di Romano Maria Levante
Prosegue la rievocazione di alcune fasi cruciali della vita economica del nostro paese ricostruite nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo. L’autore ne è stato protagonista e testimone, e rivela quanto è restato invisibile nel “backstage” coperto alla vista di tutti, anche degli analisti e commentatori più informati, offrendo delle sorprese intriganti in un inedito spaccato economico-politico ravvivato dalle notazioni personali che fanno rivivere quei momenti. Abbiamo ricordato in precedenza “lo sbarco nell’Eni” con le battaglie vittoriose all’insegna del “core business”, della “privatizzazione” e della “divisionalizzazione”, fino al grande exploit in Borsa del Gruppo integrale nelle sue componenti “core” e risanato. Nel mezzo di queste battaglie la vicenda Enimont e la Tangentopoli in sede Eni, ne parleremo ora e sarà non meno sorprendente e appassionante.
Le premesse di Enimont
E’ stata una fase molto aspra della lunga “guerra chimica” tra Eni, Montedison e gli altri complessi chimici del paese, alimentata anche dagli incentivi male impiegati dal gruppo pubblico e dai privati. Iniziò con quella che sembrava la pace auspicata, mentre fu una tregua brevissima trasformata in una battaglia senza quartiere pur se temporanea, conclusa tragicamente sotto il profilo umano: tre suicidi eccellenti, i presidenti di Eni e Montedison, e un direttore del ministero delle Partecipazioni Statali, ecatombe che fa impallidire la sequela di arresti ai più alti livelli dei due gruppi, i vertici delle maggiori imprese del settore pubblico e privato, rimaste senza guida, risucchiati nei gorghi di Tangentopoli. A Bernabè, da poco più di un semestre amministratore delegato dell’Eni, il pesantissimo compito di tenere ferma la barra del timone di un gruppo nell’occhio di un ciclone quanto mai violento e distruttivo. La ripresa televisiva del processo con il grande accusatore Antonio Di Pietro divenuta una vera “star” rimane nella memoria di tutti, con la sfilata di una intera classe politica imputata e condannata per tangenti e finanziamento illecito dei partiti.
L’amara vicenda ha una premessa lontana nell’acquisizione da parte dell’Eni del controllo di Montedison nel 1968, con una acrobatica scalata azionaria da parte del suo presidente Eugenio Cefis che, dopo avervi mandato Raffaele Girotti come vice-presidente, ne assunse la presidenza nel 1971 lasciando la guida dell’Eni a Girotti e restandovi fino al 1977 allorché si dimise ritenendo la società chimica irrecuperabile. Ma vi sono radici più antiche che risalgono ai “megapoli integrati e la capacità produttiva endemica” nella corsa agli incentivi di Eni, Montecatini poi fusa con Edison, Sir di Rovelli e altri minori. Di qui inefficienze e perdite abissali, tra i tanti tentativi a vuoto di accordi, con il governo spesso autore di pesanti incursioni.
Nell’Eni la chimica è senza pace, prima con l’Anic, poi con EniChimica divenuta EniChem affidate a Lorenzo Necci, proveniente da una società d’ingegneria e impiantistica fino a una società operante nelle infrastrutture per operatori pubblici di cui era responsabile per gli aspetti contrattuali. Nella Giunta Eni per il Partito Repubblicano, paracadutato nella chimica nella sfiducia, reciproca, del management dell’Anic legato alla missione pubblica e diffidente verso il privato, oltre all’attenzione soprattutto impiantistica del primo, alla sostenibilità finanziaria del secondo. Nel libro viene riportata la citazione oraziana di Necci – chiamato “Lorenzo il Magnifico” per il suo modo di combinare cultura e visione strategica, relazioni sociali e gestione del potere – in volo con Bernabè sull’aereo aziendale sopra il monte Soratte che sembra imponente, pur se alto solo 700 metri, perché isolato, forse un riferimento freudiano di… sapore chimico.
Isolata o meno, la chimica suscitava l’interesse del ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis che premeva per concentrarla in due grandi gruppi, privato e pubblico, e per questo oltre a far tornare Montedison in mani private dopo la scalata dell’Eni, insisteva perché si ricercassero accordi internazionali. Di qui anche “lo strampalato connubio con Armand Hammer” che portò il 1° gennaio 1982 alla joint venture “Enoxy” con la Occidental che paradossalmente “non apportava competenze specifiche nella chimica ed Eni si addossava il peso di attività carbonifere non prive di aspetti problematici”; ne fu presidente lo stesso Necci, che trascurava i problemi concreti per visioni ambiziose proiettate nel futuro.
L’Eni si muoveva su “un doppio binario”, continuava nella ricerca di accordi con Montedison per la razionalizzazione reciproca; e questo, insieme ai problemi crescenti dello “strampalato connubio” con un personaggio rivelatosi “furbo di tre cotte” contribuì al naufragio di Enoxy, chiusa alla fine del 1982 dal presidente dell’Eni Umberto Colombo rilevando l’intera “Enoxy chimica” a costi esorbitanti. Era stato destabilizzante per il vertice, in quella fase si dimisero due presidenti dell’Eni, Alberto Grandi e Colombo, e il commissario Enrico Gandolfi nominato dal governo; i dirigenti manifestarono davanti a Palazzo Chigi.
Colombo, uno scienziato oltre che manager, dopo tale epilogo tornò all’Enea da dove era venuto, “De Michelis era riuscito a liquidare due presidenti e tre commissari straordinari di Eni, mentre il gruppo si dibatteva tra mille difficoltà”. In quei tormentati frangenti, “nella divisione dei ruoli tra operatore pubblico e operatore privato, voluta dal governo, i benefici erano andati tutti a Montedison”. Ed ecco alcuni di essi: “Ora poteva contare su un portafoglio industriale più razionale e su una struttura finanziaria più bilanciata”.
A questo punto “l’arrivo di Reviglio fu un sollievo per tutti. Non era un manager ma come ministro aveva dato buona prova di sé e aveva dimostrato di non essere succube della politica. Il problema di Eni in quella fase era di contenere le intemperanze di De Michelis che all’interno del gruppo era odiato e temuto”.
Alfa e omega di Enimont
Bernabè rappresenta l’Eni nella commissione istituita nel 1987 tra Eni, EniChem e Montedison dopo lunghe trattative iniziate nel 1983 per un percorso di razionalizzazione attraverso l’ottimizzazione reciproca con scambio di impianti complementari. La commissione si pose subito l’obiettivo più ambizioso di costituire un’entità societaria congiunta tra Eni e Montedison con il conferimento delle produzioni chimiche: nella petrolchimica era più forte l’Eni, nella chimica secondaria la Montedison. Bernabè si mostrava in disaccordo con tale prospettiva e non mancava di mettere in guardia il presidente Reviglio sulle controindicazioni a livello industriale e finanziario, proponendo in alternativa una razionalizzazione reciproca più limitata, da realizzare molto agevolmente attraverso semplici scambi di partecipazioni.
La spinta di Necci – presidente di EniChem, dopo esserlo stato di EniChimica succeduta ad Anic – con il sostegno di Cuccia, prevalse nel negoziato protrattosi per sei mesi: il 15 dicembre 1988 venne firmata la convenzione con cui Eni e Montedison si impegnavano a mantenere la pariteticità per tre anni in un sindacato di blocco nella attesa collocazione in Borsa; era prevista la partecipazione di terzi al capitale in misura non inferiore al 15%, ma non avrebbero dovuto compromettere la pariteticità a garanzia delle due parti. Nasce così Enimont, presidente Necci, amministratore delegato Sergio Cragnotti per Montedison, e nel settembre del 1989 la quotazione ha successo, mentre nel sesto governo Andreotti, succeduto a De Mita, il nuovo ministro Fracanzani nomina Gabriele Cagliari presidente dell’Eni al posto di Reviglio.
Cagliari, divenuto presidente, “viola i patti cedendo il controllo del Cda a Gardini”. Come? Scettico sulla pariteticità e fautore della gestione privatistica, non contrasta il voltafaccia di Montedison che, in spregio alla pariteticità, utilizza i “terzi” Varasi, Verner e Prudential Bache per il suo disegno egemonico con la loro acquisizione dell’ 11% in Borsa, per conquistare la maggioranza nel Consiglio di amministrazione; e a nulla vale la tardiva retromarcia di Cagliari che cerca di bloccare l’assemblea e di convocare il Consiglio. L’Eni chiedeva che i nuovi membri avessero il gradimento delle due parti, ma Necci si era dimesso e non poteva convocarlo, e Cragnotti di parte Montedison ovviamente non ne aveva interesse nè intenzione.
“Oltre al danno la beffa” per l’Eni, perché la maggioranza frutto del colpo di mano viene subito messa a frutto deliberando un aumento di capitale per 10 mila miliardi di lire al quale l’Eni doveva contribuire con 4 mila miliardi freschi, mentre Montedison lo faceva liberandosi di attività sgradite, come Himont e Ausimont. Per sfuggire alla trappola, nel Consiglio di amministrazione di cui è membro, Bernabè si oppone condizionando l’accettazione dell’Eni al doveroso ripristino della pariteticità; e nei mesi in cui le assemblee convocate vanno deserte, avanza “l’ipotesi di una scalata a Ferfin”, la società dei Ferruzzi che controllava Montedison come operazione meno costosa che acquisire la quota Montedison in Enimont.
Continua lo stallo finché il 5 settembre 1990 il governo, attraverso il nuovo ministro delle Partecipazioni Statali Franco Piga succeduto a Fracanzani, intervenne esautorando irritualmente gli organi decisionali dell’Eni con l’imposizione di una clausola accostata, per le sue modalità spericolate, alla roulette russa, “la trovata del patto del cow boy”: l’Eni doveva fissare il prezzo di acquisto del proprio 40% da parte di Montedison e se la stessa rifiutava era obbligato ad acquistarne l’altro 40% a quello stesso prezzo, così l’acquirente avrebbe avuto l’80% della società, il resto ai terzi azionisti. “Il gruppo di valutazione fissa la forchetta del prezzo” tra 2.650 e 2.850 miliardi di lire, finchè la Giunta il 18 novembre 1990 lo determina in via definitiva in 2.805 miliardi, superiore alla media tra valore minimo e massimo, pari a 2.750 miliardi.
Dunque 55 miliardi “regalati”, considerando che il presidente Cagliari, il vicepresidente Alberto Grotti e “la Giunta esecutiva tifa per l’acquisto”. Infatti Gardini rifiuta, e quando il ministro Piga riceve la telefonata con la notizia esclama “lo devo bastonare!”, mentre Grotti esclamerà a sua volta dopo l’acquisto, “Gardini lo abbiamo mandato in mare nella sua barca!”, non è nel libro ma lo sappiamo fin da allora.
Alla base di questo epilogo l’intromissione del governo nella controversia aziendale imponendo un meccanismo per lo meno stravagante, e penalizzante “a conti fatti” – ci viene di utilizzare il titolo del libro – sul quale la Corte dei Conti nel 1991 affermò come più che dare indirizzi, direttive o vigilare, il governo avesse svolto una mediazione, una sovrapposizione che confondendo ruoli e responsabilità aveva suggerito “alla parte privata di rivolgersi agli interlocutori pubblici secondo le proprie ritenute convenienze”. Questo il commento di Bernabè: “Ciò che la Corte dei Conti non poteva sapere all’epoca era il prezzo della mediazione pagata da Montedison per rivolgersi ‘agli interlocutori pubblici’: 150 miliardi di lire distribuiti a pioggia a partiti, uomini politici e manager. Ciò che passerà alla storia come ‘tangente Enimont’”.
Enimont nel mezzo di Tangentopoli, la tempesta giudiziaria
Si abbatte sul gruppo Eni una tempesta giudiziaria devastante, a partire da “quel drammatico marzo 1993”: il 9 marzo prima dell’alba va in carcere il suo presidente, il 10 e 11 anche i presidenti di Agip, Snam e Saipem, l’intero gruppo decapitato dei vertici, dalla holding alle società energetiche e di ingegneria e servizi. Bernabè, che da poco più di un semestre ne è l’amministratore delegato, nella stessa mattinata del 9 marzo riunisce il personale di Roma nell’auditorium del palazzo uffici dell’Eur, l’indomani quello di Milano nell’auditorium di Sn Donato Milanese; sono centinaia di dirigenti e impiegati frastornati per quanto stava accadendo e preoccupati anche per le perquisizioni della Guardia di Finanza che seminavano interrogativi e inquietudini di essere coinvolti. “Un discorso di circostanza, per rincuorare gli animi non sarebbe servito a niente”, ricorda. Pensò subito che doveva mettere il dito nella piaga in modo impietoso.
Cosa disse in una situazione così drammatica? Il discorso di Franco Bernabè, “nomina consequentia rerum”, è quanto mai franco, del resto “occorreva guardare in faccia la realtà e reagire”. Sono le sue parole di oggi, ed ecco come si espresse: “Dissi che da quei drammatici eventi dovevamo trarre la forza e il coraggio per trasformare l’intero gruppo, che bisognava dare un taglio al malsano rapporto con la politica e che dovevamo riappropriarci del nostro destino professionale e di quello dell’azienda”.
L’effetto sul personale fu questo: “La mia presenza e le mie parole contribuirono ad allentare la tensione, ma ricevetti anche molte critiche”. Era ritenuto normale, fin dai tempi di Mattei, il finanziamento ai partiti – di cui si era servito come si prende un taxi, si paga e poi si scende, aggiungiamo noi citando le parole del fondatore dell’Eni – mentre, spiega oggi Bernabè, “io pensavo invece che proprio il rapporto con i partiti aveva creato una grave distorsione, soprattutto dei meccanismi di selezione delle persone”; e se si fossero troncate le loro interferenze “si sarebbero potute aprire nuove opportunità di crescita individuale basate sul merito”. Non un generico richiamo alla correttezza ma una nuova prospettiva per l’azienda e per i singoli.
“Volevo che tutti ne fossero consapevoli”, osserva, con questa notazione personale: “Per me cominciava comunque un periodo durissimo. Portavo sulle spalle tutto il peso e la responsabilità dei problemi economico-finanziari dell’Eni e della sua compromessa credibilità internazionale per il coinvolgimento in Tangentopoli”. Poi, aprendosi ancora di più: “Per un mese non riuscii che a dormire poche ore per notte. Giravo incessantemente da una società all’altra per tamponare le emergenze e rassicurare una dirigenza confusa e disorientata”.
Seguì una serie di condanne, ma prima vi fu il tragico evento del suicidio del presidente Cagliari, dopo quattro mesi di carcere nella morsa di pesanti accuse inserite nel contesto corruttivo a livello partitico di Tangentopoli. A febbraio, quindi poco prima della “retata” tra i presidenti del gruppo Eni, l’inchiesta “Mani pulite” aveva portato alle dimissioni di Craxi da segretario del Partito Socialista e di Martelli da vice-segretario e ministro della Giustizia del governo Amato; erano stati arrestati Enzo Carra, portavoce di Arnaldo Forlani e nelle imprese, in particolare nella Fiat, Mattioli stretto collaboratore di Romiti che era al vertice e, soltanto inquisito senza arresto, Mosconi, amministratore delegato di Fiat Impresit.
Il vasto coinvolgimento in Tangentopoli non può essere tradotto nel “mal comune mezzo gaudio”, ma di certo non faceva sentire soli alle prese con la giustizia coloro che subivano il passaggio pur traumatico dagli “altari” del potere alla “polvere” del carcere. Sorprese il tragico epilogo per il presidente Cagliari perché da fonti vicine alla famiglia risultava – e chi era all’interno dell’Eni lo ricorda – come nel carcere fosse divenuto un riferimento preciso e benvoluto dai reclusi che gli si rivolgevano per aiuti e consigli, il compagno di cella gli preparava i pasti ed era a sua disposizione. Inoltre il fatto che in prigione c’erano anche i presidenti delle principali società caposettore del gruppo avrebbe potuto alleggerire il peso della sua reclusione.
Si disse che il carcere era divenuto insopportabile quando il PM diede parere negativo alla richiesta di scarcerazione e si aggiunsero drammi e problemi familiari; in una lettera alla famiglia “da aprire al mio ritorno” lo aveva definito “serraglio per animali senza teste e anima”, delineando uno scenario da stato giustizialista e autoritario con la conclusione “Io non ci voglio essere”, che fu vista come volontà suicida.
Però i dubbi che sorsero sulle circostanze del suicidio – e non sono nel libro – si rafforzarono dinanzi agli altri due eventi tragici altrettanto misteriosi, i suicidi del presidente di Montedison Gardini e del direttore del ministero delle Partecipazioni Statali Sergio Castellari, anch’essi sproporzionati, almeno in apparenza, per personaggi non certo alle prime armi. Ma le ipotesi complottiste non hanno trovato conferma nelle indagini, il libro non ne parla, i dubbi sono tornati alla memoria senza dare ad essi un valore particolare.
Bernabè ricorda così il momento più triste: “Andai al suo funerale a Milano per esprimere le mie condoglianze alla moglie e ai figli. Ero angosciato. Non riuscivo a dire una parola. Difficile capire le ragioni della sua complessa vicenda umana. L’ambizione lo aveva spinto ad accettare un sistema che aveva finito per travolgerlo, e l’orgoglio gli aveva impedito di dissociarsi da quel sistema anche quando non c’era più alcuna ragione per sostenerlo. Per questo non aveva potuto beneficiare del trattamento che invece era stato riservato ad altri inquisiti di Mani pulite e aveva pagato un prezzo personale enorme”. Il più elevato, la sua stessa vita. “Siamo agli epigoni di un sistema sconfitto; un sistema che io non ho certamente contribuito a instaurare ma che, purtroppo, ho accettato…”, le amare parole di Cagliari in un’altra lettera alla famiglia.
Dalla “pietas” si torna alla dura realtà di allora. Presidenti ed alti dirigenti arrestati o indagati, la vitale prosecuzione dell’attività operativa da assicurare, management largamente da ricostituire senza poter dare giudizi di colpevolezza con le indagini ancora in corso. Come fare? Bernabè proprio per assoluto garantismo chiede che tutti, indagati e non, rimettano il mandato al fine di poter valutare il rapporto di fiducia con ognuno, ma non ottiene il risultato sperato: l’attesa che i partiti con un’amnistia cancellassero il reato di finanziamento illecito li faceva restare al loro posto senza dimettersi perché passasse “la nuttata”.
Allora a mali estremi, estremi rimedi: i direttori dell’Eni presenti nei Consigli di amministrazione delle società del Gruppo condividendo la linea dell’amministratore delegato accettano di dimettersi loro facendo decadere i rispettivi Consigli in cui rappresentavano la maggioranza. La sorte degli indagati era segnata, furono rimossi dalla carica e poi ci fu la risoluzione del rapporto di lavoro, dovettero lasciare il Gruppo. Al loro posto scelse manager non collusi con la politica, anzi con la parte peggiore: pulizia era stata fatta.
La parte immersa dell’iceberg corruttivo
O meglio si pensava che pulizia fosse stata fatta, ma era solo la parte visibile dell’iceberg corruttivo venuta allo scoperto con la “tangente Enimont”. C’era la parte immersa di cui non si sospettava neppure l’esistenza, finchè un fatto occasionale mise Bernabè sulla pista giusta tre anni dopo la conclusione di Enimont: la lettura sulla stampa quotidiana, nel 1996, delle intercettazioni di Pierfrancesco Pacini Battaglia. Si trattava del banchiere che nel 1993, all’inizio di “Mani pulite”, aveva confessato al PM Antonio Di Pietro – dietro promessa di non essere arrestato – di aver gestito 500 miliardi di lire che le società dell’Eni detenevano nella sua banca svizzera “Karfinco” per pagare gli intermediari internazionali e i partiti politici italiani.
Cosa aveva attirato l’attenzione di Bernabè nelle parole di Pacini Battaglia? Dichiarava di pagare di persona somme di denaro dell’ordine di 100 milioni di lire l’uno, ad alcuni presidenti di caposettore che tre anni prima erano stati rimossi dalle loro cariche. Ma dal momento che erano stati anche allontanati dall’Eni non potevano essere ricompense per favori che potevano elargire indebitamente, e la spiegazione possibile non sembrava che una: alla Karfinco, dove finiva una parte della provvista delle società per pagamenti clandestini, dovevano esistere conti personali dei dirigenti che avevano avuto cariche di vertice. Ma non si trattava soltanto del malaffare passato, bensì di qualcosa che riguardava l’oggi, anzi il domani, e Bernabè personalmente: “Pacini e i suoi amici si preparavano a rimettere le mani sull’azienda”.
Ricorda che “il faccendiere sosteneva con un’espressione colorita di avere in serbo ‘ottantamila affari con il gruppo’, per i quali la mia presenza e il mio operato erano d’ostacolo”; e parlando con un ex deputato DC Pacini Battaglia gli diceva, riferendosi a Bernabè, di levarlo di mezzo: “Sono pronto con gli affari in mano”, era la promessa in cambio della rimozione, dato che era imminente il rinnovo delle cariche. Non a caso campagne giornalistiche e politiche sostenevano che andavano cambiati i vertici dell’Eni. Il lieto fine: la riconferma ad amministratore delegato dal governo uscente di Dini e l’avvento al governo di Prodi, con il quale oltretutto Bernabè aveva un ottimo rapporto dai tempi della Fiat e di Prodi presidente dell’Iri.
Alle telefonate di Pacini Battaglia erano seguite intercettazioni anche ambientali della Guardia di Finanza che avevano ricostruito il quadro d’insieme: “Da quel quadro emergeva che il sistema scoperchiato tre anni prima dai magistrati di Milano aveva continuato a riprodursi, che i dirigenti di Eni cacciati da me non avevano avuto conseguenze patrimoniali dalle loro disavventure giudiziarie e che c’era una folta rappresentanza di soggetti pronti a tornare in affari alla spalle dell’Eni”. Che dire? Si resta senza parole dinanzi alla “ fiduciaria occulta del management Eni”, quello colluso e corrotto: una sorta di verminaio resistente alla pur eclatante disinfestazione compiuta nel recente passato, che era ancora in attività.
Bernabè nel seguire le piste del malaffare si rivolge, oltre che alla Procura di Milano, anche a Carla del Ponte, della Procura svizzera, la stessa cui nelle indagini di mafia ricorse Giovanni Falcone, in base al principio “follow the money” che viene applicato questa volta per il malaffare dei manager infedeli. Un mondo sotterraneo – si direbbe oggi, con linguaggio mafioso, “il mondo di sotto” – che la vicenda Enimont non aveva scoperchiato del tutto, e avrebbe continuato ad agire senza l’intuizione di Bernabè legata a Pacini Battaglia e alla sua Karfinco che diede avvio ad indagini interne ed esterne alla 007.
I colpi di coda non mancarono da parte di Pacini Battaglia che fece insinuazioni “de relato” sullo stesso Bernabè, coprendosi con Grotti, che si coprì a sua volta con Necci, e lui con il giornalista Modolo, il quale fece cadere ogni accusa della “macchina del fango” messa in azione. Si fece ricorso perfino alla occulta manipolazione dei verbali della Giunta ribaltando artatamente con false correzioni le dichiarazioni di Bernabè messe a verbale nella sorda lotta interna per “farlo fuori”, tanto aveva rotto le uova nel paniere e distrutto lo stesso paniere del sistema di corruttela interno.
Possiamo definirlo un effetto collaterale della tempesta giudiziaria che si abbatte sull’Eni a partire da “quel drammatico marzo 1993” nel quale – ricordiamo ancora il fatto così eclatante – con il presidente della holding andarono in carcere i presidenti delle principali società caposettore. Seguì una serie di condanne, il contesto corruttivo a livello partitico ebbe così piena e puntuale conferma in sede giudiziaria.
L’odissea di Bernabè tra le procure è defatigante, per usare un eufemismo. A parte gli inevitabili sospetti nel clima di Tangentopoli su chi si è rivelato una “rara avis” nel contesto quanto mai inquinato, era indubbiamente “informato dei fatti” che si svolgevano nell’Eni, anche se non delle malversazioni che facevano parte del “mondo di sotto”. Il libro parla diffusamente delle inchieste tra le procure di Roma e Milano, La Spezia e Perugia, viene chiamato ripetutamente per fornire gli elementi a sua conoscenza.
A Roma inizia con un interrogatorio di 12 ore il 4 febbraio 1993, un mese dopo ci saranno gli arresti eccellenti che abbiamo già sottolineato. Si ripercorrono seguendo l’accurata rievocazione del libro anche quei momenti iniziali, confusi e incomprensibili allora, più chiari dopo, inequivocabili adesso. Come i tentativi di incardinare il procedimento a Roma, perché non ci sarebbero stati problemi per gli inquisiti. Magistrati compiacenti? Alcuni segni Bernabè li aveva già percepiti, poi le inchieste giudiziarie di Perugia, competente per i procedimenti sui magistrati romani, lo confermarono con delle condanne.
Vittima incolpevole Sergio Castellari, il direttore del ministero delle Partecipazioni statali con cui Bernabè si incontrava per i programmi di investimento dell’Eni prima che andasse in pensione, e racconta come si lamentasse “con le lacrime agli occhi dell’accanimento” contro di lui del PM romano. “Non capiva perché lo volesse a tutti i costi arrestare quando era noto che nella vicenda Enimont non aveva avuto alcun ruolo. Gli dissi che doveva avere fiducia: la verità sarebbe venuta a galla e ne sarebbe uscito a testa alta”. Poi l’amara conclusione: “Ma evidentemente l’eccessiva pressione mediatica lo aveva schiacciato, umanamente e moralmente. Forse fu proprio questo accanimento vissuto come ingiustizia a spingerlo al suicidio”.
Risultò poi che la richiesta di arresto di Castellari serviva a radicare l’inchiesta a Roma sottraendola ai magistrati milanesi di Mani pulite, “un atto di grande cinismo”, diremmo di perfidia disumana, legato a un “disegno sottile”: deviare l’inchiesta facendola indirizzare essenzialmente sulla valutazione di Enimont, ben sapendo che la perizia era blindata e non costituiva reato il fatto che nella Giunta, pur se su pressione di determinati componenti, si fosse scelto un prezzo vicino al massimo della forchetta indicata dai valutatori.
Invece “il reato lo aveva commesso chi aveva preso tangenti per consentire a Gardini e ai suoi alleati – Varasi, Vernes e Prudential Bache – di realizzare benefici non dovuti”. E’ stata poi una consolazione ancora più amara il rinvio a giudizio di quel PM romano “per aver compiuto atti contrari al suo dovere di magistrato in quanto stabilmente retribuito perché ponesse le sue pubbliche funzioni al servizio degli interessi di Danesi e Pacini Battaglia”. Parole come marchio d’infamia.
Ma le vie della corruzione sono infinite: “Dall’inchiesta emerse che Eni aveva deliberato di versare l’importo al venditore in anticipo rispetto al closing. Parliamo di 2.805 miliardi di lire, una cifra che generava per Montedison 700 milioni di lire al giorno di interessi bancari”.
E non basta: “Ma emerse un fatto ancora più grave. Eni aveva speso altri 1.360 miliardi per emettere un prestito obbligazionario da scambiare con i titoli Enimont in possesso delle minoranze azionarie”; e chi aveva un peso rilevante tra tali minoranze? Guarda caso, proprio Varasi, Verner e Prudential Bache “i quali avevano acquistato l’11% di Enimont nell’interesse di Gardini e in violazione degli accordi con Eni”; e dietro le apparenze di una normale manovra societaria risultò che “lo scambio tra azioni e obbligazioni avesse l’unico scopo di riconoscere loro lo stesso prezzo per azione pagato da Eni a Montedison (comprensivo di premio di maggioranza)“, che era nella fascia alta mentre Bernabè aveva sostenuto la fascia intermedia, esclusa quella minima perché poteva sembrare una svendita della chimica pubblica se Montedison avesse deciso di acquistare Enimont invece di rinunciare, nello sciagurato “patto del cowboy” di cui abbiamo già parlato. Chi “pensò male” c’indovinò, tangenti miliardarie alla base di tali operazioni.
Il 2 dicembre 1998 l’ultima testimonianza di Bernabè, alla Procura di Perugia. “Erano trascorse due settimane dalla mia uscita da Eni”, ricorda, e conclude: “Avevo traghettato Eni fuori dalla tempesta giudiziaria, l’avevo risanata e rilanciata, portandola in Borsa, avevo respinto gli attacchi furiosi di chi s’era arricchito alle sue spalle, avevo dovuto combattere in totale solitudine per sette anni, e tanto mi bastava”.
Una nuova sfida lo attende, quella di Telecom Italia, al contrario di quella nell’Eni sarà tanto breve quanto aspra: sempre la politica ma anche la mala finanza in campo, in un collusione perniciosa. Faremo la conoscenza dei sedicenti “capitani coraggiosi”, corsari dediti alla speculazione senza scrupoli nell’impensabile condivisione da parte di chi doveva essere il loro più acerrimo avversario: il leader del comunismo italiano, “pro tempore” presidente del Consiglio, che invece appoggiò in tutti i modi la loro scorreria. Parleremo presto di questa nuova tappa di un’odissea sempre più coinvolgente.
Info
Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. Il primo articolo del presente servizio è uscito in questo sito il 20 novembre, i prossimi 3 articoli usciranno tra il 22 e il 24 novembre 2020.
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Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: lavocedinewyork.com, it.wikipedia.org, archiviostoricoeni.it, it.wikipedia.it, pinterest.it, repubblica.it, pucinella291forumfree.it.,wilkipedia.org, lavocedelelvoci.it, arpattoscana.it, ilrestodelcarlino.it In apertura, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari a sin., e il presidente della Montedison Raul Gardini a dx; seguono, Gianni De Michelis ministro delle Partecipazioni Statali 1980-83, e Franco Reviglio, presidente dell’Eni 1983-89; poi, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni 1989-93, e Raul Gardini, presidente della Momtedison 1987-91; quindi, Lorenzo Necci, presidente di Enimont, prima di EniChimica ed Enoxy, poi di EniChem, e Sergio Cragnotti, amministratore delegato di Enimont; inoltre, Franco Piga, ministro delle Partecipazioni Statali 27 luglio-26 dicembre 1990, e Pierfrancesco Pacini Battaglia, della banca svizzera Karfinco; infine, Polo chimico della Montedison a Ferrara e, in chiusura, Polo chimico dell’Eni a Ravenna.