Adami, 2. Segno e colore nella mostra all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 12 marzo 2017]

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“Studio per carte postali (J. Derrida), 2012-13

di Romano Maria Levante

Abbiamo già presentato in anticipo la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi”  che dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 ha esposto 60 opere pittoriche dell’artista i cui capisaldi sono l’interpretazione molto personale della funzione della linea e del colore, con l’importanza fondamentale del disegno preparatorio. La mostra si è svolta  nell’Accademia d’Ungheria, e in altre due “location” collegate, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia, ed è stata curata da Lea Mattarella con il catalogo di Carlo Cambi Editore in cui vi sono 10 saggi a corredo della ricca iconografia; la raccontiamo brevemente.

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“La fine di un mondo”, 2013

La linea narrativa dell’artista: il segno e il colore

Prima di dare conto della galleria di opere esposte completiamo l’inquadramento della peculiare cifra artistica di Valerio Adami, di cui abbiamo già indicato i capisaldi stilistici e di contenuto, con quella che Octavio Paz definisce la sua “linea narrativa” ispirandosi alle parole della stesso artista il quale è prodigo di analisi dell’arte e autoanalisi della propria, cosa che lo avvicina a De Chirico al quale lo accostano anche altri aspetti peculiari, come abbiamo evidenziato in precedenza.

Ecco cosa scrive: “Disegnare è una occupazione letteraria. Io non abbandono un disegno fino a quando posso scriverci la parola fine… Mi piacerebbe che anche in pittura si potessero usare le parole prosa e poesia per definire così il mio lavoro come una pittura in prosa. L’impulso narrativo è essenziale”, e, aggiungiamo, in lui si manifesta in forma sintetica attraverso il segno.

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Senza titolo” , 2014

Ha una propria autonomia, il disegno non segue qualcosa di preordinato ma si sviluppa in sequenza. “La linea, da parte sua – rileva Paz – è una successione di punti o, se si vuole, una successione di ponti fra un punto e un altro”. In quanto tale è la forma migliore di rappresentare il tempo: “Retta o sinuosa, circolare o spiraliforme, la linea va sempre da un qui a un altrove. La linea cammina, si raddoppia senza fine e senza fine ci racconta il suo tragitto: la linea va sempre transitando. per questo è narrativa”.

Così si esprime: “E che cosa racconta la linea? Ogni sorta di eventi e di idee nel tempo, e che sono tempo. Tuttavia, la linea non parla: per raccontare deve inventare delle forme adatte a farlo. I racconti della linea sono le forme che essa disegna”. Anche perché, spiega nelle “Sinopie”, “cerco nel disegno gli equivalenti di passato remoto, presente & futuro”.

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“La ruota”, 2014

Ma come decifrare questo racconto? Lo spiega l’artista: “Lo strumento per leggere il disegno è il colore, come la voce è lo strumento per leggere la parola scritta”, torna l’equiparazione tra pittura e letteratura, lo ribadisce Paz: “La voce – l’intonazione, è il colore della scrittura; il colore è la voce della pittura . I colori danno voce alle forme di Adami… Via via che avanza, la linea racconta e traccia una storia o diverse storie; i colori danno corpo e voce a queste storie”.

E come sono questi colori? .Netti e precisi, senza chiaroscuri né modulazioni, quasi fossero  creati incontaminati dall’aria e dalla luce, ma non sono colori puri sebbene possano sembrare tali. Lo stesso artista  nell’intervista a Penot dello scorso anno dice che si tratta di “colori piatti, sì, ma non sono stesure di colori puri. Io preparo sempre in anticipo,  nei barattoli, centinaia di toni diversi che utilizzo a seconda delle emozioni che cerco di creare”. E aggiunge: “Io non disegno mai senza pensare al colore, E’ quella la finalità del mio viaggio! Tutte le mie esitazioni iniziali, tutte le mie  cancellature debbono scomparire dietro le stesure di colore… Tutto partecipa alla scelta: il braccio, gli occhi, il cuore, il pensiero”. Conclude così: “Alla fin fine, .mi lascerò trasportare da uno stato d’animo malinconico? O mi lascerò guidare da un’idea puramente plastica?”.

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Ikaros (all’alba)”, 2014

Il risultato lo sottolinea con un’immagine efficace la curatrice Lea Mattarella: “Adami ha tolto la corona dalla testa di quella che è stata la regina della pittura del Novecento, della cosiddetta modernità nata con gli impressionisti: la pennellata”.

E spiega come: “Adami elimina il tocco, il segno del pennello che colpisce la tela”. Così “il colore è dato per campiture, è intatto, non conosce incertezze né comunica tensioni coi suoi contorni. Sta bene, è al sicuro tra linee chiuse che ne proteggono l’integrità, la certezza, la fermezza del ruolo”.

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Opera non identificata in catalogo

L’autoanalisi artistica nelle “Stanze” di Adami

Nelle “Stanze” l’artista sintetizza: “Contorno chiuso, campiture, ordine compositivo: sono queste le regole”. E precisa: “Solo il cuore può capire di che si tratta – e se di stile si tratta , questo nasce dall’idea ma si produce nel tatto delle mani”, una manualità che spesso sottolinea.

Si sofferma sulla forma, lui che mette in primo piano il segno libero da vincoli: “La forma è parola diurna e con questa ci si deve rivolgere agli altri, mentre la non forma è quel silenzio notturno che ci chiude in noi stessi e nel sogno – l’uno e l’altra convivono, e giorno e notte si susseguono”.

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“Le bouquetin (studio)”, 2014

E spiega: “La forma è persistente. Chiusa nel palmo di una mano, se ne sta ben ferma nella stanza della memoria. Da qui nascono le forme, molteplici e complicate, l’occhio del pittore le fissa nel contorno e ne cerca la ragione -ma questa abita il cuore… Infinite combinazioni ruotano disegnando, poi appare di nuovo una forma finita”.

Torna ancora sul tema: “Dapprima la forma appare chiusa in se stessa, specchio di quel che l’occhio vede e la mano tocca; vedendola, toccandola e pensandola in un percorso metaforico, la forma uscirà da se stessa e sarà diversa – diversa nel procedere, nell’aggiungere e nel togliere per somiglianze, per stanze poetiche, ecc.”.

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The portrait of the artist as a young man James Joyce”, 2014

Ed ecco come opera praticamente: “Disegno di ora in ora, disegno il destino del colore, disegno quel che vedo e quel che tocco, cancello più volte: l’oggetto si attraversa meglio nel cancellarlo e meglio si conosce nel ripeterlo. La gomma nella mano sinistra è l’attesa del tempo che passa – il mio volto che invecchia. L’unico augurio appropriato, quello di buon viaggio”.

Il suo viaggio artistico ha l’orizzonte indefinito, in una visione di tipo filosofico: “Rappresentabile/ non rappresentabile/ rappresentabile. Ossia figurabile/non figurabile/figurabile. E ancora, visibile/invisibile/visibile; e così via, per mettere fine alla linea del tempo, per manifestare in un gesto la linea che corre veloce. Così devitalizzato, però, il disegno lascia il suo posto allo schizzo – l’emozione in prima persona!”.

Schizzo, disegno, con segno e colore abbinati in modo personalissimo nei grandi acrilici su tela che colpiscono per la loro forza espressiva hanno l’eco profonda che  viene dal passato delle antiche incisioni, vivono  nel presente con le assonanze ai fumetti e alla Pop Art,  si proiettano nel futuro  con il loro messaggio di modernità fantascientifica. E’ giunto il momento della visita alla mostra.

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“Da un giallo alla TV”, 2014

La galleria di metafisiche e metamorfosi di Adami

Introduciamo la galleria di dipinti con le parole della curatrice, che sono state da guida alla nostra visita: “Le figure di Valerio Adami, le sue immagini, non vanno prese di petto, non devi cercare di comprenderle. Le devi ascoltare… I suoi quadri richiedono contemplazione”.

E non parla a caso di “ascoltare”, cita l’altro grande scrittore che, come Calvino, gli ha dedicato uno scritto intenso riferito costantemente a lui, Antonio Tabucchi, il quale ricordava “un’affermazione di Adami nella quale l’artista cercava un colore per i suoi disegni, ‘come se cercasse un suono, perché esso ha per lui lo stesso statuto delle note musicali’. Così ascoltare questi quadri non significa solo prendere parte di una storia, ma sentire la nota di un colore, il suo particolare suono”. E’ una visione in cui “questi dipinti sono partiture, l’elemento cromatico le modula, dà il ritmo, le fa vibrare anche laddove, apparentemente, tutto sembra immobile”.  L’artista lo conferma rivelando come i suoi barattoli, che sui coperchi recano scritta l’indicazione del colore, “appaiono come la tastiera di un grande strumento” 

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“Passeggiata sulle Alpi”, 2014

La curatrice commenta: “A lui, dunque, non resta che suonarlo”, e lo collega a Kandinsky, che gli ispirato il valore della pittura oltre la stessa pittura in una feconda frequentazione: “Per l’artista russo la relazione tra colore/suono/emozione è molto potente. Intitola le sue opere composizioni, improvvisazioni perché hanno uno stretto rapporto con la musica. Adami e Kandinsky non hanno quasi niente in comune, in pratica. Ma la teoria di una connessione tra colore, suono, emozione, trova qui , tra queste metafisiche e metamorfosi, un suo sviluppo originale  infallibile”.

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“Come down, please”, 2015

Ecco come l’artista esemplifica, rispondendo a una domanda di Penot nell’intervista del 2016,  il rapporto tra colore ed emozione: “La Morte di Colombina è dipinta in blu – diversi blu – ritenuti adatti a tradurre un sentimento di malinconia. Se, invece di questo blu, avessi privilegiato un fondo giallo, avrei senza dubbio raccontato un’altra storia, che sarebbe stata quella d’una Colombina solare, luminosa. Ma questa visione serena non mi ha sollecitato, d’istinto, quando ho riportato il disegno sulla tela, sono stato preso da questa malinconia che ho cercato di tradurre in toni blu”.

Tante sono le emozioni, più o meno intense o leggere, come tanti i colori piatti elaborati dall’artista e modellati sulla tela senza pennellate come vengono modulati i suoni su una tastiera.

Li abbiamo visti nei dipinti posti nelle pareti del Palazzo Falconieri – e delle due gallerie collegate -.dove sono state esposte composizioni di soggetti diversi accomunate dalle peculiarità della cifra artistica di Adami che abbiamo cercato di evidenziare, tra il segno e il colore, con  la base del disegno. Tanto che per metà delle opere, quasi tutte quelle degli ultimi anni, il Catalogo presenta il disegno a matita su carta oltre all’acrilico su tela eseguito dopo uno-due anni.

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“”Bombardier Billy Wells” , 2015

Il segno marcato non solo delimita i contorni ma fa da nervatura alle immagini percorrendole come con arabeschi o cicatrici, e il colore è piatto e monocorde all’interno delle forti linee che delimitano la forma. Evocano il passato delle incisioni settecentesche in un presente da fumetti d’autore e da Pop Art, mentre irrompe il futuro di una modernità evoluta, tra memoria, tradizione e meditazione.

Ci sono da un lato soggetti singoli – e ritratti, tra i quali diversi personaggi celebri – i più numerosi, dall’altro scene con più figure, e anche quadri di denuncia. Le opere esposte per la maggior parte erano dell’ultimo triennio, ma non sono mancate opere a testimonianza della sua produzione negli anni 70, 80, ’90, e del primo decennio del 2000, in una antologica fortemente selettiva.

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“Scena con due cani” , 2016

Sulle opere dagli anni ’70 al 2013 rileviamo che la mostra ne ha presentate 3 per gli anni ’70, i “Ritratti” di “Freud”  e “Benjamin”, la “Morte di Orfeo”; 2 per gli anni ’80 tra cui “Il ritorno del figliol prodigo” e l’evocativo “Metamorfosi” il dipinto di maggiori dimensioni, 2 metri per 2,60; 5 per gli anni ’90, tra cui il “Ritratto di Berio”, il “Passaggio sul Gange” e il “Muro del Pianto”, due sacralità rituali a confronto; 10 per gli anni ‘2000 fino all’ultimo triennio, tra questi il “Ritratto di Herman Hesse” e di “Antonio Tabucchi”, che come abbiamo visto gli dedicò una citazione molto significativa sul “suono” della sua pittura e un “diario cretese” con annesso racconto mitico sulla “cefalea del Minotauro”; troviamo altri riferimenti in“I nuovi Argonauti (news from Palestine)”, rivisitazione metafisica in occasione di un viaggio in quei luoghi. E una visione paesaggistica in “Quadro in un tramonto”, di vita quotidiana in “Home Sweet Home” e “Folding Screen”, ” Lezioni di nuoto” e “Cine Cine”, fino all’ impegno antimilitarista in”Figura crocifissa – We Want Peace dedicato a Ben Shan”, “La passione della Mira” e soprattutto in “Non ci sono guerre giuste (Ezra Pound)”..

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Opera non identificata in catalogo

Prevalgono nelle opere citate le tinte calde, come i gialli e i rossi, mentre nell’ultimo triennio sono sempre presenti le tinte fredde, come il verde e soprattutto il blu, in cui identifica la malinconia, in competizione con le tinte calde che persistono fino ad essere dominate in “Studio per brutti Presagi” e a sparire del tutto nell’ultimo quadro esposto, “Giacomo Leopardi recanatese nel letto di morte”, dove la malinconia diventa angoscia con tinte tenebrose, entrambi sono del 2016.

Soffermiamoci sulle opere del triennio 2014-16, cominciando da due composizioni enigmatiche del 2014, “Le Singe (disegno senza parole)” e “Il muro ‘capriccio turco’”, in entrambe una presenza umana dominante con misteriose piccole figure o parti di esse quale contorno allusivo.

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“Nietsche“, 2016

Niente di  misterioso, invece, nei  “Ritratti“, degli 8 che ricordiamo, 6 sono del 2016: 2 “Autoritratti” uno da giovane, l’altro come un “Giovane James Joyce”, 4 Ritratti di personaggi, “Nietsche” e “Riccardo Wagner”, “Giuseppe Verdi”  e “Gioacchino Rossini”, fino a “Filottete morso da una serpe (omaggio a Hayez)” e “Le bouquetin (studio)”.

Poi la quotidianità di “Un giallo alla TV”, il volo pindarico di “Sarasvati, Dea della Poesia” e le evocazioni alpestri di “Muflone” e “Passeggiata sulle Alpi”, del 2015, con l’animale a fianco dell’uomo in una serie che parte da “La notte dello stambecco” del 1988. fino a “Scena con due cani” e “Scena d’amore con cane e due violini”, del 2016. Ancora figure singole in primo piano negli“Angeli” raffigurati in 3 suggestive composizioni, “L’ange Dechu”, “L’angelo della sera” e “L’angelo e l’elefante”, immagini serene rispetto all’angoscioso “L’angelo” del 1992, un angelo della morte con la falce che scende accanto al letto del malato.

Diventano due i protagonisti della quotidianità evocata in “Le ore della sera, il passare del giorno”, e“Cercando l’ispirazione” del 2015, “L’incontro” e “Ballo al chiaro di luna” del 2016, accomunati da vitalità e passione anche nel cromatismo addirittura carnale;  mentre in “L’arcangelo San Michele che abbatte il demonio da Pelagio Palagi” e  “L’ora dell’angelo“, ambedue del 2016, la seconda figura è uno scheletro. La scena si anima con più figure gioiose in “Teatro (‘Sei figure per una Commedia)” e “Siedo e guardo il giorno di un pugile”, anch’essi del 2016, oltre al precedente “Tenerezza (la famiglia)”, 2014.

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“Giuseppe Verdi”, 2016

Non è mancato il paesaggio, come sfondo in “Uomo e donna (durante una vacanza alpestre)”, con la figura femminile dominante rispetto a quella maschile e all’animale nonché all’orizzonte con montagne, cielo azzurro percorso da qualche nuvola e caseggiato; e in primo piano, ma con evocazioni militaresche, nei due soldati che si immaginano contrapposti dalle diverse “uniformi” in “Paesaggio”,  e “Sulla spiaggia”, alla figura in divisa in primo piano si aggiungono il paracadute che scende dall’ alto e la minuscola tenda in basso.

L’antimilitarismo è apparso esplicito in “La rancon de la guerre”, e “Memoria del tempo di guerra”, “Commando” e, “Niente di nuovo all’est”, del 2016, che segue di tre anni “La fine di un mondo”  del 2013, è quello dei “communists”, una vistosa scritta con la grande falce e martello, una sorta di “si scopron le tombe…” al contrario, tra il rosso e il giallo. Forse anche “Au depart de l’avion” si può leggere in chiave antimilitarista, dinanzi al pianto della madre che viene consolata mentre sullo sfondo si vede un aereo militare in attesa; così, sia pure con maggiori dubbi, “Western con Pinocchio”, del 2016, ce lo fa pensare il fucile in alto e la bandiera piantata in basso. E poi la “Nemesi”, composizione in 4 quadri, nel primo la casa, nel secondo la partenza verso un radioso orizzonte, negli ultimi due i volti affranti con la croce del cimitero sullo sfondo grigio.

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Gioacchinno Rossini”, 2016

Alla scena tragica di “Une Famme chasse la mort” vogliamo contrapporre  le immagini volitive di “Ikaros (all’alba)” del 2014 e “Il sogno di volare”, del 2016, che dimostra come la vitalità non solo non sia venuta mai meno ma anzi appaia sublimata nei tempi più recenti.

La lezione di vita per tutti

Un’ultima notazione: la maggior parte delle opere esposte è stata realizzata nel nuovo millennio, dopo il 2000, e quasi un terzo nello scorso anno: precisamente, dei 65 dipinti, circa 10 fino al 2000, e dei 55 realizzati  nel nuovo millennio, 15 fino al 2013, e 40 nell’ultimo triennio, di cui 10 nel 2014 e 10 nel 2015, mentre 20 nell’ultimo anno, il 2016.

Quindi l’artista, classe 1935,è  ancora attivo eccome! Una longevità artistica non comune, considerando che la sua prima mostra collettiva risale al 1960 e la prima personale al 1964, oltre mezzo secolo di successi in tanti paesi nei vari continenti con una creatività mai scemata nel tempo.

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Opera non identificata in catalogo

E’ un’ulteriore, straordinaria peculiarità, oggetto dell’ultima domanda all’artista da parte di Penot, nell’intervista del 2016 cui ci siamo riferiti in precedenza. La domanda è stata questa: “”‘Amate la vita! E’ ciò che deve dire un quadro, tanto a chi lo fa, quanto a chi lo guarda’ affermavate all’alba dell’anno 2000. E’ perché amate la vita che continuate a dipingere, a ottant’anni passati?”. La risposta dell’artista è eloquente: “Io continuo a dipingere perché sono in vita e la pittura è tutta la mia vita… E’ una necessità profonda, reale. Il mio cuore batte; il mio cuore dipinge. Quando cesserà di battere cesserà di dipingere”.

Una lezione di vita anche per noi giornalisti, collimante con quella di Indro Montanelli, e chi scrive, quasi coetaneo dell’artista, la mette in pratica quotidianamente. E una lezione esemplare per tutti, perché trovino nella quotidianità motivi di stimolo: la linfa prodigiosa dell’amore per la vita.

Per tutti, quindi, oltre che per l’artista, vale l'”augurio di buon viaggio” con cui si chiudono le sue “Stanze”.

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“La Satyre et sa femme”, 2016

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma,  Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è uscito in questo sito il 16 gennaio u.s. [Aggiornamento : il primo articolo è uscito in questo nuovo sito nei giorni scorsi. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, su De Chirico in questo sito nel 2019, novembre 22, 24, 26, settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29; in www.arteculturaoggi.com, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013: in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); nei periodici “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013. Sulla Pop Art in www.arteculturaoggi.com 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012].

Photo

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne quelle da 1 a 5, 8, 9, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono tutte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 2012 al 2016, nel precedente dal 1971 al 2010. In apertura, “Studio per carte postali (J. Derrida) 2012-13; seguono, “La fine di un mondo” 2013 e “Senza titolo” 2014; poi, “La ruota” e “Ikaros (all’alba)”, 2014; quindi, opera non identificata in catalogo e “Le bouquetin (studio)” 2014; inoltre,”The portrait of the artist as a young man James Joyce” 2014 e “Da un giallo alla TV” 2014, ancora, “Passeggiata sulle Alpi” 2014 e “Come down, please” 2015; ancora, “”Bombardier Billy Wells” 2015 e “Scena con due cani” 2016; continua, opera non identificata in catalogo e “Nietsche” 2016; prosegue, “Giuseppe Verdi” e Gioacchinno Rossini” 2016; infine, opera non identificata in catalogo e “La Satyre et sa femme” 2016; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Adami, 1. Metafisiche e metamorfosi, all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 16 gennaio 2017]

di Romano Maria Levante

In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo.  La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.

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“La morte di Orfeo”, 1971

Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia  di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni  in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre  erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.

Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.

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Doctor Sigm. Freud”, 1972

Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data  a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.

Le origini e i capisaldi della sua arte

L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu  alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano  a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che  non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire  che “la pittura è molto di più che la pittura”. 

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Ritratto di Walter Benjamin“, 1973

Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle  autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.

Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”.  Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa.

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“L’angelo”, 1992

Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un  punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.

Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze  passate e dalla mia vita quotidiana”. 

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“Luciano Berio”, 1996,

E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”.

Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.

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Opera non identificata in catalogo

Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”;  e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in  seguito ha difeso”.

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“Passaggio sul Gange (Banaras)”, 1996

Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo  nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.

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“Il muro del Pianto 2”, 1996 i

Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.

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“Herman Hesse”, 2000

Tutto ciò porta alle  visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene  apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione  per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.

Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.

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“Antonio Tabucchi”, 2000

Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi

Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino  nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo;  poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala  nel mondo dell’artista con delle favole i cui  protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.

In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano  perché senza linea non esisterebbe più.

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“Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” , 2002

Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere  dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.

“La linea orizzontale e il colore blu”  presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo  o del mare –  mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano  spazio e tempo.

Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.

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Opera non identificata in catalogo

Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.

Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !°  e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.  

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“Home sweet home”, 2004

Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che  rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.

Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”;  fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”,  provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.

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“Davanti alla betulla”, 2005

A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata  la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.

Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali,  c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.

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“La lezione di nuoto”, 2008

Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue  meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.

Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .

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“Quadro in un tramonto”, 2008

E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.

Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.

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I nuovi Argonauti (news from Palestine” , 2009

Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è  un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.

Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.

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Opera non identificata in catalogo

E ci sembra che quanto abbiamo citato  – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.

Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica.

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“Studio per le ali dell’angelo”, 2010

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo saarà pubblicato in questo sito il  12 marzo p.v.  [Aggiornamento : il secondo articolo sarà pubblicato prossimamente in questo nuovo sito. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29, ; in www.arteculturaoggi.com su De Chirico, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, Strazza 11 marzo 2017,  Pollock 3 luglio 2015. Chagall 30 maggio 2015, Matisse 23 maggio 2015, Isgrò 16 settembre 2013, Braque e i cubisti 16 maggio 2013 ,  Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013. Pollock e Pop Art, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, Mirò 15 ottobre 2012; su De Chirico in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito), e nei periodici a stampa “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013].

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne le n. 1, 3, 5, 10, 13, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; utte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 1971 al 2010, nel successivo dal 2010 al 2016. In apertura, “La morte di Orfeo” 1971; seguono, “Doctor Sigm. Freud” 1972 e “Ritratto di Walter Benjamin” 1973; poi, “L’angelo” 1992 e “Luciano Berio” 1996, opera non identificata in catalogo e “Passaggio sul Gange (Banaras)” 1996; quindi, “Il muro del Pianto 2” 1996 e “Herman Hesse” 2000; inoltre, “Antonio Tabucchi” 2000 e “Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” 2002; opera non identificata in catalogo e “Home sweet home” 2004: ancora, “Davanti alla betulla” 2005 e “La lezione di nuoto” 2008; continua, “Quadro in un tramonto” 2008 e “I nuovi Argonauti (news from Palestine” 2009; infine, opera non identificata in catalogo e Studio per le ali dell’angelo” 2010; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Margherita Sarfatti, l’arte italianissima nella prima metà del ‘900, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

All’inizio dell’autunno, dopo i rinvii e con le limitazioni del Coronavirus, alla Galleria  Russo a Roma si è svolta dal 10 ottobre al 7 novembre 2020 una mostra molto significativa: “Margherita Sarfatti e l’arte italiana tra le due guerre”, a cura di Fabio Benzi.  Con questa iniziativa  la Galleria Russo ha aggiunto un capitolo importante al racconto che prosegue da anni dell’arte italianissima  troppo trascurata dai principali centri espositivi, anche se la “damnatio memoriae” del periodo considerato dalla mostra è ormai superata: un periodo che vede il suo prologo 106 anni fa, con la fondazione l’11 dicembre 1914 dei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista da parte di Filippo Corridoni con il patrocinio di Benito Mussolini. La mostra ha aggiunto alla rievocazione artistica quella storica e di costume ponendo al centro dell’evento espositivo una figura che è stata una protagonista dal profilo intrigante sotto tanti aspetti: la collezionista delle opere.

Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916-17

Per qualificarne la sua figura bastano le parole  con cui Fabio Benzi apre il saggio introduttivo: “Margherita Sarfatti fu una donna  di straordinaria forza, di sofisticata cultura e di autentica intelligenza”; e per il suo profilo intrigante quelle di Corrado Augias: “Delle due amanti ‘ufficiali’ la più famosa è stata Claretta, l’altra Margherita, nelle cronache postume quasi scompare”. Mussolini “anche per Margherita Sarfatti è stato un grande, appassionato amore  ma nel loro rapporto c’era  dell’altro”. E vediamo cosa: “Margherita giocava su due piani. Amante appassionata ma per certi aspetti era lei a dominare, quanto meno ad essergli abile guida nel suo apprendistato al mondo”.

Le sue lettere d’amore del 1923, che Augias cita, hanno espressioni ardenti. Si erano incontrati nel 1912  quando andò nella sede dell’”Avanti” da  Mussolini leader della corrente socialista “rivoluzionaria”, lei della corrente di Turati “meno dogmatica”, per comunicargli di  volersi dimettere dal “Popolo d’Italia: “Durante il colloquio scocca l’attrazione reciproca che sfocerà nel loro lungo rapporto ufficialmente segreto, in realtà noto a tutti”. 

Medardo Rosso, “Ecce Puer”, 1906

E’ al suo fianco nel marzo 2019, quando a San Sepolcro lui fonda i fasci, nell’ottobre 1922 dopo la marcia su Roma, nel giugno 1924 dopo l’assassinio Matteotti, e lo sostiene nella sua rivendicazione del gennaio 1925, nel dramamtico 1924 ne pubblica la biografia in Inghilterra; dal 1935 invece è con lui Claretta Petacci, lei nel 1938 è costretta dalle leggi razziali del “suo” Mussolini a lasciare l’Italia per Montevideo dove il figlio Amedeo era espatriato per quel motivo. Nel corso della permanenza in Sudamerica pubblica “My Fault”, un memoriale sulla sua “colpa” di essere stata con Mussolini. Torna in Italia nel 1947, non citerà mai in pubblico il suo passato; muore nell’ottobre 1961 a Como.

Dopo  questi accenni, non intendiamo ripercorrerne la vita in senso biografico, pur essendo  ricca di motivi di  interesse storico e di costume, data la sua forte personalità e la posizione che ha occupato nella società in un periodo così particolare della nostra storia nazionale. Ma ci limitiamo  a qualche spunto del percorso che l’ha portata alla ricca collezione da cui è alimentata  la mostra di opere di artisti che commenteremo quando entreranno nella sua vita nel corso della sua indiscussa  affermazione nella critica d’arte e nel mondo artistico e culturale di cui fu protagonista.

Umberto Boccioni, “Periferia” , 1909

Nella sua formazione, in una colta famiglia borghese veneziana,  ebbe maestri d’eccezione, lo storico Oddi, il letterato Molmenti, il critico  Fradeletto, parla 4 lingue oltre quella materna, gia nell’adolescenza legge oltre a Carducci e Pascoli, Schopenauer e Nietzsche, Ruskin, Byron e Shelley, e  sposa la causa socialista. A 18 anni si sposa veramente contro il volere dei genitori per la differenza di età,  nel 1900 comincia una fitta collaborazione sulla stampa socialista, in materia politica e con impegno femminista nella rivista “Unione femminile”  per l’emancipazione della donna.

Negli anni successivi si concentra  essenzialmente  sulle Biennali di Venezia del 1901 – 03 – 05, il suo maestro Fradeletto, fondatore ne era il dominus. Collabora al “Popolo d‘Italia” dal 1917 e nel 1922 partecipa alla fondazione di “Gerarchia”, di cui diviene condirettore con Mussolini nel 1925,  dopo la direzione per 3 anni di Arnaldo Mussolini, della rivista sono esposti  degli “Studi di copertina”  del 1928 di  Mario Sironi a cui fu legata da un “duraturo e appassionato rapporto, anche umano e privato, intimo”, come lo definisce Benzi.

Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1908

Gli  interessi artistici resteranno al centro della sua attività,  estesi anche all’arte internazionale, le sue preferenze vanno agli artisti più moderni.  Tra loro Alberto Martini e  Auguste Rodin, Gaetano Previati, è in mostra il suo “Fanciulli con cesti di fritta” 1916,  e  Romolo Romani con “Figura femminile”  1908. Inoltre Medardo Rosso,  del quale vediamo esposte 3 sculture “Innamorati sotto il lampione” 1883, una straordinaria anticipazione di “Lilì Marlene”,  ”Femme à la voilette (Impression  de boulevard, Dama della veletta)”, un bronzo che sembra uscire dal marmo, e soprattutto “Ecce puer”  1906, una straordinaria scultura “impressionista” con il dissolversi della forma tipico dello scultore.

Di Boccioni  fu amica, tanto che lui le dipinse il “Ritratto della figlia Fiammetta”,  lei lo aveva insieme ad “Antigrazioso”, Benzi ricorda di aver visto questi due dipinti esposti nella sua casa roomana. Nell’attuale mostra sono esposti, sempre di Umberto Boccioni,  “Periferia” 1909 e  Busto di donna – Ritratto di Nerina Paggio” 1916: entrambi speculari a due quadri di Sironi di quegli stessi anni, Paesaggio urbano” del 1908 con la desolazione e la solitudine,  “Margherita Sarfatti” del 1916-17 con il ritratto elegante.

Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie”, 1924

All’opposto dello stretto rapporto personale con  Sironi,  che fece parte dei Futuristi in modo atipico, verso Marinetti l’atteggiamento sembra “non fosse di istintiva simpatia”, date le posizioni maschiliste del pioniere del Futurismo rispetto a una femminista “ante litteram” com’era lei; ciò non toglie che collaborasse con lui nella mostra del 1919 al  Palazzo Cova in cui espose anche un ritratto che Sironi le aveva fatto.

Verso il Futurismo ebbe una posizione distaccata mostrando predilezione per le “Nuove tendenze” di artisti che se ne discostavano,  a parte la comune  spinta verso la modernità. Il suo non allinearsi alla corrente  che dopo il “Manifesto” di Marinetti del 1909 aveva fatto irruzione nel mondo dell’arte e nel costume non derivava certo dalla scarsa simpatia verso il suo fondatore, ma dalla  ricerca di  qualcosa di più ambizioso che si tradusse in iniziative concrete. 

Pippo Rizzo, “Canottieri”, 1929

Se questo è vero, va sottolineato che al distacco non corrisponde un’assenza dei Futuristi dalla sua collezione, com’era avvenuto invece per Renato Guttuso nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea per l’ostilità, se così la si può definire, della direttrice Bucarelli nella sua foga innovatrice; fino alla donazione da parte dell’artista e la “riparazione”  con due recenti mostre affiancate di Renato Guttuso e Palma Bucarelli come collezionista.

Troviamo, in mostra, oltre alle 2 opere di Boccioni già citate e alle 13 di Sironi di cui parleremo,  Lorenzo Balla con 2 opere (“S’è rotto l’incanto” 1922 e  “Balfiore- Petunie” 1924) “ e  Carlo Erba con 4 (“Studio di figura maschile” 1910-11 e “Soggetto eroico” 1911-12, “Casolari” 1912 e “Donna che cuce” 1914; Gino Severini con “Un ritratto (Autoritratto)”  1905, ed Enrico Prampolini  con  “Danzatrice” 1916 dalle forme cubiste.

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Enrico Pampolini, “Danzatrice”, 1929

Già nel novembre 1922, subito dopo la marcia su Roma, lei fonda  a Milano il gruppo “Sette Pittori del Novecento” con Sironi – su cui torneremo – Funi, Bucci e Marussig, Dudreville,  Malerba e Oppi. Di Achille Funi sono esposte 3 opere: “Famiglia a tavola” 1915, “Marina” 1921-22, e “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”  1930, quando lei era caduta in disgrazia con Mussolini e il mondo artistico; di  Anselmo Bucci vediamo  “Olga Lapidos”,  di Piero Marussig “Case  e tetti” 1928, e “Nudo” 1930.

Con questa iniziativa  mostrò  la volontà di  superare la posizione di pur apprezzata critica d’arte per “sostenere, al di là delle teorie estetiche specifiche (orientate sul ‘ritorno all’ordine’), un suo ruolo determinante non solo di organizzatrice, ma di esclusiva enunciatrice di un’arte di Stato” , forte della sua vicinanza a Mussolini.  Vi si impegnò talmente da allontanarsi dal giovane scultore Arturo Martini,  vicino ai Futuristi e alla “Secessione” –  che prima prediligeva e aveva fatto ospitare a Ravenna  con Funi da un amico – perché aveva aderito al gruppo romano di “Valori plastici” che sentiva come concorrente.  

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Achille Funi, “Famiglia a tavola”, 1915

Se fosse riuscita o meno nell’intento ambizioso di promuovere un’Arte di Stato”, cioè di regime, è un tema che va oltre la sua figura, investe  l’arte italiana in un periodo storico con manifestazioni artistiche di notevole rilievo liquidate superficialmente quanto erroneamente nella “damnatio memoriae”  che ha accomunato oltre agli artisti anche poeti e letterati, primo tra tutti Gabriele d’Annunzio.

Benzi prende di petto questo problema definendo “fondamentalmente falsa nella sostanza”  la vulgata diffusa nel dopoguerra  in cui ”si è parlato con superficialità e francamente con  semplicismo di ‘arte fascista’ come del prodotto evidente, necessario e scontato della politica di uno stato totalitario, cui faceva  da eventuale (ma non verificato) controcanto  minoritario un’arte di fronda, antifascista” soprattutto nei giovani artisti degli anni ’30 e ’40.  Ci viene in mente al riguardo il “Realismo socialista”, l’”arte di Stato” dei regimi comunisti  che doveva incarnare i valori dell’ideologia totalizzante con l’”uomo nuovo” e quanto costruito intorno a lui, e per questo agli artisti restava soltanto il ristretto spazio “privato” per esprimere in incognito la libera creatività; tra i suoi massimi esponenti Deineka, però, sentiva quei valori come propri.

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Piero Marussig, “Nudo”, 1930

Invece Mussolini fece una scelta ben diversa, forse per effetto dell’iniziativa prima ricordata messa in campo dalla  Sarfatti dopo la marcia su Roma, che aveva suscitato “una fronda assai diffusa tra  gli artisti e i critici di tutt’Italia” nel timore che, dati i suoi stretti rapporti con Mussolini, lei volesse divenire “il deus ex machina del fascismo nel campo delle belle arti, incarnando col suo nuovo movimento  l’arte ufficiale del nuovo regime”;  con la conseguenza di  “un inevitabile privilegio riservato  ai ‘suoi’ artisti milanesi a discapito di altre situazioni e personalità nazionali”.  Visto che artisti e critici temevano questo, Mussolini ne tenne conto e mise subito in chiaro la sua posizione di contrasto netto senza possibilità di equivoci.

Lo fece addirittura nella mostra  dei “Sette Pittori del Novecento”  organizzata dalla Sarfatti  nel marzo 1923, a soli quattro mesi dalla creazione del gruppo. Vi intervenne con un discorso in cui, dopo aver sottolineato che “non si può governare ignorando l’arte e gli artisti” affermò: “E’ lungi da me l’idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all’arte di Stato”; e aggiunse che “l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano… lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale”, in tal modo il governo è “un amico sincero dell’arte e degli artisti”. Commenta Benzi  che “queste parole, probabilmente inattese da parte della Sarfatti, dovettero cadere come un macigno  sul progetto egemonico sarfattiano”, l’arte di Stato.

Virgilio Guidi, “Donna che cammina”, 1918

A questo riguardo si potrebbe dire che se per lei fu una doccia fredda, poteva riscontrare come era invece riuscita nel suo intento di fare da “Pigmalione” a Mussolini, operando da vera femminista alla rovescia, trasformandolo “da ruvido provinciale in un avvertito politico e statista”. In quanto tale,  “da sensibile animale politico” aveva avvertito  dalle reazioni sopra citate una possibile perdita di consenso e ne aveva tratto le conseguenze fermando sul nascere ciò che poteva creargli dei problemi indesiderati e scomodi.

Siamo nel marzo 1923, il fascismo muove i primi passi, la Sarfatti gli resta vicino, e lo abbiamo già ricordato; nel 1924 pubblica in Inghilterra “Life of Mussolini” che esce in Italia nel 1926 come ”Dux”, tradotta in oltre 18 lingue, un successo internazionale. Ma non demorde dalla sua iniziativa  di promuovere un’arte “diversa” dal Futurismo, nel 1926  organizza la “I mostra del Novecento italiano” sempre a Milano, sulla scia della mostra del 1923 ma il cui titolo, ben più ambizioso, rivela l’intento di farla diventare “arte di Stato”. Mussolini non lancia un nuovo “macigno”, del resto è uscito “Dux”, ma le lodi alle “qualità” e alla “modernità” degli artisti, e non alla rispondenza delle opere all’ideologia fascista, mostrano la sua volontà di lasciarne libera la creatività, secondo il pensiero di Cipriano Efisio Oppo, suo amico  personale e fascista antemarcia cui saranno affidate importanti  iniziative pubbliche in campo artistico. 

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Francesco Trombadori, “Natura morta”, 1924

Lei va avanti nel suo proposito, con la morte del marito nel 1924 non ha più vincoli, si trasferisce a Roma e intende rendere annuale la mostra nella capitale come esposizione ufficiale del regime, spera nell’appoggio di Mussolini cui è più vicina anche fisicamente. Perciò vuole ripeterla nel 1927, ma scattano subito le contromisure per rassicurare l’ambiente romano, sono  orchestrate da Oppo, che suggerisce di prendere tempo:  il 26 settembre del 1926 Mussolini le scrive di  rinviarla al 1929 con un doppio motivo, evitare che coincidesse con la Biennale e per “creare del nuovo”, avendo tre anni invece di pochi mesi a disposizione.

Sarà o no una contromossa, lei nello stesso 1927, alla mostra  degli “Amatori e Cultori” presenta una collettiva di “Dieci artisti del Novecento”, tutti romani, e acquista loro opere di cui vediamo in mostra una selezione: di  Gino Severini è esposto “Maternità” 1916, e di  Virgilio Guidi Donna che cammina” 1918, di Francesco Trombadori” “Natura morta” 1924, e di Alberto SaliettiNatura morta” 1926, di  Ardengo Soffici  “Cabine”  1927, di  Pasquarosa “Pappagallo” , e di Quirino Ruggeri   il  bronzo “Ritratto di Margherita Sarfatti” , entrambi del 1928.

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Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)”, 1920

 Commenta Benzi: “La manovra seduttiva non riesce e la tensione fra Margherita Sarfatti e Oppo – portavoce del gruppo romano – traspare chiaramente in una minuta di lettera di Oppo alla Sarfatti”. Forse perché, sia pure con artisti romani, aveva aggirato proprio nel 1927 il blocco alla  mostra del Novecento impostole da Mussolini.  “Un altro smacco per la Sarfatti fu alla Biennale veneziana del 1928, della quale Oppo era consigliere, le fu negata una sala per i suoi artisti del “Novecento”.  

E quando finalmente tenne la “II mostra del Novecento italiano” nel 1929, rispettando il rinvio richiesto da Mussolini nella sua lettera, dovette organizzarla  a Milano non essendo stato possibile farlo a Roma; ma lei, tetragona, intendeva proporla come “arte fascista”, secondo il suo disegno ambizioso. Però non aveva fatto i conti con il raffreddamento del suo “rapporto personale e affettivo” con Mussolini il quale non solo non andò all’inaugurazione costringendola a rifare il comunicato stampa che prevedeva la sua presenza; ma le mandò una lettera ufficiale su carta intestata “Il capo del Governo”  in cui le si rivolgeva con ostentato distacco chiamandola “gentilissima Signora” e le intimava perentoriamente di non parlare di  “arte fascista”.

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Gisberto Ceccherini, “Alla fontana”, 1928

In particolare, dopo averle detto  di “disapprovare nella maniera più energica ” che lei tesseva “l’apologia  del cosiddetto ‘900 , facendosi alibi del fascismo” e di lui stesso,  arrivava ad affermare addirittura: “Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del fascismo fu il vostro ‘900 è ormai inutile ed è un trucco”; fino a rifiutare “la solita sviolinata nei miei riguardi”. La conclusione è l’avvertimento – poiché lei non sente “ancora  l’elementare pudore  di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre  invenzioni artistiche o sedicenti tali” – che lui stesso avrebbe provveduto a rendere esplicita al più presto la posizione sua e del Fascismo “di fronte al cosiddetto ‘Novecento’ o quel che resta del fu ‘Novecento’”.

Lascia sconcertato tale atteggiamento verso una critica d’arte e soprattutto una donna che – pur se sono passati più di sei anni – nella lettera del 1° gennaio 1923 lo chiamava “Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua, ora, per tutto il 1923 e, se , perché mi ami come io ti amo, per sempre Tua”. Un amore corrisposto finché  quella che è stata chiamata “l’altra donna del Duce” – espressione corretta da Benzi in quella speculare riferita  a Mussolini “l’altro uomo di Margherita” – viene in sostanza allontanata, anche per l’intransigenza di Rachele; e perdette ogni influenza su di lui e sul mondo artistico nazionale.

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Filippo de Pisis, “Vaso di fiori”, 1928

Ma non si diede per vinta, “Margherita non ebbe difficoltà a  riproporsi con rinnovato entusiasmo  in una veste nuova, di organizzatrice delle mostre del ‘Novecento’  all’estero anziché in Italia, dove i suoi margini di manovra si erano nevralgicamente ridotti”. Del resto, la sua visione artistica aveva avuto sempre un raggio più vasto di quello nazionale, a 18 anni in viaggio di nozze a Parigi acquistò litografie di Toulouse Lautrec. In seguito prese opere di Modigliani e Utrillo, Rouault e Kokoschka, Jean Cocteau e Picasso, Diego Rivera e Raoul Dufy. Oltre a questi, opere di artisti di cui ne vediamo alcune esposte: di Aristide Maillol il bronzo di fine ‘800 “Nu debut se coffant (Baigneuse aux  bras levés)” 1898, di André Derain  un dipinto, “Natura morta con caffettiera” 1911, e tre disegni di nudi femminili degli anni ’30, un “Nudo sdraiato”  e 2 “Nudi in piedi”.

Aveva  iniziato l’attività all’estero nel 1926 presentando a Parigi gli artisti del Novecento italiano,  seguirono mostre tra il 1927 e il 1932 nell’Europa del Nord e nell’America del Sud.  Intanto , nel declinare del “ritorno all’ordine” dell’arte,  dal 1928 si interessa  ai giovani artisti, dagli esponenti della “Scuola romana” come  Mario Mafai,  Corrado Cagli di cui è esposto “Paesaggio” , e Fausto Pirandello del quale vediamo  “Natura morta”  1926-27;  ai “Nuovi Futuristi” come Pippo Rizza, di cui è esposto “Canottieri” 1929, agli espressionisti come Lorenzo Viani, in mostra  “Maternità” 1920) . 

Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti”, 1928

Nel 1931  Giorgio de Chirico le dedica due opere del 1927, una “Testa di Gladiatore” e  un  “Ritratto”  come “omaggio alla gentilissima signora”, qui esposto, le si rivolge  come aveva fatto Mussolini nel 1929, ma  questo distacco era giustificato, da quando  nell’intervista dl 1927 alla rivista francese “Comoedia” il grande metafisico aveva dichiarato che “non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna… la pittura italiana non esiste” – tranne  se stesso e Modigliani che come lui considerava “francese” – e per questo lei lo aveva ignorato.  Poi le dediche e gli “omaggi”e lei acquistò da De Chirico “Cavalli in riva al mare”, dell’inizio degli anni ’30. Per associazione di idee vi colleghiamo il carboncino “Figure” 1920 e l’acquerello e china “Figure sedute”  1924 di Gino Rossi per le teste a uovo che richiamano l’arte metafisica anche se su un corpo tozzo non da manichino.

Nel 1931 la“Quadriennale d’arte” di Roma ha rafforzato la posizione, a lei contrapposta,  di Oppo, che dirigerà anche le tre Quadriennali successive, nel 1935, 1939, 1943. Lei – che nel 1930 era stata segnalata dalla polizia politica come “agente dell’internazionale ebraica” – ormai caduta in disgrazia, non è ammessa all’inaugurazione della Mostra del decennale della Rivoluzione Fascista nel 1932, con una scenata sulla scalinata del Palazzo delle Esposizioni.

Corrado Cagli, “Paesaggio”, 1915

Poi l’ostracismo si aggravò con il razzismo antisemita che creò una barriera invalicabile tra lei e Mussolini, fino al suo espatrio dopo quello del figlio a seguito  delle leggi razziali del 1938, con tappa in Svizzera e a Parigi e destinazione Uruguay, precisamente Montevideo, come si è accennato all’inizio.  Negli anni precedenti aveva scritto e collaborato a giornali ed editori stranieri.

Del ritorno in Italia a guerra finita  nel 1947 citiamo una coincidenza intrigante. Dimora all’Hotel Ambasciatori in Via Veneto dove il pittore Guido Cadorin raffigura lei e la figlia Fiammetta, Piacentini e Giò Ponti negli affreschi  dipinti nel salone. Intrigante perchè  è il pittore degli affreschi nel soffitto della “Stanza del lebbroso” al Vittoriale  di Gabriele d’Annunzio, che lei aveva conosciuto negli anni ruggenti.  “Circondata dai suoi quadri – commenta Benzi –  mi fa pensare a Sunset boulevard”, ma senza il dramma finale, serenamente “muore nella sua villa del Soldo,  che aveva visto centinaia di ospiti illustri, italiani e internazionali, tra le sue mura, nel 1961”.

Giorgio de Chirico, Ritratto”, 1927 con dedica

E come collezionista? Benzi la definisce “una Guggenheim italiana, potremmo dire”, e parlando degli artisti da lei avvicinati ricorda: “Si innamora di loro e della loro arte, collezionando molte centinaia, migliaia di opere: un catalogo completo della sua collezione non è stato mai fatto. Essa fu smembrata già lei in vita per permetterle di vivere in esilio”,  fino alle divisioni ereditarie.

Abbiamo già citato una serie di artisti di cui acquistava le opere, indicandone alcune  esposte in questa mostra. Aggiungiamo gli altri artisti con le opere in esposizione: Mario Tozzi con “Le pére Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920  e Gianfilippo Usellini con  “Ritratto dell’alpinista. Ritratto di Vittorio Ponti” 1927,  Gisberto Cerracchini con “Alla fontana” Filippo de Pisis conVaso di fiori”  entrambi 1928, Ferruccio Ferrazzi con “Maremma” 1930. 

Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste”,1922

Un rilievo particolare spetta allo scultore della “secessione” Adolfo Wildt del quale sono esposte 11 opere, le sue sono forme gotiche in chiave simbolica, senso plastico nel marno estremamente levigato. Scolpì una serie di busti di Mussolini, uno dei quali per il primo anniversario della Marcia su Roma, un altro distrutto dalla frenesia iconoclasta dei simboli del regime nei giorni della Liberazione.

Non sono esposti quei busti, ma 5 teste scultoree, “L’anima  e la sua veste” 1916 in gesso, 1922 in bronzo e l’altorielevo in marmo con il profilo reclinato della “Mater purissima”  1918, ben diverso dal profilo aggressivo nel bronzo “Vittoria” 1919. Non solo gesso, bronzo e marmo per le statue, anche pergamena per i 2 disegni quasi naif “Casa di Gesù” 1919 e “Mi dolgon, fanciullo, le pene che più non mi dai” 1921, e bronzo per le medaglie “Humanitas – Cave canem”” 1918, “Il Risparmio” 1921, l’albero con i suoi frutti.

Adolfo Wildt, “Vittoria”, 1919

Infine siamo giunti a Mario Sironi, nell’ambito della  mostra c’è una “piccola personale” con 18 opere, a testimonianza del rapporto quanto mai stretto con la Sarfatti “tra avanguardia e moderno classicismo”, come lo definisce Raffaele Ferrario che ne rievoca aspetti e momenti. Il primo incontro nel 1915, con entrambi a Milano –  anche se l’amicizia con Boccioni, già comune amico da cinque anni, anticipa la conoscenza virtuale al 1910 –   fece scattare  una intesa straordinaria e la morte di Boccioni l’anno dopo nell’agosto 2016 li avvicinò ulteriormente, e la loro condivisione non fu turbata dalel vicende politiche.

“Il loro rapporto si fonda  sulla condivisione di ideali comuni e dello stesso modo di  percepire il presente attraverso l’arte, il segno, la parola”.  Tanto che – sottolinea Ferrario – “alcuni dettagli della sua pittura corrispondono al ritmo sintetico e sincopato della  scrittura di Margherita Sarfatti, che pone l’accento sui tratti ‘tipografici’ di Sironi nella composizione”.

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Adolfo Wildt “La Vergine”,1924

Sul piano personale il rapporto viene rafforzato dalla tragedia della prima guerra mondiale, il primogenito della Sarfatti Roberto ucciso da una mina sull’Altipiano di Asiago nel 1919, lui disegna la copertina di “I vivi  e l’ombra”, il racconto disperato della madre e figure simboliche definite “anti monumentali”. “La sintesi essenziale delle forme che Sironi usa negli anni venti nelle opere e per gli interventi sulle copertine e soprattutto negli studi preparatori ha molto in comune con l’incisività  delle parole  della sintassi ritmata e sintetica che la Sarfatti  usa nel 1925 in Dux per descrivere la scrittura di Mussolini”  definita “breve, apodittica”, come lo stile di Sironi “rude, apodittico fino alla brutalità”.

La condivisione biunivoca, se così si può dire, tra pensiero della Sarfatti ed espressione artistica di Sironi è evidente soprattutto nelle “periferie”: “Se Sironi la segue nella funzione sociale e narrativa dell’arte, lei sposa la sua proposta di una nuova estetica moderna e urbana”, e lo sostiene con acquisti personali e del Comune di Milano: “Entrambi hanno talento per il racconto epico e la capacità di creare una mitologia quotidiana”.  Ma  pur se Sironi aderisce al  mito futurista della velocità e del futuro, “la sua visione già avverte il dramma esistenziale dell’uomo moderno, l’angoscia, la solitudine, l’alienazione, ciò che sarà definito in seguito ‘il male di vivere’”. 

Mario Sironi, “La ballerina”, 1916

E’ dalla parte della Sarfatti nelle polemiche su “Novecento” e quando cade in disgrazia “Sironi resta fedele al loro sodalizio, tradirlo sarebbe come tradire un’utopia”. Lei gli scrive definendo i quadri che continua ad acquistare “ veramente splendidi”, considera “un capolavoro “Il bevitore”, dice che “Il ciclista” regge al tempo “in modo vittorioso”. Sironi, nel 1926 dirigente del Sindacato nazionale degli  artisti fascisti,  dall’interno dell’organizzazione le scrive che “il fascismo è nettamente a-artistico e le cose dell’arte sempre più dimenticate come superflue o intempestive”, per cui nell’azione del partito “l’arte non c’entra per niente”. L’opposto del “Realismo socialista” con l’arte strumento dell’ideologia con “l’uomo nuovo”  del comunismo bolscevico al centro della propaganda imposta, a parte il grande  Deineka interprete convinto. Era la pietra tombale su quella che era stata l’illusione e l’azione della Sarfatti; “l’arte di Stato”, di regime.  

Ed ecco la piccola personale di Sironi nella mostra alla Galliera Russo: il “Paesaggio” e “Paesaggio urbano” 1908, citati all’inizio, anticipano lo squallore delle Periferie, mentre il nuovo “Paesaggio urbano” del 1921 è monumentale, con il segno futurista dell’automobile; tra questi, del 2016, “La ballerina” e “Danzatrice” con una stilizzazione cubista, mentre il “Progetto di copertina per la rivista ‘Ardita’”, del 1919,  ha qualcosa del manichino metafisico  Il corpo femminile della “Figura con lo specchio” 1924 anticipa il “Nudo” di Marussig del 1930 ed è contemporaneo ai nudi della pittrice Tamara de Lempicka.

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Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1921

Seguono due disegni del 1925-26 “Aratore e morte” e “Figure”,  3 “Studi di copertina per  ‘Gerarchia’”  del 1928 e 2 disegni “politici” del 1934, “La guardia” e “Pace europea” che fanno parte della sua attività di vignettista impegnato. E’ del 1930 “All’osteria – Fiaccheraio”, immagine della stanchezza e della solitudine. Chiudiamo la galleria espositiva con i 4 ritratti: andando indietro nel tempo i 3 disegni, del 1917-18 “Ritratto di compositore”  a matita, del 1916 a puntasecca “Ritratto di Cesare Sarfatti” e “Ritratto di Margherita Sarfatti”; infine, del 1916-17 la tempera-pastello su carta nella luminosità veramente solare che fa risaltare il sorriso coinvolgente della protagonista nel “Ritratto di Caterina Sarfatti” , l’abbiamo lasciato in chiusura come il commiato della “star” al termine dello spettacolo.

A questo punto non resta che concludere, e lo facciamo con le chiare parole di Benzi: “Nel contesto internazionale delle donne del XX secolo, che con la loro personalità  hanno contribuito a costruire il mondo moderno… Margherita Sarfatti spicca come un astro di prima grandezza”.  Questa sintesi della sua figura rende meritoria la rievocazione della  Galleria Russo nella mostra di opere della sua collezione, simboli dell’arte italianissima tra le due guerre ed espressione della sua sensibilità e impegno nell’arte.

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Mario Sironi, “All’osteria-Fiaccheraio”,1930

 Info

Galleria Russo, Roma, via Alibert  20, Roma. Tranne nell’emergenza coronavirus, è aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiusa; ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com. Catalogo: “Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre”, Silvana Editoriale, marzo 2020, pp. 130, formato 23 x 23; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e movimenti citati nel testo cfr. i nostri articoli di seguito indicati. In questo sito, 2019: Cagli 5, 7, 9 dicembre, De Chirico novembre mostra Milano 22, 24, 26; settembre mostra Torino 25, 27, 29, mostra Genova 18, 20, 22, libro Fabio Benzi 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15. Nel sito www.arteculturaoggi.com, i futuristi: nelle mostre alla Galleria Russo, 2018: Floreani per Boccioni 7 ottobre, Futuristi e moderni 7 marzo; 2017: Marchi 24 novembre, Thayhat 27 febbraio; 2015: Sironi 2 novembre, Tato 19 febbraio; 2014: Dottori 2 marzo; 2013: Erba 1° febbraio, Marinetti 2 marzo; l'”ultima futurista” Lina Passalacqua, 2018: 10 gennaio; 2015: 1° aprile; 2014: 28 maggio; 2013: 25 aprile. Altri artisti e movimenti citati nel testo: su De Chirico 2016: 17, 21 dicembre, 2015: 20, 26 giugno, 2013: 1° luglio; Picasso 2018: 6 gennaio, 2017: 5, 25 dicembre; Guttuso 2018: 14, 26, 30 luglio, 2017: 16 ottobre, 2016: 27 settembre, 2, 4 ottobre, 2013: 25, 30 gennaio; Bucarelli 2017: 22 ottobre, Sironi 2015: 2 dicembre, 2014: 1, 14, 29 dicembre, 7 gennaio; Secessione 2015: 12, 21 gennaio, Modigliani, Utrillo 2014: 22 febbraio, 5, 7 marzo, Cubisti 2013: 16 maggio, D’Annunzio 2013: marzo 14, 16, 18, 20, 22; Deineka 2012: 26 novembre, 1, 14 dicembre. Nel sito cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 2011: 3 articoli 31 dicembre, De Chirico 2010: 8, 10, 11 luglio; 2009: 27 agosto, 23 novembre, 22 dicembre; Futuristi 2009: 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre; Picasso 4 febbraio (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono disponibili), Sironi 26 gennaio. In “Metafisica”, rivista semestrale a stampa della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, articolo sulla mostra De Chirico e la natura 2013: ottobre, n. 11-13.

Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”, 1930

Photo

Le immagini sono tratte dal Catalogo fornito cortesemente dalla Galleria Russo, si ringrazia Fabrizio Russo, con l’Editore e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti” 1916-17; seguono, Medardo Rosso, “Ecce Puer” 1906, e Umberto Boccioni, “Periferia” 1909; poi, Mario Sironi, “Paesaggio urbano” 1908, e Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie” 1924; quindi, Pippo Rizzo, “Canottieri” 1929, ed Enrico Pampolini, “Danzatrice” 1929; inoltre, Achille Funi, “Famiglia a tavola” 1915, e Piero Marussig, “Nudo” 1930; ancora, Virgilio Guidi, “Donna che cammina” 1918, e Francesco Trombadori, “Natura morta” 1924; continua, Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920, e Gisberto Ceccherini, “Alla fontana” 1928 , prosegue Filippo de Pisis, “Vaso di fiori” 1928, e Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti” 1928; poi, Corrado Cagli, “Paesaggio” 1915, e Giorgio de Chirico, Ritratto” 1927 con dedica; quindi, Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste” 1922, “Vittoria” 1919, e “La Vergine” 1924; inoltre, Mario Sironi, “La ballerina” 1916, “Paesaggio urbano” 1921, e “All’osteria-Fiaccheraio” 1930; infine, Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta” 1930 e, in chiusura, “Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930 circa.

“Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930

Gian Luca Rocco, dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid

di Romano Maria Levante

Nei giorni in cui ferve il dibattito sulla maggiore o minore incidenza delle restrizioni nelle festività natalizie, la dolente elegia del giornalista Gian Luca Rocco in morte del padre Gian Luigi, apprezzato psichiatra forense ghermito dal Covid a 71 anni, richiama alla meditazione, oltre all’omaggio commosso e alla partecipazione più sentita al suo dolore che diventa dolore di tutti. Dalla meditazione dovrebbe scaturire una ragionevolezza che sembra svanita in molti, mentre mai come in questo caso può essere salvifica.

Gian Luca Rocco con il padre Gian Luigi

L’elegia in prosa del collega Rocco risplende come una meteora luminosa nel buio della ragione che fa allentare il divieto di spostamento tra regioni e comuni – e vorremmo anche nel loro ambito – nei giorni fatidici di Natale e Capodanno per visitare genitori, nonni e persone anziane in modo da non lasciarle sole nelle festività dedicate agli affetti familiari; e soprattutto sta creando un clima nel quale chi pensa di non andare a trovare genitori e nonni per il “principio di precauzione” viene considerato ingrato senza cuore.

Ma è affetto sottoporre le persone fragili per età o patologie a un rischio che può essere mortale ed è comunque drammatico nelle forme gravi anche se non letali, a stare ai racconti dei sopravvissuti? E anche se il clima del Natale o dell’ultimo dell’anno può far prevalere al momento l’affetto sulla precauzione, subito dopo il congedo, con i saluti che culminano negli abbracci, non verrà il tarlo del timore per l’eventuale contagio che toglierà serenità sia all’anziano oggetto dell’affetto, sia ai più giovani che lo hanno nanifestato e non li lascerà nei giorni della pur improbabile ma non impossibile incubazione? E vale più la gioia di un abbraccio momentaneo oppure l’ansia successiva prolungata per giorni del pssibile contagio?

Il dottor Gian Luigi Rocco non si è sottoposto volutamente ad alcun rischio di questo tipo, non avrebbe voluto l’abbraccio del figlio nelle prossime festività, stava molto attento; ma per serietà professionale ha dovuto continuare a frequentare il tribunale come psichiatra forense di alto livello; e il tribunale è stato definito da Giulia Bongiorno – che pur attentissima nella vita personale pensa di esservi stata contagiata dal virus – una delle “zone franche in cui è impossibile difendersi” pur adottando tutte le precauzioni personali.

Sono “zone franche in cui è impossibile difendersi” anche i pranzi natalizi e i cenoni di Capodanno nell’ambito familiare se oltre ai conviventi si aggiungono presenze venute da fuori, sia dello stesso o di altro comune, siano o no aree a maggiore carica epidemica. E la possibilità di ammettervi i familiari più stretti, figli e nipoti, non è dare una “licenza di contagiare”, per non dire peggio, proprio a chi dovrebbe sentirsi ancora più protettivo verso chi è esposto? La ragionevolezza singola dovrebbe sopperire a questa sorta di impazzimento collettivo che rischia di fare dei giorni dedicati alla famiglia una temibile “livella”, ad opera di coloro che alla famiglia sono più legati, le cui vittime sarebbero i loro cari, e non basta fare gli scongiuri. Come ci si può proteggere con i distanziamenti e le mascherine nel pranzo di Natale e nel cenone di fine anno? E anche se fosse possibile, si esprimono così gli affetti familiari senza abbracci nè contatti? Non è meglio manifestare l’affetto a distanza nei vari modi consentiti, fino a una telefonata calda e affettuosa? Accompagnata da un regalo: l’assenza per non far correre un rischio evitable a chi è fragile ed esposto.

Ieri sera – su “La 7” nella trasmissione televisiva “Piazza Pulita” – lo scrittore Stefano Massini ha dedicato la sua settimanale allocuzione televisiva allo “spazio delle emozioni”, sottolineando da par suo come sono mortificate in questo momento critico fino a portare un uomo a sfogarsi di un litigio familiare percorrendo 400 Km a piedi e una donna andando a piangere in modo sommesso in garage per non farne accorgere le proprie bambine. “Stiamo contenendo le emozioni, le freniamo, le blocchiamo come la nostra vita sociale bloccata dal Dpcm. Ma dove ci porterà tutto questo?” Noi che ne abbiamo condiviso spesso le perorazioni, questa volta dobbiamo dare una risposta diversa dalla sua, che ritenendo le emozioni incontenibili spinge di fatto ad allentare restrizioni e cautele. E la troviamo nella appassionata perorazione di Rocco che ha voluto condividere le sue emozioni nate dalla più triste tragedia personale per lanciare un ammonimento.

Riporteremo le sue parole di alto valore umano e civile al termine di questa nostra breve nota introduttiva al suo ricordo espresso in un prosa, ma ispirata e poetica come un’elegia. Intanto vorremmo fare alcune semplici considerazioni. La prima è che tanta preoccupazione per le emozioni “bloccate” non considera che i blocchi in qualche misura deprecati ne hanno “bloccate” ben altre, quelle che ha dovuto patire Rocco nella tragedia della scomparsa del padre. E ben per Massini se ha avuto il virus nella forma più lieve e se l’è cavata in un mese di isolamento da asintomatico, con queste sensazioni declinate all’annuncio: “Ho il Covid: incertezza, attesa e solitudine sono i sentimenti prevalenti”. “Beato lui” – diranno Rocco e i tanti altri colpiti dalla sconvolgentre tragedialui – per questo Massini amplifica le difficoltà della “nostra vita sociale bloccata dal Dpcm” e sottovaluta indirettamente tutto il resto che non ci sentiamo neppure di rievocare.

Ma non viene considerato un altro aspetto, ed è qui la nostra seconda considerazione: il fatto che non si tratta di una condizione permanente, assolutamente insopportabile nella sua persistenza indefinita, cosa che potrebbe portare ad assumere dei rischi altrimenti evitati volentieri se fosse solo temporanea. Ebbene, la perorazione di Massini viene paradossalmente proprio dopo l’annuncio ufficiale – che segue le recenti anticipazioni sui vaccini in via di approvazione – del programma delle vaccinazioni contro il Coronavirus che iniziarebbero poco dopo la fine dei “blocchi” antifestività natalizie e di fine anno. Quindi i contagi ai familiari più cari che si potrebbero diffondere per non “bloccare la vita sociale” e non “contenere le emozioni” natalizie e di fine anno si manifesterebbero nei giorni in cui presumibilmente si comincerà a festaggiare l’uscita dal tunnel verso l’immunità. Torna in mente il finale di “All’Ovest niente di nuovo” con il protagonista colpito da una pallottola all’annuncio festoso della fine della guerra, incautamente si era spinto oltre il bordo della trincea. Chi vorrà fare la stessa fine? L’augurio è che siano pochi, speriamo nessuno.

Si dirà che la solennità natalizia può giustificare questo ed altro, è una ricorrenza sacra legata a una tradizione così radicata che ne ha fatto anche una solennità civile, mentre il fine anno ha il fascino connaturato con il passaggio al futuro con tutte le sue aspettative; di qui i festeggiamenti irrinunciabili. Ne conveniamo, ma in tempo di guerra non ci si è mai sognati di porsi problemi del genere, e il Natale lo si è festeggiato come si poteva, a distanza, con i poveri mezzi di allora, ora moltiplicati a dismisura, del resto si è sempre detto che questa è una guerra, sia pure asimmetrica contro un nemico invisibile. E se l’arma di difesa personale e di offesa al virus è evitare simili situazioni rischiose perchè non utilizzarla fino in fondo? Tanto più che, pur con il rispetto per la tempistica radicata nel costume e nella coscienza di tutti, la ricorrenza non è legata a un evento non ripetibile, al quale non si può mancare di assistere nel momento stesso, come alle apparizioni religiose e ai fenomeni naturali, quali le comete, le eclissi e altri analoghi.

I festeggiamenti con le famiglie riunite “in presenza”, quanto più allargate e affettuose, si possono benissimo rinviare al momento in cui i convenuti e convitati non faranno più correre gravi rischi ai più fragili di loro, e questo momento si intravvede in una prospettiva ravvicinata, i mesi si contano sulle dita di una mano, e neppure tutte. Questo non vuol dire ignorare la ricorrenza tradizionale, tutt’altro, ma viverla in modo diverso e anche intenso: come la “didattica a distanza” il “Natale e il Capodanno a distanza” facendo sentire la presenza in uno dei vari modi virtuali che oggi vivaddio sono possibili. La stessa Chiesa nella sua saggezza millenaria non si è trincerata sulla mezzanotte per la Messa natalizia ma l’ha anticipata di quattro ore proprio perchè l’ora della nascita del Bambino è una convezione per quanto radicata e sempre seguita. E se fosse stata annullata come è avvenuto per tutte le messe nel “lockdown” totale, sarebbe bastato ai fedeli assistere in televisione alla messa del papa nella Basilica di San Pietro, come già avvenuto nei mesi scorsi. D’altra parte Natale e Capodanno del 2020 vengono di venerdì, due “long week end” da vivere come tali, pur con intense telefonate augurali, rinviando pranzo e cenone ai tempi migliori che sembrano imminenti.

Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha così commentato la morte del compianto Gian Luigi Rocco: “Le persone morte di Covid non sono numeri. Vorrei ricordare questo bravo, grande medico, impegnato come tantissimi suoi colleghi nella professione medica, nel momento in cui si levano preoccupazioni e proteste più sui mancati festeggiamenti per le prossime festività che sulle cautele dirette a contenere la strage che ogni giorno si consuma a causa del Covid”. E ieri si è avuto il record dei decessi in Italia, quasi 1.000 in 24 ore. Abbiamo letto il commento del procuratore dopo aver scritto la nostra nota, precisiamo solo che le cautele di cui parla il dott. Cozzi sono quelle che “bloccano la nostra vita sociale”, per cui doverosamente e maggiormente dovrebbero e devono “bloccarla” in queste festività per i motivi anzidetti.

Ma lasciamo la parola a Gian Luca Rocco, per le sue conclusioni – che seguono con le sue evidenziazioni – prima di riprodurre interamente quella da noi definita “dolente elegia filiale ammonitrice sul Covid 19”:

Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica” . Ed ecco, riportate di seguito, “queste righe” che invita a leggere, con il loro titolo.

di Gian Luca Rocco

“Mio padre senza Covid avrebbe vissuto altri  20 anni. E c’è chi pensa al Natale e allo sci”

Il nostro collega Gian Luca Rocco ricorda così il padre, uno delle 993 vittime di ieri: “Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa allʼinferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi”

Uso questa foto perché è sfuocata, perché siamo noi e soprattutto perché siamo al Tempio, anche conosciuto come Stadio Luigi Ferraris di Genova. Un, anzi IL, campo da calcio, luogo (di provincia, a 5, a 7, polveroso, fangoso) che ci ha visto passare più tempo insieme. Ore, giorni, se li sommiamo, mesi. Oggi sono morte per il Covid-19 993 persone, mai così tante in un giorno. Gian Luigi Rocco era mio padre e, in modo poco originale, è stato uno di quei morti. Aveva 71 anni e, pur non potendolo definire “in forma”, non aveva nulla se non un lieve diabete. Fino al mese scorso, era stato in ospedale solo due volte (al Pronto soccorso per la precisione). La prima perché si era rotto il braccio giocando a calcio e la seconda per dei calcoli alla cistifellea, poi spariti con dieta e tanta plin plin.

Il 3 novembre il tampone è risultato positivo al Covid 19. Aveva il raffreddore da una settimana e perso gusto e olfatto. Il 6 novembre è stato portato al pronto soccorso di San Martino perché la sua saturazione era crollata. Durante la breve degenza, non lo hanno ossigenato, perché l’ossigeno era finito a causa dei troppi accessi. E’ stato 12 ore su di una sedia di un reparto traboccante di pazienti anche messi peggio di lui. Gli hanno fatto l’esame del sangue, una lastra e poi hanno deciso che insomma, non stava così male, nonostante una serie di asterischi vicini alle analisi che anche Pinco Palla dottore di Wikipedia avrebbe storto il naso. Hanno detto che dalla lastra forse c’era una lieve insufficienza respiratoria, ma niente di grave. Lo hanno rimandato a casa alle 20. Alle 20,30 aveva 40 di febbre e non respirava più. L’hanno portato di nuovo via, questa volta verso un altro ospedale. Il 3 dicembre, cioè quell’oggi che ora volge al termine, è morto, da solo, in un reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Galliera di Genova dopo oltre due settimane di rianimazione e altrettante di degenza (sempre da solo) sotto un caschetto cpap che faceva lo stesso rumore, quando cercavamo di parlare, di un sottomarino russo atomico, con tanto di bip. Appena entrato gli hanno fatto una TAC che sentenziava: broncopolmonite interstiziale bilaterale con il 70% dei polmoni compromessi.

L’ultima volta che l’ho sentito, alle 15,30 del giorno in cui è finito in terapia intensiva, abbiamo parlato (faticosamente) di Trump che non accettava il verdetto delle elezioni (la cosa lo preoccupava inspiegabilmente molto) ma soprattutto di Preziosi che non aveva venduto il Genoa. Lui mi ha ricordato che avremmo giocato la domenica alle 18 contro l’Udinese una sfida decisiva per la salvezza (persa, ovviamente).

Mio padre era un papà a volte distratto, ma sempre presente. Ci sentivamo ogni santissimo giorno alle 20 (cioè in realtà esattamente quando io stavo per iniziare a mangiare, manco avesse una webcam sopra di me). Due parole, giusto per ricordarci che c’eravamo sempre, anche a distanza. Abbiamo fatto tante cose insieme, forse più che tanti altri padri e figli. Abbiamo condiviso gioie e tanto dolore, forse più che tanti altri padri e figli. Non ho rimpianti, non li aveva nemmeno lui, ne sono certo.

Mio padre era un medico (ok, uno psichiatra e uno psicoanalista, facciamo finta che fosse anche un vero dottore, dai) preparato e attento. Metteva il suo lavoro al di sopra di ogni cosa. Ho odiato senza conoscerlo, ogni suo singolo paziente, perché senza una faccia e senza una voce, a volte sembrava contare più di me e di mia sorella. Ma crescendo ho capito anche che quella era una parte della sua vita fondamentale, come me e mia sorella. Mio padre era uno psichiatra forense eccezionale, forse uno dei più bravi in Italia. Non ha mai voluto le luci della ribalta. A parte “Un giorno in Procura”, dove non aveva scelta, non è mai finito in tv, nonostante i corteggiamenti serrati di diverse primedonne dei talk show. Diceva che se vai in tv, non segui i pazienti. O fai la soubrette o fai il medico, il clinico. Oggi questo discorso, è valido più che mai.

Mio padre era un marito affettuoso e fortunato. Ha amato due donne con tutto se stesso. Mia madre, morta prematuramente, e poi negli ultimi 19 anni ha avuto la fortuna di trovare un’altra persona con la quale condividere ogni aspetto della sua vita.

Mio padre era un nonno orgoglioso. Non era tanto capace, diciamocelo. Un po’ distratto se vogliamo, non certo il nonno che si metteva a giocare per ore con il o i nipoti, ma Beatrice, Leonardo e Ginevra erano la luce che faceva brillare i suoi occhi. Per tutti e tre aveva una sorta di adorazione cieca, proprio quella che contestava a suo padre quando mio nonno parlava di me o di mia sorella. La legge del contrappasso.

Mio padre era tante altre cose che nemmeno conoscevo. Magari amici, colleghi, persone che lo frequentavano in altre vesti, lo sanno anche meglio di me. Mio padre sarebbe ancora vivo e probabilmente, nonostante una forma scadente e un girovita abbondante, lo sarebbe stato per i prossimi 20 anni se non ci fosse stato e se non si fosse preso il Covid.

Perché mio padre diceva che stava attento, ma riceveva i pazienti. Che metteva la mascherina, ma andava in Tribunale. Che insomma, non poteva stare in casa, aveva cose da fare, persone da vedere. Mio padre non c’è più, ma là fuori ci sono ancora persone che si lamentano perché Natale lo faranno da soli. Perché non possono andare al ristorante, perché non possono inforcare gli sci, perché è tutta una truffa, una dittatura sanitaria orchestrata, tra l’altro, non si sa bene da chi. Bene, pensate che nel 2021 tornerete a fare tutte queste cose con i vostri cari. Mio padre non potrà più. Noi non potremo più.

Scrivo, e se volete condividetelo, anche per questo. Perché una piccola sofferenza oggi (se sofferenza si può chiamare la distanza per un periodo limitato dai propri cari, il rispetto di misure minime di precauzione, l’idea che sia un anno, un periodo particolare), vi può risparmiare una grande sofferenza domani. Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa all’inferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi. L’impossibilità di vedere, salutare, abbracciare il proprio caro. L’attesa di una telefonata per sperare in qualche miglioramento. Seppellirlo sapendolo in un sacco come un soldato in guerra (ironia della sorte, nemmeno aveva fatto il servizio militare), magari vestito con il pigiama sporco con cui è morto.

Non ho rabbia, non ho rancore. Non mi sento nemmeno una persona sfortunata, né posso dire che mio padre lo sia stato. E’ persino riuscito a finire di leggere il libro che suo figlio e sua nuora hanno scritto. Abbiamo avuto tanto, abbiamo dato tanto. Papà non credeva in Dio, al massimo in Freud, ma diceva sempre (parafrasando Epicuro): “Non ho paura della morte, perché dove ci sono io non c’è lei e dove c’è lei, non ci sono io”. Oggi lui non c’è più, e la morte al massimo ce l’ha lasciata un po’ addosso.

Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempire una casella di una inutile statistica.

Info e Photo

Il commosso scritto di Gian Luca Rocco, con l’immagine insieme al padre Gian Luigi in un momento felice prima della tragedia causata dal Covid, è stato tratto dal sito di TgCom24, che si ringrazia.

Renata Rampazzi, “Cruor”, il sangue delle donne nella mostra al museo Bilotti

di  Romano Maria Levante

Nella “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” del 25 novembre 2020, spicca la mostra “Cruor” di Renata Rampazzi, a cura di Claudio Strinati, prevista dal 17 settembre 2020 al 10 gennaio 2021 al museo Carlo Bilotti, all’Arancera di Villa Borghese a Roma, chiuso per coronavirus, in attesa della riapertura. La  mostra spicca pur se non visitabile perché con una iniziativa celebrativa è stato diffuso oggi 25 novembre dal museo sulla pagina Facebook il video di Giorgio Treves sulla genesi e sui significati profondi delle opere esposte sul tema da un’artista che si è battuta  per il mondo femminile  fin dagli anni ‘70. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra è organizzata dallo studio dell’artista, i servizi museali sono  a cura di Zètema Progetto Cultura. E’ prevista una Tavola rotonda sul tema con Dacia Maraini e Luciana Castellina, Chiara Valentini e Margaretha Von Trotta, Francesca Medioli e Massimo Ammannati con la partecipazione dell’artista. Catalogo bilingue delle “Edizioni Sabinae”, con testi di Maria Vittoria Marini Ciarelli e Dacia Maraini, Cludio Strinati e l’artista, parte delle vendite sarà devoluta all’Associazione Differenza Donna.   

L’artista nell’installazione

Il sigillo  della  carica interpretativa della Rampazzi  che accomuna le sue opere è un colore, il rosso, come forma espressiva, e il sangue come elemento rappresentativo dotato di forza non solo simbolica. E’ un sangue speciale, come sottolinea  Maria Vittoria Marini Clarelli, quello della violenza e della morte che sgorga dalle ferite,  il “cruor” , distinto dal “sanguis” della vita che circola nel corpo: ma  ”è nel sangue che si diventa donna, moglie, madre”, e non è il “sanguis” perchè “il termine cruor definiva anche il sangue mestruale, quello della deflorazione e quello del parto”, come altrettante ferite. Tutti momenti cruciali della vita, ugualmente cruenti, in cui l’uomo è solo spettatore con il suo “sanguis”, ma può diventare disumano protagonista del femminicidio versando il “cruor” della donna.

Le dimensioni del femminicidio e il contesto familiare 

Ma come si può concepire una simile aberrazione criminale contro quella che viene chiamata “l’altra metà del cielo”, angelicata, destinataria di liriche e serenate, di amori dolci e delicati? Tentiamo di dare una risposta  a questa domanda che non si dovrebbe porre neppure, ma presenta in tutta la sua drammaticità la tragica realtà dei “femminicidi”, parola che fa rabbrividire.  Omicidio non è l’uccisione dell’homo, l’uomo,  a cui deve corrispondere il femminicidio, l’uccisione della donna, ma dell’omo, il proprio simile. Si è voluto creare il termine di genere, femminicidio e non c’è il maschicidio, per la sua inconcepibile ma reale e vasta diffusione, però non si è modificata la sanzione, resta la stessa dell’omicidio anche se la vittima è una donna. Le nuove norme penali che portano questo nome con la qualifica del “codice rosso”, non si riferiscono al momento delittuoso, ma alle  molestie e alle violenze, spesso preludio del reato più grave, con doverose corsie preferenziali  per la necessaria tempestività nella prevenzione e nella repressione.

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“Composizione”, 1977 parte sin.

Qual è la dimensione di un fenomeno così aberrante e  disumano, e quali sono le  sue espressioni criminali?  Rispondere a questa domanda può essere un preludio per l’altra ben più difficile, sulle radici di tale violenza; per poi passare alle opere della Rampazzi che dà corpo artistico alla ribellione contro questo massacro. Perché tale si deve definire l’uccisione di una donna ogni tre giorni in Italia nei primi 10 mesi del 2020, 91 vittime per il 95% ad opera di uomini, altissima percentuale questa quasi costante, è variata solo tra il 90 e il 95% dal 2000.  Con la particolarità che quasi il 90% dell’uccisione delle donne avviene nell’ambito familiare e, al suo interno,  quasi il 70% nel rapporto di  coppia. Le donne assassinate dalla criminalità comune  nei 10 mesi del 2020  sono  state 3, mentre nel 2019 erano state 14, quindi la maggiore esposizione alla violenza all’esterno da parte dei delinquenti di strada come “sesso debole” fisicamente non c’entra affatto, anche se la diminuzione degli assassinii nell’ultimo anno è dovuta al “lockdown”, putroppo più che compensata dall’aumento delle violenze all’interno delle mura domestiche.

“Composizione”, 1977 parte dx.

Sono dati dell’ultimo Rapporto Eures sul femminicidio in Italia,  rilevatori dell’aggravarsi del fenomeno anche quest’anno, dato che nell’ultimo ventennio  l’incidenza nell’ambito familiare è stata del 73,5% e quella all’interno della coppia del 66%, aggravamento peraltro progressivo dal 2000 ad oggi. E’ in forte aumento una circostanza che richiederebbe maggiore attenzione: oggi almeno la metà di questi assassinii è stata preceduta da violenze pregresse, mentre in passato la percentuale era inferiore. Questo dato significativo potrebbe dipendere dallo scarso peso  dato agli allarmi dinanzi a violenze di ogni tipo: psicologiche per il 20%, fisiche per il 18%, le molestie dello  stalking  per il 13%, infine per l’11% violenze note a terzi; soltanto il 4,4% vengono denunciate, quindi non è neppure scarsa efficacia degli interventi delle autorità, ma sottovalutazione o meglio paura di aggravare la situazione con il ricorso alle autorità delle potenziali vittime. Il “lockdown” ha aggravato il fenomeno, come è stato evidenziato rilevando l’aumento dei reati nella convivenza dal 58% del totale nel 2019, al 67,5% nei primi mesi del 2020 fino a superare l’80% nel periodo di chiusura completa nelle abitazioni, per cui tra marzo e giugno “ben 21 delle 26 vittime convivevano con il proprio assassino” mentre è sceso il numero di vittime non conviventi del 28%.

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“Composizione”, 1978

 Ci siamo soffermati su dati inequivocabili che riportano alla famiglia  e alla coppia, dove le donne sono più protette che all’esterno nella normalità; troppo spesso, però, nell’alterazione trascurano i segnali pericolosi delle violenze pregresse, a parte i timori cui abbiamo appena accennato, e su questo si dovrebbe fare leva per combattere la degenerazione insensata della convivenza. Ma  tale situazione deve far riflettere anche  sulla natura umana, in particolare sulla differenza di genere, per ricavarne elementi utili a fini propositivi.

Le radici sociologiche e l’espressione individuale di una violenza aberrante

Partiamo da una prima riflessione: a differenza dei primordi in cui la maggiore forza fisica poteva determinare il divario criminale tra uomo e donna, ora non può essere più questa l’origine: tanti sono i modi subdoli cui si può far ricorso soprattutto nella convivenza e del resto la storia di Sansone e Dalila insegna a quali artifici la donna potrebbe ricorrere, con tanti mezzi di offesa a sua disposizione.

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“Composizione”, 1978

Su quali possano essere i motivi della maggiore aggressività maschile si è interrogata Dacia Maraini nel presentare la mostra. La sensibile scrittrice parte da lontano, dal patriarcato tradizionale quando le donne erano sottomesse in tutti i sensi all’uomo. E non si può che darle piena ragione ripensando che nel nostro paese fino a pochi decenni fa era nel codice penale  il “delitto d’onore” – divenuto “divorzio all’italiana” nel film di Pietro Germi – cioè il femminicidio di coppia quasi depenalizzato, mentre l’”adulterio” della donna era punito dalla legge addirittura con il carcere in base alla prova del “letto caldo”, più di quello maschile che richiedeva una “relazione adulterina”. La scrittrice parla di “una vera azione punitiva da parte di una società dei padri nei riguardi delle nuove figlie” cresciute con l’emancipazione “demolendo le roccaforti dei privilegi patriarcali”, considerando che “per ogni diritto conquistato c’è un privilegio che viene negato”.

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Ferita”, 1979

Questo porterebbe “i più deboli e impauriti” tra  gli uomini a ribellarsi alla perdita della superiorità che sentivano acquisita soprattutto nel rapporto di coppia: “il dominio sulle femmine  della famiglia, la libertà di scelta sessuale, la possibilità di imporre ubbidienza e fedeltà  alla donna che dicono di amare, l’arbitrio della conquista  e della predazione, la solitudine del comando”.  Mentre “l’uomo che guarda con occhi saggi il mondo che cambia si adegua”,  e con la donna affronta i cambiamenti cercando di “governarli per il meglio”, una minoranza di loro “usano la violenza estrema sulle loro donne”; e questo avviene anche in modo virtuale sulla rete, dove “il clima di intolleranza circola anche tra i giovanissimi” e  “monta il rifiuto verso le donne che diventano sempre più autonome e indipendenti”; in particolare con “l’accanimento contro quelle che agiscono, che si fanno riconoscere, che prendono decisioni pubbliche, che dispongono di una qualche forma di potere”.  Sgombriamo il campo da quest’ultima estensione, che appare “ultronea” e non considera che sulla rete si trova di tutto, è generalizzato l’”accanimento” in particolare verso quelli che “dispongono di una qualche forma di potere”, uomini e donne che siano, razzismo compreso.

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Ferita”, 1980

Ma la Maraini ha usato due parole chiave sugli uomini che non accetterebbero l’emancipazione femminile: “i più deboli e indifesi”. Vediamo come interpretare questo riferimento, anche se in modo estensivo e al di là del pensiero della scrittrice,  o comunque traiamone le conseguenze.  Crediamo che non si debba attribuire eccessivo raziocinio ai “più deboli e indifesi” che si macchiano di simili orrendi misfatti collegandoli  alla criminale riaffermazione di un potere che sono consapevoli di avere perduto e vogliono riconquistare con la forza andando contro la storia. Non riaffermano nessun potere ma sanciscono la propria definitiva  impotenza,  quindi avviene proprio l’inverso in quanto non possono sfuggire al potere repressivo dello Stato – spesso addirittura si costituiscono dopo il delitto –  e oltre a cedere  i”privilegi” di cui parla la Maraini devono cedere la propria libertà senza per questo riconquistarne alcuno, l’opposto! 

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Ferita”, 1981

Sarebbe pura demenza un atto pseudo razionale di questo tipo, com’è pura demenza l’atto barbarico e irrazionale compiuto. Che poi ci siano i motivi citati dalla sensibile scrittrice può anche verificarsi in determinati casi, ma in generale non troviamo spiegazioni e giustificazioni razionali a qualcosa che è bestiale, irragionevole e inqualificabile. Perciò è importante avvertire i sintomi nelle violenze pregresse prima che la follia criminale esploda in tutta la sua forza belluina. Non “nobilitiamo” con patenti di sociologia ciò che è uno scoppio di pazzia  di menti malate come avviene nei “deboli e indifesi”! Ma chiediamoci perché sono solo dell’uomo e non anche della donna interrogandoci su ormoni e Dna.

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Ferita”, 1982

Al contrario della naturale maggiore forza data dalla prestanza fisica e dalla massa di muscoli i maschi in generale – e non solo “i deboli e indifesi” citati dalla Maraini – mostrano una maggiore fragilità psichica rispetto alla donna, nella cui matrice genetica  ci sono le risorse fisiologiche e interiori a sostegno della maternità, e queste le danno una forza mentale superiore. Anche nei primordi, mentre il maschio andava a caccia del cibo che si procurava con la forza muscolare unita all’inventiva, la femmina doveva provvedere ai piccoli nella solitudine e nell’insicurezza. Quindi ha rafforzato le sue risorse interiori  già superiori per i motivi naturali anzidetti. Con l’emancipazione ha acquisito una nuova consapevolezza e ulteriori sicurezze, confermandosi ben più solida del maschio dal punto di vista psichico. Di qui l’assenza di maschicidi comparabili ai femminicidi – per usare due termini equivalenti  ugualmente aberranti – mentre potrebbe essere una  conseguenza dell’emancipazione della donna il far valere le proprie ragioni nello stesso modo. 

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“Lacerazioni”, 1980 parte sin.

Non ci sembra contrastare con questa visione il fatto che  il fenomeno della violenza sulle donne fino all’assassinio sia di intensità crescente, come mostrano i dati degli ultimi vent’anni.  Crediamo infatti che non sia collegato alla maggiore emancipazione della donna, ma piuttosto alla continua crescita dei disturbi neurologici e mentali soprattutto nei paesi ad alto reddito, forse in parallelo alla diminuita tensione per le necessità quotidiane che porta alla luce le insicurezze interiori facendole esplodere in patologie. E’ stata evidenziata una stretta relazione tra i disturbi neurologici e  mentali e lo sviluppo, dato che già Freud parlava del “disagio della civiltà” e oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità collega  alla crescita del reddito l’aumento dei disturbi mentali; il fenomeno si spiegherebbe non perché il progresso economico crei tali disturbi, ma perché fa nascere maggiori occasioni in cui possono verificarsi gli squilibri interiori.

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“Lacerazioni”, 1980 parte dx.

Va anche sottolineato che spesso quelli che sono considerati “tratti caratteriali”  ai quali vengono riferiti i comportamenti violenti sottovalutandoli, possono essere invece i sintomi di un disturbo che viene così ignorato, anche perché per ovvie ragioni né i soggetti interessati né i familiari sono disposti  a parlarne. Oltre ai farmaci appositi, c’è la terapia cognitivo-comportamentale per rompere gli schemi distruttivi e sostituirli con qualcosa di positivo. L’Economist avanza questa previsione: “A causa del legame tra sviluppo economico, invecchiamento e malattia mentale i prossimi decenni rischiano di assomigliare a un’età dell’irragionevolezza”. In questa tendenza si può collocare il mostruoso fenomeno del femminicidio che ci sembra vada affrontato anche e soprattutto sul piano sanitario piuttosto che limitarsi a quello sociologico. Soprattutto per mettere in campo una prevenzione efficace che colga i primi segni di violenza come prodromi da non trascurare ma contrastare non solo con doverose misure repressive ma pure curative.

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“Lacerazione”, 1981

I singoli dipinti nelle forme astratte e coinvolgenti tipiche dell’artista

Renata Rampazzi è molto qualificata a dare veste artistica alla ribellione a un fenomeno così aberrante e disumano dato che combatte per la l’emancipazione e la parità delle donne sin dagli anni ’70, e nell’arte esprime la sua denuncia contro la discriminazione: ora la fa direttamente contro il femminicidio!

Pur nella forma astratta dei suoi dipinti ha trovato un modo per rendere percepibile l’oggetto della propria denuncia senza bisogno di interpretazioni sofisticate. E lo ha fatto prendendo come soggetto e oggetto della sua rappresentazione il sangue: il sangue delle donne portato  a livello del sangue dei martiri cristiani, fino allo stesso Cristo, come osserva Claudio Strinati , rifacendosi “a una tradizione antichissima e ricchissima” portata ai giorni nostri “per farsi strumento  di vera  e propria lotta intellettuale e morale in sé e per sé”.  A tal fine sconvolge la sua cifra stilistica, con illustri riferimenti all’”Action Painting”, alla “Pop Art” e alla stessa classicità, trasformando il tema del sangue “nel tema più specifico e molto forte  e coinvolgente della ferita, della lacerazione,  della violazione, verrebbe da dire,  dello spazio figurativo”; in tal modo facendovi irrompere “un elemento di violenta  e  perturbante disarmonia proprio in un contesto che nasce  invece con l’intento di dare bellezza, forma ed equilibrio”.  Ma l’equilibrio l’artista riesce comunque ad assicurarlo “tra la denuncia della vita e la sublimazione dell’arte che assimila ma non dimentica il male”.

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“Rosso”, 1984 parte sin.

Questo equilibrio viene raggiunto con le forme quasi evanescenti descritte così dalla Maraini: “Renata Rampazzi trasforma i corpi di carne in visioni fluttuanti, di tela e nuvole, tela e sogni, i cieli sembrano stillare dall’alto un sangue simbolico, più pesante  e torbido di quello reale, per rivelare lo spessore sordido e terribile delle ferite”.  E la Marini Ciarelli precisa che l’artista “non poteva usare i corpi per stigmatizzare i femminicidi e ha concentrato tutta l’attenzione sul sangue, o meglio sulle sue tracce: le gocce, le macchie, gli aloni, il rapprendersi sulle ferite”. Nessun segno del carnefice, e anche nel riferimento alla vittima, “tutto è sfumato, sbiadito, come se qualcuno avesse cominciato a lavare  quei panni  e li avesse stesi prima di riuscire a renderli di nuovo bianchi”.

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“Rosso”, 1984 parte dx

Anzi in molti dipinti è il bianco a prevalere,  come nelle 3 opere intitolate ”Composizione” : la prima, del 1977, è una grande tela di 2 metri di larghezza in cui il candore della parte centrale è rotto ai due estremi dalle ferite inferte con il rosso che si incupisce fino al marrone scuro nella profondità della lacerazione; nelle due successive, del 1978, larghe poco più della metà,  in una il rosso così incupito occupa il centro ma i suoi rivoli hanno arrossato la parte bianca circostante, nell’altra, sulla destra e in parte a sinistra una macchia nera invade il bianco anch’esso arrossato.

Seguono di poco – a fine anni ’70-inizio anni ’80 – 4 dipinti intitolati “Ferita”:  anche in questi, delle stesse misure delle “Composizioni” di dimensioni minori, il sangue evocativo ugualmente incupito è al centro della tela bianca, in parte appena arrossata.  Negli stessi anni  con le 2 “Lacerazioni“ si approfondiscono di più le ferite, nella forma più elaborata delle “Composizioni”, una delle due richiama quella del 1977, oltre che per la larghezza quasi doppia, per l’analoga collocazione dei tratti cromatici, questa volta più forti con un verde evocativo, ai due estremi della tela. Anche “Rosso” torna alla larghezza doppia, con la differenza che il colore nelle varie tonalità fino all’incupimento dilaga nell’intera superficie, non è più solo una ferita.

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Studi preparatori”, 2018

Dal periodo più lontano, 1970-80 –  che dimostra un impegno artistico sul tema costante e intenso da oltre un quarantennio – si passa agli anni più recenti: nel 2018  troviamo gli “Studi preparatori” per realizzare l’installazione della mostra: strisce larghe 25 cm e alte poco più di un metro, il motivo della ferita è sempre presente, in metà di quelli esposti c’è solo il rosso, negli altri intervengono tinte più scure sfumate.

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Studi preparatori”, 2018

Sono preparatori della straordinaria installazione che rende particolarmente emozionante la visita alla mostra, così descritta da Strinati: C’è  “una specie di cammino marcato nello spazio da una serie di pannelli, fatti  di garze e teli, che sembrano evocare una vera e propria processione, una sfilata di dolenti che accompagnano il visitatore nella visita alla mostra ma sono la mostra stessa”. E lo spiega: “Il visitatore è sollecitato a muoversi come il pellegrino  che va  al Santuario, ma questo è un santuario laico e non ci sono immagini di santi o di martiri”. Ed ecco  cosa vi si trova all’interno: “Ci sono soltanto lacerazioni  e aggregazioni che ci fanno vedere ciò che di fatto non c’è: il dolore, la ferita, il pianto, il grido”. E questo artisticamente è “ tradotto in un’immagine che in ogni caso rappresenta se stessa. Ma quel se stesso è appunto il monito, l’indignazione, la meditazione, tutti coagulati in una essenzialità visiva che dice molto di più di mille descrizioni o perorazioni piene di episodi, aneddoti, dettagli”. In questa rappresentazione laica “non esiste l’episodio o il dettaglio. Esiste con sobrio e solenne vigore l’immagine che evoca senza dire, sollecita senza retorica, commuove senza accumulare una infinità di particolari  precisazioni”.

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Studi preparatori”, 2018

L’arte di denuncia di Renata Rampazzi

E’ così intenso tutto  questo da portare  Strinati a interrogarsi sull’arte di denuncia per rispondere che esiste ma l’obiettivo dell’artista è sempre la creazione e, quando riguarda qualcosa da condannare, la sua forza espressiva è tale “da generare forza emotiva e costernazione in chi guarda che vede svelati orrori e miserie altrimenti meno percepibili e comprensibili”.  Ma sempre all’insegna dell’ “armonia e della bellezza” in una contraddizione almeno apparente con una materia di contenuto opposto che nelle opere della  Rampazzi, e in particolare nel percorso della mostra, trova la sua composizione “nel segno significante  che è bello, sovente bellissimo in sé  ma resta carico del residuo di male e di colpa da cui è scaturito”.  Strinati vi vede addirittura una dimostrazione, nell’arte, della filosofia estetica di Kant,  in quanto “fa sì che la denuncia sia veicolata nella forma di una  convincente e vincente immagine. L’immagine che descrive il male non è scaturita dal male ma dalla positività della creazione artistica”. 

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Studi preparatori”, 2018

Non si pensi, però, che  il male venga nascosto nella trasposizione operata dall’arte.  Strinati è molto chiaro, si deve constatare che “la bellezza dunque non edulcora il male ma ci rende conoscibile l’aspetto più profondo di ogni problema”; e questo avviene quasi in chiave psicanalitica perché, “portando alla chiarezza di sé l’individuo, lo mette in condizione di esorcizzare il male che è in lui”, in una specie di catarsi benefica, come quella che Aristotele attribuiva al teatro.

Del resto, l’installazione esposta in mostra può essere vista in una prospettiva teatrale, “in modo tale da portare il visitatore verso quel sentimento di condivisione e quindi di compassione” che è il fine dell’arte. “I personaggi sono i singoli dipinti  e l’azione consiste nel loro accostamento e nell’essere posti in una sequenza   che genera dialogo, dialettico contrasto e composizione finale dei contrari”.

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Studi preparatori”, 2018

Ma non finisce qui: nell’installazione che rappresenta la sublimazione dei dipinti prima citati, “le opere dialogano veramente tra loro, come attori  sulla scena, e proprio da questo dialogo scaturisce una dimensione di armonia e pienezza interiore che è l’approdo  finale di un singolare viaggio nella pittura…”.  Si tratta, in definitiva,   di “una attraversamento di segni che vogliono dire qualcosa di ben preciso  e ci accompagnano fino ad una conclusione”. La conclusione di Strinati: “Benefico e in questo caso ammirevole bersaglio colpito dall’arte.  Doloroso indubbiamente ma rivelatore”.

Un  giudizio simile, da parte di una maestro della critica e della storia dell’arte come Strinati, fa onore a una coerente linea artistica tenuta per mezzo secolo e approdata a questa realizzazione nella quale con l’installazione si dà corpo a questo coinvolgimento emotivo che arriva alla catarsi.

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Studi preparatori”, 2018

Gli “appunti di viaggio” dell’artista nel “labirinto” della mostra

Questo risulta essere negli intendimenti dell’artista, oltre che nella puntuale interpretazione del critico: lo vediamo nei suoi “appunti di viaggio” – il “singolare viaggio nella pittura” con “l’approdo finale” di cui parla Strinati – in cui la Rampazzi  definisce così questa esposizione che le realizzò per la prima volta nel 2018 per la Fondazione Giorgio Cini di Venezia: “Una mostra  che pensavo come un mio atto di denuncia  per scuotere l’indifferenza della gente  e per sensibilizzare chi, uomo o donna, fosse venuto a vederla”.  Con questo intento ambizioso capì subito che non si poteva limitare a dei quadri, pur se shockanti, dato che il visitatore sarebbe rimasto sempre “spettatore esterno”, coinvolto in “un’azione meramente estetica che doveva successivamente fare da tramite verso una presa di coscienza e di rifiuto a posteriori”. 

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Un momento del lavoro per l’installazione

L’artista si mise alla ricerca di una formula  nuova perché “il visitatore vivesse un’esperienza totalizzante  in cui sensi e riflessione fossero coinvolti contemporaneamente”  e  le singole opere “non dovessero solo dialogare tra loro, essere una galleria di esempi”, ma fossero organicamente  inserite in “un’installazione in cui ogni quadro ne fosse una componente”. Come “momenti autonomi, ma allo stesso tempo parti interdipendenti di un complesso più ampio. Organi vitali di un corpo più articolato”.  Doveva trovare “nella tridimensionalità dello spazio” , ciò che “la spatola o la pennellata sulla tela erano la realizzazione bidimensionale della mia denuncia”. Senza rinunciare ai propri quadri, anzi “dovevano essere  tutti lì presenti e avvolgere chi entrava in un labirinto”.

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Un altro momento del lavoro per l’installazione

Come si compone tale labirinto ce lo dice l’artista per prepararci a percorrerlo, e non le è stato semplice realizzarlo. Perché si è trattato “della trasfigurazione dei singoli quadri in altrettanti teli di cinque metri di altezza per un metro di larghezza”, e questo ha comportato l’uso di materiali diversi da quelli consueti che non avendo la necessaria trasparenza alla luce avrebbero spento le emozioni: invece della tela la garza, che ricorda la cura delle ferite con le bende, invece dei colori ad olio mescole e impasti di pigmenti e terre col siero organico come per richiamo “degli umori dei corpi”; inoltre le grandi dimensioni dell’installazione hanno richiesto che dall’estro individuale dell’artista si passasse a un lavoro collettivo tradottosi in una condivisione più ampia. Finché nel dipingere le garze con i pigmenti di nuovo tipo, in una “Action painting” non voluta ma sopravvenuta, “il colore passava attraverso la trama del tessuto   alterando ulteriormente l’idea originale del modello  rispetto a quello che sarebbe stato il risultato finale che dovevo immaginare”. Quindi, “non semplice copiatura in scala, ma imprevedibilità che mi permetteva di seguire l’estro del momento, l’urgenza del gesto e delle sfumature che le grosse pennellesse mi sollecitavano”.

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Il momento finale del lavoro per l’installazione

Seguiamo ancora l’artista nella sua confidenza in cui presenta il risultato: “Non più tanto lacerazioni, ferite, spessori di olio e di grumi come sulle piccole tele, ma sfumature, diluizioni, ombre ‘tracce’…”. Questo sul piano tecnico, sul piano dei contenuti l’evocazione si fa sofferta: “Lo spazio in cui chi entrava si doveva immergere o si sarebbe trovato circondato, non era più quello della brutalità, ma quello di un grande dolore, di una condivisione emozionale, spirituale, mentale ma anche fisica della sofferenza”. Fino alla rivelazione più accorata: “La vittima del femminicidio non era più il corpus  di un’ingiustizia e di un reato, ma un essere umano di sesso femminile che soffre e con cui il visitatore o, purtroppo, ancora di più la visitatrice deve condividere l’orrore della ripulsa  e l’esperienza del patimento”. 

La conclusione ci sembra il migliore sigillo alla mostra  e non solo: “Non più un’arringa e un proclama, ma un dialogo e un conforto”, dal momento che si viene a creare “un’atmosfera avvolgente in cui lasciarsi immergere e trasportare  dall’emozione e dalla commozione”.  Ha scritto queste parole Renata Rampazzi  nei suoi “Appunti di viaggio” il 20 giugno 2020, le ripetiamo anche noi oggi, 25 novembre 2020, annuale “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne“, unendoci con la nostra viva cronaca all’artista che attraverso “Cruor” ne è stata la combattiva e appassionata protagonista.

Il percorso dell’installazione

Info

Museo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, Roma, sospesa per il Dpcm del 3 novembre 2020. Per la ripresa, da martedì a venerdì e festivi ore 13-19, sabato 10-19, entrata fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 060608. Catalogo “Cruor. Renata Rampazzi”, Edizioni Sabinae, pp. 60, bilingue italiano-inglese, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la Pop Art e l’Action Painting cfr.nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese dal Catalogo fornito cortesemente – e provvidenzialmente nel regime di lockdown che lo ha reso ancora più necessario per la recensione – dall’ufficio stampa di Maria Bonmassar che si ringrazia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’artista nell’installazione; seguono, “Composizione” 1977, parte sin. e parte dx; poi, 2 “Composizione” 1978; quindi 2 Ferite” 1979, 1980; inoltre, altre 2 “Ferite” 1981, 1982; ancora, “Lacerazioni” 1980, parte sin. e parte dx, e altro 1981; continua, “Rosso” 1984, parte sin. e parte dx; poi, 6 “Studi preparatori” 2018; quindi, 3 momenti del lavoro per l’installazione; infine, il percorso dell’installazione e, in chiusura, l’artista mentre prepara i bozzetti.

L’artista mentre prepara i bozzetti.

Franco Bernabè, 5. Le riflessioni del top manager e imprenditore

di  Romano Maria Levante

Si conclude la nostra rievocazione dei momenti culminanti delle tante vicende ricostruite con molta cura e dovizia di particolari nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, con le riflessioni che l’autore e protagonista ha tratto da una esperienza che lo ha visto al vertice di grandi imprese nel settore pubblico e privato, in settori strategici per il Paese, alle prese con difficoltà di ogni tipo. Abbiamo ripercorso gli anni nell’Eni, le battaglie per la concentrazione nel “core business” e la privatizzazione, la quotazione in Borsa e la divisionalizzazione, fino alla tempesta di Enimont con l’iceberg corruttivo; e i due passaggi in Telecom, il primo durato poco più di 6 mesi con la sfortunata resistenza all’Opa dei sedicenti “capitani coraggiosi”, il secondo sette anni dopo durato 6 anni alle prese con l’indebitamento cronico e le problematiche della rete complicate dalle autorità regolatorie, fino alle turbolenze della compagine azionaria. L’esperienza nel capitalismo cinese, nel C.d.A. di PetroChina e il “salto di specie” da top manager a imprenditore con iniziative personali di successo in campi innovativi ha concluso la nostra rievocazione. Ora tiriamo le fila cogliendo gli insegnamenti che si possono trarre da questo lungo viaggio attraverso il capitalismo non solo italiano. Sono  le sue riflessioni, non le chiamiamo conclusioni dato che la vicenda professionale di Bernabè continua felicemente, sempre da protagonista.

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Franco Bernabè

La trasformazione del capitalismo

Le sue riflessioni prendono l’avvio dall’annuale “Bilderberg Meeting” svoltosi nel  giugno 2015  nella sede austriaca di  Telfs Buchen, dalla quale ha fatto una deviazione per passare a Innsbruck, dove ha trascorso  l’infanzia; è una delle puntuali partecipazioni ai meeting dopo la prima con Gianni Agnelli, nello “Steering Committee” di cui fa parte dal 1994, è stato assente solo nel 1995, 1997 e 2002.  La ragione che nel 1954 fece nascere i Meeting del “Bilderberg Group” – il dialogo tra America ed Europa sulla sicurezza – è  venuta meno da tempo con la dissoluzione dell’Unione Sovietica che rappresentava il pericolo da fronteggiare; e sebbene una minaccia sul piano economico venga ora dalla Cina, all’America non interessa più come prima questo dialogo con l’Europa che potrebbe avere interessi opposti ai suoi, basti pensare all’adesione dell’Italia alla “nuova Via della Seta” che ha proiettato delle ombre nei rapporti con gli Stati Uniti.

“Il capitalismo è notevolmente cambiato  nel corso degli ultimi decenni, e non certo per la cospirazione dei Bilderberg”,  osserva alludendo alle farneticanti teorie complottistiche sulle “macchinazioni del capitalismo mondiale” che si consumerebbero nei  meeting annuali. “Contrariamente all’opinione che oggi sembra molto diffusa nelle società occidentali, il capitalismo è cambiato in meglio”.  E cita la crescita economica  e il maggiore benessere a livello globale non solo per  l’aumento  dei redditi che ha riscattato miliardi di persone dalla  miseria più estrema, ma anche  per l’aumento della produttività  che ha equilibrato il tempo del lavoro e quello del resto della vita, mentre il progresso tecnologico ha aperto ai servizi sofisticati e alla  conoscenza. Nello stesso tempo “anche i processi democratici sono stati rafforzati. Oggi esistono nei paesi occidentali strumenti di bilanciamento che impediscono a chi detiene il potere economico di abusarne”.

Nel temporaneo ritorno nella sua Itaca, Bernabé tira le fila, per così dire, di quanto la sua  intensa esperienza manageriale e imprenditoriale gli ha fatto toccare con mano in un periodo in cui la crescita molto accelerata dell’economia mondiale è stata accompagnata da distorsioni e ineguaglianze, da problematicità e limiti, pur con gli evidenti benefici anche a livello sociale su scala globale.

Tra i fattori trainanti cita l’apertura dei mercati e soprattutto la crescita esponenziale degli investimenti esteri generata dalla nuova divisione internazionale del  lavoro verso paesi a basso costo di manodopera  e in grado di adottare prontamente le innovazioni del progresso tecnologico, con i relativi vantaggi sul piano competitivo maggiori del passato. La vastità e rapidità del cambiamento in tutti i campi ha moltiplicato le opportunità ma anche i problemi, la società è stata colta impreparata, la politica inadeguata al suo compito, il disagio è sempre più diffuso.  Nelle imprese, a  differenza delle fasi precedenti, la trasformazione non ha riguardato solo i processi produttivi ma l’intera organizzazione, così l’automazione  ha investito l’apparato impiegatizio, grava sulla fascia intermedia e a bassa qualificazione con effetti deprimenti sulla classe media.

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I maestri: Claudio Napoleoni

A prima vista sembrano problemi limitati, invece non è così perché si è interrotto il meccanismo per cui l’aumento di produttività genera crescita dell’occupazione e del reddito delle famiglie, che spinge in alto i consumi e la domanda aggregata stimolando un nuovo aumento di produttività. Era il  circolo virtuoso indotto dalla produttività rispetto a quello keynesiano del moltiplicatore dei consumi e dell’acceleratore degli investimenti indotto dalla spesa pubblica che è stato abbandonato, salvo ora per l’emergenza Covid.

Come mai è avvenuto questo? La risposta non si fa attendere. Il progresso tecnologico incide per lo più sull’efficienza dei processi e quindi non genera la creazione di nuovi prodotti tali da avere il peso e la diffusione dei beni di massa come sono stati l’automobile e gli elettrodomestici che hanno rivoluzionato e spinto notevolmente i consumi nella prima parte del ‘900. I prodotti innovativi come lo smartphone hanno ridotto i consumi materiali per quelli immateriali, mentre il modo diverso di soddisfare i bisogni, con la forte spinta dell’innovazione tecnologica sulla produttività, ha effetti dirompenti sull’occupazione e sulla domanda di lavoro: così spariranno interi settori e si potrà sentire l’esigenza di forme di reddito universale.

L’esaurimento della forza propulsiva del capitalismo

Questo non vuol dire che il capitalismo è in crisi, anzi lo adottano anche paesi che prima tentavano altre strade. Ma non mostra più la dinamica di epoche passate e la vitalità degli “spiriti animali” che ne sono i protagonisti, non si avverte più la “distruzione creatrice “shumpeteriana. Ne vengono individuati i motivi.

Il primo è il peso delle regole introdotte per correggerne gli eccessi, che possono far esaurire la sua forza propulsiva: sono regole diverse nei vari contesti e particolarmente severe in campo europeo, dove si è creata una complessità tale da richiedere grandi dimensioni aziendali per assorbirne gli oneri eccessivi, e questo ha compromesso anche la competitività di molte imprese europee sul mercato globale.

Ma c’è un secondo importante motivo, “il ruolo pervasivo della finanza”  rispetto al resto, assetto produttivo in testa, e questo lo si è visto in modo plateale nella vicenda Telecom, tutta finanziaria nelle rapaci scorrerie borsistiche.  La spersonalizzazione, il venir meno dell’importanza del fattore umano ha spento la creatività, e non sappiamo se il capitalismo riuscirà a trovare “un giusto bilanciamento tra libertà e regole”; anche per i mercati  finanziari dove, al contrario – aggiungiamo noi – la “deregulation” ha portato a una situazione ingestibile, un “Far west”  che minaccia la vita economica e lo sviluppo dei settori produttivi. Si è formata una “nuova classe” –  ovviamente non quella che Milovan Gilas vide nel mondo comunista coniando il termine  – alla quale appartengono i finanzieri, super ricchi ma non veri imprenditori, classe divenuta dominate nei fatti, mentre la classe operaia ha perduto drasticamente la sua forza e il suo peso.

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I maestri: Bruno de Finetti

I fattori trainanti del capitalismo, “la creazione di valore, la libera circolazione dei capitali e lo Stato minimo” mostrano sempre più i loro limiti nelle mutate condizioni odierne. Vi sono  modi diversi da quello tradizionale di creare valore – l’obiettivo dell’impresa – con il capitale umano, tali da generare reddito al lavoratore. “Forse  i problemi di cui soffriamo oggi sono in parte riconducibili all’aver preteso troppo dai meccanismi di mercato e dai meccanismi di crescita che hanno utilizzato in modo indiscriminato risorse future (da quelle naturali a quelle finanziarie) attraverso l’accumulazione di un eccessivo livello di debito sia nel settore pubblico che in quello privato. Forse paghiamo lo scotto di esserci spinti oltre i limiti consentiti dal sistema capitalistico”. E lo dice chi ha esplorato e sfiorato da vicino tali limiti, con questa conclusione: “Il fatto che alcune delle misure adottate in passato si rivelino oggi parzialmente inefficaci  è un bene se ci indurrà a riflettere per non ripetere gli stessi errori”.

Tra questi errori, i ritardi nelle privatizzazioni, processo che l’Italia  ha avviato tardivamente – e con le  esitazioni interessate di cui abbiamo parlato nell’esperienza Eni, per non ricordare il “nocciolo duro” di Telecom – come in tutta l’Europa continentale  praticandola solo dagli anni ’90, dopo aver constatato i risultati conseguiti dalla svolta privatistica di Reagan negli Usa e della Thatcher in Gran Bretagna.

Ma le privatizzazioni europee non sono state accompagnate dagli altri strumenti della “cassetta degli attrezzi” americana e britannica: l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” – come li chiamavano nel nostro Paese – che vincolano l’iniziativa privata, la riduzione delle imposte finanziata dal contenimento della spesa pubblica assistenziale, con minori tutele pubbliche e maggiori incentivi ai privati per mobilitarne le energie. Si è ridotta la presenza dello Stato nell’economia senza però definire un suo rapporto meno invasivo con l’individuo, a differenza di come si è fatto nel mondo anglosassone dove si è assecondato il recupero dei valori politico-culturali da cui ci si era allontanati con il forte interventismo keynesiano necessario per fronteggiare la dirompente crisi economica che segnò profondamente l’intera società negli anni ’30.

Con questo non nega l’importanza dell’azione pubblica nell’economia, ma deve manifestarsi con strumenti in grado di promuovere progetti che abbiano ricadute sul sistema economico: con il dovuto finanziamento della ricerca e forniture pubbliche mirate, la promozione di tecnologie innovative e l’introduzione di incentivi finanziari e fiscali, in modo da orientare le scelte degli imprenditori. Scelte che non possono essere pubbliche per non perdere il fattore chiave dell’imprenditoria, l’assunzione del rischio che per i privati avviene con un sistema di premi e sanzioni e con processi trasparenti nei riguardi degli investitori; nell’imprenditoria pubblica tali processi sono troppo vincolati dai limiti alla discrezionalità delle scelte, e quando vengono superati si può passare dalla discrezionalità all’arbitrio, come insegna la vicenda Eni.

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L’inizio: la sede dell’Ocse a Parigi

Il capitalismo italiano, “nave senza nocchiero in gran tempesta”

In  Italia tutto ciò si è manifestato con particolare evidenza, il nostro paese “ha subito le trasformazioni che stavano avvenendo nel resto del mondo senza governarle”,  come la finanziarizzazione dell’economia mondiale senza beneficiarne in quanto il risparmio delle famiglie non va nel sistema produttivo nazionale ma soprattutto verso gli impieghi più remunerativi offerti all’estero.

Si può far fronte a tali problemi “con istituzioni radicate in Italia, che conoscano il nostro paese e le sue specificità, e abbiano strategie compatibili con il particolare tessuto produttivo italiano fatto di piccole e medie imprese”, da incentivare “attraverso adeguati strumenti fiscali ad assumersi il rischio di investire in imprese nascenti”. Lo dice Bernabè da imprenditore che ha attivato “start up” di successo.

Inoltre “occorre semplificare la vita delle imprese e degli imprenditori, riportando l’attività normativa ai principi essenziali”, e non è un’ovvietà, nonostante i proclami non avviene. La lezione a livello globale sul ruolo dello Stato vale soprattutto per l’Italia, dove è stato tanto invasivo da far divenire permanenti strutture come l’Iri create per contenere gli effetti della grande depressione degli anni ‘30. Mentre  in un sistema in cui l’innovazione viene stimolata con regole e infrastrutture pubbliche adeguate, “lo Stato svolge una funzione essenziale nel promuovere gli investimenti, non solo nelle infrastrutture e nei servizi, ma anche nella ricerca, nella scuola, nell’Università”. “In questo l’Italia è carente”, è la constatazione che segue, ”occorre un programma di snellimento dell’amministrazione centrale e locale e di semplificazione delle procedure”.   La rivoluzione di Internet e del web mostra come processi e sistemi messi a disposizione da enti pubblici, promossi e sviluppati dai privati, “hanno prodotto le condizioni per una trasformazione radicale dell’economia e del nostro stesso modo di vivere su scala mondiale”. 

Lo  Stato con regole appropriate può “creare incentivi e disincentivi allo sviluppo, favorendo l’innovazione e l’imprenditorialità”,  e può “abbattere i limiti alla libertà d’iniziativa privata in un campo inesplorato” e innovativo, nel quale è in gioco il futuro. Ma non basta: “Uno Stato che voglia favorire l’innovazione dovrà procedere a selezionate operazioni di potatura. Solo incamminandosi su questa strada potrà assicurare alle giovani imprese di crescere e di dare frutti”.  Il termine “potatura”, che richiama  gli insegnamenti della civiltà contadina validi anche nel presente e nel futuro, ci riporta alla sua origine, una famiglia relativamente modesta ma dalle solide radici nella sua terra.    

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La prima grande azienda: la sede della Fiat in Corso Marconi a Torino

Le lezione del capitalismo cinese

Sul  ruolo dello Stato c’è anche “la lezione cinese sul capitalismo”.  In Cina lo Stato è quanto mai invasivo, ma l’industria viene riorganizzata sul modello occidentale separando con la privatizzazione le funzioni pubblicistiche, che restano alle strutture statali, da quelle industriali e commerciali affidate a iimprese in competizione sul mercato. Tra queste PetroChina, per la quale Bernabè ommenta, dopo un numero di mandati da amministratore superiore a quello consentito che peraltro i cinesi volevano prolungare: “La governance di tipo occidentale era entrata a far parte della cultura aziendale e la discussione in consiglio non era più rituale ma entrava nel merito delle singole proposte iscritte all’ordine del giorno”; e non erano temi di poco conto, la discussione sul grande gasdotto d’importazione fu serrata e Bernabè forte dell’esperienza italiana ebbe un ruolo determinante.  Nota però che nella “cultura aziendale” cinese ritrova aspetti non commendevoli: “Le lotte di potere non erano molto diverse da quelle che avevo già vissuto in Eni e sfortunatamente anche gli scandali avevano vari punti in comune”: abbiamo già ricordato la “Tangentopoli cinese”. 

Sul piano generale sottolinea un aspetto senza dubbio positivo: “Nelle economie e nelle società occidentali i cambiamenti sono spesso radicali e si rivelano potenzialmente destabilizzanti, in Cina rispondono  a criteri di prudenza e progressività secondo l’aforisma di Deng Xiaoping: ‘Attraversare il fiume tastando le pietre’”. E lo analizza sulla base dell’esperienza personale: “La Cina ha radici culturali molto antiche che decenni di comunismo non sono riuscite ad espiantare”, per cui le loro dinamiche sociali “risentono dei valori millenari dell’armonia, del rispetto  e del merito di cui è impregnata la cultura cinese, che aborrisce l’instabilità e il disordine nei rapporti sociali”. E’ confortante con un miliardo e mezzo  di abitanti!

Quelle che ci interessano in modo particolare, però, sono le considerazioni che Bernabè ricava sul piano economico: “La Cina è l’esempio di come il capitalismo sia un fenomeno multiforme, straordinariamente capace di adattarsi alle peculiarità dei diversi sistemi economico-sociali da cui è adottato”. Per questo motivo: “Nel plasmarne le caratteristiche intervengono le dinamiche politiche, i rapporti di forza tra le classi sociali, l’articolazione del quadro istituzionale, i meccanismi di regolazione dei mercati”, per cui “non esiste una definizione accettata di capitalismo”. Ma le conclusioni di  Bernabè ne presentano una, come risultato di un’esperienza multiforme nel cuore del capitalismo occidentale e cinese:  “Per qualificarlo è sufficiente  che la proprietà dei mezzi di produzione e del capitale sia distinta dal lavoro salariato”. Con questa precisazione: “Che poi la proprietà appartenga allo Stato, a istituzioni finanziarie o a privati cittadini è del tutto indifferente e l’economia cinese ne è un esempio formidabile”.

La nostra rievocazione dell’odissea di Bernabè nelle acque agitate di “quarant’anni di capitalismo italiano” e non solo,  si chiude qui,  ma non possiamo esimerci da un “flash back” sul personaggio, anzi sulla persona, sempre presente nella storia narrata al di là dell’apparente neutralità di un saggio non asettico. 

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Bernabè con Gianni Agnelli

Dalla  formazione, lo spessore personale del protagonista

Per questo non vorremmo che il nostro  sommario resoconto dei contenuti di un libro che ne ripercorre le vicende in modo quanto mai denso e dettagliato desse l’impressione di una successione di fatti rievocati con la freddezza di una relazione tecnica  in campo economico, industriale e finanziario. Tutt’altro, è una sorta di diario personale che registra fedelmente le iniziative e le azioni del protagonista lasciando spesso percepire – anzi rivivendole a volte esplicitamente – le sue emozioni insieme alle motivazioni recondite. Che riportano alla sua scala di valori con riferimenti alla propria formazione alla quale è dedicata una trentina di pagine, nella prima parte del libro, marcando così l’inizio della sua storia umana e non solo professionale.

Tutto ciò con notazioni quanto mai espressive di un carattere determinato con la consapevolezza della propria visione ideale e la ferma volontà di perseguirla senza esitare dinanzi a scelte anche difficili;  questo atteggiamento, al vertice delle grandi imprese di cui abbiamo parlato,  si tradurrà nella determinazione a far valere i loro interessi non pensando ai propri anche quando questo gli  comportava pesanti rinunce. Del resto, in una delle sue riflessioni finali troviamo che il conflitto di interessi tra le ambizioni del manager e gli interessi dell’impresa è ancora più dannoso di quello per motivi economici perché sfugge ad ogni meccanismo di controllo, per quanto sofisticato possa essere. Questo conflitto non lo troviamo nel suo caso, perché non si ha nel passaggio  dal vertice dell’Eni a quello di Telecom, e nel successivo ritorno al vertice di Telecom, motivati entrambi da una sfida da vincere per l’azienda prima che per se stesso.

Una formazione cosmopolita, dopo l’infanzia a Innsbruck dove frequenta l’asilo e le scuole elementari in una scuola tedesca, la famiglia vi si era trasferita dalla natia Vipiteno per il lavoro del padre mandato alla sottostazione delle Ferrovie italiane nella città austriaca. Nel 1959, a 11 anni, a Torino, dove il padre era voluto rientrare appena liberatosi un posto alle Ferrovie per non far perdere ai due figli le radici italiane; poi al liceo classico con una borsa di studio in America, non se la fa scappare contro il volere dei professori perché il corso non era riconosciuto. Ma fu altamente formativo per i valori di una democrazia basata sul bilanciamento e non solo sulla divisione dei poteri e per la  fede negli ideali, il ruolo delle organizzazioni intermedie e la diversa concezione dei rapporti tra lo Stato e la società civile, l’importanza della solidarietà.

Per le sue voraci letture quattro lingue oltre l’italiano,  il tedesco seconda lingua madre, l’inglese- americano imparato dal vivo,  studiati a scuola il  russo e il francese  che perfezionerà a Parigi quando andrà all’Ocse. Frequenta l’Università nel Laboratorio di economia politica “Cognetti de Martiis”, organizzato sull’esempio dei più prestigiosi istituti – la London School of Economic and Political Science, il Museo sociale di Parigi e i college economici americani – vi si erano formati allievi come Luigi Albertini e Piero Sraffa fino a Luigi Einaudi. Veniva applicato, nella parole di Cognetti, “il rigore teorico, il metodo empirico e gli strumenti analitici delle scienze fisiche anche  a quelle sociali e in particolare all’economia”.

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Bernabè nello “sbarco” nell’Eni

Ebbe come docenti maestri “che avevano un’aura di sacralità” come Firpo e Passerin d’Entreves, Bobbio e Claudio Napoleoni, le cui lezioni “erano ispirate”: dieci anni prima alla Svimez appassionava gli allievi del “Corso di formazione sullo sviluppo economico” con il suo carisma e la sua scienza economica, erano memorabili le sue lezioni sulla “produzione di merci a mezzo di merci” di Piero Sraffa, c’era anche Bruno de Finetti, ma questo è un nostro ricordo personale… Tornando alla rievocazione del libro, “nel ribollire di quegli anni, con la rivolta del Sessantotto che aveva avuto come epicentro le facoltà umanistiche, il Laboratorio era rimasto un’oasi di tranquillità. Eravamo all’incirca trenta frequentanti. C’era un professore per ogni studente. Si collaborava in un clima straordinario”. Tra i compagni di corso giovani promesse la cui carriera sarà prestigiosa, da Gomel futuro direttore in Banca d’Italia a Santagata grande economista, da Siniscalco ministro dopo un passaggio all’Eni a Marsaglia che diverrà un grande banchiere internazionale.   

In quel periodo, tra il 1968  e il 1970, Bernabè collabora con giornali e periodici scrivendo soprattutto sui paesi dell’Est, accedendo direttamente alle fonti per la conoscenza delle lingue, quindi fornendo notizie inedite. Di lì la frequenza dei seminari a Venezia del Ceses, il Centro studi e ricerche sui problemi economici e sociali fondato da Renato Mieli, rientrato in Italia con gli angloamericani, era il “Capitano Merrill” della loro “intelligence” nei paesi occupati. Togliatti gli offrì incarichi importanti nella stampa comunista per le sue capacità, oltre all’ideologia, fondò l’Ansa come cooperativa giornalistica; lo preoccupava il futuro del figlio Paolo, e sappiamo poi qual è stato… Ciononostante il Ceses nacque da un finanziamento della parte avversa, la Confindustria, ma con partecipanti e relatori di ogni orientamento: Franco Mattei direttore generale della Confindustria e  Ferdinando Di Fenizio, Giovanni Sartori e Giuliano  Urbani, Gianfranco Pasquino e Lucio Colletti, Renzo De Felice e Luciano Cafagna, Paolo Spriano e Rosario Romeo, Leo Valiani e Paolo Ungari. Figure che qualificano il suo percorso formativo.

Seguiva anche i corsi del Centro internazionale di matematica estivo di Bruno de Finetti a Orvieto, con partecipanti delle più diverse discipline – economisti e sociologi, politologi e intellettuali – alle quali veniva applicato il rigore matematico. Nel seminario del 1971 “un tema di cui si è tornati a discutere dopo cinquant’anni”, garantire “un reddito minimo per tutti” finanziato da “una perequazione in sede fiscale”; nel 1973 i temi delle abitazioni, del mercato del lavoro, “di ecologia e del rapporto tra produzione e ambiente”, anche questo è quanto mai attuale. Tra i partecipanti, nomi che avranno ruoli importanti come Paolo Savona e Michele Salvati, Fabrizio Onida e Guido Rey, Sergio Steve e Carlo Secchi; nonché Antonio Pedone e Franco Reviglio, di cui era assistente  a Torino, oltre a Federico Caffè, il grande economista.

“Fu a quelle lezioni che conobbi Mario Draghi, con il quale instaurai, negli anni trascorsi al vertice di Eni, un solido rapporto professionale che dura tuttora”. Un insegnamento  dei corsi estivi riguarda la “teoria soggettivistica della probabilità”: secondo De Finetti “la probabilità è il grado di fiducia che un individuo sulla base delle conoscenze a lui disponibili, attribuisce a un evento o a un enunciato, la cui verità o falsità gli sono, per qualche motivo sconosciute”. Chissà quante volte, nella sua odissea manageriale, Bernabè avrà ripensato a queste parole, e quanti stimoli ne avrà tratto! Il Club Turati di Torino gli chiese di organizzare alcuni Convegni di economia, “cosa che feci con grande entusiasmo”, ricorda.  

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Bernabè, il doppio passaggio a Telecom Italia

Laurea di eccellenza nel 1973 all’Università di Torino in Scienze politiche con curriculum economico, dove diventa assistente del prof. Reviglio, poi ricercatore di economia alla Fondazione Luigi Einaudi dal 1973 al 1976, e professore incaricato di Politica economica nella Scuola di Amministrazione industriale dell’Università di Torino nel 1975-76.  

Su queste basi inizia il proprio percorso professionale già di livello, nel 1976 all’Ocse a Parigi dopo aver rifiutato un’offerta alla Fiat volendo avere un’esperienza internazionale. E’ un’altra occasione straordinaria di conoscere personalità di altissimo livello, Parigi “diventa crocevia di incontri” soprattutto per preparare il rapporto Mc Cracken sul mercato del lavoro assegnato al  dipartimento  di cui faceva parte dopo il primo shock petrolifero dell’ottobre 1973 che aveva portato alle stelle i prezzi dell’energia, quindi l’inflazione e, attraverso i meccanismi di indicizzazione, aveva determinato “l’esplosione salariale”; era l’altra emergenza studiata, oltre a quella petrolifera. Membri della Commissione costituita nel 1975,  oltre al coordinatore Mc Cracken che era stato a capo dei consiglieri economici del presidente americano Nixon, c’erano Guido Carli già Governatore della Banca d’Italia, Raymond Barre, l’anno successivo premier del governo francese allorché gli subentrò Robert Marjolin, Herbert Giersch, già presidente del Consiglio di esperti economici del governo tedesco.

“Non potevo sperare in un compito più interessante – commenta oggi Bernabè – Era straordinario assistere alle discussioni di un gruppo così qualificato di esperti  che alla solida cultura economica univano una grande esperienza di gestione dell’economia”. E poi lavorare al rapporto.

La Fiat torna alla carica nel 1978, e questa volta accetta:  entra come direttore studi economici in stretto contatto con Mosconi,  direttore per la pianificazione e il controllo che lo aveva convinto negli incontri in convegni di studio, quindi può approfondire i problemi dell’organizzazione e della  programmazione aziendale; alla direzione finanziaria era entrato Gabriele Galateri di Genola, diventerà A. D. di Fiat nel 2002, lo ritroveremo con Bernabè al vertice di Telecom nel 2007.  E’ la Fiat di Cesare Romiti e di Gianni Agnelli, ne riceverà lezioni preziose. Come le avrà dal periodo durissimo negli anni di piombo, sarà anche nel mirino di “Lotta continua” per i suoi precedenti all’Ocse, come “rappresentante delle tenebrose forze del capitalismo…” e così delirando; poi con la “marcia dei quarantamila” l’ordine tornò in Fiat.

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Bernabè, nel C.d.A. di PetroChina

Imparò molto da quegli anni di crisi acuta seguita dalla massima trasformazione con Romiti, maestro nel gestire le crisi e gli uomini, che lo faceva partecipare alle colazioni di lavoro  con i ministri delle Finanze Reviglio e delle Partecipazioni statali Lombardini, dato che era stato in stretto contatto con loro come assistente all’Università di Torino. Questo gli diede “maggiore visibilità” in Fiat, dove vide all’opera Romiti che tenne duro nella fase più critica del blocco di Mirafiori pe 35 giorni in risposta ai licenziamenti, contro i timori della famiglia Agnelli propensa a cedere, “solo l’Avvocato mantenne la calma e l’equilibrio”.

Ne ricavò l’insegnamento e insieme ammonimento che “un capo deve evitare l’isolamento, ma deve anche accettare la solitudine delle sue decisioni senza condizionamenti, laaciandosi portare solo dall’interesse dell’istituzione che rappresenta”. Si era nell’aprile 1980, premier Cossiga con Reviglio alle Finanze. “Fu in quel periodo che Romiti e l’avvocato Agnelli mi chiesero di collaborare alla stesura dei loro discorsi”. Gianni Agnelli, che aveva vari “ghostwriter”, lo consultava per gli interventi in materia economica: “L’Avvocato mi chiamava, mi intratteneva sull’evento al quale avrebbe dovuto partecipare e discuteva sul taglio del discorso e soprattutto sul messaggio da divulgare. Non cercava mai di imporre le sue idee. Ci si confrontava e si decideva insieme una linea, nel’interesse dell’azienda”. E, particolare gustoso, “gli piaceva condire gli interventi con battute frutto di sue personali riflessioni: soluzioni di grande effetto oltre che di grande intelligenza. Era interessato a far presa sul pubblico”. 

Ma Bernabè desiderava il passaggio all’esperienza operativa dopo l’attività negli studi economici, andare dallo “staff” alla “line”. Il Capo del Personale Fiat lo negò considerandolo bravo per il ruolo che occupava e “troppo buono” per quello a cui aspirava che richiedeva un carattere forte. Evidentemente non conosceva gli uomini, mai errore fu più marchiano, e lo abbiamo visto nelle tempeste di Eni, Telecom e PetroChina. L’errore del dirigente della Fiat  fu provvidenziale per lui, perché nulla poteva trattenerlo quando nel 1983 Reviglio, nominato presidente dell’Eni, gli chiese di seguirlo: era lo sbarco nell’Eni, l’inizio dell’odissea. Sarà di nuovo in Fiat come consigliere di amministrazione dal 2000 al 2002, un altro prestigioso ritorno…

Restano da ricordare i momenti di  distensione, a Berlino davanti alla statua di Marx ed Engels, in bicicletta tra Vienna e Budapest con la moglie, le camminate solitarie nei boschi dell’altipiano della Vigolana presso Trento.  Non erano distensivi i voli sull’aereo aziendale per i “road show” borsistici e  nella spola Roma-Milano, e neppure per gli incontri con i vertici di primari gruppi stranieri; a parte la pittoresca giornata in Siberia, pure legata a un’importante trattativa con i russi, ma alcuni di questi momenti li ‘abbiamo già citati.

Per terminare, dal luglio 2019 Bernabè è presidente di Cellnex, la principale azienda europea di infrastrutture di telecomunicazioni wireless, oltre agli altri incarichi e al proprio “Fb Group”. Così   il cerchio si chiude su una figura  non incline a esposizioni mediatiche ma alla cui discrezione corrisponde uno spessore professionale e umano che non può lasciare indifferenti. Non sappiamo se nella sua Itaca si prepara a una nuova odissea, ma siamo certi che sarebbe pronto ad affrontarla.     

  

Il Fb Group di Bernabè

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 4 articoli del presente servizio che si conclude qui sono usciti in questo sito tra il 20 e il 23 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare visivamente alcuni momenti chiave della vicenda personale e di quella manageriale del protagonista rievocata negli articoli precedenti, a parte l’ultima immagine che lo ritrae nella sua attuale posizione di presidente di Cellnex di cui non si parla nel libro, in un’attualizzazione che abbiamo ritenuto di aggiungere. Neppure le altre immagini sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini  nel testo: businessinsideragfeditorial.it, storep.org., rbolletta.com, fleetblog.it, studiorolla.it, lastampa.it, panorama.it, corriere.it, euromenaenergy.com, bernabe.it, cellnextelecom.com. In apertura, Franco Bernabè, seguono i maestri: Claudio Napoleoni, e Bruno de Finetti; poi, l’inizio: la sede dell’Ocse a Parigi, e la prima grande azienda: la sede della Fiat in Corso Marconi a Torino; quindi, Bernabè con Gianni Agnelli, e Bernabè nello “sbarco” nell’Eni; poi, Bernabè, il doppio passaggio a Telecom Italia, e Bernabè, nel C.d.A. di PetroChina; infine, il Fb Group di Bernabè e, in chiusura, Bernabè presidente Cellnex e l’amministratore delegato Tobias Martines Gimeno.

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Bernabè presidente Cellnex, e l’amministratore delegato Tobias Martines Gimeno

Franco Bernabè, 4. Il ritorno in Telecom, PetroChina e il “salto di specie”

di Romano Maria Levante

In precedenza, seguendo il racconto vasto e documentato del libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo,  abbiamo rievocato i suoi 15 anni  nell’Eni fino al risanamento con la privatizzazione, la quotazione in Borsa e la divisionalizzazione nella posizione di amministratore delegato, in mezzo la tempesta Enimont in piena Tangentopoli con la scoperta del’iceberg corruttivo; poi l’intenso semestre in Telecom con la resistenza sfortunata contro l’armata Brancaleone dei  “capitani coraggiosi” cari a D’Alema, e il naufragio loro e degli epigoni ugualmente speculatori intemerati. Ora una variante aziendale ma in positivo del “rieccolo” tipico della politica: il ritorno di Bernabè al vertice di Telecom, questa volta per restarci 6 anni, dopo il tormentato semestre del primo incarico, fino al nuovo ribaltone azionario. E, in direzione opposta, del tutto innovativa, i 13 anni da amministratore del colosso petrolifero cinese PetroChina, preceduti e seguiti dal “salto di specie”, da top manager a imprenditore.

Franco Bernabè, amministratore delegato Telecom Italia dicembre 2007-aprile 2011
presidente esecutivo aprile 2011-ottobre 2013

Il ritorno in Telecom, l’impegno per la rete

Abbiamo chiuso la rievocazione precedente con le dimissioni  di Marco Tronchetti Provera da presidente di Telecom, preludio  di quella che il libro definisce “l’affannosa ricerca di un socio” per l’uscita definitiva dal gruppo che, dopo 4 anni dall’acquisizione,  nel 2005 aveva raggiunto il massimo di indebitamento con circa 40 miliardi di euro rispetto a un patrimonio netto inferiore a 27 miliardi.  Dopo un approccio con Murdoch e dei negoziati con l’americana At&t e la messicana América Mòvil – presto interrotti per il mito di comodo dell’italinaità, poi rinnegato – la trattativa con Telefonica quale socio industriale in una cordata di Intesa San Paolo e Generali, Mediobanca e Sintonia, sfociata nella “Telco”  che nell’aprile 2007 rilevò interamente  “Olimpia”,  di Pirelli e Benetton, incorporandola, e quindi Telecom dalla stessa controllata.

Occorreva trovare chi si assumesse un compito da far tremare le vene e i polsi, e la società di “cacciatori di teste” Spencer Stuart non ebbe dubbi nel designare Bernabè, che non solo conosceva bene la società per averla guidata, ma aveva lottato per prevenire il grave dissesto provocato poi dai “capitani coraggiosi” e dai loro epigoni, e in precedenza aveva guidato l’Eni per diversi anni con successo pur in condizioni difficili.

Mentre la Spencer Stuart individuava il candidato ideale, la “Telco alla ricerca di un capoazienda” – tramite l’AD di Banca Intesa Corrado Passera, a nome degli altri componenti della compagine creata per rilevare Telecom – lo invitava ad accettare la nomina ad amministratore delegato; poi tornarono alla carica direttamente anche Bazoli, Geronzi, e  Bolloré,  per le banche e Telefonica. Si era nell’ottobre 2007, Vincent Bolloré aveva cercato di contrastare Tronchetti Provera nell’acquisizione del controllo su Telecom, poi ne diventerà primo azionista, tenterà persino di scalare Mediaset, fino a controllare oggi Telecom con “Vivendi”. E’ un mastino delle telecomunicazioni, si era interessato alla Telecom-Tim sin dal 2001 allorchè aveva cercato di competere senza successo con Olivetti per acquisirne il controllo.

Bernabè esitava ad accettare la pur allettante offerta: era impegnato con ottimi risultati nelle società da lui costituite o rilevate nel “salto di specie” da top manager a imprenditore, di cui parleremo più avanti, e avrebbe dovuto dismetterle per i potenziali “conflitti di interesse”; mentre non era certa la solidità della base azionaria di Telecom, un’aggregazione temporanea con visioni diverse tra le banche e Telefonica.

Ed ecco la decisione, anche qui con la motivazione personale che l’ha determinata: “Abbandonare tutto quello che facevo per tornare al vertice di Telecom mi comportava notevoli problemi. Allo stesso tempo, l’idea di concludere un lavoro interrotto così brutalmente sette anni prima mi stimolava. La ragione avrebbe dovuto consigliarmi di rinunciare, ma le emozioni sono spesso un catalizzatore più efficace delle decisioni”. Senz’altro c’era da emozionarsi: “In questo caso prevaleva la voglia di rivincita, l’idea di riuscire dove altri avevano fallito, ma anche il legame con tanti dipendenti e dirigenti che negli anni avevano continuato a scrivermi, raccontandomi la loro sofferenza  per la crisi di una società alla quale erano molto legati”. Inoltre presidente sarebbe stato Gabriele Galateri di Genola, con cui aveva fatto i primi passi in Fiat, e “anche se i nostri profili erano molto simili”, conclude Bernabè, secondo Passera “la combinazione di persone con evidenti affinità professionali rappresentava un punto di forza”.

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Bernabè amministratore delegato di Telecom Italia
con Gabriele Galateri di Gemona presidente

Nella nostra similitudine omerica, “dei remi fece ali al folle volo”, e si rivelò tale, molto più prolungato della brevissima quanto tormentata esperienza precedente e con un contenuto ben diverso. Nel 1999  si era dovuto confrontare con la scalata ostile di finanzieri d’assalto sostenuti dal presidente del Consiglio D’Alema, i cosiddetti “capitali coraggiosi”, e abbiamo detto in precedenza, nel rievocarne la storia,  di quale “coraggio” si trattasse. Si era trovato contro altre massime istituzioni, la  Consob e la Banca d’Italia che ne avevano avallato la scorribanda perniciosa per la società e per il Paese; ora doveva raccogliere i cocci di una società indebitata e dissestata per rilanciarla nel sistema di telecomunicazioni, un’impresa titanica.

Questa volta il campo di battaglia non era solo la finanza, c’era un indebitamento fuori misura, oltretutto dopo le dismissioni operate da Tronchetti Provera di quasi tutto quanto c’era da vendere – e abbiamo visto come ciò avvenne per gli immobili poi riaffittati a Telecom! – che imponeva interventi radicali;  e questi, non essendo disponibili i nuovi azionisti ad aumenti di capitale “per abbattere il debito e far ripartire gli investimenti”, dovevano essere forzatamente a livello industriale, la vocazione primaria di Bernabè.

Ma il promettente piano di  “rilancio graduale, comprimere il debito e aumentare il  flusso di cassa di Telecom riducendone i costi, dosando gli investimenti e tagliando il dividendo” presentato agli investitori “spiazzava coloro che avevano investito in Telecom contando su una robusta cedola” e si trovavano dinanzi al “dimezzamento del dividendo”, inevitabile dopo la politica di dividendi delle gestioni precedenti: “Tra cedole e riserve distribuite il gruppo Telecom tra il 2000 e il 2007 aveva versato ai suoi azionisti 20 miliardi, 15,6 dei quali imputabili alla gestione Tronchetti”  che “per garantire un flusso finanziario sufficiente a sostenere il debito di Olimpia… erogava la quasi totalità degli utili, mentre a livello internazionale il payout (la percentuale di profitti corrisposti in dividendi) superava di poco il 50%”. I soliti speculatori intemerati! 

Era il 7 marzo 2008, la risposta della Borsa al piano di risanamento fu il crollo del titolo, come del resto era avvenuto in Deutsche Telekom  e nelle altre imprese europee di telecomunicazioni; in più c’era stata la caduta del governo con le elezioni anticipate nel gennaio e  incombeva la crisi finanziaria a livello globale che portò a metà settembre al fallimento della Lehman Brothers. “In questo quadro recessivo Telecom aveva cominciato a subire l’erosione dei ricavi e dei margini. Bisognava dunque accelerare sulla riduzione del debito sapendo di non poter contare sugli azionisti e nemmeno sui tempi lunghi di un miglioramento graduale della gestione del programma iniziale”.

La risposta, nelle corde di Bernabè, è un progetto industriale: la “’societarizzazione’ della rete” conferendo l’infrastruttura di accesso e le attività connesse a una società separata, controllata da Telecom, che sarebbe stata apprezzata dagli investitori, in modo che potevano provenirne “le risorse per abbattere il debito e rilanciare gli investimenti”.

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Bernabè presidente esecutivo di Telecom Italia
con Marco Patuano amministratore delegato

Non si trattava di generiche aspettative e neppure di qualcosa di inedito, con l’iniziativa “Open Access” nel febbraio 2008 si era già attuata la  separazione, sia pure parziale, della rete con una struttura autonoma staccata dalle attività commerciali all’interno della divisione  “Technology”. In tal modo si rispondeva alle sollecitazioni delle autorità di regolazione e del governo di “scorporare” le infrastrutture ai fini di una maggiore parità concorrenziale; nel contempo era stata chiesta all’autorità  Agcom la chiusura delle controversie  mediante “cospicue oblazioni”, risolvendo i problemi con il regolatore e avviando rapporti più distesi con i concorrenti che lamentavano la scarsa neutralità del passato da cui si sentivano danneggiati.

I ricavi della progettata “Opac” (dalle iniziali di Open Access) erano stimati in 5 miliardi di euro con un margine operativo lordo del 50% per un valore totale d’impresa di 18 miliardi di euro: il progetto fu presentato al C.d.A. nel settembre 2008 ma incontrò l’opposizione di Telefonica, preoccupata di doverlo replicare nelle sue attività in Spagna, e di Mediobanca che si mostrò contraria alla frammentazione e duplicazione di strutture; anche i concorrenti erano ostili anche se per ragioni diverse temendo che nella nuova società fossero scaricate le inefficienze di Telecom. Perciò il progetto fu ritirato.

Aveva anticipato un’esigenza divenuta sempre più pressante, senonché  l’intervento delle istituzioni pubbliche aveva complicato invece che semplificare la situazione, pur con lo stesso obiettivo: lo scorporo della rete infrastrutturale affidata a una società separata. La Commissione Trasporti e Telecomunicazioni presieduta da Mario Valducci  chiuse l’apposita indagine conoscitiva con la richiesta di una norma che obbligasse alla separazione funzionale della rete. Seguì “il tavolo Romani”, del viceministro con delega alle telecomunicazioni e poi ministro dello Sviluppo Paolo Romani, che si concluse con un memorandum di intenti siglato il 30  novembre 2010  dalle principali società del settore con il quale tra le due alternative poste dal rapporto di Francesco Caio si scartò a sorpresa lo scorporo della rete Telecom e si scelse la costituzione di un’unica rete di accesso ottica di nuova generazione gestita da una società consortile cui i singoli operatori avrebbero dovuto conferire le proprie infrastrutture in fibra, con gran parte degli oneri a carico di Telecom. Intanto nell’aprile 2011 Bernabè da amministratore delegato passa a presidente esecutivo, A.D. diventa Marco Patuano, che aveva nominato all’inizio direttore finanziario facendolo rientrare da Telecom Argentina di cui era direttore generale dopo una carriera nella finanza Telecom.

Bernabè  mette in guardia sull’impraticabilità di tale progetto industriale  per le divergenze tra gli operatori chiamati a parteciparvi sull’architettura di rete e sulle dimensioni dell’investimento; ma soprattutto per l’insostenibilità economica dell’architettura prescelta,  discutibile anche sul piano tecnologico rispetto alle possibilità di  valorizzare l’infrastruttura in rame integrandola con la fibra, ritenuta la migliore soluzione.

Fu anche esplorata la possibilità di far convergere telecomunicazioni e “media”, come richiedeva l’evoluzione in atto nel settore, ipotizzando di conferire Mediaset a Telecom – cosa che avrebbe risolto anche il conflitto di interessi di Berlusconi rendendo Mediaset minoritaria –  ma il progetto non fu neppure discusso per motivi politici, o meglio per sospetti di chissà quale intento; inoltre passava per la modifica della legge Gasparri che impediva di acquisire altre piattaforme a chi era nel settore con oltre il 20%.

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La Commissione Valducci per l’indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni

Nel luglio 2012 l’annuncio della Commissaria europea per l’agenda digitale di incentivare gli investimenti nelle nuove reti si aggiunge alla forte dinamica della domanda per ulteriori servizi digitali aperti agli apparecchi connessi alla rete,  come tablet e  smartphone, videogiochi e gli stessi televisori. Ne viene un nuovo impulso all’accelerazione nello sviluppo della rete a banda larga già in atto in Telecom: il libro descrive “il cantiere per l’autostrada digitale” anche negli aspetti tecnici  e nella diffusione raggiunta. 

Ma non mancò l’attenzione ai servizi, sebbene l’interesse alla rete fosse prevalente in tutti gli operatori. Il motivo “per cui non è nata una Google in Europa”  risiede, secondo Bernabè, nel fatto che le imprese di telecomunicazioni assicurano la “garanzia di qualità del servizio, che richiede infrastrutture complesse e costose, mentre il web ruota intorno all’idea di best effort, cioè del migliore sforzo per offrire un servizio prescindendo da un’immediata garanzia di qualità”.  Cita l’impegno per l’Sms multimediale, promosso anche come presidente, dal 2011 al 2013, del “Gsma” – l’organismo che raggruppa gli operatori mondiali di telefonia mobile – superato però dal WhatsApp  che ha conquistato il mercato per tali motivi:  ecco “come hanno fatto due giovani sviluppatori a mettere fuori gioco migliaia di ingegneri di telecomunicazione”.

Poi ci offre uno spaccato umano, al di là della tecnologia, dei suoi “incontri e scontri con i personaggi del web”. Ed ecco i “guru” da lui incontrati, Tim Berners-Lee creatore del world wide web, e Steve Jobs nel Campus Apple di Cupertino con l’allora vice Tim Cook, Eric Schmidt ex presidente di Google a Sankt Moritz e Jeff Bezos fondatore di Amazon, Peter Thiel e Alex Karp fondatori di Palantir Technologies, leader mondiale di “Data analytics”, che analizza informazioni da usare anche nell’intelligence, ripensiamo all’analoga attività di una agenzia della Cia nel film “I tre giorni del Condor”.

E nell’alternativa tra lo scorporo della rete Telecom e la società  consortile per un’unica nuova rete in fibra ottica va dunque avanti quest’ultima che sembrava prescelta? Ebbene no, “Cassa Depositi e Prestiti gioca su due tavoli” ed entra in una società che controllava  Metroweb, la quale aveva un piano di diffondere la fibra, ed “era più che una minaccia, come si vide in seguito con la costituzione di Ope Fiber”. Per questo Bernabè propone “di riconsiderare il progetto di scorporo e di ‘societarizzazione’ dell’infrastruttura, abbandonato tre anni prima”, nel quale sarebbe potuta entrare Cassa Depositi e Prestiti con un aumento di capitale  che avrebbe reso compatibile l’accelerazione degli investimenti con la riduzione del debito. 

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Vincent Bolloré, presidente del gruppo francese ” Vivendi”

Aprile 2013, il progetto viene presentato e approfondito con qualificati “advisor” di grandi banche; il 30 dello stesso mese approvato con la direttiva di dar corso alla  costituzione della nuova società con la Cassa Depositi e Prestiti previe le autorizzazioni regolatorie. Ma “il Cda approva lo scorporo e Agecom lo affonda”, si intitola uno dei paragrafi conclusivi sulla vicenda Telecom bis. “Anche questa volta il progetto era destinato a non partire. Fu però sorprendentemente un atto dell’Autorità di regolazione a provocarne l’abbandono”, e lo fece riducendo le tariffe di accesso alla rete fissa, cosa che paradossalmente rendeva più conveniente ai gestori rispetto alla società consortile un’offerta basata sul diritto di accesso all’infrastruttura  della Telecom che invece a sua volta ne era penalizzata e scoraggiata dall’investire in infrastrutture di nuova generazione. Non ebbe esito il ricorso alla Commissione Europea, la cui pronuncia era solo consultiva, contro l’ “intervento muscolare” dell’Agecom, e anche se il Consiglio di Stato qualche anno dopo darà ragione a Telecom dichiarando illegittima quella decisione di Agecom, la frittata ormai era stata fatta.

Bernabè cerca un investitore che possa sottoscrivere l’aumento di capitale necessario a Telecom, ma gli azionisti di Telco chiedono troppo per cedere parte delle loro quote e il mercato è depresso. Soltanto mediante l’integrazione con Telefonica “italiani e spagnoli avrebbero potuto dar vita, con un progetto di ampio respiro, alla più grande public company mondiale di telecomunicazioni, un’impresa con soci italiani e spagnoli in posizione paritetica e con una struttura di governo condivisa”: interessi complementari non sovrapposti, Telefonica in Spagna e Sudamerica, Telecom in Italia. Ma Mediobanca e Intesa San Paolo  restarono fredde dinanzi alla proposta di Bernabè, Mediobanca poi fu contraria: “Il progetto fu comunque liquidato a mezzo stampa mentre era sul nascere”. Ma si vide molto presto che era stato anticipatore.

A questo punto Bernabè lascia il gruppo, siamo a settembre 2013. Pochi giorni dopo  Telefonica annuncia un accordo per il controllo di “Telco”, quindi di Telecom, e  l’intenzione di  vendere Tim Brasil, la più importante consociata estera sopravvissuta alle dismissioni di Tronchetti Provera. Nel frattempo stava perfezionando  l’acquisto di Portugal Telecom in Vivo per controllare il primo operatore mobile del Brasile, ma l’Autorità delle telecomunicazioni brasiliana condizionò l’approvazione all’abbandono del controllo di Telecom Italia. E allora Telefonica decise di lasciare l’azienda italiana con una operazione che portò al controllo di Telecom il gruppo francese “Vivendi” di Bolloré, che Bernabè aveva interessato, con progetti e trattative prima della sua uscita, in sostituzione dell’integrazione mancata con Telefonica.  Un’altra sua indiscutibile preveggenza frustrata dalle cecità di turno, siano dei governi o dei manager miopi.

Alla fine di questa nuova fase della sua odissea manageriale Bernabè conclude: “Mi sono chiesto spesso dove avrei potuto fare meglio o che cosa avrei dovuto fare diversamente, ma non trovo una risposta che mi soddisfi”. In realtà, una risposta c’è  ed è lui stesso a fornirla: “Riflettendo mi sono convinto che, pur nelle drammatiche vicende che hanno attraversato il mio percorso in Eni lo Stato abbia garantito all’impresa la stabilità necessaria a realizzare un impegnativo programma di recupero, e che invece il mercato, con i suoi traguardi brevi dettati dai vincoli della finanza, lo abbia impedito a Telecom”. E’ così chiaro che qualsiasi commento guasterebbe, tanto più che sono parole di chi si è sempre speso per il mercato, quello vero.

Tornerà nelle telecomunicazioni con la presidenza di Cellnex dal luglio 2019, è la maggiore impresa europea di infrastrutture wireless, il libro non ne parla ma non possiamo tacere l’attualità più viva.

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Palazzo uffici di Telecom Italia

Dalla Cina con amore, nel C.d.A di PetroChina, il colosso petrolifero

Prima del ritorno in Telecom Italia Bernabè inizia un’esperienza quanto mai interessante nel cuore del capitalismo cinese, come membro indipendente nel Consiglio di amministrazione di PetroChina, il colosso petrolifero nato dalla privatizzazione, con una capitalizzazione al debutto alla Borsa di Shangai di 1.000 miliardi di dollari, il doppio di quella di Exxon alla Borsa di New York. Tante similitudini con l’Eni, all’interno del quale aveva già avuto molti contatti con il mondo petrolifero cinese per importanti permessi di ricerca. A partire da un fondatore mitico, come Enrico Mattei in l’Italia Wang  Jinxi in Cina, fino alla privatizzazione, in Cina con lo scorporo dalla China National Petroleum Corporation, la Cnpc. Quando andò in Consiglio di amministrazione la decisione da prendere su un grande gasdotto di importazione, Bernabè si impegnò molto nel sostenerlo, forte dell’esperienza con la rete dei metanodotti italiani che aveva costituito un’infrastruttura strategica per il Paese e una rilevante fonte di reddito per l’azienda Eni.

Fu posto alla presidenza dell’ “Audit Committee”, il “Comitato di controllo interno” con l’impegnativo compito di valutare la congruità degli scambi con la Cnpc e mantenere l’impegno di ridurli assunto con il mercato. Nel Consiglio di amministrazione, insieme a lui, proposto come garante dei grandi investitori internazionali dalla Goldman Sachs – che lo aveva visto all’opera nella quotazione dell’Eni alla Borsa di New York – gli altri due consiglieri indipendenti, Tung Chee-Chen, fratello del governatore di Hong Kong e Wim Jinglian, un noto economista cinese.

Ha occupato per tredici anni, dal 2000 al 2013, tale posizione, ben di più di un osservatorio privilegiato già di per sè molto interessante: una “governance occidentale in un’impresa comunista” regolata da “una lunga lista di norme” sui rapporti con la Cnpc e i conflitti di interesse, le attribuzioni e i rapporti reciproci regolamentati con precisione; ma anche rilevanti operazioni sul mercato con acquisizioni di società in Kazakistan, Egitto, Algeria e altri paesi oltre a grandi progetti interni  per l’estrazione di gas naturale e colossali programmi di importazione di metano  dall’Asia centrale con la West East Gas Pipeline, 8.700 km di metanodotti da Est a Ovest. Ma anche “controlli, nomine e carriere all’ombra del partito” in un grande paese dove le antiche radici e tradizioni superano le motivazioni politiche rappresentando una solida base culturale e ideale che alla fine prevale su quanto si rivela incompatibile con essa.

Da Ulisse a Marco Polo, vediamo il nostro protagonista alle prese con un mondo nuovo, un regime sospettoso che nel 2010 condannerà un geologo americano di origine cinese ad otto anni di prigione “con l’accusa di aver trafugato informazioni segrete sull’industria petrolifera cinese apparentemente costituite  da dati sismici su 30mila pozzi messi in vendita da Cnpc”. Dieci anni prima, all’inizio dell’esperienza di Bernabè, i cinesi erano ancora più sospettosi, dopo vent’anni di capitalismo di Stato : “Mi chiedevo come mai il partito consentisse a un occidentale di accedere a documenti di PetroChina  strettamente riservati e gli lasciasse esprimere liberamente le sue opinioni sulle modalità di gestione della società”.  

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Limpresa petrolifera cinese PetroChina

La risposta la dà di nuovo lui: “Agli inizi era evidente che il governo cinese avesse preso le sue precauzioni. Con la scusa di assistermi per qualsiasi necessità, la società mi aveva messo a disposizione un assistente che veniva a prelevarmi all’aeroporto al mio arrivo dall’Italia, dormiva nel mio stesso albergo e non mi lasciava se non al gate di imbarco al momento della partenza”.  Ma non continuò così, la fiducia fu conquistata sul campo, e la marcatura stretta di impronta comunista cessò: “Con il passare del tempo, venute meno all’apparenza le esigenze di controllo,  l’assistente si limitò ad essere presente solo quando effettivamente serviva”. Come per accompagnarlo “a visitare impianti industriali, e  zone della Cina che probabilmente neanche lui aveva mai visto”. Ne nacque “una relazione umana fatta anche di scambi d’opinione sulla società cinese”. Questa notazione personale dà un sapore speciale alla importante vicenda manageriale.

Non si sarebbe mai aspettato Bernabè di trovare un’altra affinità con l’Eni, di certo indesiderata, “la Tangentopoli cinese” e, data la sua posizione di responsabilità dell’”audit” interno se ne occupò sia dal punto di vista legale sia investendo il management di PetroChina. E anche qui, come era stato all’Eni, in tanti cercarono di ridimensionare i fatti come “episodi isolati in un corpo sostanzialmente sano”. 

Erano implicati l’ex vice-presidente e segretario del Consiglio di amministrazione Li Hualin, il geologo capo Daofu  e un direttore esecutivo, Ran Xinquan; ma soprattutto l’ex presidente di Cnpc e PetroChina, Jiang Jiemin, che aveva lasciato l’incarico e se ne erano addirittura perse le tracce. Competenti delle inchieste negli organismi controllati dal governo sono le Commissioni per le ispezioni della disciplina che poi trasmettono alla magistratura i risultati, mentre per le grandi imprese  di Stato occorre l’autorizzazione preventiva dell’organo politico, il Politburo. In questo caso l’inchiesta era partita proprio dai vertici politici e governativi per colpire Zhou Yongkang, sospettato di aver tentato nel 2012 un colpo di stato con l’ex governatore di una provincia petrolifera.

Risultato: Jang Jiemin viene arrestato il 1° settembre 2013 e nell’ottobre 2015 verrà condannato a 16 anni di carcere per corruzione e abuso di potere. Ma come nell’Eni c’era un “iceberg corruttivo”, anche lì quello scoperto non era un caso isolato, fu portata alla luce “la rete corruttiva di Zhou Yongkang” mediante cessione di giacimenti marginali difficili agli operatori privati che “ne sviluppavano la produzione e poi li cedevano nuovamente a Cnpc lucrando ampie plusvalenze”; è spontanea l’associazione di idee con le vendite di immobili di Telecom poi riaffittati alla stessa, ma forse ancora una volta stiamo “pensando male” e quindi “facciamo peccato….”.  Ondata di arresti, “class action”  per risarcimenti collettivi archiviata in seguito, e azione privata per danni, crollo azionario e successivo più stretto controllo sulle partecipate.

Commenta Bernabè: “Come era avvenuto per Eni, anche nel caso di Petrochina l’effetto dell’inchiesta era stato quello di riportare al centro la capacità di governo sull’intero sistema organizzativo e produttivo dell’azienda”.

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La sede di PetroChina a Pechino

Il “salto di specie”, da top manager a imprenditore   

L’invito a entrare nel Consiglio di amministrazione di PetroChina era arrivato a Bernabè mentre era impegnato a livello imprenditoriale nelle attività che aveva creato o rilevato al termine della prima esperienza in Telecom, scottato dalla brevità  del percorso troncato dalla scalata dei “capitani coraggiosi” e desideroso di un riscatto sul piano personale, anche se non aveva nulla da rimproverarsi: si era battuto fino all’ultimo, sconfitto dai finanzieri d’assalto con l’appoggio di governo e di altre istituzioni.

Una prima iniziativa fu la costituzione il 18 novembre 1999, con un investimento iniziale di 10 miliardi di lire e una propria partecipazione al 10%, insieme a Renato Soru – il creatore di Tiscali che nella bolla speculativa della new economy nel febbraio 2000 capitalizzava quanto la Fiat – di “Andala”, la società di cui assunse la presidenza, per partecipare alla gara sulle frequenze Umts per il radiomobile di nuova generazione. Furono acquisite le migliori competenze specialistiche con l’intento di “dare al cliente nuovi contenuti, andando oltre il servizio voce e i messaggi sms che caratterizzavano in quel momento l’offerta radiomobile”. Inizialmente fecero parte di Andala la Banca Imi e Rothschild, poi la svedese Ericsson, la Cir di Carlo de Benedetti e la Gemina Hdp di Cesare Romiti, insolitamente insieme in un’iniziativa: “Eravamo riusciti a infilare Silvestro nella gabbia di Titti senza che il gatto sbranasse il canarino”.

Per la gara  il governo D’Alema aveva previsto la licitazione privata, e l’Autorità per le comunicazioni il prezzo minimo di 350-500 miliardi di lire per licenza, accessibile anche in previsione di ragionevoli rilanci; ma il successivo governo Amato, sulla base delle più recenti esperienze inglese e tedesca, alzò molto il tiro, ponendosi come obiettivo di incassare per le 5 licenze “non meno di 25mila miliardi di lire”: dunque il prezzo veniva decuplicato e la gara non era più alla portata della compagine creata, pur con soci prestigiosi.

E allora, dopo i primi contatti con Deutsche Telekom, si entra in trattative con la Hutchinson Whampoa, il colosso cinese di Hong Kong interessato alle telecomunicazioni mobili di terza generazione che acquisirà il 51%, di Andala, gli altri soci iniziali restano con varie quote, a Bernabè rimane il 2%. All’asta fu acquisita da parte di Andala una licenza per 6.500 miliardi di lire – “Amato aveva visto giusto sul prezzo delle licenze” – al quale si sarebbe dovuto aggiungere altrettanto capitale per gli investimenti. Erano esborsi insostenibili per gli italiani, quindi uscirono: Andala diviene H3G,  con Hutchinson nel gennaio 2002 all’88% del capitale,  l’attivissima “3”  che si è fusa con Wind nell’attuale “Wind  Tre”. Alla base c’è l’intuizione imprenditoriale di Bernabè con Soru, poi la crescita esponenziale con i cinesi ha portato all’attuale prestigioso operatore.  

Renato Soru, fondatore con Bernabè di “Andala”

“L’esperienza da imprenditore mi entusiasmava – commenta Bernabè – La febbre della new economy, che sembrava così ricca di opportunità aveva contagiato anche me e l’occasione di intraprendere una nuova iniziativa si presentò quasi per caso”: la lettera di un giovane ingegnere, Luca Tomassini,  che aveva lasciato la Telecom per mettersi in proprio dopo la scalata di Colaninno e soci.  “Avviammo un progetto da cui nacque Kelyan, un’azienda tecnologica rivolta soprattutto al mercato delle imprese”, a Orvieto; la società fornisce soluzioni Ict e applicative gestionali orientate alla rete, già nel 2001 fatturava 18 milioni di euro, poi è cresciuta. Il gruppo Kelyan fu ceduto ad altro gruppo nell’ottobre 2009, al suo ritorno in Telecom.  

Ma non finisce qui, nella sua nuova vita da imprenditore in proprio Bernabè, da azionista delle imprese di telecomunicazioni Netscalibur e Telit contribuisce alla loro ristrutturazione e alla successiva riammissione sul mercato, secondo l’impostazione di fondo per la quale quando le prospettive di sviluppo dell’azienda superano gli intendimenti e le possibilità dei proprietari va ceduta a chi può assicurare ad essa le risorse necessarie per sostenerne la crescita e non tenuta a vivacchiare; come per Andala che è divenuta, con la radicale mutazione nella “3”, una delle maggiori reti italiane. Ha attivato una consulenza finanziaria di qualità poi ceduta, per tale impostazione,  alla  Rotschild nella quale ha rivestito il ruolo di  Vicepresidente di “Rotschild Europe” dal 2004 al 2007 realizzando importanti operazioni di M&A su scala europea.  

Le sue attività di imprenditore sono riunite nell’”Fb Group” costituito nel 2000, alla prima uscita da  Telecom: è una holding di “partecipazioni e management company” di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica, dell’Ict e delle energie rinnovabili, inizialmente con un partner ome l’Imi e successivamente Banca Intesa. Vi rientra alla seconda uscita da Telecom, e come “advisor finanziario” dei fondi di “private equity”  Advent e Bain capital contribuisce ad acquisire ICBPI, banca specializzata nei servizi di pagamento creata dalle Banche Popolari, del cui Istituto diventa Presidente il 22 giugno 2016.

Dall’impegno manageriale al massimo livello e imprenditoriale in settori innovativi vengono tratte da Bernabè valutazioni preziose su quarant’anni di capitalismo, e non solo italiano, andando oltre il sottotitolo del libro. Ne parleremo presto concludendo la nostra rievocazione della sua odissea.

La “3”, nata da “Andala”

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 3 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito dal 20 al 22 novembre, il 5° e ultimo articolo uscirà il 24 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono, secondo l’inserimento delle immagini nel testo: ilsole24ore.it, ansa324.it, ilsole24ore.it, camera.it. notizietiscali.it, corrierecomunicazioni.it, pinterest.it, worldarchitecturecommunity.org, tiscali.it, borto.net, bernabe.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato Telecom Italia dicembre 2007-aprile 2011, presidente esecutivo aprile 2011-
ottobre 2013
; seguono, Bernabè amministratore delegato di Telecom Italia con Gabriele Galateri di Gemona presidente, e Bernabè presidente esecutivo di Telecom Italia con Marco Patuano amministratore delegato; poi, la Commissione Valducci per l’indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni e Vincent Bolloré, presidente del gruppo francese “Vivendi”; quindi, Palazzo uffici di Telecom Italia e l’impresa petrolifera cinese PetroChina; inoltre, la sede di PetroChina a Pechino, e Renato Soru, fondatore con Bernabè di “Andala” ; infine, La “3”, nata da “Andala” e, in chiusura, il Franco Bernabè Group.

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Il Franco Bernabè Group

Franco Bernabè, 3. Il passaggio in Telecom, i “capitani coraggiosi” e i loro epigoni

di Romano Maria Levante

Abbiamo rievocato le fasi culminanti dei 15 anni trascorsi nell’Eni – prima da assistente del Presidente, poi da vice-direttore e direttore centrale, fino a più di 6 anni da amministratore delegato – descritte in modo accurato e particolareggiato nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo. E’ un percorso manageriale di successo all’insegna della coerenza e della determinazione a portare fino in fondo le proprie idee nella convinzione di lottare per il bene dell’azienda e per l’interesse pubblico contro gli ostacoli da parte di certa politica e dei manager collusi con essa. Una collusione che ha portato all’affare Enimont, una Tangentopoli all’interno dell’Eni in cui Bernabè ha fatto emergere l’ iceberg corruttivo che si celava dietro una compiacente banca svizzera.  Ora si volta pagina, la storia prosegue con il suo sbarco in Telecom Italia, quanto mai movimentato fin dall’inizio.

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Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia, 20 novembre 1998-25 maggio 1999

In Telecom Italia, tra il “nocciolino duro” e i “capitani coraggiosi”

Come altre importanti svolte nella vita professionale di Bernabè, anche il suo passaggio a Telecom Italia nasce da una circostanza casuale, pur se non estranea all’ambito della sua attività. Siamo nell’ottobre 1998, dopo l’incontro a Londra con gli investitori della 4^ “tranche” del collocamento di azioni Eni a una cena organizzata dal banchiere di Credit Suisse  Andrea Morante, che aveva curato l’offerta per conto del Tesoro; questi gli chiede di ospitarlo nell’aereo aziendale e nel volo di ritorno gli parla della “disastrosa situazione del ‘nocciolino duro’ di Telecom Italia” e della “disperata ricerca di un manager che li portasse fuori dal guado”, poi gli domanda se fosse disponibile a lasciare l’Eni “in tempi molto stretti”. 

Alla sua istintiva risposta negativa – dopo la quotazione dell’Eni, come amministratore delegato voleva seguirne ancora la crescita –  il banchiere cercò di far leva sull’interesse per una nuova sfida in un settore con la tecnologia in forte evoluzione. Bernabè si era occupato attivamente di telecomunicazioni valorizzando la rete di fibre ottiche che era stata posata in via preventiva sui metanodotti della Snam mediante il conferimento dei diritti di uso ad Albacom; e lo intrigava la proposta anche per i rapidi cambiamenti nel settore rispetto alla lentezza in campo energetico e per il fascino che esercitava una ”public company” privata rispetto a un’impresa pubblica pur privatizzata. Più che il porto sicuro dell’Eni risanato prevalse il”folle volo” di Ulisse, lo “spirito animale” per il rischio personale. Il dado era tratto.

Non valsero a farlo desistere le pressioni perché restasse all’Eni del ministro del Tesoro Carlo Azelio Ciampi e neppure del presidente del Consiglio Massimo D’Alema, che per dissuaderlo gli prospettò le insidie di un azionariato instabile rispetto alla sicura riconferma al vertice dell’Ente dopo le traversie della trasformazione in S.p.A. Sono i primi di novembre, dopo 15 giorni  entrerà in Telecom; ma già nel gennaio successivo leggerà sulla stampa la prima anticipazione dell’Opa, l’Offerta pubblica di acquisto che la Olivetti, guidata da Roberto Colaninno, intendeva lanciare per la scalata che aveva deciso di compiere.

D’Alema sapeva già qualcosa?  Un dato di fatto è il suo immediato appoggio agli scalatori di Telecom, e  perciò si potrebbe pensare  che abbia sconsigliato Bernabè di andare a dirigerlo conoscendone la tempra e prefigurando la sua resistenza alla scalata; ma “a pensar male si fa peccato”, perciò allontaniamo questo pensiero molesto e senza alcuna prova, infatti non risulta che lo sapesse fino al termine di gennaio.

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Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti 1996-99 e Telecom 1999-2001

I tempi, del resto, sono molto stretti, se già all’inizio di febbraio 1999 Bernabè parla delle voci sull’Opa nel C.d.A. di Telecom,  e il 20 febbraio, a soli tre mesi  dall’ingresso nel gruppo, riceve la comunicazione ufficiale dell’Opa sul capitale di Telecom; e viene l’apprezzamento di D’Alema per quelli chiamati i “capitani coraggiosi”, con la critica al “nocciolo duro” del 6,6%  nel quale  la Fiat di Agnelli  aveva  solo lo 0,6% e con quella partecipazione minima  poteva dettare legge sul  grande gruppo strategico per il Paese.

Non si crede ai propri occhi oggi come potessero essere considerati allora “capitani coraggiosi” – anche se D’Alema ha negato di averli chiamati così – da apprezzare e addirittura appoggiare in modo decisivo dietro una “neautralità” di facciata, coloro che con una società lussemburghese, la Bell, controllavano la Olivetti la quale controllava la Tecnost titolare dell’Opa: la Olivetti aveva 1,3 miliardi di euro di fatturato e 18 miliardi di debiti, mentre Telecom aveva 27 miliardi di fatturato  e 8 miliardi di debiti. La formica carica di debiti che si mangia l’elefante leggero come una piuma per poi rovesciargli addosso il suo indebitamento e quello derivante dal finanziamento della scalata da parte della Chase Manhattan, ecco l’italianità!

E si resta sconcertati dinanzi al “fragoroso silenzio di tutto il mondo politico”, opposizione compresa, forse spiazzata dinanzi all’atteggiamento inatteso degli “ex comunisti alla prova del mercato”. Soltanto due voci apertamente dissenzienti, dalle parti opposte dello schieramento politico: l’ex presidente della Bnl, Nerio Nesi, entrato nei Comunisti italiani dopo aver lasciato Rifondazione comunista in polemica con Bertinotti che aveva fatto cadere il governo Prodi sostituito da D’Alema; e Beniamino Andreatta, l’economista DC anticonformista e battagliero. Nesi, “che conosceva bene Olivetti per averci lavorato  molti anni prima”, vede che “Olivetti parte alla carica con gli applausi del governo” e denuncia senza mezze misure che  erano “speculatori internazionali” – altro che “capitani coraggiosi” – e si trattava di “un’operazione contro la Telecom”; Andreatta, apparentemente più benevolo  – forse perché intervistato la domenica successiva all’uscita dalla messa che rende “buoni” almeno sul momento – ma puntando più in alto si domandò “cosa avesse da gioire D’Alema per un’operazione che avrebbe addossato debiti su Telecom, dimezzandone il flusso di cassa disponibile per gli investimenti”, l’allarme lanciato da Bernabè.  Prodi “manifestò in modo più prudente le sue perplessità”, sia perché gli si poteva rinfacciare la debolezza del “nocciolo duro” della privatizzazione da lui governata nel 1997 che si era rivelata quanto mai deludente, sia perché la sua non sembrasse una ritorsione per il modo con cui D’Alema lo aveva sostituito alla presidenza del Consiglio.     

Bernabè anche questa volta si batte con tutte le forze sia pure su un terreno molto diverso da quello nel quale aveva combattuto all’Eni: non più il terreno produttivo ma quello finanziario, e della finanza più lontana dalla vita dell’impresa: quella delle incastellature azionarie  e delle scorribande borsistiche. E’ impressionante seguire la puntuale ricostruzione che fa anche questa volta, quasi minuto per minuto, delle mosse e contromosse di una battaglia per lui inusuale ma per la quale si attrezza rapidamente. Soprattutto dinanzi al “boicottaggio delle contromosse di Telecom”. Da parte dei corsari? No, da parte delle istituzioni.

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Massimo D’Alema, presidente del Consiglio 21.10.98-11.12.99

Nelle motivazioni è coerente con se stesso e denuncia direttamente al governo –  che avrebbe potuto opporsi all’Opa in vari modi, compreso l’uso della “golden share”, una sorta di diritto di veto alla scalata –  il rischio gravissimo dato dall’insostenibile indebitamento che sarebbe gravato su Telecom  per finanziare la scalata speculativa di finanzieri molto indebitati e con scarsissimi capitali: addirittura un terzo di quelli necessari lo avrebbero acquisito vendendo il terzo operatore nazionale, Omnitel e Infostrada a un soggetto estero, il resto sarebbe stato preso a debito. Non era un bel modo di difendere l’italianità e, cosa ben più grave, si  comprometteva un settore strategico per il Paese facendogli venir meno le risorse necessarie ad adeguarne  la struttura produttiva al progresso tecnologico sempre più incalzante.

E’ evidente, date le premesse, che Bernabè va “a muso duro con il presidente  del Consiglio”, sempre D’Alema che, dopo averlo dissuaso a lasciare l’Eni per la Telecom, ora veniva allo scoperto, entrando in palese contraddizione con  la costante avversione della sua parte politica per le operazioni speculative tanto più che questa metteva a repentaglio l’interesse del Paese. Né sarebbe bastato appoggiarla per dare ai comunisti una nuova “verginità” convertendoli al mercato, quasi che in campo ci fosse il mercato nella sua espressione più sana e produttiva, mentre era l’opposto come appariva evidente dai dettagli stessi dell’operazione. Non era il mercato ma la finanza d’assalto con pochissimi capitali propri e incastellature societarie come castelli di carta, buona solo a caricare di debiti le prede e poi ritirarsi senza onore ma con tanti immeritati profitti mentre si affossa la vittima: sono parole nostre, non del libro, è bene precisarlo.

Sono parole di Bernabè, invece, quelle  sull’incontro con D’Alema del 21 febbraio: “Davanti  a lui non riuscii a trattenere la rabbia e la delusione per l’appoggio che il suo governo aveva concesso a un gruppo la cui componente finanziaria di natura speculativa predominava palesemente su quella industriale”. E ancora: “Gli rinfacciai soprattutto il fatto che l’esperimento della creazione di una public company avviato da Prodi e Ciampi non meritava di essere liquidato in modo così brutale”. Fino all’avvertimento rivelatosi profetico: “Gli ricordai inoltre che l’indebitamento finanziario che sarebbe gravato sulla società ne avrebbe pregiudicato le prospettive di sviluppo e che avrei fatto di tutto per oppormi  a un’operazione che consideravo nefasta per Telecom e per il futuro dell’industria italiana”.  D’Alema si difende “negando  di aver dato supporto a Colaninno” ma è negare l’evidenza, a stare ai dati di fatto: “La sua critica al nucleo stabile e ai protagonisti storici del capitalismo italiano, a suo dire incapaci di rischiare, non lasciava dubbi sui suoi orientamenti”. Conclude Bernabè: “Ci lasciammo in un clima di grande freddezza”.

E il giorno dopo, lunedì 22 febbraio, presenta un ricorso urgente contro l’Opa – preparato nel fine settimana con Guido Rossi, esperto di diritto societario e già presidente di Telecom, e con Renzo Costi esperto di diritto  commerciale, già al lavoro prima dell’annuncio ufficiale – incentrato sulle sue  irregolarità formali alla Consob, che “fu costretta ad accogliere gli argomenti di Telecom, ritenendo non valida l’offerta nei termini in cui era stata formulata”; quindi cadevano gli “obblighi di passività” per Telecom, poteva dar corso alle contromisure.  Fu uno shock salutare, seguirono dei ripensamenti, “il tarlo del dubbio s’era insinuato tra i consiglieri di D’Alema”, tra loro l’economista Marcello Messori si era dimesso prendendo “le distanze dall’Opa e dopo aver denunciato l’opacità della catena di controllo Hopa-Bell-Olivetti”. 

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Luigi Spaventa, presidente della Consob 1998-2003

Stop alla scalata, dunque? Neanche per sogno, D’Alema non demorde.  Passano solo tre giorni dal ricorso accolto dalla Consob che giovedì 25 febbraio convoca il suo presidente a Palazzo Chigi – “inusuale convocazione in un  momento cruciale della battaglia” – e lo incontra.  I “capitani coraggiosi” ricevono l’aiuto decisivo: “Il giorno successivo Olivetti trasmise all’Autorità di controllo della Borsa  una comunicazione di Opa riveduta e corretta che ottenne il via libera dalla Consob il 27 febbraio  e segnò l’avvio formale  della procedura di offerta e degli obblighi di passività per il Cda di Telecom”. Riveduta e corretta con autorevoli suggerimenti venuti dopo l’incontro a Palazzo Chigi della domenica precedente? Di certo è un “post hoc”, ma potrebbe sembrare anche un “propter hoc” a chi fosse disposto a “far peccato” con il “pensar male”. Bernabè non è disposto a tanto e si limita ad affermare: “Non si sa se tra l’incontro del 25 e la decisione di autorizzare l’Offerta vi fossero altri nessi oltre quello temporale”; ma non può trattenersi del tutto e aggiunge: “La coincidenza di date fra i due eventi fa sorgere perlomeno il dubbio”. Il libro intitola “le ambiguità della Consob” il relativo paragrafo, ci sembra perlomeno eufemistico e riduttivo.

Non è solo la Consob a schierarsi inaspettatamente dalla parte degli “scalatori”. C’è anche  il ministro dell’Industria che usò l’alibi  dell’italianità dei “capitani coraggiosi” contro l’indolenza  del capitalismo nostrano, come se fosse una giustificazione sufficiente considerado che gruppi esteri non avrebbero potuto avventurarsi agevolmente in un settore strategico protetto anche con lo scudo della “golden share”.

Si trattava di Luigi Spaventa e di Pierluigi Bersani, non potevano deludere D’Alema, il leader dei comunisti alla guida del governo: Bersani storico componente del gruppo dirigente del partito, Spaventa  dal 1976 al 1983  alla Camera eletto nelle liste del PCI  come “indipendente di sinistra” prima di tornare a insegnare, e molto dopo, dal 1998 al 2003, presidente della Consob. Solo la conseguente condiscendenza può spiegare una simile miopia, inconcepibile stando alle loro competenze e alla loro corretetzza.

Bernabè rinuncia al ricosrso al Tar per non portare in sede giudiziaria un problema aziendale, tanto più che “pur essendo un organo indipendente, anche il Tar avrebbe risentito del clima politico favorevole che circondava Colaninno”, inoltre le posizioni di alcuni consiglieri, legati a Mediobanca, non facevano presagire un giudizio equanime. La contromisura adottata, in linea con la sua impostazione manageriale e diremmo culturale, fu  un piano industriale per la crescita di valore nel medio e lungo termine, mediante le dismissioni delle attività estranee al “core business”, che torna anche qui come all’Eni in una evidente coerenza; e l’integrazione tra Telecom Italia e Tim. Lo strumento? Prima si pensò ad un’Offerta pubblica di scambio poi fu trasformata in Offerta pubblica di acquisto da sottoporre all’assemblea. Le finalità erano di natura produttiva per la convergenza tra telefonia fissa e mobile con importanti risvolti finanziari nel rafforzamento della “public company” sganciata dal “nocciolo duro”, già “nocciolino”: e tale rimarrà.

 Si sarebbe avuto ancora più mercato, e si ponevano le basi per superare il “sindacato di controllo”  che con poco più del 6% dominava l’impresa, inoltre ci sarebbe stata la “lezione” che D’Alema voleva dare alle grandi famiglie inerti, gli Agnelli soprattutto. Ma si volle non capire, forse i motivi erano altri, e in questa nuova fase dell’odissea del protagonista, mentre si scatenano gli appetiti,  la politica – e si tratta della sinistra – paradossalmente sta dalla parte degli speculatori d’assalto: il mondo alla rovescia.

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Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia 1993-2005

E non solo la politica nel presidente del Consiglio D’Alema, ma anche la grande finanza con Enrico Cuccia e perfino la Banca d’Italia con Antonio Fazio. Il quale aveva assicurato che “la banca centrale non si sarebbe mai schierata a favore di operazioni aggressive e che avrebbe sostenuto un progetto di crescita industriale di Telecom”; nell’imminenza dell’assemblea – ricorda Bernabè – “aveva rettificato la sua posizione, dicendomi che il fondo avrebbe partecipato, ma che si sarebbe astenuto nel corso della votazione”. Niente di male, ciò che contava era la partecipazione per la validità dell’Assemblea: “Non avevo motivo di dubitare delle sue parole, che rispecchiavano il suo atteggiamento di chiusura nei confronti delle Opa bancarie. Ma anche in questo caso mi sbagliavo”. Più che errore è stata comprensibile fiducia.

Infatti non sembrerebbe possibile un nuovo radicale mutamento di posizione, eppure ci fu, ed è presto detto come: “Fazio fu convocato  a Palazzo Chigi qualche giorno prima dell’assemblea, e nel pomeriggio dello stesso giorno ci arrivò la comunicazione ufficiale che Banca d’Italia  avrebbe disertato l’assise”.  Un nuovo “post hoc” o per chi “fa peccato” ancora un “propter hoc”- dopo quello prima ricordato con il presidente della Consob, e sempre a palazzo Chigi – con D’Alema mobilitato sorprendentemente in prima persona in una materia così tecnica di competenza ministeriale. E’ evidente lo sconcerto di Bernabè a cui aggiungiamo il nostro nello scoprirlo: “Il suo voltafaccia mi colse alla sprovvista. Comprendevo le ragioni di un’astensione dal voto come dichiarazione di neutralità dello Stato. Rifiutavo che lo Stato e Banca d’Italia si esprimessero facendo mancare i propri voti per la regolare costituzione  dell’assemblea”.  

Ma c’è di più, D’Alema incontra anche Enrico Cuccia, l’eminenza grigia di Mediobanca e non solo, in un appartamento di Alfio Marchini, il nipote del costruttore della sede del PCI di via Botteghe oscure: “Si creò qundi un’inedita allenza tra Cuccia, D’Alema e Fazio”, d’altra parte “per Fazio e Cuccia le Opa si pesano, non si contano”, erano contrari a quelle sulle banche, favorevoli a questa su Telecom. Il direttore generale del Tesoro Mario Draghi ancora una volta è dalla parte giusta,  considera la contromisura di Bernabè da approvare nell’assemblea la più’ idonea a  creare valore per l’azionista: la classe non è acqua, lo si vedrà all’opera nella Bce: si erano conosciuti ai seminari estivi di Bruno de Finetti all’inizio del loro percorso.  

Ma cosa avviene al ministero del Tesoro?  L’incredibile, perché nonostante la posizione del  direttore generale, nel momento decisivo  neppure l’azionista Tesoro  si presenta all’assemblea convocata per  approvare le contromisure che avrebbero rintuzzato l’attacco dell’Opa;  quindi l’assemblea va deserta, inerti gli azionisti del “nocciolo duro” e in questo – ma solo in questo – D’Alema aveva ragione, però sarebbero stati ridimensionati con l’integrazione Telecom-Tim che anche finanziariamente avrebbe scongiurato l’Opa se fosse stato possibile portarla in assemblea. Sorprende la posizione di Carlo Azelio Ciampi ministro del Tesoro, non di D’Alema che gratifica i “capitani coraggiosi” dell’attributo  di “rude razza padana” associandoli, sull’altro versante,  alla “rude razza pagana” con cui Tronti aveva definito  il nuovo soggetto sociale, l”operaio-massa”, quasi volesse porre gli speculatori sul piano dei lavoratori. 

Bernabè non molla, fedele alla sua vocazione industriale e non finanziaria-affaristica tenta un rilancio eclatante:  la “business combination” alla pari con Deutsche Telekom, cioé “l’aggregazione delle due aziende in un’unica entità societaria” dato che i tedeschi cercavano un partner per dare dimensioni europee alla loro impresa di telecomunicazioni, e i tentativi fatti  con France Telecom non erano stati sostenuti dal loro management. L’accordo con i tedeschi è presto trovato, cosa di per sé straordinaria, e la condizione posta dal  C.d.A. di Telecom, nel quale c’erano “i pretoriani di Mediobanca”, nell’approvare il progetto di fusione –  un chiarimento del governo tedesco sull’esercizio del proprio diritto di voto nella nuova “holding company” – fu rispettata con l’impegno governativo alla totale privatizzazione. Comunica la sua ricerca di un “cavaliere bianco” per resistere all’Opa, nell'”ultimo faccia a faccia con il capo del governo”, a D’Alema che gli dà questo avvertimento: “Se avessi messo il governo di fronte al fatto compiuto di un accordo non gradito con una compagnia estera, ne avrei pagato le conseguenze”. Nessuna intenzione di Bernabè di “mettere in imbarazzo il governo ma metterlo in condizione di valutare alternative all’Opa, che consideravo una sciagura per la società”. Inutile dire che non bastò, ed ecco abbattersi di nuovo il “niet” di D’Alema: al premier tedesco Schroeder incontrato in quei giorni decisivi in un vertice Nato a Washington disse che  avrebbero riparlato dell’operazione dopo l’Opa, quando era evidente che era la contromisura proprio per opporsi all’Opa alla quale così veniva dato il via libera. Proprio da D’Alema! 

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Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro 1996-97 e 1998-99

E si arriva rapidamente alla conclusione, “l’epilogo era già scritto”: l’Opa ebbe successo, il governo  e l’establishment  erano stati dalla parte di Colaninno che dall’incastellatura azionaria pilotava l’Opa, la “rude razza padana” aveva vinto. “Con l’unica eccezione dell’Imi di Arcuti, che mi appoggiò senza riserva – ricorda amaramente Bernabè – gli altri soci del ‘nocciolo duro’ si ritirarono tutti in buon ordine. Cedettero i loro pacchetti azionari ai ‘capitani coraggiosi’ incassando sostanziose plusvalenze e cercando di far dimenticare le pagine meno edificanti  di questa storia, che avevano contribuito a scrivere. Da parte mia, feci le valige senza polemiche”.

Aggiunge delle parole  che suonano come un messaggio: “Dopo tante prese di posizioni molto decise me ne stetti in silenzio. Non avevo niente da rimpiangere. Non avevo rancori. Non mi importava niente della mia posizione. Così come avevo respinto le imposizioni della politica quando ero in Eni, a maggior ragione non potevo accettarle in una società quasi completamente privata” . E conclude:  “Era valsa la pena battersi, e pazienza se a qualcuno la mia battaglia era sembrata velleitaria. Se l’Opa avesse compromesso il futuro di Telecom, nessuno avrebbe potuto dire che era successo per un mio cedimento, una mia indecisione, una mia scelta”.

Il 25 maggio 1999 Bernabè con il C.d.A. si dimette per lasciare il campo ai nuovi amministratori, sono passati sei mesi  dall’assunzione della carica. Con D’Alema “l’occasione di riprendere il dialogo venne qualche mese più tardi”, quando il presidente del Consiglio lo nomina “rappresentante speciale del governo italiano per la ricostruzione del Kossovo”, a conferma che nulla di personale c’era stato nella vicenda appena conclusa. “Accettai l’incarico pro bono – confida Bernabè – nella consapevolezza che un contributo alla soluzione dei problemi che si erano aperti in Kossovo sarebbe stato di grande aiuto all’azione del governo e allo stesso presidente del Consiglio”. Quindi, nulla di personale neppure da parte sua: “Era il mio modo di testimoniare che la battaglia contro l’Opa non era stata un battaglia contro il governo o contro D’Alema, ma contro un progetto sbagliato che avrebbe danneggiato il Paese”.

Diventa amministratore delegato di Telecom Roberto Colaninno, ma i momentanei vincitori  rivelarono presto la loro vera natura, fu una “vittoria di Pirro” sul piano aziendale anche se fruttò immeritate, indebite plusvalenze nel 2001, quando Colaninno lascerà. Forse poteva dire a se stesso: missione compiuta!

Il fallimento dei  “capitani coraggiosi”, l’armata Brancaleone in ritirata

Si rivelarono profetiche le parole di Bernabè sopra riportate, come tutte quelle spese nella battaglia contro la finanza d’assalto che oltre a rivelarsi inaffidabile, essendo priva di risorse proprie aveva gravato Telecom di un debito insostenibile. La piramide di controllo nella “cascata di società” partiva da Ominiaholding con cui Colaninno era primo azionista della Fingruppo che controllava Hopa, con 150 investitori, molti schermati da finanziarie, la quale controllava la lussemburghese  Bell che controllava Olivetti, che controllava Tecnost, che controllava Telecom con il 51%, e quindi TIM. 

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Mario Draghi, direttore generale del Tesoro 1991-2001

La definizione data – anche se non da D’Alema – di “capitani coraggiosi” era appropriata, ma non nella sua accezione laudativa bensì al contrario: ci voleva “coraggio” per un’Opa da parte di una vera armata Brancaleone,  come ce n’è voluto di “coraggio” da parte del governo a guida comunista per far passare una scorreria all’insegna della più deleteria degenerazione spacciata per mercato; e per di più su un “asset” strategico per il Paese in una fase di profonde innovazioni che richiedevano una visione lungimirante nell’interesse pubblico  e non il cedimento alle scorrerie speculative di tali soggetti.  Il paradosso era che per punire il “nocciolino duro” perché controllava la società con solo il 6,6%, lo si faceva con il “mininocciolino” di Roberto Colaninno con solo l’1,6%, un quarto di quello di Agnelli e soci del sindacato.

Il risultato è scontato: esplode l’indebitamento, dai 27,3 miliardi di lire del 1999 a 38,3 nel 2001, mentre obiettivo dei corsari improvvisati è pilotare i dividendi alla parte più alta della catena di controllo con artifici diabolici che spiazzano anche il governo venendo penalizzato il Tesoro oltre agli azionisti di minoranza, cosa che portò al crollo delle quotazioni in Borsa. Il piano di scissione di Tim da Telecom per lucrare maggiormente fu definito dal “Financial Times” addirittura “una rapina in pieno giorno”, al punto che D’Alema non poté fare a meno di bloccarlo minacciando di usare la “golden share”, mentre all’Opa aveva dato via libera, ma forse si stava accorgendo di essere stato un incauto “apprendista stregone”; “il troppo stroppia”, diciamo ora, non si potevano più superare certi limiti dopo il grave cedimento iniziale.

Non fu bloccata invece la spericolata acquisizione tra agosto e dicembre 2000 del 37% di Seat –  pagata l’equivalente di 6,7 miliardi di euro, mentre tre anni prima il 61% era stato pagato al Tesoro solo 854 milioni di euro – dalla quale gli azionisti di Hopa, immessi prima callidamente in una delle scatole estere detentrici di Seat, lucrarono 151 milioni di euro compensando le perdite in Telecom: un’altra “rapina in pieno giorno” ripetendo l’espressione del “Financial Times”, comunque mascherata e purtroppo riuscita.

Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, ci insegnavano da piccoli, la Procura di Torino e finalmente la Consob indagano sull’anomalia della costosa acquisizione di Seat,  il centro sinistra perde le elezioni e gli ammiratori dalemiani della “rude razza padana”  lasciano il posto ai berlusconiani incattiviti per l’incursione su Telemontecarlo acquisita da Seat: risultato, la Borsa punisce i titoli Olivetti e Telecom mentre il resto del mercato è in forte rialzo su tutta la linea. 

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Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato 1996-99

“Il tracollo delle quotazioni”, da loro inatteso, capovolge le aspettative degli azionisti di Hopa i quali puntavano sulla lievitazione del valore di Bell che controllava Olivetti e quindi Telecom; pertanto con il capofila Gnutti ne escono vendendo Telecom a Marco Tronchetti Provera della Pirelli con Benetton in “Olimpia”, per 7 miliardi di euro. L’armata Brancaleone dei “capitani coraggiosi”  si fece pagare le azioni Olivetti quasi il doppio del valore di borsa mentre l’indebitamento di tale società era lievitato alla cifra stratosferica di 46,8 miliardi di euro,  con una plusvalenza di 1,8 miliardi di euro; il tutto tagliando fuori completamente i piccoli azionisti i quali reagirono abbandonando il titolo che crollò ulteriormente.

Così commenta Bernabè: “Si avverava quanto avevo previsto nel discorso ai dipendenti prima del lancio dell’Opa. Le quotazioni di Olivetti caddero sotto i due euro e quelle di Pirelli si dimezzarono”.  E il “capitano coraggioso” Colaninno?  Anche lui lascia la nave Telecom che rischia di affondare, però con una “robustissima plusvalenza” –  di certo non ottenuta per meriti industriali –  e la  impiega subito nell’acquisizione, da parte della sua Omniaholding, di un consistente patrimonio immobiliare di Telecom: trenta immobili, molti di pregio, in parte riaffittati alla stessa Telecom, sembra a canoni maggiorati rispetto a quelli di mercato, anomalia nell’anomalia.

Ma non è stato il solo a speculare sull’acquisizione degli immobili di Telecom. Lo ha seguito Tronchetti Provera attraverso “Pirelli Real Estate” per il resto del patrimonio immobiliare, operazione non solo negativa economicamente per il prezzo di favore su cui si sono concentrate le polemiche, ma deleteria strategicamente per il pregiudizio arrecato alla rete di telecomunicazioni le cui centrali erano ubicate negli immobili ceduti che contestualmente, anche in questo caso come nel precedente, furono riaffittati con contratti a lunghissimo termine: un leasing per euro 1,9 miliardi rispetto ai ricavi dalla vendita di 4,8 miliardi, solo 2,9 miliardi di minore indebitamento, un affare per Pirelli, una beffa per Telecom.

 “Il problema – osserva Bernabè – fu il vincolo dei contratti d’affitto che rallentò il processo di ammodernamento della rete nei tempi e nei modi richiesti dal progresso tecnologico”. Più precisamente: “Senza il vincolo dei contratti, una parte consistente delle 10.400 centrali Telecom  avrebbe potuto essere chiusa nell’ambito di una  riprogettazione della rete, con consistenti risparmi  di costi di affitto  e di gestione dell’infrastruttura”.  Ed ecco cosa avrebbe potuto fare Telecom senza questa sciagurata ibernazione: “Soprattutto avrebbe dotato per tempo l’Italia di una rete di telecomunicazioni più moderna e performante”. I danneggiati? L’intero Paese, tutti i cittadini, e non solo la società di telecomunicazioni.

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Marco Tronchetti Provera, presidente di Telecom Italia 2001-06

Gli epigoni dei “capitani coraggiosi”

Andiamo avanti in questo museo degli orrori, e non solo degli errori della politica e dell’economia.  Tronchetti Provera, dopo aver ottenuto una riduzione per “eccessiva onerosità”  del prezzo di acquisto delle azioni “Olivetti” crollate sotto il valore nominale di 1 euro – dai 4,175 euro pagati per ognuna quando però erano già  scese a 2,25 euro –  cede 25 società del gruppo Telecom, per lo più estere, incassando 12,8 miliardi di euro. Ma il colpo grosso riguarda la riforma dell’art. 2358 del Codice civile che puntualmente – con una miracolosa combinazione  temporale del tutto casuale, non vogliamo “fare peccato” pensando male  – consentiva il  “leveraged buyout” fino ad allora sempre vietato: cioè l’acquisizione a debito di un’impresa che era forte generatrice di cassa al fine di scaricare su di essa il debito contratto per acquistarla, insomma  il “gioco delle tre carte” proibito agli imbroglioncelli di strada consentito ai grandi finanzieri.  

Così parte la fusione tra Olivetti super indebitata e Telecom generatrice di cassa, si deducono gli interessi passivi e si ottengono sostanziosi crediti di imposta per le perdite pregresse. Con questo effetto che sembra incredibile: Telecom dal 2003 al 2008 paga di imposte, precisamente di Ires, circa 1 miliardo di euro in totale in 6 anni, meno del livello normale di 1,4 miliardi annui a cui torna dal 2009. Tali risparmi d’imposta aumentarono il flusso di cassa per pagare i dividendi di 17,5 miliardi tra il 2000 e il 2006, a vantaggio di Olimpia i cui azionisti furono ripagati dei debiti contratti per l’acquisto di Telecom. “In una certa misura – la conclusione di Bernabè – fu quindi lo Stato  a finanziare il debito che i privati si erano accollati per l’Opa”: operazione, aggiungiamo noi, che lo Stato così danneggiato aveva prima consentito, poi favorito addirittura anche sul piano normativo.

Ma non è finita. Tronchetti Provera lancia un’Opa per cassa di Telecom su Tim per far “risalire i dividendi” verso Olimpia, ma l’indebitamento ben maggiore di quando Bernabè voleva farla per opporsi alla scalata fece sì che Telecom spese invano 13,5 miliardi di euro e alla fine del 2005 il suo indebitamento finanziario totale toccò i 51 miliardi di euro, quello netto i 40 miliardi. I benefici fiscali venivano a cessare, il valore del titolo risultava dimezzato, i dividendi sarebbero stati insufficienti; inoltre nuove regole avrebbero inasprito la concorrenza, ed era nato un contenzioso davanti alle autorità garanti delle telecomunicazioni e del mercato, Agicom e Antitrust, che creava pesanti condizionamenti.

L’incauta proposta di Angelo Rovati, consigliere di Prodi, per risolvere i problemi di Telecom, in un documento che mandò a Tronchetti Provera, venendo dall’uomo di fiducia del nuovo presidente del Consiglio dal maggio 2006, poteva cambiare le carte in tavola. Ma Prodi ne prese subito le distanze, e Bernabè ne dà testimonianza avendolo visto “sconcertato” quando ebbe la notizia durante una cena in Cina in suo onore cui partecipava anche lui, “mi disse di non essere al corrente dell’iniziativa”. Comunque, “il piano Rovati di scorporo della rete fu un insperato aiuto a Tronchetti per distogliere l’attenzione dalle difficoltà in cui versavano Telecom e la controllante Pirelli”. Pressato dagli altri azionisti di Olimpia, cioè la famiglia Benetton, a trovare una soluzione, con le perdite di Pirelli giunte a un miliardo di euro nel 2006, colse la palla al balzo e il 15 settembre dello stesso anno si dimise da presidente. Fu sola la prima mossa.

 “Pirelli-Olimpia nella morsa del debito” non persero tempo, del resto la “gallina dalle uova d’oro” non serviva più, era stata completamente spennata. Il dado era tratto verso l’uscita di Olimpia, si rimescolano le carte, riprende “il valzer degli azionisti” . Poi torna sul ponte di comando di Telecom nel mare in tempesta Franco Bernabè, lo vedremo molto presto. L’odissea continua, volteremo ancora pagina, anzi più pagine.

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Romano Prodi, presidente del Consiglio 18.5.96-21.10.98

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 2 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito il 20 e 21 novembre, i prossimi 2 articoli usciranno il 23 e 24 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini  nel testo: zeusnews.it, biografieonline.it, 3 in it.wikipedia.org, cislpiemonte.it, viperland.it, ilsole24ore.it, ilfattoquotidiano.it, it.wikipedia.org, corriere.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia 20 novembre 1998-25 maggio 1999; seguono, Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti 1996-99 e Telecom 1999-2001, e Massimo D’Alema, presidente del Consiglio 21.10.98-11.12.99 ; poi, Luigi Spaventa, presidente della Consob 1998-2003, e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia 1993-2005 ; quindi, Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro 1996-97 e 1998-99, e Mario Draghi, direttore generale del Tesoro 1991-2001; inoltre, Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato 1996-99, e Marco Tronchetti Provera, presidente di Telecom Italia 2001-06; infine, Romano Prodi, presidente del Consiglio 18.5.96-21.10.98 e, in chiusura, Enrico Cuccia, di Mediobanca e non solo.

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Enrico Cuccia, di Mediobanca e non solo

Franco Bernabè, 2. Enimont e l’iceberg corruttivo

di Romano Maria Levante

Prosegue la rievocazione di alcune fasi cruciali della vita economica del nostro paese ricostruite nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo. L’autore ne è stato protagonista e testimone, e rivela quanto è restato invisibile nel “backstage” coperto alla vista di tutti, anche degli analisti e commentatori più informati, offrendo delle sorprese intriganti in un inedito spaccato economico-politico ravvivato dalle notazioni personali che fanno rivivere quei momenti. Abbiamo ricordato in precedenza “lo sbarco nell’Eni” con le battaglie vittoriose all’insegna del “core business”, della “privatizzazione” e della “divisionalizzazione”, fino al grande exploit in Borsa del Gruppo integrale nelle sue componenti “core”  e risanato. Nel mezzo di queste battaglie la vicenda Enimont e la Tangentopoli in sede Eni, ne parleremo ora e sarà non meno sorprendente e appassionante.

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Il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari a sin., e il presidente della Montedison Raul Gardini a dx

Le premesse di Enimont  

E’ stata una fase molto aspra della lunga “guerra chimica” tra Eni, Montedison e gli altri complessi chimici del paese, alimentata anche dagli incentivi male impiegati dal gruppo pubblico e dai privati. Iniziò con quella che sembrava la pace auspicata, mentre fu una  tregua brevissima trasformata in una battaglia senza quartiere pur se temporanea, conclusa tragicamente sotto il profilo umano: tre suicidi eccellenti, i presidenti di Eni e Montedison, e un direttore del ministero delle Partecipazioni Statali, ecatombe che fa impallidire la sequela di arresti ai più alti livelli dei due gruppi, i vertici delle maggiori  imprese del settore pubblico e privato, rimaste senza guida, risucchiati nei gorghi di Tangentopoli.  A Bernabè, da poco più di un semestre  amministratore delegato dell’Eni, il pesantissimo compito di tenere ferma la barra del timone di un gruppo nell’occhio di un ciclone quanto mai violento e distruttivo. La ripresa televisiva del processo con il grande accusatore Antonio Di Pietro divenuta una vera “star” rimane nella memoria di tutti, con la sfilata di una intera classe politica imputata e condannata per tangenti e finanziamento illecito dei partiti.  

L’amara vicenda ha una premessa lontana nell’acquisizione da parte dell’Eni del controllo di Montedison nel 1968, con una acrobatica scalata azionaria da parte del suo presidente Eugenio Cefis che, dopo avervi mandato Raffaele Girotti come vice-presidente, ne assunse la presidenza nel 1971 lasciando la guida dell’Eni a Girotti e restandovi fino al 1977 allorché si dimise ritenendo la società chimica irrecuperabile. Ma vi sono radici più antiche che risalgono ai “megapoli integrati e la capacità produttiva endemica”  nella corsa agli incentivi di Eni, Montecatini poi fusa con Edison, Sir di Rovelli e altri minori. Di qui inefficienze e perdite abissali, tra i tanti tentativi a vuoto di accordi, con il governo spesso autore di pesanti incursioni.

Nell’Eni la chimica è senza pace, prima con l’Anic, poi con EniChimica divenuta EniChem affidate a Lorenzo Necci, proveniente da una società d’ingegneria e  impiantistica fino a una società operante nelle infrastrutture per operatori pubblici di cui era responsabile per gli aspetti contrattuali. Nella Giunta Eni per il Partito Repubblicano, paracadutato nella chimica nella sfiducia, reciproca,  del management dell’Anic legato alla missione pubblica e diffidente verso il privato, oltre all’attenzione soprattutto impiantistica del primo, alla sostenibilità finanziaria del secondo. Nel libro viene riportata la citazione oraziana di Necci – chiamato “Lorenzo il Magnifico” per il suo modo di combinare cultura e visione strategica, relazioni sociali e gestione del potere –  in volo con Bernabè sull’aereo aziendale sopra il monte Soratte che sembra imponente, pur se alto solo 700 metri, perché isolato, forse un riferimento freudiano di… sapore chimico.

Isolata o meno, la chimica suscitava l’interesse del ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis che premeva per concentrarla in due grandi gruppi, privato e pubblico, e per questo oltre a far tornare Montedison in mani private dopo la scalata dell’Eni, insisteva perché si ricercassero accordi internazionali. Di qui anche “lo strampalato connubio con Armand Hammer” che portò il 1° gennaio 1982 alla joint venture “Enoxy” con la Occidental  che paradossalmente “non apportava competenze specifiche nella chimica ed Eni si addossava il peso di attività carbonifere non prive di aspetti problematici”; ne fu presidente lo stesso Necci, che trascurava i problemi concreti per visioni ambiziose proiettate nel futuro.    

L’Eni  si muoveva su “un doppio binario”, continuava nella ricerca di accordi  con Montedison per la razionalizzazione reciproca; e questo, insieme ai  problemi crescenti dello “strampalato connubio” con un personaggio rivelatosi “furbo di tre cotte” contribuì al naufragio di Enoxy, chiusa alla fine del 1982 dal presidente dell’Eni Umberto Colombo rilevando l’intera “Enoxy chimica” a costi esorbitanti. Era stato destabilizzante per il vertice, in quella fase si dimisero due presidenti dell’Eni, Alberto Grandi  e Colombo, e il commissario Enrico Gandolfi nominato dal governo; i dirigenti manifestarono davanti a Palazzo Chigi.

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Gianni De Michelis
ministro delle Partecipazioni Statali 1980-83

Colombo, uno scienziato oltre che manager, dopo tale epilogo tornò all’Enea da dove era venuto, “De Michelis era riuscito a liquidare due presidenti e tre commissari straordinari di Eni, mentre il gruppo si dibatteva tra mille difficoltà”. In quei tormentati frangenti, “nella divisione dei ruoli tra operatore pubblico e  operatore privato, voluta dal governo, i benefici erano andati tutti a Montedison”. Ed ecco alcuni di essi: “Ora poteva contare su un portafoglio industriale più razionale e su una struttura finanziaria più bilanciata”.

A questo punto “l’arrivo di Reviglio fu un sollievo per tutti. Non era un manager ma come ministro aveva dato buona prova di sé e aveva dimostrato di non essere succube della politica. Il problema di Eni in quella fase era di  contenere le intemperanze di De Michelis  che all’interno del gruppo era odiato  e temuto”.

Alfa e omega di Enimont

Bernabè rappresenta l’Eni nella commissione istituita nel 1987 tra Eni, EniChem e Montedison dopo lunghe trattative iniziate nel 1983 per un percorso di razionalizzazione attraverso l’ottimizzazione reciproca con scambio di impianti complementari. La commissione si pose subito l’obiettivo più ambizioso di costituire un’entità societaria congiunta tra Eni e Montedison con il conferimento delle produzioni chimiche: nella petrolchimica era più forte l’Eni, nella chimica secondaria la Montedison. Bernabè si mostrava in disaccordo con tale prospettiva e non mancava di mettere in guardia il presidente Reviglio sulle controindicazioni a livello industriale e finanziario, proponendo in alternativa una razionalizzazione reciproca più limitata, da realizzare molto agevolmente attraverso semplici scambi di partecipazioni.

La spinta di Necci – presidente di EniChem, dopo esserlo stato di EniChimica succeduta ad Anic – con il sostegno di Cuccia, prevalse nel negoziato protrattosi per sei mesi: il 15 dicembre 1988 venne firmata la convenzione con cui Eni e Montedison  si impegnavano a mantenere la pariteticità per tre anni in un sindacato di blocco nella attesa collocazione in Borsa; era prevista la partecipazione di terzi al capitale in misura non inferiore al 15%, ma non avrebbero dovuto compromettere la pariteticità a garanzia delle due parti.  Nasce così Enimont, presidente Necci, amministratore delegato Sergio Cragnotti per Montedison, e nel settembre del 1989  la quotazione ha successo, mentre nel sesto governo Andreotti, succeduto a De Mita, il nuovo ministro Fracanzani nomina Gabriele Cagliari presidente dell’Eni al posto di Reviglio.

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Franco Reviglio, presidente dell’Eni 1983-89

Cagliari, divenuto presidente, “viola i patti cedendo il controllo del Cda a Gardini”. Come? Scettico sulla pariteticità e fautore della gestione  privatistica, non contrasta il voltafaccia di Montedison che, in spregio alla pariteticità, utilizza i “terzi” Varasi, Verner e Prudential Bache per il suo disegno egemonico con la loro acquisizione dell’ 11% in Borsa, per conquistare la maggioranza  nel Consiglio di amministrazione; e a nulla vale la tardiva retromarcia di Cagliari che cerca di bloccare l’assemblea e di convocare il Consiglio. L’Eni chiedeva che i nuovi membri avessero il gradimento delle due parti, ma  Necci  si era dimesso e non poteva convocarlo, e Cragnotti di parte Montedison ovviamente non ne aveva interesse nè intenzione.  

“Oltre al danno la beffa” per l’Eni, perché  la maggioranza frutto del colpo di mano viene subito messa  a frutto  deliberando un  aumento di capitale per 10 mila miliardi di lire al quale l’Eni doveva contribuire con 4 mila miliardi freschi, mentre Montedison lo faceva liberandosi di attività sgradite, come  Himont e Ausimont.  Per sfuggire alla trappola, nel Consiglio di amministrazione di cui è membro, Bernabè si oppone condizionando l’accettazione dell’Eni al doveroso ripristino della  pariteticità; e nei mesi in cui le assemblee convocate vanno deserte, avanza “l’ipotesi di una scalata a Ferfin”, la società dei Ferruzzi che controllava Montedison come operazione meno costosa che acquisire la quota Montedison in Enimont.

Continua lo stallo finché il 5 settembre 1990 il governo, attraverso il nuovo ministro delle Partecipazioni Statali Franco Piga succeduto a Fracanzani,  intervenne esautorando irritualmente gli organi decisionali dell’Eni con l’imposizione di una clausola accostata, per le sue modalità spericolate, alla roulette russa, “la trovata del patto del cow boy”: l’Eni doveva fissare il prezzo di acquisto del proprio 40% da parte di Montedison e se la stessa rifiutava era obbligato ad acquistarne l’altro 40% a quello stesso prezzo, così l’acquirente avrebbe avuto l’80% della società, il resto ai terzi azionisti. “Il gruppo di valutazione fissa la forchetta del prezzo” tra 2.650 e 2.850 miliardi di lire, finchè la Giunta il 18 novembre 1990 lo determina in via definitiva in 2.805 miliardi, superiore alla media tra valore minimo e massimo, pari a 2.750 miliardi.

Dunque  55 miliardi “regalati”, considerando che il presidente Cagliari, il vicepresidente Alberto Grotti e “la Giunta esecutiva tifa per l’acquisto”.  Infatti Gardini rifiuta, e quando il ministro Piga riceve la telefonata con la notizia esclama “lo devo bastonare!”,  mentre  Grotti  esclamerà a sua volta dopo  l’acquisto, “Gardini lo abbiamo mandato in mare nella sua barca!”, non è nel libro ma lo sappiamo fin da allora.

Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni 1989-93

Alla base di questo epilogo l’intromissione del governo nella controversia aziendale imponendo un meccanismo per lo meno stravagante, e penalizzante “a conti fatti” – ci viene di utilizzare il titolo del libro –  sul quale la Corte dei Conti nel 1991 affermò come più che dare indirizzi, direttive o vigilare, il governo avesse svolto una mediazione, una sovrapposizione che confondendo ruoli e responsabilità aveva suggerito “alla parte privata di rivolgersi agli interlocutori pubblici secondo le proprie ritenute convenienze”. Questo il commento di Bernabè: “Ciò che la Corte dei Conti non poteva sapere all’epoca era il prezzo della mediazione pagata da Montedison per rivolgersi ‘agli interlocutori pubblici’: 150 miliardi di lire distribuiti a pioggia  a partiti, uomini politici e manager. Ciò che passerà alla storia come ‘tangente Enimont’”.

Enimont  nel mezzo di Tangentopoli, la tempesta giudiziaria

Si abbatte sul gruppo Eni  una tempesta giudiziaria devastante, a partire da “quel drammatico marzo 1993”: il 9 marzo prima dell’alba va in carcere il suo presidente, il 10 e 11 anche i presidenti di Agip, Snam e Saipem,  l’intero gruppo decapitato dei vertici, dalla holding alle società energetiche e di ingegneria e servizi. Bernabè, che da poco più di un semestre ne è l’amministratore delegato, nella stessa mattinata del 9 marzo riunisce il personale di Roma nell’auditorium del palazzo uffici dell’Eur, l’indomani quello di Milano nell’auditorium di Sn Donato Milanese; sono  centinaia di dirigenti e impiegati frastornati per quanto stava accadendo e preoccupati anche per le perquisizioni della Guardia di Finanza che seminavano interrogativi e inquietudini di essere coinvolti. “Un discorso di circostanza, per rincuorare gli animi non sarebbe servito a niente”, ricorda. Pensò subito che doveva mettere il dito nella piaga in modo impietoso.

Cosa disse in una situazione così drammatica?  Il discorso di Franco Bernabè, “nomina  consequentia rerum”, è quanto mai franco, del resto  “occorreva guardare in faccia la realtà e reagire”. Sono le sue parole di oggi, ed ecco come si espresse: “Dissi che da quei drammatici eventi dovevamo trarre la forza e il coraggio per trasformare l’intero gruppo, che bisognava dare un taglio al malsano rapporto con la politica e che dovevamo riappropriarci del nostro destino professionale  e di quello dell’azienda”.

L’effetto sul personale fu questo: “La mia presenza e le mie parole contribuirono ad allentare la tensione, ma ricevetti anche molte critiche”.  Era ritenuto normale, fin dai tempi di Mattei, il finanziamento ai partiti – di cui si era servito come si prende un taxi, si paga  e poi si scende, aggiungiamo noi citando le parole del fondatore dell’Eni –  mentre, spiega oggi Bernabè, “io pensavo invece che proprio  il rapporto con i partiti  aveva creato una grave distorsione, soprattutto dei meccanismi di selezione delle persone”; e se si fossero troncate le loro interferenze “si sarebbero potute aprire nuove opportunità di crescita individuale basate sul merito”. Non un generico richiamo alla correttezza ma una nuova prospettiva per l’azienda e per i singoli.

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Raul Gardini, presidente della Momtedison 1987-91

 “Volevo che tutti ne fossero consapevoli”, osserva, con questa notazione personale: “Per me cominciava comunque un periodo durissimo. Portavo sulle spalle tutto il peso e la responsabilità  dei problemi economico-finanziari dell’Eni  e della sua compromessa credibilità internazionale per il coinvolgimento in Tangentopoli”. Poi, aprendosi  ancora di più: “Per un mese non riuscii che a dormire poche ore per notte. Giravo incessantemente  da una società all’altra per tamponare le emergenze e rassicurare una dirigenza confusa e disorientata”.

Seguì una serie di condanne, ma prima vi fu il tragico evento del suicidio del presidente Cagliari, dopo quattro mesi di carcere nella morsa di pesanti accuse inserite nel contesto corruttivo a livello partitico di Tangentopoli. A febbraio, quindi poco prima della “retata” tra i presidenti del gruppo Eni, l’inchiesta “Mani pulite” aveva portato alle dimissioni di Craxi da segretario del Partito Socialista e di Martelli da vice-segretario e ministro della Giustizia del governo Amato; erano stati arrestati Enzo Carra, portavoce  di Arnaldo Forlani e nelle imprese, in particolare nella Fiat, Mattioli stretto collaboratore di Romiti che era al vertice e, soltanto inquisito senza arresto, Mosconi, amministratore delegato di Fiat Impresit.   

Il vasto coinvolgimento in Tangentopoli  non può essere tradotto nel “mal comune mezzo gaudio”, ma di certo non faceva sentire soli alle prese con la giustizia coloro che subivano il passaggio pur traumatico dagli “altari” del potere alla “polvere” del carcere. Sorprese il tragico epilogo per il presidente Cagliari perché da fonti vicine alla famiglia risultava – e chi era all’interno dell’Eni lo ricorda – come nel carcere fosse divenuto un riferimento preciso e benvoluto dai reclusi che gli si rivolgevano per aiuti e consigli, il compagno di cella gli preparava i pasti ed era a sua disposizione. Inoltre il fatto che in prigione c’erano anche i  presidenti delle principali società caposettore del gruppo avrebbe potuto  alleggerire il peso della sua reclusione.

Si disse che il carcere era divenuto insopportabile quando il PM diede parere negativo alla richiesta di scarcerazione e si aggiunsero drammi e problemi familiari; in una lettera alla famiglia “da aprire al mio ritorno” lo aveva definito “serraglio per animali senza teste e anima”, delineando uno scenario da stato giustizialista e autoritario con la conclusione “Io non ci voglio essere”, che fu vista come volontà suicida.

Lorenzo Necci, presidente di Enimont, prima di EniChimica ed Enoxy, poi di EniChem

Però i dubbi che sorsero sulle circostanze del suicidio – e non sono nel libro – si rafforzarono dinanzi agli altri due eventi tragici altrettanto misteriosi, i suicidi del presidente di Montedison Gardini  e del direttore del ministero delle Partecipazioni Statali Sergio Castellari, anch’essi sproporzionati, almeno in apparenza, per personaggi non certo alle prime armi.  Ma le ipotesi complottiste non hanno trovato conferma nelle indagini, il libro non ne parla, i dubbi sono tornati alla memoria senza dare ad essi un valore particolare.

Bernabè ricorda così il momento più triste: “Andai al suo funerale a Milano per esprimere le mie condoglianze alla moglie e ai figli. Ero angosciato. Non riuscivo a dire una parola. Difficile capire le ragioni della sua complessa vicenda umana. L’ambizione lo aveva spinto ad accettare un sistema  che aveva finito per travolgerlo, e l’orgoglio gli aveva impedito di dissociarsi da quel sistema anche quando non c’era più alcuna ragione per sostenerlo. Per questo non aveva potuto beneficiare del trattamento che invece era stato riservato  ad altri inquisiti di Mani pulite e aveva pagato un prezzo personale enorme”. Il più elevato, la sua stessa vita. “Siamo agli epigoni di un sistema sconfitto; un sistema che io non ho certamente contribuito a instaurare ma che, purtroppo, ho accettato…”, le amare parole di Cagliari in un’altra lettera alla famiglia.

Dalla  “pietas” si torna alla dura realtà di allora.  Presidenti ed alti dirigenti arrestati o indagati, la vitale prosecuzione dell’attività operativa da assicurare,  management  largamente da ricostituire senza poter dare giudizi di colpevolezza con le indagini ancora in corso. Come fare? Bernabè proprio per assoluto garantismo chiede che tutti, indagati e non, rimettano il mandato al fine di poter valutare il rapporto di fiducia con ognuno, ma non ottiene il risultato sperato: l’attesa che i partiti con un’amnistia cancellassero il reato di finanziamento illecito li faceva restare al loro posto senza dimettersi perché passasse “la nuttata”. 

Allora a mali estremi,  estremi rimedi: i direttori dell’Eni presenti nei Consigli di amministrazione delle società del Gruppo condividendo la linea dell’amministratore delegato accettano di dimettersi loro facendo decadere i rispettivi Consigli  in cui rappresentavano la maggioranza. La sorte degli indagati era segnata, furono rimossi dalla carica e poi ci fu la risoluzione del rapporto di lavoro, dovettero lasciare il Gruppo.  Al loro posto scelse manager non collusi con la politica, anzi con la parte peggiore: pulizia era stata fatta.

La parte immersa dell’iceberg corruttivo

O meglio si pensava che pulizia fosse stata fatta, ma era solo la parte visibile dell’iceberg corruttivo venuta allo scoperto con la “tangente Enimont”. C’era la parte immersa di cui non si sospettava neppure l’esistenza, finchè un fatto occasionale mise Bernabè sulla pista giusta tre anni dopo la conclusione di Enimont: la lettura sulla stampa quotidiana, nel 1996, delle intercettazioni di Pierfrancesco Pacini Battaglia. Si trattava del banchiere che nel 1993, all’inizio di “Mani pulite”,  aveva confessato al PM Antonio Di Pietro – dietro promessa di non essere arrestato – di aver gestito 500 miliardi di lire che le società dell’Eni detenevano nella sua  banca svizzera “Karfinco”  per  pagare gli intermediari internazionali e i partiti politici italiani. 

Sergio Cragnotti, amministratore delegato di Enimont

Cosa aveva attirato l’attenzione di Bernabè nelle parole di Pacini Battaglia? Dichiarava di pagare di persona somme di denaro dell’ordine di 100 milioni di lire l’uno, ad alcuni presidenti di caposettore che tre anni prima erano stati rimossi dalle loro cariche. Ma dal momento che erano stati anche allontanati dall’Eni non potevano essere ricompense per favori che potevano elargire indebitamente, e la spiegazione possibile non sembrava che una: alla Karfinco, dove finiva una parte della provvista delle società per pagamenti  clandestini, dovevano esistere conti personali dei dirigenti che avevano avuto cariche di vertice. Ma non si trattava soltanto del malaffare passato, bensì di qualcosa che riguardava l’oggi, anzi il domani, e Bernabè personalmente: “Pacini e i suoi amici si preparavano a rimettere le mani sull’azienda”. 

Ricorda che “il faccendiere sosteneva con un’espressione colorita di avere in serbo ‘ottantamila affari con il gruppo’, per i quali la mia presenza e il mio operato erano d’ostacolo”; e  parlando con un ex deputato DC Pacini Battaglia gli diceva, riferendosi a Bernabè, di levarlo di mezzo: “Sono pronto con gli affari in mano”, era la promessa  in cambio della rimozione, dato che era imminente il rinnovo delle cariche. Non a caso campagne giornalistiche e politiche sostenevano che andavano cambiati i vertici dell’Eni. Il lieto fine: la riconferma ad amministratore delegato dal governo uscente di Dini e l’avvento al governo di Prodi, con il quale oltretutto Bernabè aveva un ottimo rapporto dai tempi della Fiat e di Prodi presidente dell’Iri.

Alle telefonate di Pacini Battaglia erano seguite intercettazioni anche ambientali della Guardia di Finanza  che avevano ricostruito il quadro d’insieme: “Da quel quadro emergeva che il sistema scoperchiato tre anni prima dai magistrati di Milano aveva continuato a riprodursi, che i dirigenti di Eni cacciati da me non avevano avuto conseguenze patrimoniali dalle loro disavventure giudiziarie e che c’era una folta rappresentanza di soggetti pronti a tornare in affari alla  spalle dell’Eni”. Che dire? Si resta senza parole dinanzi alla “ fiduciaria occulta del management Eni”, quello colluso  e corrotto: una sorta di verminaio resistente alla pur eclatante disinfestazione compiuta nel recente passato, che era ancora in attività.

Bernabè  nel seguire le piste del malaffare si rivolge, oltre che alla Procura di Milano,  anche a Carla del Ponte, della Procura svizzera, la stessa cui nelle indagini di mafia ricorse Giovanni Falcone, in base al principio “follow the money” che viene applicato questa volta per il malaffare dei manager infedeli.   Un  mondo sotterraneo – si direbbe oggi, con linguaggio mafioso,  “il mondo di sotto” – che la vicenda Enimont non aveva scoperchiato del tutto, e  avrebbe continuato ad agire senza l’intuizione di Bernabè legata a Pacini Battaglia e alla sua Karfinco che diede avvio ad indagini interne ed esterne alla 007.  

I colpi di coda non mancarono da parte di Pacini Battaglia  che fece insinuazioni “de relato” sullo stesso Bernabè, coprendosi  con Grotti, che si coprì a sua volta con Necci, e lui con il giornalista Modolo, il quale fece cadere ogni accusa  della “macchina del fango” messa in azione. Si fece ricorso perfino alla occulta manipolazione dei verbali della Giunta ribaltando artatamente con false correzioni  le dichiarazioni di Bernabè messe a verbale nella sorda lotta interna per “farlo fuori”, tanto aveva rotto le uova nel paniere e distrutto lo stesso paniere del sistema di corruttela interno.

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Franco Piga, ministro delle Partecipazioni Statali
27 luglio-26 dicembre 1990

Possiamo definirlo un effetto collaterale della tempesta giudiziaria che si abbatte  sull’Eni  a partire da “quel drammatico marzo 1993” nel quale – ricordiamo ancora il fatto così eclatante –  con il presidente della holding andarono in carcere i presidenti delle principali società caposettore. Seguì una serie di condanne, il contesto corruttivo a livello partitico ebbe così piena e puntuale conferma in sede giudiziaria.   

L’odissea di Bernabè tra le procure è  defatigante, per usare un eufemismo. A  parte gli inevitabili sospetti nel clima di Tangentopoli su chi si è rivelato una “rara avis”  nel contesto quanto mai inquinato, era  indubbiamente “informato dei fatti” che si svolgevano nell’Eni, anche se non delle malversazioni che facevano parte del “mondo di sotto”. Il libro parla diffusamente delle inchieste  tra le procure di Roma e Milano, La Spezia e Perugia, viene chiamato ripetutamente per fornire gli elementi a sua conoscenza.

A Roma inizia con un interrogatorio di 12 ore  il 4 febbraio 1993, un mese dopo ci saranno gli arresti eccellenti che abbiamo  già sottolineato.  Si ripercorrono seguendo l’accurata rievocazione del libro anche quei momenti iniziali, confusi e  incomprensibili allora, più chiari dopo, inequivocabili adesso. Come i tentativi di incardinare il procedimento a Roma, perché non ci sarebbero stati problemi per gli inquisiti. Magistrati compiacenti?  Alcuni segni Bernabè  li aveva già percepiti, poi le inchieste giudiziarie di Perugia, competente per i procedimenti  sui magistrati romani,  lo confermarono con delle condanne.

Vittima incolpevole  Sergio Castellari, il direttore del ministero delle Partecipazioni statali con cui Bernabè si incontrava per i programmi di investimento dell’Eni prima che andasse in pensione, e racconta come si lamentasse  “con le lacrime agli occhi dell’accanimento”  contro di lui del PM romano. “Non capiva perché lo volesse a tutti i costi arrestare quando era noto che nella vicenda Enimont non aveva avuto alcun ruolo. Gli dissi che doveva avere fiducia: la verità sarebbe venuta a galla e ne sarebbe uscito a testa alta”. Poi l’amara conclusione: “Ma evidentemente l’eccessiva pressione mediatica lo aveva schiacciato, umanamente  e moralmente. Forse fu proprio questo accanimento vissuto come ingiustizia a spingerlo al suicidio”.  

Risultò poi che la richiesta di arresto di Castellari serviva a radicare l’inchiesta a Roma sottraendola ai magistrati milanesi di Mani pulite, “un atto  di grande cinismo”, diremmo di perfidia disumana, legato  a un “disegno sottile”: deviare l’inchiesta facendola indirizzare essenzialmente sulla valutazione  di Enimont, ben sapendo che la perizia era blindata e non costituiva reato il fatto che nella Giunta, pur se su pressione di determinati componenti, si fosse scelto un prezzo vicino al massimo della forchetta indicata dai valutatori.

Pierfrancesco Pacini Battaglia, della banca svizzera Karfinco

Invece  “il reato lo aveva commesso chi aveva preso tangenti per consentire a Gardini e ai suoi alleati – Varasi, Vernes e Prudential Bache –  di realizzare benefici non dovuti”. E’ stata poi una consolazione ancora più amara il rinvio a giudizio di quel PM romano  “per aver compiuto atti contrari al suo dovere di magistrato in quanto stabilmente retribuito perché ponesse le sue pubbliche funzioni al servizio degli interessi di Danesi e Pacini Battaglia”. Parole come marchio d’infamia.

Ma le vie della corruzione sono infinite: “Dall’inchiesta emerse che Eni aveva deliberato di versare l’importo al venditore in anticipo rispetto al closing. Parliamo di 2.805 miliardi di lire, una cifra che generava per Montedison 700  milioni di lire al giorno di interessi bancari”. 

E non basta: “Ma emerse un fatto ancora più grave. Eni aveva speso altri 1.360 miliardi per emettere un prestito obbligazionario da scambiare con i titoli Enimont in possesso delle minoranze azionarie”; e chi aveva un peso rilevante tra tali minoranze?  Guarda caso, proprio Varasi, Verner e Prudential Bache “i quali avevano acquistato l’11% di Enimont nell’interesse di Gardini e in violazione degli accordi  con Eni”; e dietro le apparenze di una normale manovra societaria risultò che “lo scambio tra azioni e obbligazioni avesse l’unico scopo di riconoscere loro lo stesso prezzo per azione pagato da Eni a Montedison (comprensivo di premio di maggioranza)“, che era nella fascia alta mentre Bernabè aveva sostenuto la fascia intermedia, esclusa quella minima perché poteva sembrare una svendita della chimica pubblica se Montedison avesse deciso di acquistare Enimont invece di rinunciare, nello sciagurato  “patto del cowboy” di cui abbiamo già parlato.  Chi “pensò male” c’indovinò, tangenti miliardarie alla base di tali operazioni.

Il 2 dicembre 1998 l’ultima testimonianza di Bernabè, alla Procura di Perugia. “Erano trascorse due settimane dalla mia uscita da Eni”, ricorda, e conclude: “Avevo traghettato Eni fuori dalla tempesta giudiziaria, l’avevo risanata  e rilanciata,  portandola in Borsa, avevo respinto gli attacchi furiosi di chi s’era arricchito alle sue spalle, avevo dovuto combattere in totale solitudine per sette anni,  e tanto mi bastava”. 

Una nuova sfida lo attende, quella di Telecom Italia, al contrario di quella nell’Eni sarà tanto breve quanto aspra: sempre la politica ma anche la mala finanza in campo, in un collusione perniciosa. Faremo la conoscenza dei sedicenti “capitani coraggiosi”, corsari dediti alla speculazione senza scrupoli nell’impensabile condivisione da parte di chi doveva essere il loro più acerrimo avversario: il leader del comunismo italiano,  “pro tempore” presidente del Consiglio, che invece appoggiò in tutti i modi la loro scorreria. Parleremo presto di questa nuova tappa di un’odissea sempre più coinvolgente.

Polo chimico della Montedison a Ferrara

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. Il primo articolo del presente servizio è uscito in questo sito il 20 novembre, i prossimi 3 articoli usciranno tra il 22 e il 24 novembre 2020.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: lavocedinewyork.com, it.wikipedia.org, archiviostoricoeni.it, it.wikipedia.it, pinterest.it, repubblica.it, pucinella291forumfree.it.,wilkipedia.org, lavocedelelvoci.it, arpattoscana.it, ilrestodelcarlino.it In apertura, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari a sin., e il presidente della Montedison Raul Gardini a dx; seguono, Gianni De Michelis ministro delle Partecipazioni Statali 1980-83, e Franco Reviglio, presidente dell’Eni 1983-89; poi, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni 1989-93, e Raul Gardini, presidente della Momtedison 1987-91; quindi, Lorenzo Necci, presidente di Enimont, prima di EniChimica ed Enoxy, poi di EniChem, e Sergio Cragnotti, amministratore delegato di Enimont; inoltre, Franco Piga, ministro delle Partecipazioni Statali 27 luglio-26 dicembre 1990, e Pierfrancesco Pacini Battaglia, della banca svizzera Karfinco; infine, Polo chimico della Montedison a Ferrara e, in chiusura, Polo chimico dell’Eni a Ravenna.

Polo chimico dell’Eni a Ravenna

Franco Bernabè, 1. L’odissea nelle grandi imprese, lo sbarco nell’Eni

di Romano Maria Levante

Il libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo – giornalista economico molto qualificato, autore di saggi ben documentati sulle grandi imprese italiane negli intrecci tra industria, finanza e politica – alza il velo che ha coperto vicende cruciali del nostro sistema economico. Tali vicende hanno investito due delle maggiori imprese del settore pubblico e privato, o meglio privatizzato, dove Bernabè ha ricoperto il massimo vertice, impegnandosi in battaglie  decisive contro i  maneggi della  politica  e la cecità spesso interessata di manager collusi con essa.  Ma oltre al rutilante palcoscenico è il “dietro le quinte” che rende preziosa la rievocazione, e i risvolti umani la fanno in certi tratti coinvolgente, mentre la forma narrativa fa sì che la lettura sia appassionante.    

La copertina del libro di Franco Bernabè

Cominciamo dal titolo del  libro dove si trova la chiave delle  350 pagine fittissime  in una parola  molto semplice: “Fatti”, ma non come participio legato a “conti”, bensì come sostantivo. Perché i fatti ne sono al centro, nella loro evidenza, non le opinioni e le interpretazioni come nelle  comuni analisi economiche  e sociali  che, pur riferendosi ad eventi determinati, li semplificano limitandosi all’essenziale: quello che conta per loro sono le considerazioni che ne derivano, e spesso sono hegeliani, “tanto peggio per la realtà”.

Qui invece contano i fatti, e solo i fatti, evocati con precisione e dovizia di particolari che potrebbero sembrare eccessivi se non si riflettesse che il diavolo si annida nei dettagli, come si dice. E se ne incontrano tanti di  “diavoli” nel racconto preciso e documentato di chi si è trovato spesso al loro cospetto: l’autore del libro, che ne è stato protagonista con la sua evidente caratura morale e la forte tempra personale.  

E’ una odissea nella quale ha resistito per l’energia e la capacità datagli dalla formazione cosmopolita e dai  valori in nome dei quali si è battuto con la forza di essere nel giusto. Ci sono anche i “conti”, ma soprattutto i “fatti”,  in una rievocazione incalzante  che lascia avvinti nel seguirla, come ci è successo non riuscendo a staccarcene fino a notte fonda. Perché tutti pensiamo di conoscere quei fatti, anche se da lontano, quindi sentiamo di voler rivivere vicende passate non dimenticate che hanno agitato il nostro Paese perché  riguardanti gangli vitali dell’economia nei rapporti con il sistema politico e con l’assetto sociale.  

Ma anche se sembra di averli vissuti in qualche modo, nel leggere l’accurata  ricostruzione  del libro ci si accorge di aver percepito solo le manifestazioni esteriori di eventi i cui retroscena sono  inimmaginabili,  e svelano intrecci impensati che vanno ben oltre ciò che si poteva pensare nel viluppo spesso perverso tra politica e grandi imprese, tanto più quelle strategiche che operano in settori vitali per il Paese.  

E se al centro della narrazione ci sono i “fatti”  che vengono messi a nudo e riportati  nella loro realtà misconosciuta, ben diversa dalle apparenze aprendoci gli  inviolati “sancta sanctorum”,  il protagonista mette a nudo anche se stesso, la propria vita, le proprie reazioni più intime dinanzi a eventi che hanno posto a dura prova le sue risorse intellettuali e professionali, e soprattutto quelle umane.  C’è  voluta una energia recondita, mobilitata per resistere alle forze avverse coalizzate  nel segno di obliqui interessi politici o economici – anche personali, nel senso  più deteriore del termine –  e per trovare soluzioni a livello manageriale cercando di farle prevalere  nell’interesse generale, da tutti sbandierato ma troppe volte tradito.

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Franco Bernabè

Non è possibile dar “conto” adeguatamente di un percorso personale e collettivo che si snoda negli anni  in una rievocazione minuto per minuto di ciò che si agitava dietro le quinte di tante affermazioni di facciata; oltre ai “fatti” ci sono i nomi, chiaramente indicati, nel bene e nel male, nomi celebrati nella politica, nell’economia  e nel management, con le parti di segno opposto che hanno recitato nelle vicende narrate.

A una vera narrazione si assiste, nella quale non mancano notazioni ambientali, dalle prime righe con la statua di Marx ed Engels nella visita a Berlino  poco dopo la caduta del Muro – significativamente posta nella copertina del libro con la scritta sottostante “Siamo innocenti”, forse a marcare un loro rimorso postumo – al prosieguo con l’aereo aziendale che porta il protagonista nei “road show”  dei mercati finanziari nel mondo o anche semplicemente da Roma a Milano sorvolando luoghi evocativi come il monte Soratte, e con circostanze come il pranzo a base di pesce congelato difficile da mangiare, e il “rimedio” a cena con una minestra di barbabietola rossa  in una remota zona della Siberia;  sono parentesi gustose in una storia dominata dalle questioni aziendali che sono complesse, ma vengono semplificate nelle loro componenti essenziali, anzi cruciali, facendo leva sui passaggi chiave, anche i più intricati e scomodi.  

Trattandosi di una cavalcata da cavaliere antico nei panni dell’uomo d’azienda moderno, qualcuno senza dubbio potrebbe vedervi un’autopromozione, se non autoesaltazione. Ma anche in questa valutazione soccorre la parola chiave, i “fatti”  che  dimostrano i risultati nelle battaglie vinte e in quelle perse, che hanno pur esse lasciato il segno dei valori in nome dei quali sono state combattute, e lo hanno visto rialzarsi e rilanciare. A questo riguardo dai fatti si passa  ai numeri, ai “conti”, come recita il titolo, ma i “fatti”  e i “conti”  accuratamente citati non sono tutti, riguardano la fase manageriale, sia pure ai più alti livelli, del suo percorso professionale; nel libro è solo accennato il “salto di specie”,  da top manager a imprenditore, con le società del “Fb Group” operanti nei campi più avanzati e, ciliegina sulla  torta, il settore artistico con la presidenza di prestigiose sedi espositive, dalla Biennale di Venezia  al “Mart”  di Trento e Rovereto, dalle  “Scuderie del Quirinale” e “Palazzo delle Esposizioni” alla “Quadriennale di Roma” di cui è tuttora presidente onorario. E ci si ferma prima del recente nuovo incarico alla presidenza di Cellnex.

A parte queste nostre notazioni “ultronee”, per così dire, rispetto al libro, tentiamo di seguire il percorso che viene rievocato, articolato e dettagliato fino ai minimi particolari. Cercheremo di evidenziare ciò che ci ha colpito maggiormente  dell’azione svolta  dal protagonista trovatosi nel cuore del capitalismo italiano al vertice dei maggiori gruppi del settore pubblico e privato, Eni e Telecom Italia, fino all’esperienza in PetroChina, il cuore del capitalismo cinese.  Concluderemo  con le valutazioni che trae dalla sua diretta esperienza: solo 17 pagine delle 350 complessive, a conferma che, come abbiamo detto in apertura, il titolo “a conti fatti”  consente una lettura palindroma alla rovescia, “i fatti contano”. E il libro lo dimostra.

Il “cursus honorum” in campo culturale

Ma prima di rievocare gli aspetti  salienti  della sua lunga odissea manageriale,  un sito come il nostro non può non sottolineare il suo “cursus honorum” in campo culturale:  le posizioni di vertice, cui si è appena accennato,  ricoperte “pro bono” nei  grandi centri artistici ed espositivi che ne qualificano ulteriormente la figura, a partire dalla presidenza della Biennale di Venezia dal 2001 al 2003.

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Bernabè presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo nel 2014, con alla sua sin.
Emmanuele F.M. Emanuele presidente dal 2009 al 2012, e vice presidente nel 2007-2008

Il libro accenna soltanto al Mart di Trento e Rovereto, museo di arte moderna e contemporanea di cui è stato Presidente per dieci anni, dal 2004 al 2014,  rafforzandone l’immagine di eccellenza, con la media di visitatori di 200.000 all’anno nel primo quinquennio fino ad oltre 280.000 nel 2009.

Lascia questo incarico nel 2014, allorché viene chiamato alla presidenza dell’Azienda Speciale Palaexpo del Comune di Roma,  con le sedi espositive di Palazzo delle Esposizioni e delle Scuderie del Quirinale – prima del recente passaggio ad Ales del MiBACT –  più la Casa del Jazz. Incarico prestigioso ricoperto, ci piace ricordarlo, dal 2009 al 2012 da Emmanuele F. M. Emanuele, dalla finanza all’ impegno nell’arte nella Fondazione Roma con in più le realizzazioni benefiche, e all’impegno personale nella cultura anche con le sue poesie. Delle mostre realizzate da Bernabè nel 2014, anno di sua presidenza, ricordiamo al Palazzo Esposizioni su Pasolini,  Cerveteri e Meteoriti, alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo e Memling.

Alle sue dimissioni dall’Azienda Speciale Palaexpo con l’intero Consiglio all’inizio del 2015 per il venir meno dei finanziamenti attesi che avrebbe dequalificato le prestigiose sedi romane – e questo è avvenuto effettivamente per il Palazzo delle Esposizioni restato all’azienda – viene nominato  presidente della Quadriennale di Roma, per la promozione dell’arte contemporanea, dal ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini, e realizza  nel 2016 l’esposizione della Quadriennale d’arte “Altri tempi altri miti”, dopo che nel 2012  non c’era stata, ripristinando la continuità  espositiva ogni 4 anni con  una nuova impostazione: 11 giovani curatori con 10 percorsi tematici intriganti per 150 opere esposte.  E avvia  programmi impegnativi per dare sostegni concreti agli artisti italiani all’estero finanziando le sedi espositive straniere che sono incentivate a presentarli nelle loro mostre, e per promuovere la loro formazione artistica con “workshop” a livello internazionale in varie sedi in Italia.

Nello stesso 2016 la nomina a presidente della Commissione italiana per l’Unesco, con il compito di favorire conoscenza ed esecuzione in Italia dei programmi della sezione delle Nazioni Unite per la cultura. 

Ed ora la sua odissea manageriale, che si dipana in una continuità molto movimentata – e non è un ossimoro – con fasi di imprenditorialità in proprio in campi innovativi all’inizio del nuovo millennio, quello che chiameremo “il salto di specie”. Dunque ci apprestiamo a seguirlo nel suo lungo viaggio, consapevoli che la nostra rievocazione, pur sommaria e incompleta,  sarà comunque alquanto estesa perché tante sono le rivelazioni che fanno scoprire un retroterra nascosto e un sottofondo ben diverso da quanto è venuto alla superficie, in un “carotaggio” esplorativo mirato che associamo a quello in campo petrolifero.

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La presentazione nel 2016 della “16^ Quadriennale d’arte” con gli 11 curatori, al centro
il ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini tra il presidente della
Quadriennale di Roma Bernabè alla sua dx, e il commissario Palaexpo Innocenzo Cipolletta alla sin.

Nell’industria pubblica, l’Eni: “core business”, “privatizzazione”, “divisionalizzazione” 

Che cosa colpisce di più nella vicenda dell’Eni con cui inizia l’odissea del nostro protagonista, dopo averne seguito sommariamente il “cursus honorum” in campo artistico-culturale?  Rimane impressa la determinazione di un manager con un carattere cosmopolita – scuola tedesca e innesto formativo americano – e all’inizio esperienze internazionali di rilievo, all’Ocse a Parigi, e aziendali, nella Fiat di Agnelli e Romiti, entrato come assistente del nuovo presidente, Franco Reviglio – professore universitario contiguo alla politica per vicinanza ideale, non “prestato” ad essa –  con  idee innovative che riesce a far prevalere sui tanti ostacoli posti da politici e manager in buona fede o collusi da amministratore delegato per sei anni. La funzione era di “coordinatore dell’attività di presidenza”, l’equivalente del “capo di gabineto” da ministro.

Da assistente al vertice alla “discesa” nella struttura di Programmazione, come vice-direttore, poi direttore per programmazione, controllo e sviluppo, nella pronta immedesimazione  con i complessi problemi e le prospettive di un gruppo molto particolare: di natura pubblica ma operante sul mercato secondo le sue regole però senza adottarne fino in fondo gli strumenti, in una specie di ossimoro penalizzante.

Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, era stato sordo alla politica che chiedeva la liquidazione dell’Agip, fino a usare i partiti per i suoi intendimenti di dare al Paese una pur relativa autonomia e voce in capitolo nel campo energetico ritenuto decisivo per lo sviluppo economico e il progresso sociale, ben al di là delle limitate risorse nazionali di idrocarburi strumentalmente enfatizzate per raggiungere il suo scopo. E nella sua impostazione aveva concepito l’ente più come una struttura in grado di dare corpo con professionalità alle proprie idee che come holding industriale dotata di sistemi efficaci di programmazione e controllo.

Bernabè  ha completato il superamento di questa situazione – già in atto dopo la costituzione delle direzioni dei Piani quinquennali e delle Strategie – impegnando la Giunta esecutiva, una sorta di “ircocervo” legato ai partiti politici che ne designavano i membri, nelle periodiche valutazioni dell’andamento economico delle diverse attività con rigorose analisi di controllo gestionale. Attività inquadrate in società caposettore con gli organi societari previsti dal Codice civile, che dipendevano dalla holding soprattutto per il meccanismo di autorizzazione degli investimenti ad opera del ministero delle Partecipazioni Statali cui ogni anno l’Eni trasmetteva la Relazione programmatica in base alla quale veniva conferito il Fondo di dotazione riferito al 20% degli investimenti; una sorta di formula magica con deboli motivazioni economiche per un’impresa operante sul mercato, che rendeva il gruppo ancora più soggetto al volere dei politici. E Bernabè, quando diventò direttore programmazione, controllo  e sviluppo, fece sì che il presidente Reviglio  vi rinunciasse, un “sacrificio” considerato necessario nella comune ricerca dell’autonomia dalla politica.

A parte quest’ultima significativa circostanza, il meccanismo autorizzativo  allontanava dalle logiche del mercato in cui si doveva competere perché, coinvolgendo il ministero competente, svuotava la holding di un potere cogente, pur se l’organizzazione delle sue strutture resa sempre più rigorosa – con funzioni professionalmente dedicate alla programmazione e controllo settoriale e generale nel loro collegamento con quelle delle società  – dava comunque dei risultati: era senz’altro di più della mera “moral suasion”.

Giulio Andreotti, presidente del Consiglio 23.7.89- 13.4.91

Già Mattei  aveva puntato sulla professionalità della sua squadra, ma poi era stata superata la pur altamente qualificata  segreteria tecnica – c’erano personalità come Cassese e Fuà, Ruffolo e Spaventa, per citarne alcune – approdando alla fine, pur gradualmente, a una forma moderna di programmazione che in base al quadro generale fissava, in una coerente visione di medio termine, obiettivi e strategie, interventi e azioni, risorse e risultati, fino agli appositi indicatori, e con il controllo gestionale e strategico dell’intero ciclo. In questo contesto gli investimenti non andavano più presentati – quindi valutati e approvati – in modo isolato nella loro entità tecnica e produttiva, come in passato, ma in relazione al contributo che davano a tre livelli crescenti di rilevanza strategica, identificati nel mantenimento, razionalizzazione, sviluppo; e inoltre con ciascuno di essi a tre livelli, basso, medio, alto a seconda della loro rilevanza operativa ed entità. Il tutto in un quadro di controllo semplice ma efficace, valido nel contempo sotto il profilo strategico ed operativo.

L’autonomia delle società caposettore, però, toglieva forza al sistema di programmazione, per cui più che i programmi riveduti nella scadenza annuale, restavano prevalenti i singoli investimenti senza una coerente integrazione: “pochi, maledetti e subito”, anzi molti da approvare da parte delle Partecipazioni statali.

Non era superata un’altra eredità di Mattei, la  diversificazione “lungo la catena del valore” che aveva portato il fondatore a creare i Motel Agip – oltre alle stazioni di servizio, che furono definite  “cattedrali nel deserto”  con  i successivi “Big Bon” commerciali  –  e a sottoporsi al salvataggio del Nuovo Pignone in una delle sue poche acquiescenze alla politica nei panni del visionario sindaco di Firenze Giorgio La Pira, azienda riconvertita a meccanica funzionale per il Gruppo in una sorta di diversificazione indotta.  

Di qui la “polisettorialità” del Gruppo, il “mantra” dell’Eni prima dell’ingresso di Bernabè, il quale vi sostituì la logica della concentrazione nel “core business”,  che suonava allora come rivoluzionaria perché si era esteso a dismisura il campo della diversificazione, motivata dai collegamenti produttivi ma spesso a copertura di salvataggi:  collegamenti effettivi in Snamprogetti e Saipem legate al ciclo degli idrocarburi, e anche nella petrolchimica, solo apparenti nella chimica secondaria come nel  tessile della Lanerossi e nelle caldaie a gas della Savio. Poi l’accollo dell’Egam, dalle aziende minerarie in stato fallimentare, ne era stato l’inevitabile corollario con perdite crescenti  che assorbivamo gli utili provenienti dalla produzione petrolifera e soprattutto dal gas naturale prodotto e di importazione a contratti di particolare favore.  

In questa situazione, puntare alla concentrazione sul “core business” voleva dire disboscare una foresta sterminata di partecipazioni, con settori diversificati distribuiti in un nugolo di 300 aziende. Ebbene, Bernabè c’è riuscito, lavorandoci già da vice direttore e poi da direttore, e potendo concretizzarlo nella posizione di vertice di amministratore delegato, raggiunta nel 1991 nel corso di un’odissea inenarrabile.

Giuliano Amato
presidente del Consiglio 28.6.92-29.4.93

Come sia stato possibile un simile risultato, che risale ad un quarto di secolo fa, il libro lo descrive nei più minuti particolari che riguardano non solo le vicende, ma anche gli interlocutori politici e manageriali:  quelli che si sono pervicacemente opposti  con le rispettive motivazioni, non sempre disinteressate, e quelli i quali hanno assecondato positivamente un  processo che oggi sembra inevitabile e  indiscutibile, ma non lo era nel quadro economico e industriale e nei rapporti con la politica di allora.

A questo punto alla parola magica “core business” se n’è aggiunta un’altra, “privatizzazione”, ma non è stato solo Bernabè a promuoverla, bensì addirittura la politica governativa di fronte  alla gravissima crisi valutaria che richiedeva la mobilitazione delle risorse pubbliche per arginare il pesantissimo deficit divenuto insostenibile pena l’uscita dal Sistema monetario europeo con catastrofiche conseguenze. 

Privatizzazione, in Borsa come Eni risanato, e divisionalizzazione 

Bernabè, però, ha coniugato “privatizzazione” a “core business”  – e  poi seguirà la trasformazione “multidivisionale” – con un’operazione magistrale nella quale ha resistito ai pervicaci tentativi di depotenziarla ricorrendo a una serie di azioni successive che rintuzzavano le tante manovre messe in atto soprattutto per mantenere le mani sulle “galline dalle uova d’oro”: erano le principali caposettore, Agip e Snam, che tanti volevano privatizzare separatamente, privando il gruppo Eni della sostenibilità data dai loro rilevanti utili e per di più compromettendo l’integrazione con le altre attività funzionali al ciclo degli idrocarburi. Non si trattava  da parte dei politici di resistenza a rinunciare alla  “polisettorialità” che era il “mantra” dell’Eni finché Bernabè lo ha contrastato sostituendolo con quello del  “core business”; ma di ben altro e non commendevole, anche se qualcuno dei suoi oppositori in buona fede c’era comunque.

E qui la battaglia per Bernabè si è fatta dura, e ha dimostrato non solo di essere un duro pure lui ma anche di saper aggirare gli ostacoli quando si erano fatti insormontabili. Ed era insormontabile la disposizione imperativa del presidente del Consiglio e del ministro del Tesoro di quotare l’Agip, magari con la Snam,   e non l’Eni nelle sue interconnessioni funzionali, lasciando il resto in un limbo senza futuro.

Ma andiamo per  flash,  citiamo i momenti chiave di una storia rievocata in 50 pagine fitte di circostanze e di nomi, in una interminabile partita a scacchi con la politica scandita da una serie di colpi di scena:  il traguardo da raggiungere era quello cui si intitola il capitolo: “La grande trasformazione”.

Carlo Azelio Ciampi, presidente del Consiglio 29.4.93-11.5.94

Trasformazione di che cosa? Di “un ente occupato militarmente dalla politica” con “difensori a oltranza dello status quo”, che si opponevano alla linea di Bernabè – nominato presidente del  “Comitato per la trasformazione dell’Eni” – sostenendo l’impossibilità della privatizzazione per motivi economici e ragioni istituzionali legati alle funzioni pubbliche e alla  esclusiva di esplorazione e produzione nella Valle Padana, anche con il sostegno della magistratura contabile, alle cui argomentazioni formali Bernabè contrapponeva elementi concreti, come la sempre minore rilevanza dei giacimenti nazionali in via di esaurimento.

Un primo arroccamento dei politici e del management colluso con essi avvenne su un Eni che volevano fosse trasformato non in S.p.A. di diritto privato ma in un’ipotetica Società di interesse nazionale.  E questo in base ad argomentazioni pretestuose, anche se apparentemente ragionevoli, di natura economica e perfino costituzionale. Sarebbero cessati i  privilegi connessi alla natura pubblicistica con l’ingresso dei privati, al quale inoltre era ostativa la natura pubblica dell’Ente: una tenaglia  alla quale – secondo i suoi interessati sostenitori – ci si poteva sottrarre soltanto con la formula di Società di interesse nazionale che avrebbe consentito di superare positivamente il carattere di Ente pubblico economico senza rinunciare ai privilegi e senza incontrare gli ostacoli posti anche dalla Corte Costituzionale.

Su questa linea il vice presidente Alberto Grotti si opponeva al documento presentato in Giunta da Bernabè per una S.p.A. che “si sarebbe potuta configurare nel medio-lungo termine come public company a proprietà largamente diffusa”, quasi “da portavoce ai presidenti di Agip e Snam “  e contrapponendo alla visione di Bernabè un  Eni nella forma di Società di interesse nazionale dalla quale non si sarebbero dovute scorporare le funzioni pubbliche e con le due principali società energetiche come sub-holding, una specie di Iri; appoggiava questo disegno conservatore, sostenuto dalla “vecchia guardia del gruppo”,  che svuotava di fatto la privatizzazione, anche il ministro del Bilancio Cirino Pomicino.

La proposta di Bernabè non trascurava le problematiche economiche né quelle giuridiche e costituzionali. Per le prime contavano i fatti, con il forte ridimensionamento dei vantaggi derivanti dall’esclusiva per esplorazione e produzione in Valle Padana, ormai si trattava di entità marginali e si poteva agevolmente rinunciare; per le seconde valeva la legge con cui due anni prima, nel 1990, Giuliano Amato, ministro del Tesoro nel governo Andreotti “aveva decretato che gli enti pubblici potessero essere trasformati in S.p.A. di diritto privato”, era la legge Amato-Carli.

Ci fu anche “il lavoro di sponda con Draghi” il quale, afferma Bernabè, “all’epoca direttore generale del Tesoro, sulla trasformazione delle partecipazioni statali la pensava come me”. In particolare, “Draghi, come consigliere d’amministrazione di Eni mi diede un importante assist. Il 4 maggio scrisse a Cagliari [il presidente dell’Eni di allora, N.d.R.] per complimentarsi del lavoro del Comitato da me presieduto, sottolineando in particolare l’esigenza di ridurre le prerogative pubbliche dell’ente”.

Silvio Berlusconi
presidente del Consiglio 11.5.1994-17.1.1995

Il colpo di grazia ai tentativi interessati di politici e manager collusi di mantenere le mani sulle due “galline dalle uova d’oro”  fu dato dal decreto emanato nel luglio 1992 da Giuliano Amato, da pochi giorni presidente del Consiglio dopo Andreotti, con la trasformazione, avente effetto immediato, degli  enti pubblici in S.p.A.  possedute dal Tesoro e sottoposte al Codice civile: Franco Bernabè, allora direttore centrale, fu nominato amministratore delegato dell’Eni all’inizio del mese successivo, il 3 agosto 1992.  

Era stato raggiunto, con la ferma opposizione alla Società di interesse nazionale,  il risultato che si prefiggeva come presidente dell’apposito  comitato: “La necessità che  il processo di privatizzazione portasse all’abrogazione  non solo ‘dei controlli direttamente collegati all’attuale sistema a partecipazione statale, ma anche di quel vasto reticolo di norme che si traducono in pesanti oneri non compatibili con il funzionamento di una Spa’”;  sono le parole di un suo documento del 20 febbraio 1992 in cui sosteneva che “’momento determinante del processo di trasformazione in Spa’ avrebbe dovuto essere il progetto industriale di gruppo: un piano di rottura con il passato”. E’ il mercato, bellezza… sembra ricordare ai suoi contraddittori interessati.

Tagliato il nodo gordiano con la repentina quanto benefica decisione governativa di dar vita alle nuove S.p.A. – incredibile nei bizantinismi della politica e di certo management – sembrava un percorso in discesa. Invece venivano posti nuovi ostacoli.  La semplice privatizzazione dell’Eni – alleggerito delle attività  in perdita estranee al “core business” per accrescerne l’appetibilità  per il mercato e il ricavato per il Tesoro –  conseguenza scontata della trasformazione in S.p.A., tornava in alto mare, “il governo ordina: si quotino Agip e Snam” e non l’Eni, per i motivi più o meno confessabili ampiamente rievocati nel libro. Come sono rievocate le contromisure di Bernabè contro “il partito della secessione”: la “Super-Agip” – con tutte le attività connesse al ciclo degli idrocarburi – “una mossa per prendere tempo” a aggirare l’imperio di quotare solo le due “galline dalle uova d’oro”, una sorta di “ego te baptizo piscem” di antica memoria.

Ma è solo l’inizio, gli ostacoli  interessati, in particolare dei presidenti di Agip e Snam e dei politici che li sostengono, si moltiplicano,  anche sulla dismissione delle attività estranee al “core business”, la Nuovo Pignone per prima, poi Savio, Agip Coal, Nuova Samim e imprese marginali;  per la chimica, che costituiva il maggiore problema, doveva restare solo la petrolchimica nel disegno di risanamento e rilancio del gruppo. Cade il governo Amato  e  con il governo Ciampi la stessa direttiva, quotare l’Agip  non l’Eni, e per bloccare la contromisura di Bernabè con la “Super-Agip” si muovono persino i francesi dell’Elf,  in un’operazione di disturbo che aveva dietro i loro servizi segreti; ma Bernabè li conosceva essendo stato chiamato da Cossiga nella Commissione per la riforma di quelli italiani, quindi sapeva come difendersi. 

Da Ciampi a Berlusconi non cambia la musica, anzi parte “il centrodestra all’attacco”, finché  avviene un fatto nuovo e per certi versi sorprendente: siamo nel giugno 1994, il governo accelera sulle privatizzazioni e insieme a Enel, Ina e Stet potrà quotare la “Super-Agip”, lo specchietto per le allodole confezionato da Bernabè. Ma lui, saldamente nella posizione di amministratore delegato, invece di accelerare cerca di rallentare, e con il nuovo ministro del Tesoro Lamberto Dini ci riesce, in modo da completare la ristrutturazione e il  risanamento che porterà a fine 1994 un incasso di 5.500 miliardi di lire con la dismissione di 125 società, la riduzione del debito di 5 mila miliardi e del personale di 37.000 addetti.

Lamberto Dini, presidente del Consiglio 17.1.95-18.5.96

Nell’autunno dello stesso 1994 alla Commissione attività produttive della Camera  esce allo scoperto e pone come alternativa preferibile alla “Super-Agip” la quotazione dell’intera  Eni S.p.A. risanata: l’azzardo riesce, ne parla anche con Berlusconi che lo inserisce in un documento, ma gli atti ufficiali sono ancora per la Super-Agip.  Cade il suo governo, subentra come presidente Dini, e nel marzo 1995 in un incontro a porte chiuse all’”Aspen Institute” sulle privatizzazioni con il nuovo premier, Bernabè illustrò i successi nella ristrutturazione che avrebbero consentito di portare in Borsa l’intero Eni così riorganizzato: tutti assentirono, anche Dini pur non escludendo la possibilità di quotazioni parziali. Finché il 10 maggio 1995 il decreto del presidente Dini con i ministri Clò e Masera fissò le procedure di privatizzazione dell’intero gruppo, e a seguire il C.d.A. adottò finalmente il nome Eni S.p.A: così “il cane a sei zampe va in Borsa”.  

Inizia “la volata in Borsa”, in corrispondenza dei risultati economici molto positivi: nel 1994 il  risultato operativo sale a 7.500 miliardi di lire dai 4.300 del 1992, l’utile netto a 3.251 miliardi rispetto ai 2.800 dell’anno precedente, nel 1995 raggiunge i 4.270 miliardi,  mentre l’indebitamento finanziario, cresciuto di 9.000 miliardi tra il 1989 e il 1992, scende di 5.000 miliardi nel biennio successivo; il margine operativo lordo nel 1995 raggiunge i 16.905 miliardi dopo i 13.613 dell’anno precedente.  A livello settoriale  “la soddisfazione maggiore proveniva dalla chimica, che chiudeva il 1994 con una perdita residua dovuta esclusivamente a oneri straordinari di ristrutturazione. Per il 1995 stimavamo un ritorno all’utile”. Non solo,  ma dismesse le attività non petrolchimiche la sua incidenza sul totale era scesa al 18% con la prospettiva di ridursi al 13%, avvicinandosi alla quota del 10% nelle grandi multinazionali petrolifere.

Con questi risultati l’Eni era diventata nel mondo la quarta società per utile netto, preceduta solo da Shell, Exxon e BP, ma seguita dalle grandi Amoco, Chevron e Mobil. Non era più la Cenerentola rispetto alle “7 sorelle”! Nei  5 collocamenti sul mercato lo Stato incasserà 24 miliardi di euro, passando dal 100% al 35%, mentre il valore azionario si raddoppierà rispetto a quello della prima emisione: successo su tutta la linea.

Le “7 sorelle”, però, come le altre compagnie multinazionali, hanno una struttura divisionale, e così doveva diventare l’Eni per superare l’anomalia costituita dalle caposettore, società  separate all’interno della holding, che non era una finanziaria di mere partecipazioni come l’Iri, ma  doveva diventare operativa. Un altro grande lavoro con tanti ostacoli finché di fatto  le caposettore sono state trasformate in divisioni dell’Eni , l’Agip S.p.A. incorporata è diventata la divisione “Upstream”, l’Agip Petroli “Downstream”, la Snam “Gas & Power”.”Tutti i poteri all’amministratore delegato” nell’Eni riorganizzato, da Bernabè ottenuti con un magistrale “fatto compiuto”, al presidente l’individuazione e proposta di progetti integrati strategici.

Siamo nel luglio 1997, l’Eni assume finalmente l’assetto societario di una moderna compagnia petrolifera dopo tante battaglie. Ma non abbiamo evocato la battaglia più aspra e  travagliata, dove oltre al più diretto concorrente, il maggiore gruppo chimico privato, e al governo, entra in campo la magistratura, quella nell’Enimont: si è svolta nel breve arco di un anno, tra il 1989 e il 1990, dopo una prima fase dal 1987,  durante le  battaglie  per la concentrazione nel “core business”  e  la “privatizzazione”.  E ha fatto venire alla luce un iceberg corruttivo all’interno dell’Eni, la cui eliminazione ha completato il risanamento economico con un risanamento morale altrettanto importante non solo per il nostro più grande gruppo energetico ma anche per la società civile e per il Paese. Ne parleremo presto, l’odissea continua.

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Il 2 ° Palazzo uffici dell’Eni a Milano, San Donato Milanese

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. Gli altri 4 articoli del presente servizio usciranno in questo sito dal 21 al 24 novembre 2020. Per le mostre citate della presidenza di Bernabè nell’Azienda speciale Palaexpo, cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com nel 2014: al Palazzo Esposizioni, su Pasolini 27 maggio e 5 giugno, Cerveteri 8 giugno e 6 luglio, Meteoriti 5 ottobre, alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo 24 marzo, 12 e 16 aprile, Memling 8 e 10 dicembre; per la mostra della “16^ Quadriennale d’arte di Roma” del 2016 “Altri tempi, altri miti”, 5 articoli il 16 giugno e dal 24 al 27 ottobre 2016 ripubblicati in questo sito dal 21 al 25 luglio 2020, insieme a due articoli di presentazione della mostra della “17^ Quadriennale d’arte di Roma” del 2020, “Fuori”, usciti sempre in questo sito il 1° e il 29 novembre 2019.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra più viva gratitudine, sono it.wikipedia.org, per le immagini dalla 5^ alla 10^, festivaltecnologia.it per la 2^ immagine, formiche.net la 3^, luomoeilpaesaggioblogspot.it per l’11^ e ultima; la 1^ riprende la copertina del libro, la 4^ è tratta dai nostri articoli sulla “Quadriennale d’arte” del 2016 sopra citati. In apertura, la copertina del libro di Franco Bernabè; seguono, Franco Bernabè e Bernabè presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo nel 2014, con alla sua sin. Emmanuele F.M. Emanuele presidente dal 2009 al 2012, e vice presidente nel 2007-2008; poi, la presentazione nel 2016 della “16^ Quadriennale d’arte” con gli 11 curatori, al centro il ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini tra il presidente della Quadriennale di Roma Bernabè alla sua dx, e il commissario Palaexpo Innocenzo Cipolletta alla sua sin., e Giulio Andreotti, presidente del Consiglio 23.7.89- 13.4.91; quindi, Giuliano Amato presidente del Consiglio 28.6.92-29.4.93 , e Carlo Azelio Ciampi presidente del Consiglio 29.4.93-11.5.94; inoltre, Silvio Berlusconi presidente del Consiglio 11.5.1994-17.1.1995 , e Lamberto Dini presidente del Consiglio 17.1.95-18.5.96; infine, il 2 ° Palazzo uffici dell’Eni a Milano, San Donato Milanese, e il Palazzo uffici dell’Eni a Roma Eur.

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Il Palazzo uffici dell’Eni a Roma Eur