrazione nel “core business” e la privatizzazione, la quotazione in Borsa e la divisionalizzazione, fino alla tempesta di Enimont con l’iceberg corruttivo; e i due passaggi in Telecom, il primo durato poco più di 6 mesi con la sfortunata resistenza all’Opa dei sedicenti “capitani coraggiosi”, il secondo sette anni dopo durato 6 anni alle prese con l’indebitamento cronico e le problematiche della rete complicate dalle autorità regolatorie, fino alle turbolenze della compagine azionaria. L’esperienza nel capitalismo cinese, nel C.d.A. di PetroChina e il “salto di specie” da top manager a imprenditore con iniziative personali di successo in campi innovativi ha concluso la nostra rievocazione. Ora tiriamo le fila cogliendo gli insegnamenti che si possono trarre da questo lungo viaggio attraverso il capitalismo non solo italiano. Sono  le sue riflessioni, non le chiamiamo conclusioni dato che la vicenda professionale di Bernabè continua felicemente, sempre da protagonista.

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Franco Bernabè

La trasformazione del capitalismo

Le sue riflessioni prendono l’avvio dall’annuale “Bilderberg Meeting” svoltosi nel  giugno 2015  nella sede austriaca di  Telfs Buchen, dalla quale ha fatto una deviazione per passare a Innsbruck, dove ha trascorso  l’infanzia; è una delle puntuali partecipazioni ai meeting dopo la prima con Gianni Agnelli, nello “Steering Committee” di cui fa parte dal 1994, è stato assente solo nel 1995, 1997 e 2002.  La ragione che nel 1954 fece nascere i Meeting del “Bilderberg Group” – il dialogo tra America ed Europa sulla sicurezza – è  venuta meno da tempo con la dissoluzione dell’Unione Sovietica che rappresentava il pericolo da fronteggiare; e sebbene una minaccia sul piano economico venga ora dalla Cina, all’America non interessa più come prima questo dialogo con l’Europa che potrebbe avere interessi opposti ai suoi, basti pensare all’adesione dell’Italia alla “nuova Via della Seta” che ha proiettato delle ombre nei rapporti con gli Stati Uniti.

“Il capitalismo è notevolmente cambiato  nel corso degli ultimi decenni, e non certo per la cospirazione dei Bilderberg”,  osserva alludendo alle farneticanti teorie complottistiche sulle “macchinazioni del capitalismo mondiale” che si consumerebbero nei  meeting annuali. “Contrariamente all’opinione che oggi sembra molto diffusa nelle società occidentali, il capitalismo è cambiato in meglio”.  E cita la crescita economica  e il maggiore benessere a livello globale non solo per  l’aumento  dei redditi che ha riscattato miliardi di persone dalla  miseria più estrema, ma anche  per l’aumento della produttività  che ha equilibrato il tempo del lavoro e quello del resto della vita, mentre il progresso tecnologico ha aperto ai servizi sofisticati e alla  conoscenza. Nello stesso tempo “anche i processi democratici sono stati rafforzati. Oggi esistono nei paesi occidentali strumenti di bilanciamento che impediscono a chi detiene il potere economico di abusarne”.

Nel temporaneo ritorno nella sua Itaca, Bernabé tira le fila, per così dire, di quanto la sua  intensa esperienza manageriale e imprenditoriale gli ha fatto toccare con mano in un periodo in cui la crescita molto accelerata dell’economia mondiale è stata accompagnata da distorsioni e ineguaglianze, da problematicità e limiti, pur con gli evidenti benefici anche a livello sociale su scala globale.

Tra i fattori trainanti cita l’apertura dei mercati e soprattutto la crescita esponenziale degli investimenti esteri generata dalla nuova divisione internazionale del  lavoro verso paesi a basso costo di manodopera  e in grado di adottare prontamente le innovazioni del progresso tecnologico, con i relativi vantaggi sul piano competitivo maggiori del passato. La vastità e rapidità del cambiamento in tutti i campi ha moltiplicato le opportunità ma anche i problemi, la società è stata colta impreparata, la politica inadeguata al suo compito, il disagio è sempre più diffuso.  Nelle imprese, a  differenza delle fasi precedenti, la trasformazione non ha riguardato solo i processi produttivi ma l’intera organizzazione, così l’automazione  ha investito l’apparato impiegatizio, grava sulla fascia intermedia e a bassa qualificazione con effetti deprimenti sulla classe media.

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I maestri: Claudio Napoleoni

A prima vista sembrano problemi limitati, invece non è così perché si è interrotto il meccanismo per cui l’aumento di produttività genera crescita dell’occupazione e del reddito delle famiglie, che spinge in alto i consumi e la domanda aggregata stimolando un nuovo aumento di produttività. Era il  circolo virtuoso indotto dalla produttività rispetto a quello keynesiano del moltiplicatore dei consumi e dell’acceleratore degli investimenti indotto dalla spesa pubblica che è stato abbandonato, salvo ora per l’emergenza Covid.

Come mai è avvenuto questo? La risposta non si fa attendere. Il progresso tecnologico incide per lo più sull’efficienza dei processi e quindi non genera la creazione di nuovi prodotti tali da avere il peso e la diffusione dei beni di massa come sono stati l’automobile e gli elettrodomestici che hanno rivoluzionato e spinto notevolmente i consumi nella prima parte del ‘900. I prodotti innovativi come lo smartphone hanno ridotto i consumi materiali per quelli immateriali, mentre il modo diverso di soddisfare i bisogni, con la forte spinta dell’innovazione tecnologica sulla produttività, ha effetti dirompenti sull’occupazione e sulla domanda di lavoro: così spariranno interi settori e si potrà sentire l’esigenza di forme di reddito universale.

L’esaurimento della forza propulsiva del capitalismo

Questo non vuol dire che il capitalismo è in crisi, anzi lo adottano anche paesi che prima tentavano altre strade. Ma non mostra più la dinamica di epoche passate e la vitalità degli “spiriti animali” che ne sono i protagonisti, non si avverte più la “distruzione creatrice “shumpeteriana. Ne vengono individuati i motivi.

Il primo è il peso delle regole introdotte per correggerne gli eccessi, che possono far esaurire la sua forza propulsiva: sono regole diverse nei vari contesti e particolarmente severe in campo europeo, dove si è creata una complessità tale da richiedere grandi dimensioni aziendali per assorbirne gli oneri eccessivi, e questo ha compromesso anche la competitività di molte imprese europee sul mercato globale.

Ma c’è un secondo importante motivo, “il ruolo pervasivo della finanza”  rispetto al resto, assetto produttivo in testa, e questo lo si è visto in modo plateale nella vicenda Telecom, tutta finanziaria nelle rapaci scorrerie borsistiche.  La spersonalizzazione, il venir meno dell’importanza del fattore umano ha spento la creatività, e non sappiamo se il capitalismo riuscirà a trovare “un giusto bilanciamento tra libertà e regole”; anche per i mercati  finanziari dove, al contrario – aggiungiamo noi – la “deregulation” ha portato a una situazione ingestibile, un “Far west”  che minaccia la vita economica e lo sviluppo dei settori produttivi. Si è formata una “nuova classe” –  ovviamente non quella che Milovan Gilas vide nel mondo comunista coniando il termine  – alla quale appartengono i finanzieri, super ricchi ma non veri imprenditori, classe divenuta dominate nei fatti, mentre la classe operaia ha perduto drasticamente la sua forza e il suo peso.

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I maestri: Bruno de Finetti

I fattori trainanti del capitalismo, “la creazione di valore, la libera circolazione dei capitali e lo Stato minimo” mostrano sempre più i loro limiti nelle mutate condizioni odierne. Vi sono  modi diversi da quello tradizionale di creare valore – l’obiettivo dell’impresa – con il capitale umano, tali da generare reddito al lavoratore. “Forse  i problemi di cui soffriamo oggi sono in parte riconducibili all’aver preteso troppo dai meccanismi di mercato e dai meccanismi di crescita che hanno utilizzato in modo indiscriminato risorse future (da quelle naturali a quelle finanziarie) attraverso l’accumulazione di un eccessivo livello di debito sia nel settore pubblico che in quello privato. Forse paghiamo lo scotto di esserci spinti oltre i limiti consentiti dal sistema capitalistico”. E lo dice chi ha esplorato e sfiorato da vicino tali limiti, con questa conclusione: “Il fatto che alcune delle misure adottate in passato si rivelino oggi parzialmente inefficaci  è un bene se ci indurrà a riflettere per non ripetere gli stessi errori”.

Tra questi errori, i ritardi nelle privatizzazioni, processo che l’Italia  ha avviato tardivamente – e con le  esitazioni interessate di cui abbiamo parlato nell’esperienza Eni, per non ricordare il “nocciolo duro” di Telecom – come in tutta l’Europa continentale  praticandola solo dagli anni ’90, dopo aver constatato i risultati conseguiti dalla svolta privatistica di Reagan negli Usa e della Thatcher in Gran Bretagna.

Ma le privatizzazioni europee non sono state accompagnate dagli altri strumenti della “cassetta degli attrezzi” americana e britannica: l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” – come li chiamavano nel nostro Paese – che vincolano l’iniziativa privata, la riduzione delle imposte finanziata dal contenimento della spesa pubblica assistenziale, con minori tutele pubbliche e maggiori incentivi ai privati per mobilitarne le energie. Si è ridotta la presenza dello Stato nell’economia senza però definire un suo rapporto meno invasivo con l’individuo, a differenza di come si è fatto nel mondo anglosassone dove si è assecondato il recupero dei valori politico-culturali da cui ci si era allontanati con il forte interventismo keynesiano necessario per fronteggiare la dirompente crisi economica che segnò profondamente l’intera società negli anni ’30.

Con questo non nega l’importanza dell’azione pubblica nell’economia, ma deve manifestarsi con strumenti in grado di promuovere progetti che abbiano ricadute sul sistema economico: con il dovuto finanziamento della ricerca e forniture pubbliche mirate, la promozione di tecnologie innovative e l’introduzione di incentivi finanziari e fiscali, in modo da orientare le scelte degli imprenditori. Scelte che non possono essere pubbliche per non perdere il fattore chiave dell’imprenditoria, l’assunzione del rischio che per i privati avviene con un sistema di premi e sanzioni e con processi trasparenti nei riguardi degli investitori; nell’imprenditoria pubblica tali processi sono troppo vincolati dai limiti alla discrezionalità delle scelte, e quando vengono superati si può passare dalla discrezionalità all’arbitrio, come insegna la vicenda Eni.

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L’inizio: la sede dell’Ocse a Parigi

Il capitalismo italiano, “nave senza nocchiero in gran tempesta”

In  Italia tutto ciò si è manifestato con particolare evidenza, il nostro paese “ha subito le trasformazioni che stavano avvenendo nel resto del mondo senza governarle”,  come la finanziarizzazione dell’economia mondiale senza beneficiarne in quanto il risparmio delle famiglie non va nel sistema produttivo nazionale ma soprattutto verso gli impieghi più remunerativi offerti all’estero.

Si può far fronte a tali problemi “con istituzioni radicate in Italia, che conoscano il nostro paese e le sue specificità, e abbiano strategie compatibili con il particolare tessuto produttivo italiano fatto di piccole e medie imprese”, da incentivare “attraverso adeguati strumenti fiscali ad assumersi il rischio di investire in imprese nascenti”. Lo dice Bernabè da imprenditore che ha attivato “start up” di successo.

Inoltre “occorre semplificare la vita delle imprese e degli imprenditori, riportando l’attività normativa ai principi essenziali”, e non è un’ovvietà, nonostante i proclami non avviene. La lezione a livello globale sul ruolo dello Stato vale soprattutto per l’Italia, dove è stato tanto invasivo da far divenire permanenti strutture come l’Iri create per contenere gli effetti della grande depressione degli anni ‘30. Mentre  in un sistema in cui l’innovazione viene stimolata con regole e infrastrutture pubbliche adeguate, “lo Stato svolge una funzione essenziale nel promuovere gli investimenti, non solo nelle infrastrutture e nei servizi, ma anche nella ricerca, nella scuola, nell’Università”. “In questo l’Italia è carente”, è la constatazione che segue, ”occorre un programma di snellimento dell’amministrazione centrale e locale e di semplificazione delle procedure”.   La rivoluzione di Internet e del web mostra come processi e sistemi messi a disposizione da enti pubblici, promossi e sviluppati dai privati, “hanno prodotto le condizioni per una trasformazione radicale dell’economia e del nostro stesso modo di vivere su scala mondiale”. 

Lo  Stato con regole appropriate può “creare incentivi e disincentivi allo sviluppo, favorendo l’innovazione e l’imprenditorialità”,  e può “abbattere i limiti alla libertà d’iniziativa privata in un campo inesplorato” e innovativo, nel quale è in gioco il futuro. Ma non basta: “Uno Stato che voglia favorire l’innovazione dovrà procedere a selezionate operazioni di potatura. Solo incamminandosi su questa strada potrà assicurare alle giovani imprese di crescere e di dare frutti”.  Il termine “potatura”, che richiama  gli insegnamenti della civiltà contadina validi anche nel presente e nel futuro, ci riporta alla sua origine, una famiglia relativamente modesta ma dalle solide radici nella sua terra.    

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La prima grande azienda: la sede della Fiat in Corso Marconi a Torino

Le lezione del capitalismo cinese

Sul  ruolo dello Stato c’è anche “la lezione cinese sul capitalismo”.  In Cina lo Stato è quanto mai invasivo, ma l’industria viene riorganizzata sul modello occidentale separando con la privatizzazione le funzioni pubblicistiche, che restano alle strutture statali, da quelle industriali e commerciali affidate a iimprese in competizione sul mercato. Tra queste PetroChina, per la quale Bernabè ommenta, dopo un numero di mandati da amministratore superiore a quello consentito che peraltro i cinesi volevano prolungare: “La governance di tipo occidentale era entrata a far parte della cultura aziendale e la discussione in consiglio non era più rituale ma entrava nel merito delle singole proposte iscritte all’ordine del giorno”; e non erano temi di poco conto, la discussione sul grande gasdotto d’importazione fu serrata e Bernabè forte dell’esperienza italiana ebbe un ruolo determinante.  Nota però che nella “cultura aziendale” cinese ritrova aspetti non commendevoli: “Le lotte di potere non erano molto diverse da quelle che avevo già vissuto in Eni e sfortunatamente anche gli scandali avevano vari punti in comune”: abbiamo già ricordato la “Tangentopoli cinese”. 

Sul piano generale sottolinea un aspetto senza dubbio positivo: “Nelle economie e nelle società occidentali i cambiamenti sono spesso radicali e si rivelano potenzialmente destabilizzanti, in Cina rispondono  a criteri di prudenza e progressività secondo l’aforisma di Deng Xiaoping: ‘Attraversare il fiume tastando le pietre’”. E lo analizza sulla base dell’esperienza personale: “La Cina ha radici culturali molto antiche che decenni di comunismo non sono riuscite ad espiantare”, per cui le loro dinamiche sociali “risentono dei valori millenari dell’armonia, del rispetto  e del merito di cui è impregnata la cultura cinese, che aborrisce l’instabilità e il disordine nei rapporti sociali”. E’ confortante con un miliardo e mezzo  di abitanti!

Quelle che ci interessano in modo particolare, però, sono le considerazioni che Bernabè ricava sul piano economico: “La Cina è l’esempio di come il capitalismo sia un fenomeno multiforme, straordinariamente capace di adattarsi alle peculiarità dei diversi sistemi economico-sociali da cui è adottato”. Per questo motivo: “Nel plasmarne le caratteristiche intervengono le dinamiche politiche, i rapporti di forza tra le classi sociali, l’articolazione del quadro istituzionale, i meccanismi di regolazione dei mercati”, per cui “non esiste una definizione accettata di capitalismo”. Ma le conclusioni di  Bernabè ne presentano una, come risultato di un’esperienza multiforme nel cuore del capitalismo occidentale e cinese:  “Per qualificarlo è sufficiente  che la proprietà dei mezzi di produzione e del capitale sia distinta dal lavoro salariato”. Con questa precisazione: “Che poi la proprietà appartenga allo Stato, a istituzioni finanziarie o a privati cittadini è del tutto indifferente e l’economia cinese ne è un esempio formidabile”.

La nostra rievocazione dell’odissea di Bernabè nelle acque agitate di “quarant’anni di capitalismo italiano” e non solo,  si chiude qui,  ma non possiamo esimerci da un “flash back” sul personaggio, anzi sulla persona, sempre presente nella storia narrata al di là dell’apparente neutralità di un saggio non asettico. 

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Bernabè con Gianni Agnelli

Dalla  formazione, lo spessore personale del protagonista

Per questo non vorremmo che il nostro  sommario resoconto dei contenuti di un libro che ne ripercorre le vicende in modo quanto mai denso e dettagliato desse l’impressione di una successione di fatti rievocati con la freddezza di una relazione tecnica  in campo economico, industriale e finanziario. Tutt’altro, è una sorta di diario personale che registra fedelmente le iniziative e le azioni del protagonista lasciando spesso percepire – anzi rivivendole a volte esplicitamente – le sue emozioni insieme alle motivazioni recondite. Che riportano alla sua scala di valori con riferimenti alla propria formazione alla quale è dedicata una trentina di pagine, nella prima parte del libro, marcando così l’inizio della sua storia umana e non solo professionale.

Tutto ciò con notazioni quanto mai espressive di un carattere determinato con la consapevolezza della propria visione ideale e la ferma volontà di perseguirla senza esitare dinanzi a scelte anche difficili;  questo atteggiamento, al vertice delle grandi imprese di cui abbiamo parlato,  si tradurrà nella determinazione a far valere i loro interessi non pensando ai propri anche quando questo gli  comportava pesanti rinunce. Del resto, in una delle sue riflessioni finali troviamo che il conflitto di interessi tra le ambizioni del manager e gli interessi dell’impresa è ancora più dannoso di quello per motivi economici perché sfugge ad ogni meccanismo di controllo, per quanto sofisticato possa essere. Questo conflitto non lo troviamo nel suo caso, perché non si ha nel passaggio  dal vertice dell’Eni a quello di Telecom, e nel successivo ritorno al vertice di Telecom, motivati entrambi da una sfida da vincere per l’azienda prima che per se stesso.

Una formazione cosmopolita, dopo l’infanzia a Innsbruck dove frequenta l’asilo e le scuole elementari in una scuola tedesca, la famiglia vi si era trasferita dalla natia Vipiteno per il lavoro del padre mandato alla sottostazione delle Ferrovie italiane nella città austriaca. Nel 1959, a 11 anni, a Torino, dove il padre era voluto rientrare appena liberatosi un posto alle Ferrovie per non far perdere ai due figli le radici italiane; poi al liceo classico con una borsa di studio in America, non se la fa scappare contro il volere dei professori perché il corso non era riconosciuto. Ma fu altamente formativo per i valori di una democrazia basata sul bilanciamento e non solo sulla divisione dei poteri e per la  fede negli ideali, il ruolo delle organizzazioni intermedie e la diversa concezione dei rapporti tra lo Stato e la società civile, l’importanza della solidarietà.

Per le sue voraci letture quattro lingue oltre l’italiano,  il tedesco seconda lingua madre, l’inglese- americano imparato dal vivo,  studiati a scuola il  russo e il francese  che perfezionerà a Parigi quando andrà all’Ocse. Frequenta l’Università nel Laboratorio di economia politica “Cognetti de Martiis”, organizzato sull’esempio dei più prestigiosi istituti – la London School of Economic and Political Science, il Museo sociale di Parigi e i college economici americani – vi si erano formati allievi come Luigi Albertini e Piero Sraffa fino a Luigi Einaudi. Veniva applicato, nella parole di Cognetti, “il rigore teorico, il metodo empirico e gli strumenti analitici delle scienze fisiche anche  a quelle sociali e in particolare all’economia”.

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Bernabè nello “sbarco” nell’Eni

Ebbe come docenti maestri “che avevano un’aura di sacralità” come Firpo e Passerin d’Entreves, Bobbio e Claudio Napoleoni, le cui lezioni “erano ispirate”: dieci anni prima alla Svimez appassionava gli allievi del “Corso di formazione sullo sviluppo economico” con il suo carisma e la sua scienza economica, erano memorabili le sue lezioni sulla “produzione di merci a mezzo di merci” di Piero Sraffa, c’era anche Bruno de Finetti, ma questo è un nostro ricordo personale… Tornando alla rievocazione del libro, “nel ribollire di quegli anni, con la rivolta del Sessantotto che aveva avuto come epicentro le facoltà umanistiche, il Laboratorio era rimasto un’oasi di tranquillità. Eravamo all’incirca trenta frequentanti. C’era un professore per ogni studente. Si collaborava in un clima straordinario”. Tra i compagni di corso giovani promesse la cui carriera sarà prestigiosa, da Gomel futuro direttore in Banca d’Italia a Santagata grande economista, da Siniscalco ministro dopo un passaggio all’Eni a Marsaglia che diverrà un grande banchiere internazionale.   

In quel periodo, tra il 1968  e il 1970, Bernabè collabora con giornali e periodici scrivendo soprattutto sui paesi dell’Est, accedendo direttamente alle fonti per la conoscenza delle lingue, quindi fornendo notizie inedite. Di lì la frequenza dei seminari a Venezia del Ceses, il Centro studi e ricerche sui problemi economici e sociali fondato da Renato Mieli, rientrato in Italia con gli angloamericani, era il “Capitano Merrill” della loro “intelligence” nei paesi occupati. Togliatti gli offrì incarichi importanti nella stampa comunista per le sue capacità, oltre all’ideologia, fondò l’Ansa come cooperativa giornalistica; lo preoccupava il futuro del figlio Paolo, e sappiamo poi qual è stato… Ciononostante il Ceses nacque da un finanziamento della parte avversa, la Confindustria, ma con partecipanti e relatori di ogni orientamento: Franco Mattei direttore generale della Confindustria e  Ferdinando Di Fenizio, Giovanni Sartori e Giuliano  Urbani, Gianfranco Pasquino e Lucio Colletti, Renzo De Felice e Luciano Cafagna, Paolo Spriano e Rosario Romeo, Leo Valiani e Paolo Ungari. Figure che qualificano il suo percorso formativo.

Seguiva anche i corsi del Centro internazionale di matematica estivo di Bruno de Finetti a Orvieto, con partecipanti delle più diverse discipline – economisti e sociologi, politologi e intellettuali – alle quali veniva applicato il rigore matematico. Nel seminario del 1971 “un tema di cui si è tornati a discutere dopo cinquant’anni”, garantire “un reddito minimo per tutti” finanziato da “una perequazione in sede fiscale”; nel 1973 i temi delle abitazioni, del mercato del lavoro, “di ecologia e del rapporto tra produzione e ambiente”, anche questo è quanto mai attuale. Tra i partecipanti, nomi che avranno ruoli importanti come Paolo Savona e Michele Salvati, Fabrizio Onida e Guido Rey, Sergio Steve e Carlo Secchi; nonché Antonio Pedone e Franco Reviglio, di cui era assistente  a Torino, oltre a Federico Caffè, il grande economista.

“Fu a quelle lezioni che conobbi Mario Draghi, con il quale instaurai, negli anni trascorsi al vertice di Eni, un solido rapporto professionale che dura tuttora”. Un insegnamento  dei corsi estivi riguarda la “teoria soggettivistica della probabilità”: secondo De Finetti “la probabilità è il grado di fiducia che un individuo sulla base delle conoscenze a lui disponibili, attribuisce a un evento o a un enunciato, la cui verità o falsità gli sono, per qualche motivo sconosciute”. Chissà quante volte, nella sua odissea manageriale, Bernabè avrà ripensato a queste parole, e quanti stimoli ne avrà tratto! Il Club Turati di Torino gli chiese di organizzare alcuni Convegni di economia, “cosa che feci con grande entusiasmo”, ricorda.  

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Bernabè, il doppio passaggio a Telecom Italia

Laurea di eccellenza nel 1973 all’Università di Torino in Scienze politiche con curriculum economico, dove diventa assistente del prof. Reviglio, poi ricercatore di economia alla Fondazione Luigi Einaudi dal 1973 al 1976, e professore incaricato di Politica economica nella Scuola di Amministrazione industriale dell’Università di Torino nel 1975-76.  

Su queste basi inizia il proprio percorso professionale già di livello, nel 1976 all’Ocse a Parigi dopo aver rifiutato un’offerta alla Fiat volendo avere un’esperienza internazionale. E’ un’altra occasione straordinaria di conoscere personalità di altissimo livello, Parigi “diventa crocevia di incontri” soprattutto per preparare il rapporto Mc Cracken sul mercato del lavoro assegnato al  dipartimento  di cui faceva parte dopo il primo shock petrolifero dell’ottobre 1973 che aveva portato alle stelle i prezzi dell’energia, quindi l’inflazione e, attraverso i meccanismi di indicizzazione, aveva determinato “l’esplosione salariale”; era l’altra emergenza studiata, oltre a quella petrolifera. Membri della Commissione costituita nel 1975,  oltre al coordinatore Mc Cracken che era stato a capo dei consiglieri economici del presidente americano Nixon, c’erano Guido Carli già Governatore della Banca d’Italia, Raymond Barre, l’anno successivo premier del governo francese allorché gli subentrò Robert Marjolin, Herbert Giersch, già presidente del Consiglio di esperti economici del governo tedesco.

“Non potevo sperare in un compito più interessante – commenta oggi Bernabè – Era straordinario assistere alle discussioni di un gruppo così qualificato di esperti  che alla solida cultura economica univano una grande esperienza di gestione dell’economia”. E poi lavorare al rapporto.

La Fiat torna alla carica nel 1978, e questa volta accetta:  entra come direttore studi economici in stretto contatto con Mosconi,  direttore per la pianificazione e il controllo che lo aveva convinto negli incontri in convegni di studio, quindi può approfondire i problemi dell’organizzazione e della  programmazione aziendale; alla direzione finanziaria era entrato Gabriele Galateri di Genola, diventerà A. D. di Fiat nel 2002, lo ritroveremo con Bernabè al vertice di Telecom nel 2007.  E’ la Fiat di Cesare Romiti e di Gianni Agnelli, ne riceverà lezioni preziose. Come le avrà dal periodo durissimo negli anni di piombo, sarà anche nel mirino di “Lotta continua” per i suoi precedenti all’Ocse, come “rappresentante delle tenebrose forze del capitalismo…” e così delirando; poi con la “marcia dei quarantamila” l’ordine tornò in Fiat.

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Bernabè, nel C.d.A. di PetroChina

Imparò molto da quegli anni di crisi acuta seguita dalla massima trasformazione con Romiti, maestro nel gestire le crisi e gli uomini, che lo faceva partecipare alle colazioni di lavoro  con i ministri delle Finanze Reviglio e delle Partecipazioni statali Lombardini, dato che era stato in stretto contatto con loro come assistente all’Università di Torino. Questo gli diede “maggiore visibilità” in Fiat, dove vide all’opera Romiti che tenne duro nella fase più critica del blocco di Mirafiori pe 35 giorni in risposta ai licenziamenti, contro i timori della famiglia Agnelli propensa a cedere, “solo l’Avvocato mantenne la calma e l’equilibrio”.

Ne ricavò l’insegnamento e insieme ammonimento che “un capo deve evitare l’isolamento, ma deve anche accettare la solitudine delle sue decisioni senza condizionamenti, laaciandosi portare solo dall’interesse dell’istituzione che rappresenta”. Si era nell’aprile 1980, premier Cossiga con Reviglio alle Finanze. “Fu in quel periodo che Romiti e l’avvocato Agnelli mi chiesero di collaborare alla stesura dei loro discorsi”. Gianni Agnelli, che aveva vari “ghostwriter”, lo consultava per gli interventi in materia economica: “L’Avvocato mi chiamava, mi intratteneva sull’evento al quale avrebbe dovuto partecipare e discuteva sul taglio del discorso e soprattutto sul messaggio da divulgare. Non cercava mai di imporre le sue idee. Ci si confrontava e si decideva insieme una linea, nel’interesse dell’azienda”. E, particolare gustoso, “gli piaceva condire gli interventi con battute frutto di sue personali riflessioni: soluzioni di grande effetto oltre che di grande intelligenza. Era interessato a far presa sul pubblico”. 

Ma Bernabè desiderava il passaggio all’esperienza operativa dopo l’attività negli studi economici, andare dallo “staff” alla “line”. Il Capo del Personale Fiat lo negò considerandolo bravo per il ruolo che occupava e “troppo buono” per quello a cui aspirava che richiedeva un carattere forte. Evidentemente non conosceva gli uomini, mai errore fu più marchiano, e lo abbiamo visto nelle tempeste di Eni, Telecom e PetroChina. L’errore del dirigente della Fiat  fu provvidenziale per lui, perché nulla poteva trattenerlo quando nel 1983 Reviglio, nominato presidente dell’Eni, gli chiese di seguirlo: era lo sbarco nell’Eni, l’inizio dell’odissea. Sarà di nuovo in Fiat come consigliere di amministrazione dal 2000 al 2002, un altro prestigioso ritorno…

Restano da ricordare i momenti di  distensione, a Berlino davanti alla statua di Marx ed Engels, in bicicletta tra Vienna e Budapest con la moglie, le camminate solitarie nei boschi dell’altipiano della Vigolana presso Trento.  Non erano distensivi i voli sull’aereo aziendale per i “road show” borsistici e  nella spola Roma-Milano, e neppure per gli incontri con i vertici di primari gruppi stranieri; a parte la pittoresca giornata in Siberia, pure legata a un’importante trattativa con i russi, ma alcuni di questi momenti li ‘abbiamo già citati.

Per terminare, dal luglio 2019 Bernabè è presidente di Cellnex, la principale azienda europea di infrastrutture di telecomunicazioni wireless, oltre agli altri incarichi e al proprio “Fb Group”. Così   il cerchio si chiude su una figura  non incline a esposizioni mediatiche ma alla cui discrezione corrisponde uno spessore professionale e umano che non può lasciare indifferenti. Non sappiamo se nella sua Itaca si prepara a una nuova odissea, ma siamo certi che sarebbe pronto ad affrontarla.     

  

Il Fb Group di Bernabè

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 4 articoli del presente servizio che si conclude qui sono usciti in questo sito tra il 20 e il 23 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare visivamente alcuni momenti chiave della vicenda personale e di quella manageriale del protagonista rievocata negli articoli precedenti, a parte l’ultima immagine che lo ritrae nella sua attuale posizione di presidente di Cellnex di cui non si parla nel libro, in un’attualizzazione che abbiamo ritenuto di aggiungere. Neppure le altre immagini sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini  nel testo: businessinsideragfeditorial.it, storep.org., rbolletta.com, fleetblog.it, studiorolla.it, lastampa.it, panorama.it, corriere.it, euromenaenergy.com, bernabe.it, cellnextelecom.com. In apertura, Franco Bernabè, seguono i maestri: Claudio Napoleoni, e Bruno de Finetti; poi, l’inizio: la sede dell’Ocse a Parigi, e la prima grande azienda: la sede della Fiat in Corso Marconi a Torino; quindi, Bernabè con Gianni Agnelli, e Bernabè nello “sbarco” nell’Eni; poi, Bernabè, il doppio passaggio a Telecom Italia, e Bernabè, nel C.d.A. di PetroChina; infine, il Fb Group di Bernabè e, in chiusura, Bernabè presidente Cellnex e l’amministratore delegato Tobias Martines Gimeno.

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Bernabè presidente Cellnex, e l’amministratore delegato Tobias Martines Gimeno

Franco Bernabè, 4. Il ritorno in Telecom, PetroChina e il “salto di specie”

di Romano Maria Levante

In precedenza, seguendo il racconto vasto e documentato del libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo,  abbiamo rievocato i suoi 15 anni  nell’Eni fino al risanamento con la privatizzazione, la quotazione in Borsa e la divisionalizzazione nella posizione di amministratore delegato, in mezzo la tempesta Enimont in piena Tangentopoli con la scoperta del’iceberg corruttivo; poi l’intenso semestre in Telecom con la resistenza sfortunata contro l’armata Brancaleone dei  “capitani coraggiosi” cari a D’Alema, e il naufragio loro e degli epigoni ugualmente speculatori intemerati. Ora una variante aziendale ma in positivo del “rieccolo” tipico della politica: il ritorno di Bernabè al vertice di Telecom, questa volta per restarci 6 anni, dopo il tormentato semestre del primo incarico, fino al nuovo ribaltone azionario. E, in direzione opposta, del tutto innovativa, i 13 anni da amministratore del colosso petrolifero cinese PetroChina, preceduti e seguiti dal “salto di specie”, da top manager a imprenditore.

Franco Bernabè, amministratore delegato Telecom Italia dicembre 2007-aprile 2011
presidente esecutivo aprile 2011-ottobre 2013

Il ritorno in Telecom, l’impegno per la rete

Abbiamo chiuso la rievocazione precedente con le dimissioni  di Marco Tronchetti Provera da presidente di Telecom, preludio  di quella che il libro definisce “l’affannosa ricerca di un socio” per l’uscita definitiva dal gruppo che, dopo 4 anni dall’acquisizione,  nel 2005 aveva raggiunto il massimo di indebitamento con circa 40 miliardi di euro rispetto a un patrimonio netto inferiore a 27 miliardi.  Dopo un approccio con Murdoch e dei negoziati con l’americana At&t e la messicana América Mòvil – presto interrotti per il mito di comodo dell’italinaità, poi rinnegato – la trattativa con Telefonica quale socio industriale in una cordata di Intesa San Paolo e Generali, Mediobanca e Sintonia, sfociata nella “Telco”  che nell’aprile 2007 rilevò interamente  “Olimpia”,  di Pirelli e Benetton, incorporandola, e quindi Telecom dalla stessa controllata.

Occorreva trovare chi si assumesse un compito da far tremare le vene e i polsi, e la società di “cacciatori di teste” Spencer Stuart non ebbe dubbi nel designare Bernabè, che non solo conosceva bene la società per averla guidata, ma aveva lottato per prevenire il grave dissesto provocato poi dai “capitani coraggiosi” e dai loro epigoni, e in precedenza aveva guidato l’Eni per diversi anni con successo pur in condizioni difficili.

Mentre la Spencer Stuart individuava il candidato ideale, la “Telco alla ricerca di un capoazienda” – tramite l’AD di Banca Intesa Corrado Passera, a nome degli altri componenti della compagine creata per rilevare Telecom – lo invitava ad accettare la nomina ad amministratore delegato; poi tornarono alla carica direttamente anche Bazoli, Geronzi, e  Bolloré,  per le banche e Telefonica. Si era nell’ottobre 2007, Vincent Bolloré aveva cercato di contrastare Tronchetti Provera nell’acquisizione del controllo su Telecom, poi ne diventerà primo azionista, tenterà persino di scalare Mediaset, fino a controllare oggi Telecom con “Vivendi”. E’ un mastino delle telecomunicazioni, si era interessato alla Telecom-Tim sin dal 2001 allorchè aveva cercato di competere senza successo con Olivetti per acquisirne il controllo.

Bernabè esitava ad accettare la pur allettante offerta: era impegnato con ottimi risultati nelle società da lui costituite o rilevate nel “salto di specie” da top manager a imprenditore, di cui parleremo più avanti, e avrebbe dovuto dismetterle per i potenziali “conflitti di interesse”; mentre non era certa la solidità della base azionaria di Telecom, un’aggregazione temporanea con visioni diverse tra le banche e Telefonica.

Ed ecco la decisione, anche qui con la motivazione personale che l’ha determinata: “Abbandonare tutto quello che facevo per tornare al vertice di Telecom mi comportava notevoli problemi. Allo stesso tempo, l’idea di concludere un lavoro interrotto così brutalmente sette anni prima mi stimolava. La ragione avrebbe dovuto consigliarmi di rinunciare, ma le emozioni sono spesso un catalizzatore più efficace delle decisioni”. Senz’altro c’era da emozionarsi: “In questo caso prevaleva la voglia di rivincita, l’idea di riuscire dove altri avevano fallito, ma anche il legame con tanti dipendenti e dirigenti che negli anni avevano continuato a scrivermi, raccontandomi la loro sofferenza  per la crisi di una società alla quale erano molto legati”. Inoltre presidente sarebbe stato Gabriele Galateri di Genola, con cui aveva fatto i primi passi in Fiat, e “anche se i nostri profili erano molto simili”, conclude Bernabè, secondo Passera “la combinazione di persone con evidenti affinità professionali rappresentava un punto di forza”.

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Bernabè amministratore delegato di Telecom Italia
con Gabriele Galateri di Gemona presidente

Nella nostra similitudine omerica, “dei remi fece ali al folle volo”, e si rivelò tale, molto più prolungato della brevissima quanto tormentata esperienza precedente e con un contenuto ben diverso. Nel 1999  si era dovuto confrontare con la scalata ostile di finanzieri d’assalto sostenuti dal presidente del Consiglio D’Alema, i cosiddetti “capitali coraggiosi”, e abbiamo detto in precedenza, nel rievocarne la storia,  di quale “coraggio” si trattasse. Si era trovato contro altre massime istituzioni, la  Consob e la Banca d’Italia che ne avevano avallato la scorribanda perniciosa per la società e per il Paese; ora doveva raccogliere i cocci di una società indebitata e dissestata per rilanciarla nel sistema di telecomunicazioni, un’impresa titanica.

Questa volta il campo di battaglia non era solo la finanza, c’era un indebitamento fuori misura, oltretutto dopo le dismissioni operate da Tronchetti Provera di quasi tutto quanto c’era da vendere – e abbiamo visto come ciò avvenne per gli immobili poi riaffittati a Telecom! – che imponeva interventi radicali;  e questi, non essendo disponibili i nuovi azionisti ad aumenti di capitale “per abbattere il debito e far ripartire gli investimenti”, dovevano essere forzatamente a livello industriale, la vocazione primaria di Bernabè.

Ma il promettente piano di  “rilancio graduale, comprimere il debito e aumentare il  flusso di cassa di Telecom riducendone i costi, dosando gli investimenti e tagliando il dividendo” presentato agli investitori “spiazzava coloro che avevano investito in Telecom contando su una robusta cedola” e si trovavano dinanzi al “dimezzamento del dividendo”, inevitabile dopo la politica di dividendi delle gestioni precedenti: “Tra cedole e riserve distribuite il gruppo Telecom tra il 2000 e il 2007 aveva versato ai suoi azionisti 20 miliardi, 15,6 dei quali imputabili alla gestione Tronchetti”  che “per garantire un flusso finanziario sufficiente a sostenere il debito di Olimpia… erogava la quasi totalità degli utili, mentre a livello internazionale il payout (la percentuale di profitti corrisposti in dividendi) superava di poco il 50%”. I soliti speculatori intemerati! 

Era il 7 marzo 2008, la risposta della Borsa al piano di risanamento fu il crollo del titolo, come del resto era avvenuto in Deutsche Telekom  e nelle altre imprese europee di telecomunicazioni; in più c’era stata la caduta del governo con le elezioni anticipate nel gennaio e  incombeva la crisi finanziaria a livello globale che portò a metà settembre al fallimento della Lehman Brothers. “In questo quadro recessivo Telecom aveva cominciato a subire l’erosione dei ricavi e dei margini. Bisognava dunque accelerare sulla riduzione del debito sapendo di non poter contare sugli azionisti e nemmeno sui tempi lunghi di un miglioramento graduale della gestione del programma iniziale”.

La risposta, nelle corde di Bernabè, è un progetto industriale: la “’societarizzazione’ della rete” conferendo l’infrastruttura di accesso e le attività connesse a una società separata, controllata da Telecom, che sarebbe stata apprezzata dagli investitori, in modo che potevano provenirne “le risorse per abbattere il debito e rilanciare gli investimenti”.

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Bernabè presidente esecutivo di Telecom Italia
con Marco Patuano amministratore delegato

Non si trattava di generiche aspettative e neppure di qualcosa di inedito, con l’iniziativa “Open Access” nel febbraio 2008 si era già attuata la  separazione, sia pure parziale, della rete con una struttura autonoma staccata dalle attività commerciali all’interno della divisione  “Technology”. In tal modo si rispondeva alle sollecitazioni delle autorità di regolazione e del governo di “scorporare” le infrastrutture ai fini di una maggiore parità concorrenziale; nel contempo era stata chiesta all’autorità  Agcom la chiusura delle controversie  mediante “cospicue oblazioni”, risolvendo i problemi con il regolatore e avviando rapporti più distesi con i concorrenti che lamentavano la scarsa neutralità del passato da cui si sentivano danneggiati.

I ricavi della progettata “Opac” (dalle iniziali di Open Access) erano stimati in 5 miliardi di euro con un margine operativo lordo del 50% per un valore totale d’impresa di 18 miliardi di euro: il progetto fu presentato al C.d.A. nel settembre 2008 ma incontrò l’opposizione di Telefonica, preoccupata di doverlo replicare nelle sue attività in Spagna, e di Mediobanca che si mostrò contraria alla frammentazione e duplicazione di strutture; anche i concorrenti erano ostili anche se per ragioni diverse temendo che nella nuova società fossero scaricate le inefficienze di Telecom. Perciò il progetto fu ritirato.

Aveva anticipato un’esigenza divenuta sempre più pressante, senonché  l’intervento delle istituzioni pubbliche aveva complicato invece che semplificare la situazione, pur con lo stesso obiettivo: lo scorporo della rete infrastrutturale affidata a una società separata. La Commissione Trasporti e Telecomunicazioni presieduta da Mario Valducci  chiuse l’apposita indagine conoscitiva con la richiesta di una norma che obbligasse alla separazione funzionale della rete. Seguì “il tavolo Romani”, del viceministro con delega alle telecomunicazioni e poi ministro dello Sviluppo Paolo Romani, che si concluse con un memorandum di intenti siglato il 30  novembre 2010  dalle principali società del settore con il quale tra le due alternative poste dal rapporto di Francesco Caio si scartò a sorpresa lo scorporo della rete Telecom e si scelse la costituzione di un’unica rete di accesso ottica di nuova generazione gestita da una società consortile cui i singoli operatori avrebbero dovuto conferire le proprie infrastrutture in fibra, con gran parte degli oneri a carico di Telecom. Intanto nell’aprile 2011 Bernabè da amministratore delegato passa a presidente esecutivo, A.D. diventa Marco Patuano, che aveva nominato all’inizio direttore finanziario facendolo rientrare da Telecom Argentina di cui era direttore generale dopo una carriera nella finanza Telecom.

Bernabè  mette in guardia sull’impraticabilità di tale progetto industriale  per le divergenze tra gli operatori chiamati a parteciparvi sull’architettura di rete e sulle dimensioni dell’investimento; ma soprattutto per l’insostenibilità economica dell’architettura prescelta,  discutibile anche sul piano tecnologico rispetto alle possibilità di  valorizzare l’infrastruttura in rame integrandola con la fibra, ritenuta la migliore soluzione.

Fu anche esplorata la possibilità di far convergere telecomunicazioni e “media”, come richiedeva l’evoluzione in atto nel settore, ipotizzando di conferire Mediaset a Telecom – cosa che avrebbe risolto anche il conflitto di interessi di Berlusconi rendendo Mediaset minoritaria –  ma il progetto non fu neppure discusso per motivi politici, o meglio per sospetti di chissà quale intento; inoltre passava per la modifica della legge Gasparri che impediva di acquisire altre piattaforme a chi era nel settore con oltre il 20%.

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La Commissione Valducci per l’indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni

Nel luglio 2012 l’annuncio della Commissaria europea per l’agenda digitale di incentivare gli investimenti nelle nuove reti si aggiunge alla forte dinamica della domanda per ulteriori servizi digitali aperti agli apparecchi connessi alla rete,  come tablet e  smartphone, videogiochi e gli stessi televisori. Ne viene un nuovo impulso all’accelerazione nello sviluppo della rete a banda larga già in atto in Telecom: il libro descrive “il cantiere per l’autostrada digitale” anche negli aspetti tecnici  e nella diffusione raggiunta. 

Ma non mancò l’attenzione ai servizi, sebbene l’interesse alla rete fosse prevalente in tutti gli operatori. Il motivo “per cui non è nata una Google in Europa”  risiede, secondo Bernabè, nel fatto che le imprese di telecomunicazioni assicurano la “garanzia di qualità del servizio, che richiede infrastrutture complesse e costose, mentre il web ruota intorno all’idea di best effort, cioè del migliore sforzo per offrire un servizio prescindendo da un’immediata garanzia di qualità”.  Cita l’impegno per l’Sms multimediale, promosso anche come presidente, dal 2011 al 2013, del “Gsma” – l’organismo che raggruppa gli operatori mondiali di telefonia mobile – superato però dal WhatsApp  che ha conquistato il mercato per tali motivi:  ecco “come hanno fatto due giovani sviluppatori a mettere fuori gioco migliaia di ingegneri di telecomunicazione”.

Poi ci offre uno spaccato umano, al di là della tecnologia, dei suoi “incontri e scontri con i personaggi del web”. Ed ecco i “guru” da lui incontrati, Tim Berners-Lee creatore del world wide web, e Steve Jobs nel Campus Apple di Cupertino con l’allora vice Tim Cook, Eric Schmidt ex presidente di Google a Sankt Moritz e Jeff Bezos fondatore di Amazon, Peter Thiel e Alex Karp fondatori di Palantir Technologies, leader mondiale di “Data analytics”, che analizza informazioni da usare anche nell’intelligence, ripensiamo all’analoga attività di una agenzia della Cia nel film “I tre giorni del Condor”.

E nell’alternativa tra lo scorporo della rete Telecom e la società  consortile per un’unica nuova rete in fibra ottica va dunque avanti quest’ultima che sembrava prescelta? Ebbene no, “Cassa Depositi e Prestiti gioca su due tavoli” ed entra in una società che controllava  Metroweb, la quale aveva un piano di diffondere la fibra, ed “era più che una minaccia, come si vide in seguito con la costituzione di Ope Fiber”. Per questo Bernabè propone “di riconsiderare il progetto di scorporo e di ‘societarizzazione’ dell’infrastruttura, abbandonato tre anni prima”, nel quale sarebbe potuta entrare Cassa Depositi e Prestiti con un aumento di capitale  che avrebbe reso compatibile l’accelerazione degli investimenti con la riduzione del debito. 

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Vincent Bolloré, presidente del gruppo francese ” Vivendi”

Aprile 2013, il progetto viene presentato e approfondito con qualificati “advisor” di grandi banche; il 30 dello stesso mese approvato con la direttiva di dar corso alla  costituzione della nuova società con la Cassa Depositi e Prestiti previe le autorizzazioni regolatorie. Ma “il Cda approva lo scorporo e Agecom lo affonda”, si intitola uno dei paragrafi conclusivi sulla vicenda Telecom bis. “Anche questa volta il progetto era destinato a non partire. Fu però sorprendentemente un atto dell’Autorità di regolazione a provocarne l’abbandono”, e lo fece riducendo le tariffe di accesso alla rete fissa, cosa che paradossalmente rendeva più conveniente ai gestori rispetto alla società consortile un’offerta basata sul diritto di accesso all’infrastruttura  della Telecom che invece a sua volta ne era penalizzata e scoraggiata dall’investire in infrastrutture di nuova generazione. Non ebbe esito il ricorso alla Commissione Europea, la cui pronuncia era solo consultiva, contro l’ “intervento muscolare” dell’Agecom, e anche se il Consiglio di Stato qualche anno dopo darà ragione a Telecom dichiarando illegittima quella decisione di Agecom, la frittata ormai era stata fatta.

Bernabè cerca un investitore che possa sottoscrivere l’aumento di capitale necessario a Telecom, ma gli azionisti di Telco chiedono troppo per cedere parte delle loro quote e il mercato è depresso. Soltanto mediante l’integrazione con Telefonica “italiani e spagnoli avrebbero potuto dar vita, con un progetto di ampio respiro, alla più grande public company mondiale di telecomunicazioni, un’impresa con soci italiani e spagnoli in posizione paritetica e con una struttura di governo condivisa”: interessi complementari non sovrapposti, Telefonica in Spagna e Sudamerica, Telecom in Italia. Ma Mediobanca e Intesa San Paolo  restarono fredde dinanzi alla proposta di Bernabè, Mediobanca poi fu contraria: “Il progetto fu comunque liquidato a mezzo stampa mentre era sul nascere”. Ma si vide molto presto che era stato anticipatore.

A questo punto Bernabè lascia il gruppo, siamo a settembre 2013. Pochi giorni dopo  Telefonica annuncia un accordo per il controllo di “Telco”, quindi di Telecom, e  l’intenzione di  vendere Tim Brasil, la più importante consociata estera sopravvissuta alle dismissioni di Tronchetti Provera. Nel frattempo stava perfezionando  l’acquisto di Portugal Telecom in Vivo per controllare il primo operatore mobile del Brasile, ma l’Autorità delle telecomunicazioni brasiliana condizionò l’approvazione all’abbandono del controllo di Telecom Italia. E allora Telefonica decise di lasciare l’azienda italiana con una operazione che portò al controllo di Telecom il gruppo francese “Vivendi” di Bolloré, che Bernabè aveva interessato, con progetti e trattative prima della sua uscita, in sostituzione dell’integrazione mancata con Telefonica.  Un’altra sua indiscutibile preveggenza frustrata dalle cecità di turno, siano dei governi o dei manager miopi.

Alla fine di questa nuova fase della sua odissea manageriale Bernabè conclude: “Mi sono chiesto spesso dove avrei potuto fare meglio o che cosa avrei dovuto fare diversamente, ma non trovo una risposta che mi soddisfi”. In realtà, una risposta c’è  ed è lui stesso a fornirla: “Riflettendo mi sono convinto che, pur nelle drammatiche vicende che hanno attraversato il mio percorso in Eni lo Stato abbia garantito all’impresa la stabilità necessaria a realizzare un impegnativo programma di recupero, e che invece il mercato, con i suoi traguardi brevi dettati dai vincoli della finanza, lo abbia impedito a Telecom”. E’ così chiaro che qualsiasi commento guasterebbe, tanto più che sono parole di chi si è sempre speso per il mercato, quello vero.

Tornerà nelle telecomunicazioni con la presidenza di Cellnex dal luglio 2019, è la maggiore impresa europea di infrastrutture wireless, il libro non ne parla ma non possiamo tacere l’attualità più viva.

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Palazzo uffici di Telecom Italia

Dalla Cina con amore, nel C.d.A di PetroChina, il colosso petrolifero

Prima del ritorno in Telecom Italia Bernabè inizia un’esperienza quanto mai interessante nel cuore del capitalismo cinese, come membro indipendente nel Consiglio di amministrazione di PetroChina, il colosso petrolifero nato dalla privatizzazione, con una capitalizzazione al debutto alla Borsa di Shangai di 1.000 miliardi di dollari, il doppio di quella di Exxon alla Borsa di New York. Tante similitudini con l’Eni, all’interno del quale aveva già avuto molti contatti con il mondo petrolifero cinese per importanti permessi di ricerca. A partire da un fondatore mitico, come Enrico Mattei in l’Italia Wang  Jinxi in Cina, fino alla privatizzazione, in Cina con lo scorporo dalla China National Petroleum Corporation, la Cnpc. Quando andò in Consiglio di amministrazione la decisione da prendere su un grande gasdotto di importazione, Bernabè si impegnò molto nel sostenerlo, forte dell’esperienza con la rete dei metanodotti italiani che aveva costituito un’infrastruttura strategica per il Paese e una rilevante fonte di reddito per l’azienda Eni.

Fu posto alla presidenza dell’ “Audit Committee”, il “Comitato di controllo interno” con l’impegnativo compito di valutare la congruità degli scambi con la Cnpc e mantenere l’impegno di ridurli assunto con il mercato. Nel Consiglio di amministrazione, insieme a lui, proposto come garante dei grandi investitori internazionali dalla Goldman Sachs – che lo aveva visto all’opera nella quotazione dell’Eni alla Borsa di New York – gli altri due consiglieri indipendenti, Tung Chee-Chen, fratello del governatore di Hong Kong e Wim Jinglian, un noto economista cinese.

Ha occupato per tredici anni, dal 2000 al 2013, tale posizione, ben di più di un osservatorio privilegiato già di per sè molto interessante: una “governance occidentale in un’impresa comunista” regolata da “una lunga lista di norme” sui rapporti con la Cnpc e i conflitti di interesse, le attribuzioni e i rapporti reciproci regolamentati con precisione; ma anche rilevanti operazioni sul mercato con acquisizioni di società in Kazakistan, Egitto, Algeria e altri paesi oltre a grandi progetti interni  per l’estrazione di gas naturale e colossali programmi di importazione di metano  dall’Asia centrale con la West East Gas Pipeline, 8.700 km di metanodotti da Est a Ovest. Ma anche “controlli, nomine e carriere all’ombra del partito” in un grande paese dove le antiche radici e tradizioni superano le motivazioni politiche rappresentando una solida base culturale e ideale che alla fine prevale su quanto si rivela incompatibile con essa.

Da Ulisse a Marco Polo, vediamo il nostro protagonista alle prese con un mondo nuovo, un regime sospettoso che nel 2010 condannerà un geologo americano di origine cinese ad otto anni di prigione “con l’accusa di aver trafugato informazioni segrete sull’industria petrolifera cinese apparentemente costituite  da dati sismici su 30mila pozzi messi in vendita da Cnpc”. Dieci anni prima, all’inizio dell’esperienza di Bernabè, i cinesi erano ancora più sospettosi, dopo vent’anni di capitalismo di Stato : “Mi chiedevo come mai il partito consentisse a un occidentale di accedere a documenti di PetroChina  strettamente riservati e gli lasciasse esprimere liberamente le sue opinioni sulle modalità di gestione della società”.  

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Limpresa petrolifera cinese PetroChina

La risposta la dà di nuovo lui: “Agli inizi era evidente che il governo cinese avesse preso le sue precauzioni. Con la scusa di assistermi per qualsiasi necessità, la società mi aveva messo a disposizione un assistente che veniva a prelevarmi all’aeroporto al mio arrivo dall’Italia, dormiva nel mio stesso albergo e non mi lasciava se non al gate di imbarco al momento della partenza”.  Ma non continuò così, la fiducia fu conquistata sul campo, e la marcatura stretta di impronta comunista cessò: “Con il passare del tempo, venute meno all’apparenza le esigenze di controllo,  l’assistente si limitò ad essere presente solo quando effettivamente serviva”. Come per accompagnarlo “a visitare impianti industriali, e  zone della Cina che probabilmente neanche lui aveva mai visto”. Ne nacque “una relazione umana fatta anche di scambi d’opinione sulla società cinese”. Questa notazione personale dà un sapore speciale alla importante vicenda manageriale.

Non si sarebbe mai aspettato Bernabè di trovare un’altra affinità con l’Eni, di certo indesiderata, “la Tangentopoli cinese” e, data la sua posizione di responsabilità dell’”audit” interno se ne occupò sia dal punto di vista legale sia investendo il management di PetroChina. E anche qui, come era stato all’Eni, in tanti cercarono di ridimensionare i fatti come “episodi isolati in un corpo sostanzialmente sano”. 

Erano implicati l’ex vice-presidente e segretario del Consiglio di amministrazione Li Hualin, il geologo capo Daofu  e un direttore esecutivo, Ran Xinquan; ma soprattutto l’ex presidente di Cnpc e PetroChina, Jiang Jiemin, che aveva lasciato l’incarico e se ne erano addirittura perse le tracce. Competenti delle inchieste negli organismi controllati dal governo sono le Commissioni per le ispezioni della disciplina che poi trasmettono alla magistratura i risultati, mentre per le grandi imprese  di Stato occorre l’autorizzazione preventiva dell’organo politico, il Politburo. In questo caso l’inchiesta era partita proprio dai vertici politici e governativi per colpire Zhou Yongkang, sospettato di aver tentato nel 2012 un colpo di stato con l’ex governatore di una provincia petrolifera.

Risultato: Jang Jiemin viene arrestato il 1° settembre 2013 e nell’ottobre 2015 verrà condannato a 16 anni di carcere per corruzione e abuso di potere. Ma come nell’Eni c’era un “iceberg corruttivo”, anche lì quello scoperto non era un caso isolato, fu portata alla luce “la rete corruttiva di Zhou Yongkang” mediante cessione di giacimenti marginali difficili agli operatori privati che “ne sviluppavano la produzione e poi li cedevano nuovamente a Cnpc lucrando ampie plusvalenze”; è spontanea l’associazione di idee con le vendite di immobili di Telecom poi riaffittati alla stessa, ma forse ancora una volta stiamo “pensando male” e quindi “facciamo peccato….”.  Ondata di arresti, “class action”  per risarcimenti collettivi archiviata in seguito, e azione privata per danni, crollo azionario e successivo più stretto controllo sulle partecipate.

Commenta Bernabè: “Come era avvenuto per Eni, anche nel caso di Petrochina l’effetto dell’inchiesta era stato quello di riportare al centro la capacità di governo sull’intero sistema organizzativo e produttivo dell’azienda”.

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La sede di PetroChina a Pechino

Il “salto di specie”, da top manager a imprenditore   

L’invito a entrare nel Consiglio di amministrazione di PetroChina era arrivato a Bernabè mentre era impegnato a livello imprenditoriale nelle attività che aveva creato o rilevato al termine della prima esperienza in Telecom, scottato dalla brevità  del percorso troncato dalla scalata dei “capitani coraggiosi” e desideroso di un riscatto sul piano personale, anche se non aveva nulla da rimproverarsi: si era battuto fino all’ultimo, sconfitto dai finanzieri d’assalto con l’appoggio di governo e di altre istituzioni.

Una prima iniziativa fu la costituzione il 18 novembre 1999, con un investimento iniziale di 10 miliardi di lire e una propria partecipazione al 10%, insieme a Renato Soru – il creatore di Tiscali che nella bolla speculativa della new economy nel febbraio 2000 capitalizzava quanto la Fiat – di “Andala”, la società di cui assunse la presidenza, per partecipare alla gara sulle frequenze Umts per il radiomobile di nuova generazione. Furono acquisite le migliori competenze specialistiche con l’intento di “dare al cliente nuovi contenuti, andando oltre il servizio voce e i messaggi sms che caratterizzavano in quel momento l’offerta radiomobile”. Inizialmente fecero parte di Andala la Banca Imi e Rothschild, poi la svedese Ericsson, la Cir di Carlo de Benedetti e la Gemina Hdp di Cesare Romiti, insolitamente insieme in un’iniziativa: “Eravamo riusciti a infilare Silvestro nella gabbia di Titti senza che il gatto sbranasse il canarino”.

Per la gara  il governo D’Alema aveva previsto la licitazione privata, e l’Autorità per le comunicazioni il prezzo minimo di 350-500 miliardi di lire per licenza, accessibile anche in previsione di ragionevoli rilanci; ma il successivo governo Amato, sulla base delle più recenti esperienze inglese e tedesca, alzò molto il tiro, ponendosi come obiettivo di incassare per le 5 licenze “non meno di 25mila miliardi di lire”: dunque il prezzo veniva decuplicato e la gara non era più alla portata della compagine creata, pur con soci prestigiosi.

E allora, dopo i primi contatti con Deutsche Telekom, si entra in trattative con la Hutchinson Whampoa, il colosso cinese di Hong Kong interessato alle telecomunicazioni mobili di terza generazione che acquisirà il 51%, di Andala, gli altri soci iniziali restano con varie quote, a Bernabè rimane il 2%. All’asta fu acquisita da parte di Andala una licenza per 6.500 miliardi di lire – “Amato aveva visto giusto sul prezzo delle licenze” – al quale si sarebbe dovuto aggiungere altrettanto capitale per gli investimenti. Erano esborsi insostenibili per gli italiani, quindi uscirono: Andala diviene H3G,  con Hutchinson nel gennaio 2002 all’88% del capitale,  l’attivissima “3”  che si è fusa con Wind nell’attuale “Wind  Tre”. Alla base c’è l’intuizione imprenditoriale di Bernabè con Soru, poi la crescita esponenziale con i cinesi ha portato all’attuale prestigioso operatore.  

Renato Soru, fondatore con Bernabè di “Andala”

“L’esperienza da imprenditore mi entusiasmava – commenta Bernabè – La febbre della new economy, che sembrava così ricca di opportunità aveva contagiato anche me e l’occasione di intraprendere una nuova iniziativa si presentò quasi per caso”: la lettera di un giovane ingegnere, Luca Tomassini,  che aveva lasciato la Telecom per mettersi in proprio dopo la scalata di Colaninno e soci.  “Avviammo un progetto da cui nacque Kelyan, un’azienda tecnologica rivolta soprattutto al mercato delle imprese”, a Orvieto; la società fornisce soluzioni Ict e applicative gestionali orientate alla rete, già nel 2001 fatturava 18 milioni di euro, poi è cresciuta. Il gruppo Kelyan fu ceduto ad altro gruppo nell’ottobre 2009, al suo ritorno in Telecom.  

Ma non finisce qui, nella sua nuova vita da imprenditore in proprio Bernabè, da azionista delle imprese di telecomunicazioni Netscalibur e Telit contribuisce alla loro ristrutturazione e alla successiva riammissione sul mercato, secondo l’impostazione di fondo per la quale quando le prospettive di sviluppo dell’azienda superano gli intendimenti e le possibilità dei proprietari va ceduta a chi può assicurare ad essa le risorse necessarie per sostenerne la crescita e non tenuta a vivacchiare; come per Andala che è divenuta, con la radicale mutazione nella “3”, una delle maggiori reti italiane. Ha attivato una consulenza finanziaria di qualità poi ceduta, per tale impostazione,  alla  Rotschild nella quale ha rivestito il ruolo di  Vicepresidente di “Rotschild Europe” dal 2004 al 2007 realizzando importanti operazioni di M&A su scala europea.  

Le sue attività di imprenditore sono riunite nell’”Fb Group” costituito nel 2000, alla prima uscita da  Telecom: è una holding di “partecipazioni e management company” di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica, dell’Ict e delle energie rinnovabili, inizialmente con un partner ome l’Imi e successivamente Banca Intesa. Vi rientra alla seconda uscita da Telecom, e come “advisor finanziario” dei fondi di “private equity”  Advent e Bain capital contribuisce ad acquisire ICBPI, banca specializzata nei servizi di pagamento creata dalle Banche Popolari, del cui Istituto diventa Presidente il 22 giugno 2016.

Dall’impegno manageriale al massimo livello e imprenditoriale in settori innovativi vengono tratte da Bernabè valutazioni preziose su quarant’anni di capitalismo, e non solo italiano, andando oltre il sottotitolo del libro. Ne parleremo presto concludendo la nostra rievocazione della sua odissea.

La “3”, nata da “Andala”

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 3 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito dal 20 al 22 novembre, il 5° e ultimo articolo uscirà il 24 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono, secondo l’inserimento delle immagini nel testo: ilsole24ore.it, ansa324.it, ilsole24ore.it, camera.it. notizietiscali.it, corrierecomunicazioni.it, pinterest.it, worldarchitecturecommunity.org, tiscali.it, borto.net, bernabe.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato Telecom Italia dicembre 2007-aprile 2011, presidente esecutivo aprile 2011-
ottobre 2013
; seguono, Bernabè amministratore delegato di Telecom Italia con Gabriele Galateri di Gemona presidente, e Bernabè presidente esecutivo di Telecom Italia con Marco Patuano amministratore delegato; poi, la Commissione Valducci per l’indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni e Vincent Bolloré, presidente del gruppo francese “Vivendi”; quindi, Palazzo uffici di Telecom Italia e l’impresa petrolifera cinese PetroChina; inoltre, la sede di PetroChina a Pechino, e Renato Soru, fondatore con Bernabè di “Andala” ; infine, La “3”, nata da “Andala” e, in chiusura, il Franco Bernabè Group.

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Il Franco Bernabè Group

Franco Bernabè, 3. Il passaggio in Telecom, i “capitani coraggiosi” e i loro epigoni

di Romano Maria Levante

Abbiamo rievocato le fasi culminanti dei 15 anni trascorsi nell’Eni – prima da assistente del Presidente, poi da vice-direttore e direttore centrale, fino a più di 6 anni da amministratore delegato – descritte in modo accurato e particolareggiato nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo. E’ un percorso manageriale di successo all’insegna della coerenza e della determinazione a portare fino in fondo le proprie idee nella convinzione di lottare per il bene dell’azienda e per l’interesse pubblico contro gli ostacoli da parte di certa politica e dei manager collusi con essa. Una collusione che ha portato all’affare Enimont, una Tangentopoli all’interno dell’Eni in cui Bernabè ha fatto emergere l’ iceberg corruttivo che si celava dietro una compiacente banca svizzera.  Ora si volta pagina, la storia prosegue con il suo sbarco in Telecom Italia, quanto mai movimentato fin dall’inizio.

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Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia, 20 novembre 1998-25 maggio 1999

In Telecom Italia, tra il “nocciolino duro” e i “capitani coraggiosi”

Come altre importanti svolte nella vita professionale di Bernabè, anche il suo passaggio a Telecom Italia nasce da una circostanza casuale, pur se non estranea all’ambito della sua attività. Siamo nell’ottobre 1998, dopo l’incontro a Londra con gli investitori della 4^ “tranche” del collocamento di azioni Eni a una cena organizzata dal banchiere di Credit Suisse  Andrea Morante, che aveva curato l’offerta per conto del Tesoro; questi gli chiede di ospitarlo nell’aereo aziendale e nel volo di ritorno gli parla della “disastrosa situazione del ‘nocciolino duro’ di Telecom Italia” e della “disperata ricerca di un manager che li portasse fuori dal guado”, poi gli domanda se fosse disponibile a lasciare l’Eni “in tempi molto stretti”. 

Alla sua istintiva risposta negativa – dopo la quotazione dell’Eni, come amministratore delegato voleva seguirne ancora la crescita –  il banchiere cercò di far leva sull’interesse per una nuova sfida in un settore con la tecnologia in forte evoluzione. Bernabè si era occupato attivamente di telecomunicazioni valorizzando la rete di fibre ottiche che era stata posata in via preventiva sui metanodotti della Snam mediante il conferimento dei diritti di uso ad Albacom; e lo intrigava la proposta anche per i rapidi cambiamenti nel settore rispetto alla lentezza in campo energetico e per il fascino che esercitava una ”public company” privata rispetto a un’impresa pubblica pur privatizzata. Più che il porto sicuro dell’Eni risanato prevalse il”folle volo” di Ulisse, lo “spirito animale” per il rischio personale. Il dado era tratto.

Non valsero a farlo desistere le pressioni perché restasse all’Eni del ministro del Tesoro Carlo Azelio Ciampi e neppure del presidente del Consiglio Massimo D’Alema, che per dissuaderlo gli prospettò le insidie di un azionariato instabile rispetto alla sicura riconferma al vertice dell’Ente dopo le traversie della trasformazione in S.p.A. Sono i primi di novembre, dopo 15 giorni  entrerà in Telecom; ma già nel gennaio successivo leggerà sulla stampa la prima anticipazione dell’Opa, l’Offerta pubblica di acquisto che la Olivetti, guidata da Roberto Colaninno, intendeva lanciare per la scalata che aveva deciso di compiere.

D’Alema sapeva già qualcosa?  Un dato di fatto è il suo immediato appoggio agli scalatori di Telecom, e  perciò si potrebbe pensare  che abbia sconsigliato Bernabè di andare a dirigerlo conoscendone la tempra e prefigurando la sua resistenza alla scalata; ma “a pensar male si fa peccato”, perciò allontaniamo questo pensiero molesto e senza alcuna prova, infatti non risulta che lo sapesse fino al termine di gennaio.

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Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti 1996-99 e Telecom 1999-2001

I tempi, del resto, sono molto stretti, se già all’inizio di febbraio 1999 Bernabè parla delle voci sull’Opa nel C.d.A. di Telecom,  e il 20 febbraio, a soli tre mesi  dall’ingresso nel gruppo, riceve la comunicazione ufficiale dell’Opa sul capitale di Telecom; e viene l’apprezzamento di D’Alema per quelli chiamati i “capitani coraggiosi”, con la critica al “nocciolo duro” del 6,6%  nel quale  la Fiat di Agnelli  aveva  solo lo 0,6% e con quella partecipazione minima  poteva dettare legge sul  grande gruppo strategico per il Paese.

Non si crede ai propri occhi oggi come potessero essere considerati allora “capitani coraggiosi” – anche se D’Alema ha negato di averli chiamati così – da apprezzare e addirittura appoggiare in modo decisivo dietro una “neautralità” di facciata, coloro che con una società lussemburghese, la Bell, controllavano la Olivetti la quale controllava la Tecnost titolare dell’Opa: la Olivetti aveva 1,3 miliardi di euro di fatturato e 18 miliardi di debiti, mentre Telecom aveva 27 miliardi di fatturato  e 8 miliardi di debiti. La formica carica di debiti che si mangia l’elefante leggero come una piuma per poi rovesciargli addosso il suo indebitamento e quello derivante dal finanziamento della scalata da parte della Chase Manhattan, ecco l’italianità!

E si resta sconcertati dinanzi al “fragoroso silenzio di tutto il mondo politico”, opposizione compresa, forse spiazzata dinanzi all’atteggiamento inatteso degli “ex comunisti alla prova del mercato”. Soltanto due voci apertamente dissenzienti, dalle parti opposte dello schieramento politico: l’ex presidente della Bnl, Nerio Nesi, entrato nei Comunisti italiani dopo aver lasciato Rifondazione comunista in polemica con Bertinotti che aveva fatto cadere il governo Prodi sostituito da D’Alema; e Beniamino Andreatta, l’economista DC anticonformista e battagliero. Nesi, “che conosceva bene Olivetti per averci lavorato  molti anni prima”, vede che “Olivetti parte alla carica con gli applausi del governo” e denuncia senza mezze misure che  erano “speculatori internazionali” – altro che “capitani coraggiosi” – e si trattava di “un’operazione contro la Telecom”; Andreatta, apparentemente più benevolo  – forse perché intervistato la domenica successiva all’uscita dalla messa che rende “buoni” almeno sul momento – ma puntando più in alto si domandò “cosa avesse da gioire D’Alema per un’operazione che avrebbe addossato debiti su Telecom, dimezzandone il flusso di cassa disponibile per gli investimenti”, l’allarme lanciato da Bernabè.  Prodi “manifestò in modo più prudente le sue perplessità”, sia perché gli si poteva rinfacciare la debolezza del “nocciolo duro” della privatizzazione da lui governata nel 1997 che si era rivelata quanto mai deludente, sia perché la sua non sembrasse una ritorsione per il modo con cui D’Alema lo aveva sostituito alla presidenza del Consiglio.     

Bernabè anche questa volta si batte con tutte le forze sia pure su un terreno molto diverso da quello nel quale aveva combattuto all’Eni: non più il terreno produttivo ma quello finanziario, e della finanza più lontana dalla vita dell’impresa: quella delle incastellature azionarie  e delle scorribande borsistiche. E’ impressionante seguire la puntuale ricostruzione che fa anche questa volta, quasi minuto per minuto, delle mosse e contromosse di una battaglia per lui inusuale ma per la quale si attrezza rapidamente. Soprattutto dinanzi al “boicottaggio delle contromosse di Telecom”. Da parte dei corsari? No, da parte delle istituzioni.

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Massimo D’Alema, presidente del Consiglio 21.10.98-11.12.99

Nelle motivazioni è coerente con se stesso e denuncia direttamente al governo –  che avrebbe potuto opporsi all’Opa in vari modi, compreso l’uso della “golden share”, una sorta di diritto di veto alla scalata –  il rischio gravissimo dato dall’insostenibile indebitamento che sarebbe gravato su Telecom  per finanziare la scalata speculativa di finanzieri molto indebitati e con scarsissimi capitali: addirittura un terzo di quelli necessari lo avrebbero acquisito vendendo il terzo operatore nazionale, Omnitel e Infostrada a un soggetto estero, il resto sarebbe stato preso a debito. Non era un bel modo di difendere l’italianità e, cosa ben più grave, si  comprometteva un settore strategico per il Paese facendogli venir meno le risorse necessarie ad adeguarne  la struttura produttiva al progresso tecnologico sempre più incalzante.

E’ evidente, date le premesse, che Bernabè va “a muso duro con il presidente  del Consiglio”, sempre D’Alema che, dopo averlo dissuaso a lasciare l’Eni per la Telecom, ora veniva allo scoperto, entrando in palese contraddizione con  la costante avversione della sua parte politica per le operazioni speculative tanto più che questa metteva a repentaglio l’interesse del Paese. Né sarebbe bastato appoggiarla per dare ai comunisti una nuova “verginità” convertendoli al mercato, quasi che in campo ci fosse il mercato nella sua espressione più sana e produttiva, mentre era l’opposto come appariva evidente dai dettagli stessi dell’operazione. Non era il mercato ma la finanza d’assalto con pochissimi capitali propri e incastellature societarie come castelli di carta, buona solo a caricare di debiti le prede e poi ritirarsi senza onore ma con tanti immeritati profitti mentre si affossa la vittima: sono parole nostre, non del libro, è bene precisarlo.

Sono parole di Bernabè, invece, quelle  sull’incontro con D’Alema del 21 febbraio: “Davanti  a lui non riuscii a trattenere la rabbia e la delusione per l’appoggio che il suo governo aveva concesso a un gruppo la cui componente finanziaria di natura speculativa predominava palesemente su quella industriale”. E ancora: “Gli rinfacciai soprattutto il fatto che l’esperimento della creazione di una public company avviato da Prodi e Ciampi non meritava di essere liquidato in modo così brutale”. Fino all’avvertimento rivelatosi profetico: “Gli ricordai inoltre che l’indebitamento finanziario che sarebbe gravato sulla società ne avrebbe pregiudicato le prospettive di sviluppo e che avrei fatto di tutto per oppormi  a un’operazione che consideravo nefasta per Telecom e per il futuro dell’industria italiana”.  D’Alema si difende “negando  di aver dato supporto a Colaninno” ma è negare l’evidenza, a stare ai dati di fatto: “La sua critica al nucleo stabile e ai protagonisti storici del capitalismo italiano, a suo dire incapaci di rischiare, non lasciava dubbi sui suoi orientamenti”. Conclude Bernabè: “Ci lasciammo in un clima di grande freddezza”.

E il giorno dopo, lunedì 22 febbraio, presenta un ricorso urgente contro l’Opa – preparato nel fine settimana con Guido Rossi, esperto di diritto societario e già presidente di Telecom, e con Renzo Costi esperto di diritto  commerciale, già al lavoro prima dell’annuncio ufficiale – incentrato sulle sue  irregolarità formali alla Consob, che “fu costretta ad accogliere gli argomenti di Telecom, ritenendo non valida l’offerta nei termini in cui era stata formulata”; quindi cadevano gli “obblighi di passività” per Telecom, poteva dar corso alle contromisure.  Fu uno shock salutare, seguirono dei ripensamenti, “il tarlo del dubbio s’era insinuato tra i consiglieri di D’Alema”, tra loro l’economista Marcello Messori si era dimesso prendendo “le distanze dall’Opa e dopo aver denunciato l’opacità della catena di controllo Hopa-Bell-Olivetti”. 

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Luigi Spaventa, presidente della Consob 1998-2003

Stop alla scalata, dunque? Neanche per sogno, D’Alema non demorde.  Passano solo tre giorni dal ricorso accolto dalla Consob che giovedì 25 febbraio convoca il suo presidente a Palazzo Chigi – “inusuale convocazione in un  momento cruciale della battaglia” – e lo incontra.  I “capitani coraggiosi” ricevono l’aiuto decisivo: “Il giorno successivo Olivetti trasmise all’Autorità di controllo della Borsa  una comunicazione di Opa riveduta e corretta che ottenne il via libera dalla Consob il 27 febbraio  e segnò l’avvio formale  della procedura di offerta e degli obblighi di passività per il Cda di Telecom”. Riveduta e corretta con autorevoli suggerimenti venuti dopo l’incontro a Palazzo Chigi della domenica precedente? Di certo è un “post hoc”, ma potrebbe sembrare anche un “propter hoc” a chi fosse disposto a “far peccato” con il “pensar male”. Bernabè non è disposto a tanto e si limita ad affermare: “Non si sa se tra l’incontro del 25 e la decisione di autorizzare l’Offerta vi fossero altri nessi oltre quello temporale”; ma non può trattenersi del tutto e aggiunge: “La coincidenza di date fra i due eventi fa sorgere perlomeno il dubbio”. Il libro intitola “le ambiguità della Consob” il relativo paragrafo, ci sembra perlomeno eufemistico e riduttivo.

Non è solo la Consob a schierarsi inaspettatamente dalla parte degli “scalatori”. C’è anche  il ministro dell’Industria che usò l’alibi  dell’italianità dei “capitani coraggiosi” contro l’indolenza  del capitalismo nostrano, come se fosse una giustificazione sufficiente considerado che gruppi esteri non avrebbero potuto avventurarsi agevolmente in un settore strategico protetto anche con lo scudo della “golden share”.

Si trattava di Luigi Spaventa e di Pierluigi Bersani, non potevano deludere D’Alema, il leader dei comunisti alla guida del governo: Bersani storico componente del gruppo dirigente del partito, Spaventa  dal 1976 al 1983  alla Camera eletto nelle liste del PCI  come “indipendente di sinistra” prima di tornare a insegnare, e molto dopo, dal 1998 al 2003, presidente della Consob. Solo la conseguente condiscendenza può spiegare una simile miopia, inconcepibile stando alle loro competenze e alla loro corretetzza.

Bernabè rinuncia al ricosrso al Tar per non portare in sede giudiziaria un problema aziendale, tanto più che “pur essendo un organo indipendente, anche il Tar avrebbe risentito del clima politico favorevole che circondava Colaninno”, inoltre le posizioni di alcuni consiglieri, legati a Mediobanca, non facevano presagire un giudizio equanime. La contromisura adottata, in linea con la sua impostazione manageriale e diremmo culturale, fu  un piano industriale per la crescita di valore nel medio e lungo termine, mediante le dismissioni delle attività estranee al “core business”, che torna anche qui come all’Eni in una evidente coerenza; e l’integrazione tra Telecom Italia e Tim. Lo strumento? Prima si pensò ad un’Offerta pubblica di scambio poi fu trasformata in Offerta pubblica di acquisto da sottoporre all’assemblea. Le finalità erano di natura produttiva per la convergenza tra telefonia fissa e mobile con importanti risvolti finanziari nel rafforzamento della “public company” sganciata dal “nocciolo duro”, già “nocciolino”: e tale rimarrà.

 Si sarebbe avuto ancora più mercato, e si ponevano le basi per superare il “sindacato di controllo”  che con poco più del 6% dominava l’impresa, inoltre ci sarebbe stata la “lezione” che D’Alema voleva dare alle grandi famiglie inerti, gli Agnelli soprattutto. Ma si volle non capire, forse i motivi erano altri, e in questa nuova fase dell’odissea del protagonista, mentre si scatenano gli appetiti,  la politica – e si tratta della sinistra – paradossalmente sta dalla parte degli speculatori d’assalto: il mondo alla rovescia.

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Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia 1993-2005

E non solo la politica nel presidente del Consiglio D’Alema, ma anche la grande finanza con Enrico Cuccia e perfino la Banca d’Italia con Antonio Fazio. Il quale aveva assicurato che “la banca centrale non si sarebbe mai schierata a favore di operazioni aggressive e che avrebbe sostenuto un progetto di crescita industriale di Telecom”; nell’imminenza dell’assemblea – ricorda Bernabè – “aveva rettificato la sua posizione, dicendomi che il fondo avrebbe partecipato, ma che si sarebbe astenuto nel corso della votazione”. Niente di male, ciò che contava era la partecipazione per la validità dell’Assemblea: “Non avevo motivo di dubitare delle sue parole, che rispecchiavano il suo atteggiamento di chiusura nei confronti delle Opa bancarie. Ma anche in questo caso mi sbagliavo”. Più che errore è stata comprensibile fiducia.

Infatti non sembrerebbe possibile un nuovo radicale mutamento di posizione, eppure ci fu, ed è presto detto come: “Fazio fu convocato  a Palazzo Chigi qualche giorno prima dell’assemblea, e nel pomeriggio dello stesso giorno ci arrivò la comunicazione ufficiale che Banca d’Italia  avrebbe disertato l’assise”.  Un nuovo “post hoc” o per chi “fa peccato” ancora un “propter hoc”- dopo quello prima ricordato con il presidente della Consob, e sempre a palazzo Chigi – con D’Alema mobilitato sorprendentemente in prima persona in una materia così tecnica di competenza ministeriale. E’ evidente lo sconcerto di Bernabè a cui aggiungiamo il nostro nello scoprirlo: “Il suo voltafaccia mi colse alla sprovvista. Comprendevo le ragioni di un’astensione dal voto come dichiarazione di neutralità dello Stato. Rifiutavo che lo Stato e Banca d’Italia si esprimessero facendo mancare i propri voti per la regolare costituzione  dell’assemblea”.  

Ma c’è di più, D’Alema incontra anche Enrico Cuccia, l’eminenza grigia di Mediobanca e non solo, in un appartamento di Alfio Marchini, il nipote del costruttore della sede del PCI di via Botteghe oscure: “Si creò qundi un’inedita allenza tra Cuccia, D’Alema e Fazio”, d’altra parte “per Fazio e Cuccia le Opa si pesano, non si contano”, erano contrari a quelle sulle banche, favorevoli a questa su Telecom. Il direttore generale del Tesoro Mario Draghi ancora una volta è dalla parte giusta,  considera la contromisura di Bernabè da approvare nell’assemblea la più’ idonea a  creare valore per l’azionista: la classe non è acqua, lo si vedrà all’opera nella Bce: si erano conosciuti ai seminari estivi di Bruno de Finetti all’inizio del loro percorso.  

Ma cosa avviene al ministero del Tesoro?  L’incredibile, perché nonostante la posizione del  direttore generale, nel momento decisivo  neppure l’azionista Tesoro  si presenta all’assemblea convocata per  approvare le contromisure che avrebbero rintuzzato l’attacco dell’Opa;  quindi l’assemblea va deserta, inerti gli azionisti del “nocciolo duro” e in questo – ma solo in questo – D’Alema aveva ragione, però sarebbero stati ridimensionati con l’integrazione Telecom-Tim che anche finanziariamente avrebbe scongiurato l’Opa se fosse stato possibile portarla in assemblea. Sorprende la posizione di Carlo Azelio Ciampi ministro del Tesoro, non di D’Alema che gratifica i “capitani coraggiosi” dell’attributo  di “rude razza padana” associandoli, sull’altro versante,  alla “rude razza pagana” con cui Tronti aveva definito  il nuovo soggetto sociale, l”operaio-massa”, quasi volesse porre gli speculatori sul piano dei lavoratori. 

Bernabè non molla, fedele alla sua vocazione industriale e non finanziaria-affaristica tenta un rilancio eclatante:  la “business combination” alla pari con Deutsche Telekom, cioé “l’aggregazione delle due aziende in un’unica entità societaria” dato che i tedeschi cercavano un partner per dare dimensioni europee alla loro impresa di telecomunicazioni, e i tentativi fatti  con France Telecom non erano stati sostenuti dal loro management. L’accordo con i tedeschi è presto trovato, cosa di per sé straordinaria, e la condizione posta dal  C.d.A. di Telecom, nel quale c’erano “i pretoriani di Mediobanca”, nell’approvare il progetto di fusione –  un chiarimento del governo tedesco sull’esercizio del proprio diritto di voto nella nuova “holding company” – fu rispettata con l’impegno governativo alla totale privatizzazione. Comunica la sua ricerca di un “cavaliere bianco” per resistere all’Opa, nell'”ultimo faccia a faccia con il capo del governo”, a D’Alema che gli dà questo avvertimento: “Se avessi messo il governo di fronte al fatto compiuto di un accordo non gradito con una compagnia estera, ne avrei pagato le conseguenze”. Nessuna intenzione di Bernabè di “mettere in imbarazzo il governo ma metterlo in condizione di valutare alternative all’Opa, che consideravo una sciagura per la società”. Inutile dire che non bastò, ed ecco abbattersi di nuovo il “niet” di D’Alema: al premier tedesco Schroeder incontrato in quei giorni decisivi in un vertice Nato a Washington disse che  avrebbero riparlato dell’operazione dopo l’Opa, quando era evidente che era la contromisura proprio per opporsi all’Opa alla quale così veniva dato il via libera. Proprio da D’Alema! 

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Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro 1996-97 e 1998-99

E si arriva rapidamente alla conclusione, “l’epilogo era già scritto”: l’Opa ebbe successo, il governo  e l’establishment  erano stati dalla parte di Colaninno che dall’incastellatura azionaria pilotava l’Opa, la “rude razza padana” aveva vinto. “Con l’unica eccezione dell’Imi di Arcuti, che mi appoggiò senza riserva – ricorda amaramente Bernabè – gli altri soci del ‘nocciolo duro’ si ritirarono tutti in buon ordine. Cedettero i loro pacchetti azionari ai ‘capitani coraggiosi’ incassando sostanziose plusvalenze e cercando di far dimenticare le pagine meno edificanti  di questa storia, che avevano contribuito a scrivere. Da parte mia, feci le valige senza polemiche”.

Aggiunge delle parole  che suonano come un messaggio: “Dopo tante prese di posizioni molto decise me ne stetti in silenzio. Non avevo niente da rimpiangere. Non avevo rancori. Non mi importava niente della mia posizione. Così come avevo respinto le imposizioni della politica quando ero in Eni, a maggior ragione non potevo accettarle in una società quasi completamente privata” . E conclude:  “Era valsa la pena battersi, e pazienza se a qualcuno la mia battaglia era sembrata velleitaria. Se l’Opa avesse compromesso il futuro di Telecom, nessuno avrebbe potuto dire che era successo per un mio cedimento, una mia indecisione, una mia scelta”.

Il 25 maggio 1999 Bernabè con il C.d.A. si dimette per lasciare il campo ai nuovi amministratori, sono passati sei mesi  dall’assunzione della carica. Con D’Alema “l’occasione di riprendere il dialogo venne qualche mese più tardi”, quando il presidente del Consiglio lo nomina “rappresentante speciale del governo italiano per la ricostruzione del Kossovo”, a conferma che nulla di personale c’era stato nella vicenda appena conclusa. “Accettai l’incarico pro bono – confida Bernabè – nella consapevolezza che un contributo alla soluzione dei problemi che si erano aperti in Kossovo sarebbe stato di grande aiuto all’azione del governo e allo stesso presidente del Consiglio”. Quindi, nulla di personale neppure da parte sua: “Era il mio modo di testimoniare che la battaglia contro l’Opa non era stata un battaglia contro il governo o contro D’Alema, ma contro un progetto sbagliato che avrebbe danneggiato il Paese”.

Diventa amministratore delegato di Telecom Roberto Colaninno, ma i momentanei vincitori  rivelarono presto la loro vera natura, fu una “vittoria di Pirro” sul piano aziendale anche se fruttò immeritate, indebite plusvalenze nel 2001, quando Colaninno lascerà. Forse poteva dire a se stesso: missione compiuta!

Il fallimento dei  “capitani coraggiosi”, l’armata Brancaleone in ritirata

Si rivelarono profetiche le parole di Bernabè sopra riportate, come tutte quelle spese nella battaglia contro la finanza d’assalto che oltre a rivelarsi inaffidabile, essendo priva di risorse proprie aveva gravato Telecom di un debito insostenibile. La piramide di controllo nella “cascata di società” partiva da Ominiaholding con cui Colaninno era primo azionista della Fingruppo che controllava Hopa, con 150 investitori, molti schermati da finanziarie, la quale controllava la lussemburghese  Bell che controllava Olivetti, che controllava Tecnost, che controllava Telecom con il 51%, e quindi TIM. 

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Mario Draghi, direttore generale del Tesoro 1991-2001

La definizione data – anche se non da D’Alema – di “capitani coraggiosi” era appropriata, ma non nella sua accezione laudativa bensì al contrario: ci voleva “coraggio” per un’Opa da parte di una vera armata Brancaleone,  come ce n’è voluto di “coraggio” da parte del governo a guida comunista per far passare una scorreria all’insegna della più deleteria degenerazione spacciata per mercato; e per di più su un “asset” strategico per il Paese in una fase di profonde innovazioni che richiedevano una visione lungimirante nell’interesse pubblico  e non il cedimento alle scorrerie speculative di tali soggetti.  Il paradosso era che per punire il “nocciolino duro” perché controllava la società con solo il 6,6%, lo si faceva con il “mininocciolino” di Roberto Colaninno con solo l’1,6%, un quarto di quello di Agnelli e soci del sindacato.

Il risultato è scontato: esplode l’indebitamento, dai 27,3 miliardi di lire del 1999 a 38,3 nel 2001, mentre obiettivo dei corsari improvvisati è pilotare i dividendi alla parte più alta della catena di controllo con artifici diabolici che spiazzano anche il governo venendo penalizzato il Tesoro oltre agli azionisti di minoranza, cosa che portò al crollo delle quotazioni in Borsa. Il piano di scissione di Tim da Telecom per lucrare maggiormente fu definito dal “Financial Times” addirittura “una rapina in pieno giorno”, al punto che D’Alema non poté fare a meno di bloccarlo minacciando di usare la “golden share”, mentre all’Opa aveva dato via libera, ma forse si stava accorgendo di essere stato un incauto “apprendista stregone”; “il troppo stroppia”, diciamo ora, non si potevano più superare certi limiti dopo il grave cedimento iniziale.

Non fu bloccata invece la spericolata acquisizione tra agosto e dicembre 2000 del 37% di Seat –  pagata l’equivalente di 6,7 miliardi di euro, mentre tre anni prima il 61% era stato pagato al Tesoro solo 854 milioni di euro – dalla quale gli azionisti di Hopa, immessi prima callidamente in una delle scatole estere detentrici di Seat, lucrarono 151 milioni di euro compensando le perdite in Telecom: un’altra “rapina in pieno giorno” ripetendo l’espressione del “Financial Times”, comunque mascherata e purtroppo riuscita.

Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, ci insegnavano da piccoli, la Procura di Torino e finalmente la Consob indagano sull’anomalia della costosa acquisizione di Seat,  il centro sinistra perde le elezioni e gli ammiratori dalemiani della “rude razza padana”  lasciano il posto ai berlusconiani incattiviti per l’incursione su Telemontecarlo acquisita da Seat: risultato, la Borsa punisce i titoli Olivetti e Telecom mentre il resto del mercato è in forte rialzo su tutta la linea. 

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Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato 1996-99

“Il tracollo delle quotazioni”, da loro inatteso, capovolge le aspettative degli azionisti di Hopa i quali puntavano sulla lievitazione del valore di Bell che controllava Olivetti e quindi Telecom; pertanto con il capofila Gnutti ne escono vendendo Telecom a Marco Tronchetti Provera della Pirelli con Benetton in “Olimpia”, per 7 miliardi di euro. L’armata Brancaleone dei “capitani coraggiosi”  si fece pagare le azioni Olivetti quasi il doppio del valore di borsa mentre l’indebitamento di tale società era lievitato alla cifra stratosferica di 46,8 miliardi di euro,  con una plusvalenza di 1,8 miliardi di euro; il tutto tagliando fuori completamente i piccoli azionisti i quali reagirono abbandonando il titolo che crollò ulteriormente.

Così commenta Bernabè: “Si avverava quanto avevo previsto nel discorso ai dipendenti prima del lancio dell’Opa. Le quotazioni di Olivetti caddero sotto i due euro e quelle di Pirelli si dimezzarono”.  E il “capitano coraggioso” Colaninno?  Anche lui lascia la nave Telecom che rischia di affondare, però con una “robustissima plusvalenza” –  di certo non ottenuta per meriti industriali –  e la  impiega subito nell’acquisizione, da parte della sua Omniaholding, di un consistente patrimonio immobiliare di Telecom: trenta immobili, molti di pregio, in parte riaffittati alla stessa Telecom, sembra a canoni maggiorati rispetto a quelli di mercato, anomalia nell’anomalia.

Ma non è stato il solo a speculare sull’acquisizione degli immobili di Telecom. Lo ha seguito Tronchetti Provera attraverso “Pirelli Real Estate” per il resto del patrimonio immobiliare, operazione non solo negativa economicamente per il prezzo di favore su cui si sono concentrate le polemiche, ma deleteria strategicamente per il pregiudizio arrecato alla rete di telecomunicazioni le cui centrali erano ubicate negli immobili ceduti che contestualmente, anche in questo caso come nel precedente, furono riaffittati con contratti a lunghissimo termine: un leasing per euro 1,9 miliardi rispetto ai ricavi dalla vendita di 4,8 miliardi, solo 2,9 miliardi di minore indebitamento, un affare per Pirelli, una beffa per Telecom.

 “Il problema – osserva Bernabè – fu il vincolo dei contratti d’affitto che rallentò il processo di ammodernamento della rete nei tempi e nei modi richiesti dal progresso tecnologico”. Più precisamente: “Senza il vincolo dei contratti, una parte consistente delle 10.400 centrali Telecom  avrebbe potuto essere chiusa nell’ambito di una  riprogettazione della rete, con consistenti risparmi  di costi di affitto  e di gestione dell’infrastruttura”.  Ed ecco cosa avrebbe potuto fare Telecom senza questa sciagurata ibernazione: “Soprattutto avrebbe dotato per tempo l’Italia di una rete di telecomunicazioni più moderna e performante”. I danneggiati? L’intero Paese, tutti i cittadini, e non solo la società di telecomunicazioni.

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Marco Tronchetti Provera, presidente di Telecom Italia 2001-06

Gli epigoni dei “capitani coraggiosi”

Andiamo avanti in questo museo degli orrori, e non solo degli errori della politica e dell’economia.  Tronchetti Provera, dopo aver ottenuto una riduzione per “eccessiva onerosità”  del prezzo di acquisto delle azioni “Olivetti” crollate sotto il valore nominale di 1 euro – dai 4,175 euro pagati per ognuna quando però erano già  scese a 2,25 euro –  cede 25 società del gruppo Telecom, per lo più estere, incassando 12,8 miliardi di euro. Ma il colpo grosso riguarda la riforma dell’art. 2358 del Codice civile che puntualmente – con una miracolosa combinazione  temporale del tutto casuale, non vogliamo “fare peccato” pensando male  – consentiva il  “leveraged buyout” fino ad allora sempre vietato: cioè l’acquisizione a debito di un’impresa che era forte generatrice di cassa al fine di scaricare su di essa il debito contratto per acquistarla, insomma  il “gioco delle tre carte” proibito agli imbroglioncelli di strada consentito ai grandi finanzieri.  

Così parte la fusione tra Olivetti super indebitata e Telecom generatrice di cassa, si deducono gli interessi passivi e si ottengono sostanziosi crediti di imposta per le perdite pregresse. Con questo effetto che sembra incredibile: Telecom dal 2003 al 2008 paga di imposte, precisamente di Ires, circa 1 miliardo di euro in totale in 6 anni, meno del livello normale di 1,4 miliardi annui a cui torna dal 2009. Tali risparmi d’imposta aumentarono il flusso di cassa per pagare i dividendi di 17,5 miliardi tra il 2000 e il 2006, a vantaggio di Olimpia i cui azionisti furono ripagati dei debiti contratti per l’acquisto di Telecom. “In una certa misura – la conclusione di Bernabè – fu quindi lo Stato  a finanziare il debito che i privati si erano accollati per l’Opa”: operazione, aggiungiamo noi, che lo Stato così danneggiato aveva prima consentito, poi favorito addirittura anche sul piano normativo.

Ma non è finita. Tronchetti Provera lancia un’Opa per cassa di Telecom su Tim per far “risalire i dividendi” verso Olimpia, ma l’indebitamento ben maggiore di quando Bernabè voleva farla per opporsi alla scalata fece sì che Telecom spese invano 13,5 miliardi di euro e alla fine del 2005 il suo indebitamento finanziario totale toccò i 51 miliardi di euro, quello netto i 40 miliardi. I benefici fiscali venivano a cessare, il valore del titolo risultava dimezzato, i dividendi sarebbero stati insufficienti; inoltre nuove regole avrebbero inasprito la concorrenza, ed era nato un contenzioso davanti alle autorità garanti delle telecomunicazioni e del mercato, Agicom e Antitrust, che creava pesanti condizionamenti.

L’incauta proposta di Angelo Rovati, consigliere di Prodi, per risolvere i problemi di Telecom, in un documento che mandò a Tronchetti Provera, venendo dall’uomo di fiducia del nuovo presidente del Consiglio dal maggio 2006, poteva cambiare le carte in tavola. Ma Prodi ne prese subito le distanze, e Bernabè ne dà testimonianza avendolo visto “sconcertato” quando ebbe la notizia durante una cena in Cina in suo onore cui partecipava anche lui, “mi disse di non essere al corrente dell’iniziativa”. Comunque, “il piano Rovati di scorporo della rete fu un insperato aiuto a Tronchetti per distogliere l’attenzione dalle difficoltà in cui versavano Telecom e la controllante Pirelli”. Pressato dagli altri azionisti di Olimpia, cioè la famiglia Benetton, a trovare una soluzione, con le perdite di Pirelli giunte a un miliardo di euro nel 2006, colse la palla al balzo e il 15 settembre dello stesso anno si dimise da presidente. Fu sola la prima mossa.

 “Pirelli-Olimpia nella morsa del debito” non persero tempo, del resto la “gallina dalle uova d’oro” non serviva più, era stata completamente spennata. Il dado era tratto verso l’uscita di Olimpia, si rimescolano le carte, riprende “il valzer degli azionisti” . Poi torna sul ponte di comando di Telecom nel mare in tempesta Franco Bernabè, lo vedremo molto presto. L’odissea continua, volteremo ancora pagina, anzi più pagine.

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Romano Prodi, presidente del Consiglio 18.5.96-21.10.98

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 2 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito il 20 e 21 novembre, i prossimi 2 articoli usciranno il 23 e 24 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini  nel testo: zeusnews.it, biografieonline.it, 3 in it.wikipedia.org, cislpiemonte.it, viperland.it, ilsole24ore.it, ilfattoquotidiano.it, it.wikipedia.org, corriere.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia 20 novembre 1998-25 maggio 1999; seguono, Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti 1996-99 e Telecom 1999-2001, e Massimo D’Alema, presidente del Consiglio 21.10.98-11.12.99 ; poi, Luigi Spaventa, presidente della Consob 1998-2003, e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia 1993-2005 ; quindi, Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro 1996-97 e 1998-99, e Mario Draghi, direttore generale del Tesoro 1991-2001; inoltre, Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato 1996-99, e Marco Tronchetti Provera, presidente di Telecom Italia 2001-06; infine, Romano Prodi, presidente del Consiglio 18.5.96-21.10.98 e, in chiusura, Enrico Cuccia, di Mediobanca e non solo.

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Enrico Cuccia, di Mediobanca e non solo