Asdrubali, lo spazio istantaneo, e il “Navigator” di Negri al Museo Bilotti

Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini in www.arteculturaoggi.com il 18 maggio 2018. Il “Navigator” di Negri – una delle due mostre recensite – ha precorso il “navigator” del “Reddito di citttadinanza”. E’ in un’ambientazione e in un contesto artistico, itinerante come quello di 5 Stelle e altrettanto misterioso, ma forse meno evanescente nella sua presenza evocatrice di riferimenti e rimandi per molti versi suggestivi.

Il “Navigator” di Matteo Negri, ai Giardini Umberto I

di Romano Maria Levante

La mostra “Gianni Asdrubali. lo spazio impossibile” espone al Museo Bilotti presso l’Arancera di Villa Borghese a Roma, dal 16 aprile al 10 giugno 2018, le sue caratteristiche composizioni fatte di segni concatenati  molto  particolari in una concezione di spazio sofisticata  e problematica, sono 16 gruppi di “pitture industriali su tela” dai caratteristici intrecci nell’omogeneità cromatica di ogni opera,  all’interno di un’ampia gamma di tonalità pastello; la mostra è a cura di Marco Tonelli, che ha curato anche  il catalogo di Preraro Editore. In contemporanea la mostra “Matteo Negri, Navigator Roma”. a cura di Laura Cherubini, catalogo Silvana Editoriale, sembra  invece all’estremo della semplicità trattandosi dell’esposizione di un poliedro argentato nei diversi angoli di Villa Borghese, ma anch’essa presenta aspetti reconditi. 

Asdrubali,, “Tromboloide,” 1993

Lo “spazio impossibile” di Asdrubali 

E’ una mostra sorprendentemente, in apparenza  monocorde, a parte le varianti cromatiche, dato che le composizioni sono costituite da intrecci segnici con molti elementi di simmetria, e le varianti non sono molte tra una composizione e l’altra. L’impressione di omogeneità è la prima che si ricava. 

Ma basta conoscere la biografia dell’artista per non limitarsi a una  considerazione superficiale. La sua ricerca è iniziata negli anni ’80. e si è mossa intorno alla contrapposizione e fusione degli opposti per conseguire un nuovo ordine, che concili forma e antiforma, ed esprima le contraddizioni della vita che trovano sempre un punto di equilibrio.  

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“Tromboloide”, 1992

L’avvio della  sua costruzione pittorica è il vuoto considerato come fonte di  energia, come tensione vitale perché l’assenza più che la presenza  può  provocare il pensiero, quindi  l’azione e il movimento .  Sentire che l’azione deriva dal vuoto considerato  protagonista  e non negazione  non può che sorprendere  e comunque incuriosire e spinge ad approfondire le basi concettuali dell’arte di Asdrubali.

E per questo cominciamo dalle sue parole: “Non c’è spazio, piuttosto  si tratta del suo annullamento, schiacciamento e annullamento delle dimensioni , delle velocità. Questo schiacciamento delle dimensioni nella frontalità della superficie tende a gettare l’infinito – tutto l’infinito del dietro  – nel davanti e nel fuori dalla superficie”. Ed ecco il suo pensiero sulle visioni dello spazio infinito: “Un’opera d’arte è tale quando il suo limite è illimitato, per cui non c’è bisogno di uscire dal ‘quadro’, ovvero di sconfinare dall’opera verso il fuori, perché il fuori è già nell’opera. Fuori dal limite dell’opera non c’è l’infinito ma solo il quotidiano”.

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“Tetrazoide”, 2000

Una concezione, la sua, che lo porta a cercare l’arte nella natura senza scavare nel profondo, perché le forze naturali operano nella superficie , dove tutto si manifesta: “la necessità, l’istinto, il piacere”. Sicchè “la profondità è nella superficie”.

Siamo ancora alla compresenza degli opposti, agli ossimeri  virtuali, e in questo contesto i canoni  classici della pittura, , spazio e tempo, forma e struttura, colore e bordo del quadro, anche se restano fondamentali, vengono rivisti.

“Lo spazio, il vuoto è nella materia stessa, e la profondità non è al di qua o al di là delle superfici, ma nella superficie stessa”, concezione sfociata  nel suo caratteristico “segno.spazio” tradottosi  in titoli criptici  che sprimono,  secondo il curatore Marco Tonelli, “un’identità indistinguibile e primigenia della sua pittura, come se volesse definire un campo di mattoni fondamentali”.  E lo spazio è legato a un’istantaneità  di ordine filosofico  intesa come attimo presente,  “una superficie compressa, bidimensionale o unidimensionale dove avviene tutto , dove tutto è già avvenuto e dove tutto continuerà ad avvenire” sempre secondo Tonelli.

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“Zoide”, 2001

Il curatore fa riferimenti alla fisica subnucleare e ai campi granulari per gli elementi primari, parlando do “scenario quantistico di Asdrubali”. E lo applica al rapporto tra lo stimolo mentale che determina un gesto e il suo effetto, “che non è decidibile (appunto non programmabile né progettabile), è una sorta di azione di cui consoci il punto di partenza, osservi quello di arrivo, sai il perché, ma non cosa c’è nel mezzo né come si sia arrivati alla superficie organica visibile sulla superficie della tela”.  E’ inconoscibile, o almeno non è possibile direzionarlo, né  a livello della fisica né nell’azione concreta. ma proprio da questo vuoto nasce la potente energia come nella creazione del mondo, che esplode sulla tela nella pittura di Asdrubali.

Una pittura legata al pensiero la sua, dunque, di  tipo gestuale,  che si manifesta in un rapporto temporale tutto da definire tra l’impulso mentale e la realizzazione. “Se la pittura di Asdrubali è istantanea, è spazio-tempo reificato, come si relaziona col fatto che ha bisogno di tempo e di spazio ordinari per manifestarsi?”

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“Stoide”, 2006

Forse la risposta si trova in queste parole dell’artista: “Si tratta di iniziare il tempo, cioè di far partire un evento in stato contraddittorio, dove l’inizio è contemporaneamente la fine.  L’annullamento di queste distanze tra inizio e fine è lo stato contraddittorio di un’impossibilità che permette, attraverso la tensione del vuoto, lo scatenarsi di un’azione nel tentativo di raggiungere quel punto limite di un tutto che non c’è”.

Delineato per sommi capi il complesso retroterra concettuale della sua pittura, vediamo che  i caratteri salienti sono nodi e trame, legacci e strutture che si ripetono, sia pure con varianti significative, a dimostrazione che vuole spezzare la materia, e farlo velocemente nella misura temporale quantistica.

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“Steztastess”, 2011

Addirittura il curatore individua “il pacchetto quantizzato, quella dimensione fondamentale, oggettivamente misurabile per ogni opera o addirittura per ogni serie di opere, quella dimensione costante, quel quanto di energia che dà origine alla struttura complessa”.  E aggiunge che “la pittura di Asdrubali è non solo otticamente tagliata ai margini, ai bordi, ma lo è anche fisicamente, nel senso che nel dipingerla ha dipinto effettivamente anche il vuoto a fianco della tela, dando luogo a figure interrotte che però si ricollegano in ogni senso in un vero e proprio multi verso… Il gesto del pennello non si interrompe sulla tela ma, per completarsi e rendersi visibile sulla superficie, continua oltre”.  

Non dimentichiamo che per l’artista la tela è un “campo di forze che confluiscono in essa  e che non nascono in realtà dal gesto (in esso semmai si traducono), bensì da una struttura mentale e spaziale insieme , da un vuoto che sulla superficie si rende istantaneo , si fa spazio e tempo, senza perdere la sua caratteristica di autonomia e di originari età”. In questo processo  conta l’attrito delle superfici come conta il colore, nell’unidimensionalità e nella sovrapposi zio ne di strati, nella  corrispondenza tra gesto e segno, nella riduzione della forma a geometria,  del colore come sintesi e misura di tempo ed energia.

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“Maciada”, 2014

“Non più il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, come per l’euclideo Kant – commenta  Tonelli – ma il vuoto intorno a me  e lo spazio dentro di me”  in un’accezione non euclidea ma quantistica  e relativistica che assimilando tempo e spazio in una sola dimensione curva  sembrerebbe sfociare su un a pittura con piani incurvati, mentre quelli di Asdrubali sono schiacciati. 

Il motivo è che non tutto della sua concezione viene portato alle estreme conseguenze, il curatore lo spiega così: “Semplicemente la sua rice4ca pittorica ha dovuto guardare oltre le dimensioni psichiche e fisiche della pittura tradizionale, senza negarne l’esistenza bidimensionale, senza rinunciare alla pratica pittorica in sé, all’uso del colore e del pennello, insomma radicalizzando quegli elementi fondamentali non per negare , azzerare o concettualizzare, ma per  provare a rifondare la pittura nella sua contrattezza fisica, nei suoi collassi istantanei di materia, forza, gesto, energia, segno, immagine”. E cero non è poco!-

La sua non è vera astrazione, Lorenzo Mango lo ha accostato a Pollock vedendo in entrambi una “tessitura strettissima tra fisicità, emozione, gesto, intuizione estetica, genesi della forma”. Flavio Caroli lo ha collegato al movimento “Nyuova geometria” diffusosi a livello internazionale a metà degli anni ’80,  definendo la sua “astrazione eroica”. Filiberto Menna ha parlato di “pittura di affermazione” Bruno Corà vi vede una “spazialità sferica, adimensionale, indescrivibile a parole”.

Cerchiamo di descrivere a parole le opere esposte, spriamo non sia una missione impossibile.

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Zeimekke”, 2015

La sequenza  di opere  di Asdrubali in un trentennio

Molte le caratteristiche comuni delle opere di Asdrubali, in una continuità di contenuti unita ad un’evoluzione stilistica evidente senza interruzioni né brusche innovazioni. La caratteristica più evidente è la dimensione delle opere, sempre notevole, fino quasi a 4 metri, come se invece di pitture, come sono nella sostanza, fossero installazioni di un’altra generazione più avanzata, anzi avveniristica, del resto è collegata alla quantistica nella complessa costruzione gestuale e nei rapporti spazio-tempo. non solo, ma nelle parole di Corà, tutti i dipinti “si dimostrano ‘aperti’ sui quattro lati e interpretano il limite che tuttavia non rappresentano, essendo essi stessi limite esemplare del processo pittorico”.

Partendo dal lontano “Muro magico” del 1979, si passa a “Bestia”, 1986,  con le “Nuove Geometrie” e “Aggancio”, le prime grandi tele di “pittura industriale” con figure in bianco incorniciate su fondo nero, che si rafforza in “Eroica” nel 1988.  Per Mango “questa essenzialità si disarticolava, si frantumava, il segno  si moltiplicava e la superficie, anziché essere il luogo della  un’apparizione momentanea, diventava occasione di una costruzione segmentata ed analitica”.  

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“Sverzeke”,2016

Il colore interviene nel 1990 con “Malumazac”, in particolare il celeste e il rosso, dove “ciò che emerge è la sintesi, la concentrazione attorno ad una unità, ad un segno-gesto  che non si espande sulla superficie ma la anima stagliandosi al suo interno come un’isola di energia”.  

Poi nel 1992 sembra si torni indietro, al bianco e nero, con “Tromboleide”, con la vistosa variante della  trasformazione delle grandi geometrie in un viluppo labirintico di segni, la “figurazione futura” da non confondersi con l’astrazione perché, come scrive sempre Mango, “”il Tromboloide in quanto corpo  della pittura non è né astratto né figurativo. E’ segno assoluto”. Si sviluppa così: “I Tromboloidi montati l’uno sull’altro fino ad invadere la parete creano un ritmo tratto, sincopato, ellittico. Il segno dell’uno si infrange dentro quello dell’altro, la netta essenziale semplicità, il timbro cristallino dell’immagine… assume i toni e il respiro tonante  del grande affresco”.   

Alle geometrie bianco-nere possiamo riferire le parole di Corà:”La tensione è continua, ma il gesto è segmentato, come i segni a pittura acrilica  che tracciano sulla tela i diversi tipi di rete nervosa”. Ed ecco come: “Sulla tela preparata in bianco, Asdrubali  stende un reticolo nero e sul nero un reticolo bianco molto diluito, al punto che gran parte di essa lascia trasparire il nero sottostante”. 

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“Zanorre”, 2017

Siamo al 2000, “Tetrazoide” riporta le grandi geometrie in nero, che nel 2001 si sciolgono in percorsi con lo sporadico intervento del viola, finché nel 2004  con “Azota” l’evoluzione porta l’artista  alla forma espressiva che si consoliderà sempre più mantenendo il nuovo orientamento. Quale? Gli intrecci non di segni astratti ma di elementi materici che ricordano i cesti di vimini, in colorazioni discrete ma precise sul verde e il celeste.

Un ritorno alle geometrie bianche su fondo nero nel 2006 con “Stoide”, mentre con “Zigroma” nel 2008  torna dominante, a parte una insolita colorazione gialla, bianco che resta in “Steztastess” del 2011 ma reintroducendo i segni materici che ricordano il viluppo di vimini.  

Questa linea evolutiva esplode in  “Maciada” nel 2014, con i viluppi in verde e nero. E si rafforza ulteriormente in “Zeimekke” del 2015  nei colori rosso, verde e viola. Nelle superfici colorate – osserva Corà – “in ogni tracciato del colore si distinguono zone di diversa intensità e saturazione cromatica dovute al gesto che al contempo stende e asporta il colore  a causa della tensione e della rapidità”. Con questo effetto: “Le zone di minore intensità cromatica, quelel cioè dove l’acrilico è stato steso e sottratto, si rendono dialettiche con quelle parti ‘vuote’ da segni e da colore che occhieggiano e contribuiscono alla forte l’aspetto  mentale. La sperimentazione sui materiali apapre imprescindibile”lte rontalità dell’intera pittura”.

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Asdrubali, “Zesenne”, 2017

A riprova della continuità espressiva, nell’evoluzione, con “Sverzeke” del 2016 tornano i viluppi in bianco-nero pur se prevalgono quelli cromatici, in verde, celeste e rosso. Ma poi, nel 2017, con “Zanorre” e “Zesenne” l’esplosione dei viluppi cromatici è assoluta e incontrastata, in verde e celeste, viola e rosso, i colori fondamentali del “quark”, per ricollegarci al riferimento quantistico.

In conclusione, torniamo alle basi poste da Asdrubali alla sua arte: “Io costruisco il  vuoto”, e ribadisce “si può dire che la mia pittura è piena di vuoto”. E perché piena? “Il vuoto è solido come il marmo”. Un ossimoro intrigante che riconduce ai misteri insondabili dell’arte e, se si vuole, della scienza, tanto più nei campi avveniristici della quantistica cui l’artista si riferisce espressamente.

Il Navigator esposto in mostra, sulla parete l’immagine con la Fontana del Mosè;

Il “Navigator” di Matteo Negri approda a Villa Borgese

“L’operazione di Matteo Negri è  tutta nell’interrogarsi sul senso della scultura nell’epoca della de materializzazione digitale . La tensione è quella a trattenere reale e virtuale insieme. Nonostante la  grande attenzione alle materie è forte l’aspetto mentale. La sperimentazione sui materiali appare imprescindibile”. Così  presenta la mostra la curatrice Laura Cherubini .con l’invito implicito a non fermarsi alle apparenze, un semplice poliedro dimensioni contenute,il “Navigator”, itinerante per Villa Borghese, ripreso in istantanee che lo inquadrano nell’ambiente, tradotte in cartoline esposte.

E basta scorrere l’itinerario artistico dell’autore per entrare in sintonia con una realtà ben più complessa. Nella sua formazione all’Accademia delle Belle Arti di Brera  ha imparato dal maestro Paolo Gallerani la conoscenza dei materiali più diversi e soprattutto del disegno; ma poi ha mostrato uno spirito ironico e creativo, servendosi anche della meccanica nelle macchine che si battono su un ring, nelle bombe di profondità  e nelle mine colorate in cui fa “slittare” la violenza verso una dimensione ludica, e della caratteristica superficie forata del “lego” per le fusioni in bronzo dei “lego bricks”, fino alle torsioni che portano ai “Nodi”. Ivan Quaroni lo collega sia alla Pop Art e al Minimalismo americano, sia all’Astrattismo europeo.  

Immagine frontale del Navigator con la Fontana del Mosè

Questo un decennio fa, mentre nel 2015 sorprende ancora con la sfera fluorescente che disegna su un tappeto delle lettere casuali e con lavori cui viene dato il titolo in giapponese di “Kamigami”  “Kamigami”‘  nei quali la scultura riflette su superfici a specchio immagini che sono fotografate. Precorre il “Navigator” e consente di decifrarne il significato recondito, che attiene ai rapporti tra scultura (l’oggetto riflesso) e pittura (le immagini fotografate) e tra i diversi punti di vista, tra unicità  (della pittura) e molteplicità (della scultura).

In questo secondo caso l’osservatore non è più in posizione statica ma si muove di propria iniziativa per cogliere le differenze plastiche; addirittura il “Progetto per casa Testori” – ha scritto Daniele Capra –  spinge “il visitatore ad essere nel contempo osservatore e uomo in movimento,cioè spettatore e ballerino”, dato che viene costretto a girare intorno alla casa per guardare dalle finestre all’esterno le opere poste nelle stanze all’interno; per lo più sculture che però si guardano da un punto di vista “unico”, statico,  senza girarci intorno come avviene quando sono accessibili, ma poiché si gira intorno all’edificio c’è pure il dinamismo. Tuttto ciò fa dire a Giuseppe Frangi che sono “sculture pitture” e all’artista che “non si tratta di una mostra di scultura o di pittura ma è una mostra che riflette sul ruolo  dell’opera ‘pubblica”.

Il Navigator con il Tempio di Esculapio

A questo punto nella produzione artistica di Negri irrompe “Navigator”,  due coni sovrapposti uniti alla base, come una trottola, che Albero Fiz definisce “una specie di scultura portatile, un oggetto specchiante e misterioso che si attiva solo in relazione all’ambiente circostante”, e lo fa tra continue interferenze luminose “in un vortice d’immagini che sovrappongono e si ribaltano senza lasciare segni tangibili”.  

La prima comparsa della cultura-trottola fu plateale, la lanciò  in mare dal molo di Boccadasse a Genova, per far combaciare la sua superficie reale con quella riflessa nell’acqua; ma parallelamente la fotografò  sospesa mentre rifletteva “l’attorno urbano e sociale”, sono sue parole. Con “Navigator” si va ancora avanti, il nome viene dal titolo di un film di fantascienza del 1986  con un ‘astronave dalla stessa superficie argentata le immagini del paesaggio terrestre attraversato; nel film l’intelligenza aliena è all’interno e vuole scoprire ciò che c’è all’esterno guidata da un bambino. Lo stesso “Navigator” all’apparenza una trottola infantile, che va alla scoperta dei misteri più intriganti.  

il Navigator al Pincio con un Busto del Brmante

E quale migliore collocazione di Villa Borghese, dove il cardinal Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V. volle non solo una varietà sterminata di piante, essenze e fiori, ma tempietti deliziosi e costruzioni monumentali, statue e bassorilievi, che ne fanno  uno straordinario museo en plein air. In questo ambiente favoloso, dice l’artista, “il luogo incantevole diventa lo scenario che ho immaginato nelle stanze. Che in questo modo diventa lo specchio della condizione incantevole del giardino”.

Vediamo “Navigator” appeso all’interno Museo Bilotti, ma ciò che conta sono le fotografie che lo ritraggono  negli angoli più caratteristici del parco, ciascuno dei quali ha una sua storia che viene declinata con tutte le sue valenze, anche simboliche: ed ecco il doppio prisma argentato riflettere il panorama lontano o le evidenze ambientali e artistiche vicine nella Terrazza del Pincio e nella Fontana del Mosè, nel Viale dei bambini con i busti del Bramante e nei Giardini Umberto I, vicino ai  Templi di Diana e di Esculapio, a Piazza di Siena e all’Arancera con i suoi fregi artistici fino a “entrare” nel Museo Bilotti e collocarsi al centro della sala con esposte immagini del tour esterno.

Il Navigator al Pincio con una statua acefala

Sono ben 61 le Stampe fine art prestige su cartoncino formato cm. 10 x 15,  tipo cartolina, che ne documentano l’escursione romana nel 2018. Non è un mero tour fotografico, è un momento importante del percorso artistico di Matteo Negri che – sono le parole conclusive della curatrice Cherubini – “si situa nella continua dialettica tra scultura e pittura, tra senso del tatto e senso della vista e ci parla del tempo dell’attesa e della necessità d’instaurare una nuova relazione con lo spazio. Un en plein air tra quattro mura stupefatte di spazio…”.

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ll Navigator nell’Arancera del museo Billotti

Info

Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Via Fiorello la Guardia 6, Roma. Da martedì a venerdì e festivi ore 13,00-19,00  (ottobre-maggio  ore 10-16),  sabato e domenica  10,00-19,00; lunedì chiuso; si entra fino a mezz’ora dalla chiusura). Info 06.06.08, www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it.  Mostra Asdrubali, catalogo: Gianni Asdrubali, “Lo spazio impossibile“, a cura di Marco Tonelli, Prearo Editore 2018, pp. 188, formato  23 x 27; Mostra Negri, Matteo Negri, “Navigator Roma”, Silvana Editoriale, aprile 2018, pp.98, formato 15,5 x 20,5, bilingue italiano-inglese. Dai due Cataloghi indicati sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla inaugurazione delle due mostre, tranne le n. 4, 8, da 14 a 17, tratte dai rspettivi Cataloghi, si ringraziano l’organizzazione della Galleria e i due Editori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Dopo l’apertura con il “Navigator” di Matteo Negri, le successive11 immagini sono della mostra di Asdrubali, le 7 che seguono della mostra di Negri. In apertura, il “Navigator” di Matteo Negri ai Giardini Umberto I; seguono, di Asdrubali, “Tromboloide” 1993 e “Tromboloide” 1992; poi, “Tetrazoide” 2000 e “Zoide” 2001; quindi, “Stoide” 2006, e “Steztastess” 2011; inoltre, Maciada” 2014, e “Zeimekke” 2015; ancora, “Sverzeke” 2016, ““Zanorre” e “Zesenne” 2017; segue Negri, anno 2017, a partire da Il Navigator esposto in mostra, sulla parete l’immagine con la Fontana del Mosè; seguono, immagine frontale del Navigator con la Fontana del Mosè, e il Navigator con il Tempio di Esculapio; poi, il Navigator al Pincio con un Busto del Brmante e con una statua acefala; infine, il Navigator nell’Arancera del museo Billotti e, in chiusura, Stampe fine art prestige in cartoncino sulle presenze del Navigator in luoghi romani di pregio.

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Stampe fine art prestige in cartoncino sulle presenze del Navigator
in luoghi romani di pregio

Patterson e Quinn, “un’arte che offusca ma chiarisce”, alla Mucciaccia

Ripubblichiamo l’articolo sulle due mostre di Patterson e Quinn uscito senza immagini in www.arteculturaoggi.com nel giugno 2018.

di Romano Maria Levante

Dal  24 maggio al 14 luglio 2018 alla Galleria Mucciaccia di Roma, la mostra  “Richard Patterson  e Ged Quinn” presenta una serie di opere di due artisti inglesi che hanno dato un’impronta particolare all’arte concettuale non rinunciando a un uso spettacolare del mezzo pittorico per calarsi nei problemi di una società inquieta e confusa per la perdita dei valori e l’assenza di prospettive. La mostra è curata da Catherine Loewe, Catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.

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Richard Patterson, “Three Times a Lady”, 1999,

I due artisti presentati in parallelo alla Galleria Mucciaccia  di Roma sono inglesi formatisi nel clima degli anni ’80 allorché, nell’era della Tatcher,  il Regno Unito era in preda a un profondo ripensamento sul piano sociale, culturale e politico, con movimenti iconoclasti  in una situazione economica resa precaria dal degrado urbano e dalla disoccupazione crescente. 

L’arte era attirata dal tema cruciale dei valori perduti senza prospettive positive con quello che viene definito il “post-Punk graffiante”,  ma anche, in direzione opposta,  dall’evasione  verso motivi fantastici e mondani, dal cabarettismo al divismo, nel clima reso precario dalla disoccupazione, in un “Nuovo Romanticismo”.

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“Come to Mama” , 2000

Catherine Loewe, la curatrice, nel  descrivere questo scenario,  sottolinea come la divisione  sopra delineata  venne superata dal convergere di una serie di fonti, dalla letteratura alla filosofia, dal cinema alla musica, dalla pubblicità alla moda, mentre l’arte prese le direzioni più diverse dal cubismo all’espressionismo astratto, dal Neo impressionismo alla Pop art, dal Minimalismo al Concettualismo che sembrò segnare il superamento della pittura.

Invece per i due artisti britannici il Concettualismo che pone l’idea al centro dell’opera, al di là della forma espressiva che può anche mancare, viene vissuto con gli strumenti pittorici, anche se contaminati da altri ingredienti,  questo accresce il loro valore perché, pur riconoscendo “la condizione post moderna di frattura, decostruzione, analisi e affanno”, vi partecipano rivendicando “la lotta dell’immagine, il suo  potere simbolico,la sua bellezza a volte fastidiosa”.  Il loro concettualismo, dunque, non rinuncia, dunque, a servirsi del lato estetico e figurativo dell’arte, al contrario se ne avvale per rafforzare, con la spettacolarità che ne deriva, l’idea,il  concetto su cui si basa la loro creazione.

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“The Wedding Party” , 2005

“Un’operazione che può essere considerata senza ombra di dubbio rivoluzionaria”, commenta la Loewe, e ne definisce così i risultati: “Possiamo dire di rimanere con gli occhi incollati  quando ammiriamo una loro opera, affascinati dall’assoluto talento che manifesta, che sia di grandi o ridotte dimensioni, astratta o realistica, non importa quanto sia di lusso la superficie su cui si presenta, di certo s può definire tutt’altro che compiacente”.

 E aggiunge: “L’idea di pittura di Patterson e Quinnè quella della resa di un pensiero visibile, di una lettura testuale, di un itinerario  personale fatto di tornanti e curve, , che sia in grado insomma di percorrere mete mondane o sublimi”. 

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“Country Life”, 2014

Per concludere: “Si tratta di un’arte in cui le relazioni tra cose si scontrano metaforicamente  e letteralmente, un’arte che offusca ma chiarisce nello stesso tempo”.

Con questa presentazione della curatrice, passiamo ai due artisti  considerandoli ovviamente in modo separato, con l’ansia di verificare tali  intriganti premesse, commentando le loro opere che a uns prima visione d’insieme  hanno un impatto cromatico e compositivo veramente spettacolare.

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“Marianne Leflange” , 2012

Richard Patterson, astrazione e figurativo

E’ un artista che utilizza, oltre alla pittura, fotografia  e stampa, i suoi quadri sono anche multistrato realizzati con una serie di tecniche compreso il “ready made”,  in una contaminazione e compresenza che non consentono di classificarne lo stile.

Ma il suo concettualismo che pone l’idea al centro della composizione, pur se si avvale di effimere componenti  prese  dalla pubblicità e dal cinema, dal pop e quant’altro – ha  fondamenta filosofico come provano i suoi scritti.

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“Hester van Tojerstraap”, 2014

La Loewe commenta così: “Le sue opere possono essere viste come maschere o schermi che nascondono  una meditazione melanconica  sulla condizione contemporanea”.

Dalle sue confidenze all’amico  curatore museale Toby Kamps abbiamo appreso  la sua competenza e il suo amore per le auto sportive, in particolare la Jaguar e la sua immersione nella contemporaneità in tutti i suoi aspetti, con i suoi commenti graffianti e disinibiti.

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“Woman at Her Toilet (after Degas)”, 2014

Il 26 agosto 2016 dice: “E’ buffo – quando vivevo a Londra, e specialmente alla scuola d’arte, avevo l’idea romantica che per essere un pittore avrei idealmente avuto bisogno della luce del Sud della Francia e che quello era il motivo per cui gli inglesi  non erano famosi per i dipinto veramente espansivi che denotano il desiderio per la vita. Invece, la luce inglese sembrava descrivere gli interni oscurati dei pub con troppi alcolici, sembrava essere momentaneamente celebrativa, poi malinconica., poi cospirante contro i nemici percepiti negli studi vicini, quindi generalmente offensiva ingaggiando il  massimo narcisismo, inventando soprannomi poco lusinghieri per altri artidti, incredibilmente spiritosa – pur mantenendo i livelli di metaironia di sospensione  dell’incredulità, e poi usando prevalentemente vernice marrone – o senza alcuna vernice, prima di passare a tutte le varianti di colore pantone tutti insieme in una sorta di mary Quant Explosion (che sarebbe stato un buon nome per una band)… Ora capisco che la luce di Londra può essere davvero  la luce dei pittori. Dei  pittori moderni”.

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“Blanco” , 2015

In un  altro momento, il  2 dicembre 2016:  “Avrebbero dovuto mettere un po’ di arte nelle automobili. Basta porre una piccola opera di Rauschenberg sul sedile passeggero o qualcosa del genere. Questo sarebbe stato ancor più spinto. Non  si è ancora arrivati al punto in cui l’arte moderna  consiste nel costruire sculture  dove puoi parcheggiare la tua moto d’epoca. Don Judd c’è quasi arrivato. Fa sculture che hanno le dimensioni giuste  per contenere bici più automobili, ma non è riuscito a fare due più due. Molto vicino. Eppure così lontano”.

“The Cherry Toolshed Door”, 2014

E infine, il 28 febbraio 2017: “Picabia e de Chirico sono sempre stati influenti su di me. Ho scritto la mia tesi sui tardi Gaston e de Chirico nell’86”.

L’attenzione alla pittura è molto viva, e la notizia sull’influenza di De Chirico  conferma quanto emerge dalle sue opere, l’immagine dell’artista che emerge anche dalle altre confidenze è di un personaggio disinibito e immerso nella contemporaneità più dissacrante, ma ancorato a dei valori e parametri artistici ben radicati.

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“A Matter of Life and Death”, 2015

Dalle opere esposte emerge uno straordinario eclettismo, si va dalle opere astratte con cromatismo leggero, fino ai colori violenti, alle composizioni con inserite fotografie, ai volti  che appaiono nitidi in un contorno variegato.

Le due prime opere che vediamo,  “Three Times a Lady” 1999, e  “Come to Mama”  2000, presentano lo stesso soggetto, una figura in piedi di impatto scultoreo, con due vesti cromatiche opposte, il primo con macchie di colri intensi come da pennellate violente, il secondo con un’uniforme rivestimento scuro, la cui superficie lucida, però, crea giochi di luce che rendono la figura viva e dinamica quanto quella colorata.

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“Those suny domes! those caves of ice” , 2015

“The Wedding Party”, 2005,  e “Country Life” 2014,  sono due composizioni astratte , la prima con colore dominante arancio e rosso in pennellate orizzontali, la seconda in tinta più delicata, sul giallo chiaro, anche qui con larghe campiture anche se in varie direzioni.

Altrettanto astratta “Marianne Leflange”, i diversi colori  accostati in modo armonioso non identificano alcun ritratto, come invece avviene per “Hester van Toojerstraap”, 2014, in cui le sembianze  sono abbastanza delineate pur se  l’approssimazione lo rende un grottesco d’aprés di un celebre van Gogh..Il grande olandese non è citato, come invece avviene per un altro grande in “Woman  at Her Toileet (after Degas)” 2014, c’è qualche sagoma che ricorda vagamente l’artista citato, ma non quanto Van Gogh l’altro.

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“Small Arm”, 1996

Accostiamo a questo dipinto, per la delicatezza delle sagome immerse in un cromatismo verde variegato, “Blanco”  2015, di bianco ci sono delle striature che rischiarano una composizione che ricorda un acquario.E’  invece di un verde dominante molto intenso con inseriti motivi rossi e gialli dati con forti pennellate, “The Cherry Toolshed Door”  2014, come gli altri  in un astrattismo fortemente cromatico.

Più cupi appaiono due dipinti del 2015, “A Matter of Life and Death”, dove il richiamo alla morte potrebbe spiegare il nero dominante  e  “Those sunny domes! those caveas of ice”, diversi dai precedenti anche sul piano compositivo, sebbene non si identifichi la raffigurazione; non siamo nell’astrattismo pittorico degli altri citati,  utilizza in modo quasi simile nei due dipinti sfere e strisce quasi fossero dei college gemelli.

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“Christina”, 2009

Ci sono due opere con elementi figurativi,  “Small Arm” 1996, il braccio sinistro con la manica della camicia arrotolata in primo piano, e   “Christina” 2009, addirittura unafotografia molto nitida della ragazza in motocicletta su base di alluminio con sotto una aggiunta pittorica, che ci introduce, per così dire, ai due dipinti nei quali spiccano chiaramente dei volti e non solo.

Il “non solo” riguarda i  grandi seni nudi della ragazza di cui si vede in alto il viso fino agli occhi, con sotto una sorta di autoritratto dell’artista invecchiato, mentre  la bocca della ragazza con la bella dentatura si ritrova due volte  tra grandi macchie celesti, è intitolata “Portrait o fan Artista s an Older man”. 2009.

Sono due visi giovani quelli che spiccano in “Modern Love” , l’opera più recente tra quelle esposte essendo del 2017, in primo piano la figura maschile, viso e busto, sulla sinistra il profilo del viso femminile, tutto molto nitido in ineccepibile figurativo con  uno sfondo anch’esso ineccepibile.

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“Portrait of the Artist as an older man”, 2009

Questi cospicui inserimenti figurativi li troviamo anche in opere non esposte, 3 anch’esse recenti, “The Studio”, una immagine quasi fotografica di un uomo chino che lascia le sue orme sulla neve, forse nella tormenta, e “Dr. Soaper”,  un uomo seduto alla scrivania, tutto figurativo,  quadri alla parete e applique compresi, le mani che stringono un foglio, ma la testa è sostituita da un viluppo cromatico astratto. Mentre in “Back at the Dealership Culture Station  no. 5”  le immagini dell’uomo avanti all’auto rossa e dello scorcio della gamba femminile con la pistola, collegati da alcune linee colorate,  sono figurative, l’opera è del 2005!

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Richard Patterson, “Modern Love”, 2017

Ged Quinn,  pittorialismo fotografico

Anche Quin, come Patterson, utilizza  dei supporti fotografici alla pittura, ma in modo molto diverso, e il suo non è mai astrattismo,  i suoi quadri  hanno una base prevalente figurativa sulla quale sono inseriti altri elementi, anche di tipo astratto ma con  fondali paesaggistici.

David Elliot gli riconosce il  merito di non aver rinunciato alla pittura quando, con la sua formazione negli anni ’80,  poteva essere invogliato a farlo dato che le avanguardie rifiutavano il risveglio pittorico in atto in quel periodo. E precisa: “Lo sviluppo di Quinn dagli anni ’90 fino ad oggi, è stato caratterizzato dal rifiuto delle associazioni, degli stili, o delle  formule semplici del post-modernismo, in uno spostamento in avanti verso una pratica sintetica che ha accresciuto mezzi visuali ormai assodati di sviluppo della coscienza o di creazione della conoscenza”.

Anche se le fotografie e le pellicole, i fotomontaggi e  i media digitali  hanno avuto notevole influenza in lui, non ha dato esclusività a questi apporti, ma si è mosso “verso un attacco più dolce, più aperto, che metta insieme  immagine, illusione, influenza attraverso la pittura”.  Nel suo“Hegel’s Happy End” del 2012 , non esposto in mostra, che segnerebbe il rifiuto  “dell’iterazione visuale dell’idea Hegeliana di tesi-antitesi-sintesitesi”, questa contaminazione di diversi elementi  è espressa mediante un vaso di fiori spettacolare alla Bruegel, con alla base del vaso, sotto all’esplosione floreale, la fotografia di una madre col suo bambino in un giardino, mentre  alato del vaso ci sono un piccolo busto di Hegel inserito in uno strano basamento ligneo a destra e  un altro piccolo basamento con sopra una composizione di piccole sfere a grappolo.

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“Saint Paul”, 2014

Hegel non è il solo personaggio cui fa riferimento Elliott nell’inquadrare la figura  el’opera di Quinn. Cita anche  Kurt Schwitters , l’inventore del “Merz”, le lettere finali di Kommerz, con il quale assemblava in modo casuale i più svariati elementi senza valore, dai biglietti del tram e dalle carte di caramelle ai ritagli di giornale e oggetti buttati via.  I suoi “Mertzbau” , caotici in modo incomprensibile, riflettevano un’intuizione che, secondo Elliott,  era “basata su un ordine  insospettabile, innocente, primordiale”.

Non è un mero riferimento culturale, nell’opera di Quinn anch’essa non esposta in mostra, “What the Lark Said (Death and the Maiden”, inserisce al centro di un paesaggio con alberi, corso d’acque e cielo solcato da nuvole, il “Merzbau” con una serie di riferimenti che vanno fino ad Auschwitz.

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“Peter, Paul, Mary” , 2014

Non possiamo soffermarci  su questo pur fondamentale dipinto, un altro personaggio citato in relazione a Quinn è Aby Warburg, grande teorico e critico dell’arte tedesco, sostenitore della tesi dell'”enpatia”, cioè l’idealizzazione con la bella forma delle paure per una nuova consapevolezza. Quinn ne trasse elementi per “trattenere  lo spazio ‘teatrale’ del punto di prospettiva evanescente sovrapponendolo ad una superficie luccicante fatta di immagini diverse, connesse cripticamente da gesti, sensazioni, movimento spazio ed ethos più che dalle parole”.

Ma c’è anche Heidegger tra i personaggi evocati da  Elliott, e questa volta appare in un dipinto esposto in mostra, di 50 x 60 cm, piccole dimensioni rispetto agli altri, “The Book of Two Ways” 2013, raffigura la testa del pensatore giovane che guarda avanti, inghirlandata  da una pellicola di film, sul viso le lettere “ridi cul”, il busto a metà vestito, nella parte inferiore nudo con nel petto un tatuaggio da carcerato con “aprée moi le deluge” in alfabeto morse e la piccola ‘immagine dell’attrice Linda Lovelace, che diede scandalo nel film hard”deep Throat” con le mani giunte, come lo sono le  mani grandi di Heidegger, incapsulato alla Bacon in una gabbia, o un acquario, a sinistra in alto un calice entro un “pergolato celeste” definito “wagneriano”,

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Every Forsaken Instance, Each Leisurely Disaster”, 2013

“In questo ‘libro delle due direzioni’ – commenta Elliott – Quinn ha innescato Heidegger come punto di ingresso visivo per una meditazione  che tocca la dialettica della realtà e l’apparenza, il comportamento e l’intenzione, la presunzione e l’attenzione, la menzogna e la verità, all’interno di un quadro storico e psicologico  che è consapevole, ma non governato da moralità o religione”. Con questo effetto: “Come richiede il sogegtto, questo quadro  di dilemma esistenziale deve essere lasciato aperto  in modo che gli spettatori possano rimuginare sulle proprie conclusioni”.

Un  dipinto di composizione per molti aspetti simile è “Saint Paul”  2014, il santo rivoluzionario convertito al Cristianesimo raffigurato con il volto macchiato del messicano terrorista rivoluzionario Carlos, nei cui occhiali si riflette il segnale stradale di Tarso, in una composizione con elementi cubisti e due fotografie alla base, che ci introducono a una sua caratteristica essenziale.

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“Ros, Cherry, Iron Rust, Flamingo”

Dello stesso anno 2014  un’opera aderente alla precedente, “Peter, Paul and Mary”,  un altro  Paolo martire della nostra epoca, Pier Paolo Pasolini, il volto ferito in un’immagine di tipo  fotografico in primo piano con gente compunta sullo sfondo, lo scrittore regista progettava di concludere la sua “trilogia della morte” con un film su San Paolo, questa circostanza   insieme al binomio santità-passione che accompagna il regista, poeta e scrittore  trasgressivo, colpì  Quinn.

Così Elliott commenta i tre dipinti ora citati: “”Presa insieme, la trinità di Quinn su Heidegger, San Paolo/Carlos e San Pietro-Paolo/Pier Paolo Pasolini-è una meditazione critica su idee di santità e martirio e traduzione estetica di ideologia, filosofia e religione  che tiene conto della morte post-romantica  dell’idealismo e delle vicissitudini contemporanee della complessità morale.

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“Events Arrive on Doves’ Feet”, 2014

Dai ritratti simbolici si passa ai paesaggi altrettanto simbolici, per lo più oscurati, in stile figurativo, dove fanno irruzione elementi astratti quali nature morte e fotografie da album di famiglia.

Ne sono esposti 5 tutti di grandi dimensioni,. sui 3 metri per 2, molto spettacolari. dal 2013 al 2017. “Every Fosaken Instance . Each Leisure ly Disaster” 2013, evoca il disastro in una scena quasi  bucolica, la figura adagiata nel bosco quasi riposasse, appoggiata a una sorta di lapide.

Ancora più aperta la scena di “Rose, Cherry, Iron Rust, Flamingo” 2014,  un paesaggio sereno con alberi, prati e colline in lontananza, poche immagini fotografiche e molto piccole sparse nel verde.

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“Bela Forgets the Scissors”, 2016“Plane, Plank, Nameless Bridge” 2017; infine, “Geography Correct” e, in chiusura,“Model for Contempt”, 2017.

Dello stesso 2014  “Events Arrive on Doves’ Feet”, visione paesaggistica ravvicinata rispetto alla precedente, con due fotografie e, al centro, il “Merzbau” di cui abbiamo parlato all’inizio.

In “Belas Forgets the Scissors” 2016, invece, le fotografie dominano la scena paesaggistica ancora più aperta delle precedenti,ne abbiamo contato quasi 50, di tutti i tipi, alcuni ritratti e molto altro.

L’ultimo di questa serie e più recente, del 2017, “Plane, Plank, Nameless Bridge” ha una visione paesaggistica assimilabile alla  precedente, con 15 fotografie di varia dimensione tra cui una carta geografica e altri elementi sulla destra che sconfinano nell’astrazione.

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“Plane, Plank, Nameless Bridge” , 2017

Dai paesaggi aperti e aprichi alle cupe costruzioni carcerarie, edifici-bunker che sembrano casematte, simbolo angoscioso della privazione della libertà, sono del 2017, come se la ricerca fin qui condotta negli spazi aperti avesse portato a questo approdo: si tratta di “Geography Correct”  e “Model for Contempt”, i titoli sono eloquenti  Ma non si deve pensare alla perdita di speranza, al riguardo è significativa questa considerazione di Elliott: “Sebbene il potere, e il suo potenziale abuso, sia una preoccupazione evidente nei dipinti di Quinn, non vi è ideologia , sistema o intento didattico prevalente. L’intuizione, come sempre, mantiene il sopravvento”.

C’è  un’osservazione più generale, sempre Elliott, nel riportare il giudizio dei critici che vedono nell’opera di Quinn “sintomi ‘maniacali’ della Melanconia – una risposta storicamente depressiva e nevrastenica ad azioni., emozioni ed idee che non possono essere tollerate”, commenta così: “Ma mentre Quinn cita spesso la malinconia nel suo lavoro, la smaschera  anche con una cocciuta ironia che distoglie l’attenzione dai dettagli, dagli eventi o dalle narrazioni verso una considerazione del perché tutti i diversi  elementi sono stati messi insieme in questo modo”. 

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“Geography Correct”, 2017

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Da lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Catalogo  “Richard Patterson/ Ged Quinn,”, a cura di Catherine Loewe, Carlo Cambi Editore, maggio 2018, pp. 107 Patterson, 101 Quinn, due parti speculari rovesciate, bilingue italiano-inglese, formato 25 x 29; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per quella di Pasolini, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com 27 ottobre 2015, 4 luglio, 15 giugno, 27 maggio 2014, 11, 16 novembre 2012; inoltre nel sito fotografia.guidaconsumatore.com maggio 2011 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia all’inaugurazione delle due mostre, ad eccezione delle n. , tratte dal catalogo, si ringrazia la Galleria e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riprodotte tutte le opere esposte, nell’ordine in cui vengono citate nel testo. Le prime 15 opere di Patterson, le successive 10 di Quinn. In apertura, Richard Patterson, “Three Times a Lady” 1999; seguono, dello stesso autore, “Come to Mama” 2000, e “The Wedding Party” 2005; poi, “Country Life” 2014, e “Marianne Leflange” 2012; quindi, “Hester van Tojerstraap” 2014, e “Woman at Her Toilet (after Degas)” 2014; inoltre, “Blanco” 2015, e “The Cherry Toolshed Door” 2014; ancora, “A Matter of Life and Death” e “Those suny domes! those caves of ice” , 205; continua, “Small Arm” 1996, e “Christina” 2009; infine, per Patterson, “Portrait of the Artist as an older man” 2009, e “Modern Love” 2017. Inizia Ged Quinn, “The Book of Two Ways” 2013, seguono, dello stesso autore, “Saint Paul” e “Peter, Paul, Mary” 2014, e Every Forsaken Instance, Each Leisurely Disaster” 2013; poi, “Ros, Cherry, Iron Rust, Flamingo” e “Events Arrive on Doves’ Feet”, 2014; quindi, “Bela Forgets the Scissors” 2016, e “Plane, Plank, Nameless Bridge” 2017; infine, “Geography Correct” e, in chiusura,“Model for Contempt”, 2017.

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Ged Quinn, “Model for Contempt”, 2017

Identità e Bandiere, alla Galleria Mucciaccia

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo la recensione uscita senza immagini in www.arteculturaoggi.com il 1° aprile 2018, in questo 4 luglio, “Independence day” identitario per gli Stati Uniti d’America, si riferiscono all’identità in varie forme le due mostre recensite.

La mostra “Eyedentity” di Stefane Graff,  artista franco-inglese che vive a Londra,espone alla Galleria Mucciaccia di Roma, dal 23 marzo al 5 maggio 2018 con la direzione artistica di Massimiliano Mucciaccia,  un’ampia serie di opere, alcune molto spettacolari,  che evocano il tema dell’identità con i suoi risvolti psicologici e umani. Nello stesso periodo la mostra “Flags” di  Daniel Jousseff espone una serie di dipinti raffiguranti bandiere. Le due mostre contemporanee  confermano la vitalità  della galleria e la presenza qualificata  nel panorama espositivo dell’arte contemporanea.

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Stephane Graff, della serie “Mind on Fire”, 2007-2017

“Eydentity”,  di Stefane Graff

Come indica il titolo, è  una mostra all’insegna dell’identità, vista soprattutto  sotto l’aspetto della dissimulazione. E questa si impernia sull’oscuramento degli occhi con un rettangolo nero, perché la loro distanza, a parte l’espressione, è essenziale per il riconoscimento.

“Per Graff – commenta James Putnam nell’introdurre la mostra offre una specie di velo di protezione per i suoi soggetti, mentre nello stesso tempo evoca un’aura di mistero, che innesta curiosità nello spettatore”.

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Della serie Glitch Paintings”, # 1, 2016

Suo ispiratore è  Freud secondo cui – si legge in “Il Perturbante” del 1919 – “ciò che è dissimulato non solo è nascosto gli altri, ma anche a sé stessi”,  riferendosi espressamente “all’idea di essere privati dei propri occhi”; di qui la “scatola nera” che li copre.  L’ombra  rimanda a Jung, per il quale  “l’accettazione del lato oscuro della personalità è essenziale per raggiungere la conoscenza di sé”.  

In una intervista a Costantino d’Orazio, l’artista ha detto che “il riquadro nero è come una porta aperta. Vediamo ciò che vogliamo vedere. vediamo i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre fantasie riflessi attraverso questa porta”.

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Della serie Glitch Paintings”, # 2, 2016

Una ricerca dalle solide basi filosofiche, dunque, di un artista che, oltretutto, non si è limitato all’identità umana,  interessato anche a quella delle opere d’arte  dipingendo dei dittici rivelatori.

I suoi dipinti soprattutto su  tela, ma anche su alluminio e tavola di legno, hanno una base fotografica. la fotografia per lui è uno strumento fondamentale. che ha usato in modo particolarmente penetrante nella serie di foto segnaletiche, come vedremo.  

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Della serie Glitch Paintings”, # 3, 2016

L’artista presenta se stesso con  una originale iniziativa del 2007 per seguire la crescita di un bambino dall’età infantile all’età adulta, sollecitato da scritti esistenziali. Non essendo realistico scattare una foto a un soggetto esterno ogni due settimane per trent’anni, ha semplificato scattando a se stesso una fotografia al giorno per un anno, ottenendo 364 immagini in bianco e nero con lo stesso abito; la 350^ foto à della sola giacca appesa. Ha guardato la sequenza fotografica nel 2017, dopo 10 anni e ha vivacizzato le immagini forzatamente statiche con il getto di sostanze chimiche che hanno dato una colorazione dal blu al rosso, dal giallo al bianco a seconda del tempi di permanenza sulla carta, fino all’effetto di una fiamma.

Ne è nata la serie  “Mind on Fire”, datata appunto 2007-2017. Il fuoco sembra invadere il volto serio e composto dell’artista, nelle 39 foto presentate, che richiamano quelle formato tessera, in giacca e cravatta scure, fiammate che si propagano in modo casuale. Veramente geniale la trasformazione, anzi trasfigurazione, di immagini normali, per non dire banali, in qualcosa di fortemente dinamico.

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dellsa serie Glitch Paintings”, “Decapitated Dressed”

Lo stravolgimento del volto, fino deformarne l’espressione e a renderlo irriconoscibile avviene anche dissestano i volti con una sorta di effetto movimento, in un cubismo picassiano di tipo fotografico, lo si vede nella serie “Glitch Paintings”, del 2016.  L’idea nacque dalle distorsioni che una tempesta elettrica produsse sulle immagini del suo televisore,poi da lui fotografate e reiterate spostando a mano l’antenna. ne abbiamo esempi in“The Yellow Line” e “Man in a Grey Suit”, “Rear Window” e “Bar Gazer”, “Arab Spring” e “Prime Time”; in altri casi i volti sono nascosti  da una sovrapposizione scura che li copre interamente, come  per le due figure femminili di  “Decapitated Dressed” o ne taglia la metà superiore, come in “Forget me Knot” e “The Philosopher’s Beard”.

Neppure il Papa si sottrae a questa operazione, come vediamo in “Pixelate Pope”, è la parte inferiore del viso di profilo ad essere decomposta mentre sulla destra sui accalcano immagini nere anch’esse rese indefinite; parte inferiore del volto nascosta anche  in “Syriana”, opèra di grandi dimensioni, 1,20 per 2 metri, in cui l’intera composizione sembra venire decomposta per piani orizzontali.  

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Della serie Glitch Paintings”, “Pixelate Pope”

Finora immagini singole, in un’opera dell’anno successivo, il 2017,  “The Jury”, 2017, sono i volti di una diecina di figure componenti la giuria a dissolversi, dello stesso anno “The Virdict” in cui, però. dei 6 giudici ritratti soltanto la metà hanno il volto moderatamente sformato  per tale effetto discorsivo.

Queste serie più recenti  sono un’evoluzione della tendenza ad occultare l’identità in vari modi, che, nella prima fase dell’itinerario artistico si era espressa nei cosiddetti “Black Box Paintings“, una vasta serie di immagini fotografiche, le più antiche risalgono al 1996, le più recenti al 2017,  con gli occhi dei soggetti ripresi coperti da un rettangolo nero. Questo procedimento lo avevamo visto diversi anni fa in una mostra al Festival romano della Fotografia, nella serie intitolata “Vietato”. “La scatola nera, afferma James Putnam, “è come un vuoto che non solo rappresenta la perdita della vista, ma è anche un simbolo di crisi d’identità, che è un fenomeno crescente nella società contemporanea”.

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Della serie “Black Box Paintings

Abbiamo immagini di figure singole:  tra gli uomini, “The interview”, 2004-17, che oltre alla figura “schermata”, in primo piano,  reca sulla parete una diecina di ritratti tutti con gli occhi coperti,  “Victorian Painter” e “Fernando de Valdes” del 2006, “De Stael” e “Action Jackson I” del 2007;  tra le donne  “Woman with a Rubber Tyre”, 1997,  “Baillemens Histériques” 2009. e “Dreamer”, 2013-14; tra ragazzi, “Boy in a Black Suit”, 1995, tra i bimbi, “Original Sin I e II”, 2014.  C’è anche la coppia di “Kiss”, 2005, gli occhi schermati  mentre si baciano strettamente abbracciati.

Poi, piccoli gruppi dagli occhi schermati non con i consueti rettangoli neri, ma con strisce avvolgenti, rosa in   “The Collaborators” , 2007, con 3 uomini, e nere in “Triple Cross”, 2008, con 3 donne., e in “Russian Protocol”, 2014,  con 5 teste che spuntano su un tavolo. 5 figure felici in “The Boat Ride”, 2013.

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Della serie “Black Box Paintings“, “Kiss”

Gruppi molto più numerosi, con gli occhi schermati delle persone quasi in posa, da” The Irascibles” con 15 persone – in un’opera vediamo l’autoritratto vicino a questo quadro – a “Ecole des Beaux Arts I“, con 25 persone di cui solo una non schermata, entrambi del 1996, “Passengers”, 2007, con una diecina di persone dagli occhi schermati, e “Crimson Ball” in cui le strisce nere spiccano sull’immagine del ballo in un rosso quasi in dissolvenza; sul rosso sfumato anche “Turkish Manifesto”, 1996, 10 volti schermati rivolti verso l’alto, mentre in “Turkish Spectators”, 2014, le figure dagli occhi schermati sono oltre un centinaio.

Nella stessa logica  di stile e di contenuto la serie “Banquets”, più spettacolare per le grandi dimensioni della maggior parte delle opere esposte. I commensali guardano tutti verso  chi li sta fotografando, e in questo modo si rivolgono allosservatore con gli occhi coperti dal rettangolo nero, una contraddizione; come è contraddittorio il loro stare insieme ma nel contempo essere isolati. Nel contempo l’osservatore si sente attirato nella scena, come se si aggiungesse un posto a tavola. 

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Della serie “Banquets”

Si va da “The Banquet”, 1994-95,  con la particolarità che il centinaio di persone in abito da sera guardano tutte l’osservatore pur con gli occhi schermati, come fossero in posa, a  “The Brasserie”, 2013-14,un solo tavolo imbandito  con una quindicina di persone; poi, del 2013, “Banquet Triptch”, un trittico lungo quasi 6 metri per quasi 2 e mezzo di altezza, e “The Jewish Banquet”, di 1,80 x 3,60, del 2014,  “Bipolar Banquet”,  di 2 x 3 metri, e “Contorsionist Banquet”, con una contorsionista sul  tavolo centrale  tra oltre 100 commensali tutti dagli occhi schermati.

Ugualmente schermati gli occhi della serie “Photographers” , dal 2013 al 2017, individuati da un numero progressivo, con in più una certa rarefazione in dissolvenza delle immagini, che vedremo tra poco accentuarsi in altre serie fino alla scomposizione, e il rettangolo nero sugli occhi, una contraddizione ironica con la loro attività, vi è anche una striscia di colore come nei provini fotografici. E’ evidente che si tratta di un omaggio ai pionieri della fotografia, da lui tanto utilizzata.

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Contorsionist Banquet”

Una declinazione che potremmo dire opposta del concetto di identità, rispetto all’oscuramento degli occhi con le strisce nere visto finora, è la serie delle foto segnaletiche  , intitolata “Mugshots”: sono una ventina, per ciascuno viene esibito lo scatto frontale e di profilo, nel riquadro nome e matricola. i soggetti sono rigidi per l’attesa dello scatto nei lunghi tempi di posa con le macchine fotografiche dl tempo, “Per lui, secondo Putnam, “rappresentano anche una opposizione simbolica alla sorveglianza e alla accessibilità on line dei dati personali”, e si ricollegano “anche al suo fascino verso la fisionomia umana, o al giudizio della personalità dato in base all’aspetto del viso”,  speculare all’oscuramento identitario tramite i rettangoli neri  a copertura degli occhi.

Sono tutte del 2017 –  a parte alcune intitolate “Photofit” alquanto differenziate dalle altre – le segnaletiche intitolate E’ proibito sorridere”, realizzate con soggetti fotografati a Roma durante un evento nella Galleria Mucciaccia, altra prova evidente della sua caratura artistica e organizzativa. Li ha definiti “ritratti anti-identitari”,  identificati da un numero  mentre i nomi sono anagrammati, e questo “oscura e sovverte la loro vera identità”; le serigrafie sono invecchiate artificialmente e in tal modo ha  ottenuto quella che lui stesso chiama “una perfetta combinazione tra pittura e fotografia, utilizzando insieme vernice e materiale fotografico”. 

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Ragazza con nel corpo immagini di ‘Banquets

Ma oltre all’aspetto tecnico esalta l’aspetto umano di quest’operazione: “Durante la ricerca dei soggetti di questa serie, sono rimasto spesso molto impressionato dall’entusiasmo e dal desiderio di partecipazione delle persone.  Che cosa ci dice questo comportamento sulla psiche umana? Quale straordinaria propensione hanno mostrato queste persone ad assumere il ruolo di un criminale e posare  come un gangster o un condannato!”  Non si dà una risposta, ma pensiamo che sia evidente nella stessa sua impostazione, che sottolinea “gli errori di identificazione e le false convinzioni”, i soggetti si sono sentiti non identificati come rei ma come possibili vittime di errori giudiziari.

Oltre alle foto singole ci sono quelle intitolate Eye Totem con un’acrobatica  moltiplicazione degli occhi che allungano a dismisura il viso del soggetto fotografato, maschile e femminile;  dopo la schermatura degli occhi la loro moltiplicazione ci  sembra un fatto rimarchevole. Tanto più che nel “Black Box Mugshots 2” ci sono 18  strisce costituite da  un insieme di foto frontali di visi, prese dalle segnaletiche, ma sorprendentemente con gli occhi schermati ds una linea nera continua.  

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Serata danzante con occhi coperti

Negli anni più recenti a queste forme espressive basate sulla negazione dell’identità e, specularmente, sulla sua esibizione in negativo, sì è aggiunta una quella intitolata “Mille-Feuille”, in cui le immagini non sono schermate ma le identità vengono rese evanescenti da una particolare “sfuocatura,  risultante da una parziale scomposizione realizzata mediante le 100 strisce separate del pannello di legno sul quale le immagini sono dipinte, che vengono opportunamente deviate.  L’idea fu data all’artista da una nuova anomalia nello schermo del suo computer mentre ritoccava un’immagine digitale, il risultato richiama lo sfarfallio: “L’immagine – spiega Putnam – inizia come una foto e diventa un dipinto, le sue parti si separano e si risistemano,  diventa tridimensionale, al contempo pittura e scultura”, evocando anche in questo modo “il tema dell’identità, come personalità dissociata, trauma e memoria frammentaria”.

In due opere del 2015 quest’operazione è soltanto accennata, “Colin Campbell Ross”, dove la composizione si avverte appena nel busto, mentre il volto è nitido, è un “olio su legno e un meccanismo di motorizzazione” non meglio identificato, evoca un tragico scambio di identità per cui un innocente viene impicacto nel 1922 a Melbourne per un omicidio non comemsso. “Schoenberg”, è un volto meno nitido del primo, attraversato soltanto da vibrazioni grafiche. C’è anche “Skull”, un teschio. appena  sfiorato dalla scomposizione.  

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Della serie “Eye Totem”, # 1

Nello stesso anno irrompe un’opera di notevoli dimensioni, lunga quasi 5 metri e alta 1,5, , “Mille-Feuille Banquet“, in cui la scomposizione  altera leggermente, ma in modo evidente, i volti delle centinaia di persone che banchettano, una variante notevole alla schermatura della serie “Banquet”degli anni immediatamente precedenti.  Segue, nel 2016, “School”, lungo più di 2 metri, la tipica classe di ragazze con il grembiule e il colletto bianco schierata, a fianco la maestra, e addirittura il suo “Self Portrait”, quasi avesse voluto sperimentare su se stesso, la peculiare formula espressiva adottata ; poi, nel 2017, “Walking Man” e “Running Man”, che riecheggiano la “Ragazza che corre sul balcone” di Duchamp, anche loro di dimensioni consistenti, 2 m di lunghezza per 1 m di altezza.  Nell’anno c’è anche un ritratto,  “Mayakovsky”, non solo il volto ma la figura seduta, in cui la scomposizione è molto accentuata, e ancora di più lo era in “Unseated Nude”, del 2015,  un’opera propriamente  cubista. 

Non si esaurisce nelle opere fin qui descritte  la feconda e poliedrica attività artistica dell’autore, in “Black Box Paintings” ci sono delle schermature non ai volti ma a particolari dell’ambiente, come in “Metaphysical Seaescape”, 1997 –  anno nel quale abbiamo anche un sorprendente “Freud’s Window”, o delle costruzioni raffigurate, come in “Sonderzugdepot”, 2013,  “Catatonics”, 2014,  “Cabin”, 2015.  Inoltre , sempre tra il 2013 e il 2015, figure intere quali “The Green Mask” e  “Male Nude Study (Back)” e volti in “Eye Operation”, “Restraining Order” ed “Exit Wound”.

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Della serie “Eye Totem”, # 2

E’ un lungo itinerario, quello dell’artista, in un’inquietudine creativa che lo ha portato a esplorare sempre nuove strade  all’insegna dell’identità declinata in modi sempre diversi.  Si può misurare l’ampiezza  del tragitto compiuto considerando la radicale diversità delle prime opere, dalla serie “Constrictions” del 1991, fotografie in bianco e nero segnate da forti contrasti luminosi, con figure nude legate da corde quasi evocando i legacci delle mummie, riferimento divenuto diretto nella serie immediatamente successiva “Earthworks and Mummifications” ispirata da suoi studi sulla mummificazione dell’antico Egitto al Cairo e a Luxor, che si sono tradotti anche in teste modellate nell’argilla e bendate nei modi delle mummie. Con il progetto immediatamente precedente.

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Della serie “Eye Totem”, # 3

Alcune opere risalgono al periodo 1991-97: citiamo  i multipli di “Vulvas” e“Testament”,gli inquietanti “Head” e “Ancien Portrait”, gli enigmatici “Akhenaten’s Dream” e “Mummification Triptych”. Molte altre sono del primo quinquennio del 2000, per lo più senza figure umane,  dai 3 sull’ocra, “Ochre Diptych”, “Ochre Wall”, “Ochre and Grey Composition”  ai 3 rossi “Remparts Rouge”, “Haqqi (Mon Droit)”, “Steps to Kasbah”,  a 3 allusivi, “East Meets West, West Eats Meat”, “Voodoo Fetish” e infine “Marche et Cache”. 

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Walking o Running Man

In quest’ultimo, del 2005, da una piccola finestra  in un parete di tronchi di legno assemblati in modo rudimentale, si affacciano due piccole figure in abiti locali: non sono schermate, esprimono una presenza umana, un’identità rivendicata  che prendiamo come conclusione a un percorso nel quale tante identità sono state nascoste o mimetizzate. conclude Putnam la sua presentazione: “Mentre la sua opera si ricollega alla dissimulazione, Graff paragona il processo creativo ad uno scavo nell’inconscio dove vi è qualcosa di nascosto che aspetta di essere rivelato”. Ed è un’osservazione  che fa riflettere perché attiene alla sfera più intima e riservata di ciascuno.

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Stephane Graff, della serie “E’ proibito sorridere”

“Flags”, di Daniel Jouseff

Un’ “identità” molto diversa quella alla base dell’altra mostra, un’identità mancante, quella di  Daniel Jouseff , che ricerca attraverso le bandiere, “Flags” di tutti i tipi  dipinte a forti colori. La curatrice Louise Hamilton le definisce “bandiere per manifestare i propri pensieri”, ed è abbastanza singolare essendo la bandiera simbolo di un’identità nazionale che l’autore sente di non avere. Ma non si sente neppure “citttadino del mondo”, la mente torna all’ “ebreo errante” senza pace. 

Non si sente “cittadino  del mondo”, perché, come afferma lui stesso, “sono nato e cresciuto in un paese, ma le mie tradizioni erano radicate in un altro”.  Poi  è entrato in scena un terzo paese, e come risultato sente di non appartenere a nessun luogo, ma avverte sempre la forte sensazione dell’attraversamento dei confini. La si prova quando si passa da una nazione all’altra superare la barriera per andare in un mondo diverso dal proprio, ma se non si sa a quale mondo si appartiene, come cambia questa sensazione?  

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Daniel Joussef, “Multicoloured flag with stripes” a sin, e
“Moulticoloured flag pink”” a dx , 2017

L’artista esprime  artisticamente le sue emozioni  attraverso un viaggio ideale reso da mappe, terre e  bandiere, in queste mette tutta la propria inquietudine che lo spinge alla ricerca di una identità virtuale.  

Intervistato da Giulia Abate afferma: “Il mio lavoro è la chiave per scoprire  e comprendere pienamente la mia origine … E le bandiere sono il simbolo per eccellenza dell’identità e del senso di appartenenza” . Proprio perché rappresentano  vaste comunità nazionali  con la loro storia e la loro cultura, le loro tradizioni e i loro costumi. Ma all’artista manca la bandiera, quindi il  senso di appartenenza che dà l’identità: “Io ho vissuto in esilio, nella diaspora, ho da sempre desiderato una casa e posso sventolare la mia bandiera finchè voglio, ma come si può trovare la propria casa quando non sai  dove cercarla?”. 

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Border, pink, satellite” a sin, “Yellow border / satellite” al centro,
Camouflage / border / satellite” a dx, 2018

Per dire il vero la sua sembrerebbe a prima vista una storia normale, nato  in Svezia a Vaxjo nel 1975 e trasferito a Stoccolma dove vive tuttora, dal 2003. Sente tuttavia due culture sovrapposte in lui, aramaica e svedese, perché  una guerra culturale ha privato i genitori della propria lingua, con le cultura araba e turca ulteriormente sovrapposte.  “Non ho la pelle abbastanza scura per esser un mediorientale, ma non sono nemmeno abbastanza biondo per essere uno svedese, allora ho provato ad essere entrambi”, questa la confessione finale. Ne è nato “il caos con il quale mi confronto ogni giorno. Forse le bandiere rappresentano proprio questo mio costante conflitto interiore”. 

Vediamo esposte una quindicina di “flags” dipinte per lo più a olio su tela nel 2017 e 2018,  tutte di fantasia, senza riferimenti a bandiere esistenti. Dalle grandi  “Black/ yellow flag”  su legno e “Black/ black/  flag”,  di 1 metro di altezza,  alle piccole  “Small red  and yellow flag”   e “Small yellow and green flag”, alte circa 30 cm, con i piccoli triangoli giallo e verde su fondo rosso e giallo. Poi le più grandi, alte quasi 1 metro e mezzo, “Multicoloured flag pink” e  “Multicoloured flag with stripes”,  con strisce verticali  con sopra 3 triangoli, entrambe su tessuto. Alte  80 cm -1 metro  le quasi monocromatiche “Flaf/pink/white” e “Greenwhite flag”, quasi solo rosa e verde, e  le bicromatiche “Flag/ blue/ pink” e “Flag/ geren/ orange” in acrilico su carta. In matita e inchiostro su carta  “Graphite grey wood flag“, inchiostro su legno in  “Black/ red wood flag” e “Flag/ wood“, la più piccola di tutte, alta 19 cm. 

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“Green / white flag” a sin, “Black / black flag” a dx

Sono esposte due opere identitarie in modo diverso, come   “Yellow border/ satellite”, “Camouflage / border / satellite” e “Borden patrol” con la scritta “Operation Gate Keeper”; e  altre molto differenti,  come “The book of San Michele decostructed”, copertina e due pagine aperte con dei segni azzurri di cancellature, ben diverse da quelle celebri del nostro Isgrò; e  un  singolare “U.S. President” scritto su una lavagna, “Searching for Illegals”, una scritta nera su fondo rosa. 

Ma rimangono impresse le sue “Flags” per lo più bicolori, e il significato che l’artista attribuisce loro: “Le bandiere rappresentano un processo continuo di attraversamento dei confini e il risultato della mia ricerca di una casa, della mia vera identità”. Ha esposto a Stoccolma nel 1916 e nel 1917 e nel Texas nel “Pop Austin International Show”, ma nella mostra attuale la metà sono opere del 2018,  quindi inedite, e di questo va dato merito alla Galleria  Mucciaccia.  

Vogliamo concludere citando il suo “Self portrait” del 2017: si ritrae con il cappello  e i colori della giubba di Arlecchino: evidentemente continua lo spaesamento e la ricerca di una identità, sarebbe interessante seguirne gli sviluppi. Per quanto ci riguarda siamo tornati con il pensiero alla mostra al Vittoriano tra novembre 2013 e gennaio 2014, nel “Sacrario delle Bandiere”, intitolata “90 artisti per una bandiera”, la bandiera italiana reinterpretata dagli artisti nelle sue molteplici “incarnazioni” storiche. E’ stata data ad ognuno di essi una delle 86 bandiere esposte per le strade di Reggio Emilia, la città del tricolore, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia del 2011, vi si sono ispirati rendendola in forma pittorica. Una precisa identità nazionale espressa in tanti modi convergenti, 90 artisti per una bandiera identitaria, dunque, in quella mostra; un artista per molte bandiere alla ricerca di un’identità in questa mostra. Un altro mondo!  

Da sin ““Graphite grey wood flag” sopra, “Black / red wood flag” sotto,
a dx in alto Black / yellow flag” e al lato “Black white flag” , 2017.

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Dal lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Cataloghi bilingue italiano-inglese: “Eyedentity”, Stefane Graff”,  Galleria Mucciaccia, febbraio 2018, pp. 330, formato 25 x 29. “Daniel Jouseff. Flags”,  Mucciaccia Contemporary  a cura di Louise  Hamilton, pp.60, formato 20 x 21. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Per artisti e mostre citati cfr. i nostri articoli: per Duchamp in questo sito 6 aprile 2010 e in www.arteculturaoggi.com 16 gennaio 2014, nel quale cfr. anche i 2 articoli su “Novanta artisti per una bandiera” 14, 15 gennaio 2014; per “Vietato! ” in fotografia.guidaconsumatore. com 31 maggio 2012 (qust’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le imamgini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzaione della galelria, con i titolarti dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 17 sono della mostra “Eyedentity”, quindi di Stephane Graff; le ultime 5 della mostra “Flags”, quindi di Daniel Joussef. In apertura, di Stephane Graff, della serie “Mind on Fire”, 2007-2017; seguono, della serie Glitch Paintings”, # 1, # 2, # 3, 2016; poi, della stessa serie, “Decapitated Dressed” e “Pixelate Pope”; quindi, della serie “Black Box Paintings“, # 1 e “Kiss”; inoltre, della serie “Banquets”, # 1 e “Contorsionist Banquet”; ancora Ragazza con nel corpo immagini di ‘Banquets” e Serata danzante con occhi coperti; continua, della serie “Eye Totem”, # 1, # 2, # 3; prosegue, “Walking o Running Man“; chiude“E’ proibito sorridere”; di Daniel Joussef, “Multicoloured flag with stripes” a sin, e “Moulticoloured flag pink”” a dx , 2017; seguono, “Border, pink, satellite” a sin, “Yellow border / satellite” al centro, “Camouflage / border / satellite” a dx, 2018; poi, “Green / white flag” a sin, “Black / black flag” a dx; quindi, da sin ““Graphite grey wood flag” sopra, “Black / red wood flag” sotto, a dx in alto Black / yellow flag” e al lato “Black white flag” , 2017; in chiusura, “US President” 2018., e . .

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US President” , 2018

Bandiera, 2. Le opere di 90 artisti, nel Sacrario delle Bandiere al Vittoriano

Ripubblichiamo i due articoli usciti in www.arteculturaoggi.com il 14 e 15 gennaio 2014 collegandoli alla recensione alle mostre “Eyedentity” e “Flags”, anch’essa ripubblicata nel giorno dell'”Independence day”, in omaggio ai valori identitari che nella bandiera trovano l’espressione nazionale: un ponte ideale tra i nostri due mondi con una dedica speciale al prof. Steven E. Ostrow, una vita di insegnamento al Massachusetts Institute of Technology, il mitico MIT nel quale ha diffuso – e continua a farlo – la sua cultura classica di innamorato dell’Italia.

di Romano  Maria Levante

Abbiamo già descritto motivazioni  e aspetti dell’iniziativa da cui è nata la mostra “Novanta artisti per una bandiera”, al “Sacrario delle Bandiere” del Vittoriano dal 22 novembre 2013 al 31 gennaio 2014. A ciascuno dei 90 artisti è stata consegnata una delle 86 bandiere esposte nelle strade di Reggio Emilia nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia  perché vi si ispirasse nel creare un’opera d’arte da donare per la costruzione in città di un moderno Ospedale per la Donna e il Bambino. Ora descriviamo tutte le 90 opere create per tale iniziativa, esposte nella mostra al Vittoriano, in una rassegna completa e senza omissioni, forse noiosa ma specchio dell’arte e insieme della storia. Distinguiamo le opere  più vicine all’originale dalle interpretazioni più libere. Massimo Parmiggiani ha realizzato l’iniziativa, compresa la ricerca degli artisti, e ha curato la mostra ed il Catalogo di Corsiero Editore con raffigurate tutte le opere e le singole bandiere, e riportate  ampie schede biografiche dei 90 artisti: una documentazione preziosa e spettacolare.

Bruno Ceccobelli

Le opere meno lontane dall’originale

Molte bandiere le ritroviamo ben evidenti  nelle opere,  ma sempre il tocco geniale apporta una variante o un contorno che le trasforma in un qualcosa di diverso ma non lontano dall’originale.

Cominciamo con l’opera  di Alberto Andreis, che ha dipinto nel retro della Bandiera del Regno d’Etruria, del 1801, pezzi di architettura a costruzione dell’identità nazionale; poi Roberto Barni che intorno alla Bandiera del granducato di Toscana, 1765, colloca le sue figure filiformi; Davide Benati con il Tricolore dei moti del 1831 e Domenico Bianchi con il drappo azzurro e lo Stemma in oro della Presidenza della Repubblica di Saragat, 1965; Danilo Bucchi con la Bandiera navale sarda dei quattro mori, 1799-02, ne ha ingrandito uno tra sagome appena accennate, mentre Enzo Cacciola  ha appiattito in una linea il bianco dell’antica Bandiera mercantile di bompresso  in vigore dal 1793 al 1946; Giovanni Campus ha scomposto la Bandiera del Regno di Sardegna, dopo il 1765,  ed Eugenio Carmi inserisce la “sezione aurea” nel Tricolore  partigiano di Giustizia e libertà, 1943-45; Tommaso Cascella  interpreta la bandiera della Marina mercantile italiana, 1947,  “aspettando il vento” che ne mescola i colori, e Bruno Ceccobelli inserisce la scritta “Natura Super Natione” nella Bandiera del 1802 della Repubblica Cisalpina di Napoleone.

Giuliano Della

Di Bruno Chersicla un grande stemma per il Tricolore del 1706 della Legione Lombarda,  e di Andrea Chiesi un traliccio nel tricolore della Guardia nazionale veneta nella Repubblica di San Marco di Manin e Tommaseo, 1848; Pier Giorgio Colombara  pone “tra i rami” il simbolo delle Brigate Fiamme Verdi partigiane, 1943-45,  e Angelo Davoli inserisce  il logo “Quanto generoso amore” di CuraRE Onlus nella Bandiera dai colori codificati del 2 giugno 2004. Sandro De Alexandris  presenta lo stendardo reale di Casa Savoia in vigore dal 1881,  ripiegato nel 1946, mentre Lucio Del Pezzo immette propri motivi nella Bandiera del Regno di Napoli di Murat, 1801-1815. Giuliano Della Casa  depura del fascio e degli allori lo Stendardo della Seconda Repubblica Cisalpina ed  Enrico Della Torre squaderna la Bandiera della Repubblica partigiana della Val d’Ossola, 1944; mentre  Marco Ferri  inserisce motivi geometrici nella Bandiera del Regno d’Etruria del 1801, ed Ennio Finziingrandisce lo Stemma di Presidente emerito di Ciampi, 2001.

Laura Fiume  immette un rebus sull’iniziativa umanitaria nella Bandiera della Repubblica proclamata dai francesi a Roma nel 1798, e Antonio Freiles come Emilio Isgrò interpreta il Tricolore con al centro la Trinacria del governo insurrezionale siciliano del 1848: entrambi mantengono, nei loro stili, la figura centrale, il primo togliendo i colori, il secondo con le sue caratteristiche “cancellature”. Omar Galliani  presenta l’aquila rampante su fondo blu del Ducato del Friuli quasi immutata, e Marco Gastini  una grafica al centro del Tricolore della Prima Repubblica Cisalpina del 1797-98.  Giorgio Griffa inserisce dei motivi nello Stendardo dei Re d’Italia 1861-81 e Franco Guerzoni vede la Bandiera della Confederazione Cispadana, 1796-97,  a mo’ di sipario. Paolo Iacchetti scompone il Tricolore presidenziale senza stemma di Cossiga,1992.

Tullio Pericoli

Riccardo Licata, Tetsuro Shimizu e Ilier Melioli, tutti e tre con la Bandiera della Repubblica anconitana del 1797-98: il primo vi inserisce dei segni, il secondo ne dà la dissolvenza cromatica, il terzo trasforma in angolari le strisce del vessillo; mentre Claudia Losi trasforma in una protettiva tenda canadese vera la Bandiera con l’aquila imperiale del Regno d’Italia Napoleonico, 1805-15,  e Luigi Mainolfi  fa piovere grani sulla  bandiera del Regno di Sardegna utilizzata per il Regno d’Italia dal 1861 al 1863; Mirco Marchelli  pone sulla punta di tre lance la Bandiera di terra e di mare adottata a Milano nel 1802, e Umberto Mariani vela appena il vessillo immaginato da Carlo Pisacane senza riferimenti monarchici, 1857; Giovanni Menada  ingrandisce lo stemma del Tricolore di Stato in mare per navi non militari dal 2003, mentre  Hidetoshi Nagasawa  introduce  motivi particolari nella Bandiera dei  Cacciatori a Cavallo di Napoleone del 1805, e Gianfranco Notargiacomo trasforma in bandiera lo Stemma dello Stato Maggiore della Difesa del 2000.

Claudio Olivieri sfuma in nero la Bandiera carbonara del 1820-31, e Tullio Pericoli nel suo “Paesaggio con bandiera” aggiunge una serie di elementi grafici alla Bandiera di bompresso  per mercantili dal 1947, che resta in un angolo.  Lucia Pescador “semina croci dell’arte” nello Stendardo adottato nel 2000 dal Presidente Ciampi, e Oscar Piattella verticalizza le strisce dell’arcobaleno della Bandiera della pace adottata da Aldo Capitini nella prima marcia di Assisi del 1961. Pino Pinelli  trasforma in tre croci i colori del Tricolore francese del 1794-1812, e Graziano Pompili disegna un “paesaggio cispadano”  con una piccola scatola decorata sopra al tricolore cispadano del 1797, sbiadito;  mentre Concetto Pozzati nel fazzoletto recante motti della resistenza a Venezia del 1849,  inserisce una serie di citazioni, e  Mario Raciti copre con un velo parte delle insegne, tra cui un fascio, della Guardia nazionale milanese del 1796.

Bruno Raspanti

Jacopo Ricciardi  sfuma in orizzontale il  bianco e giallo della bandiera dello Stato della Chiesa 1808-70,  e Leonardo Rosa  inserisce le “tracce del tempo” nel Vessillo partigiano del Corpo Volontari della Libertà, 1944;  Ruggero Savinio  pone una figura seduta appena abbozzata a lato della Bandiera del Papa re, Pio IX, 1848, e Antonio Seguì presenta il tricolore dei Mille di Garibaldi del 1860 recante al centro lo stemma sabaudo rimpicciolito e deformato in mano  a Garibaldi con i garibaldini a cavallo in una suggestiva panoramica dal titolo “A la Victoria”;  Tino Stefanoni  ingrandisce artisticamente il logo delle iniziative del 150° recante tre tricolori, e Guido Strazza  traduce il tricolore mazziniano della Repubblica romana con al centro le parole “Dio e popolo”, 1848-49,  in una fuga orizzontale degli stessi colori; Wainer Vaccari  compie una rielaborazione fedele del Tricolore di Piacenza e Modena del 1859, mentre Pietro Mussini rielabora in colori diversi il Tricolore che ne incorpora uno piccolo di uno studente greco dei moti di Bologna del 1831. Valentino Vago inserisce le immagini sacre dell’Annunciazione e del Crocifisso nella Bandiera amaranto e gialla dello Stato della Chiesa  in vigore fino al 1808 senza le chiavi di Pietro.

Walter Valentini  presenta, ripiegata sotto un cielo stellato, in un’ambientazione suggestiva, la bandiera  della Brigata Partigiana Garibaldina dal nome dei fratelli Cervi, del 1944, con la stella rossa e i segni neri evocanti gli uccisi in file di 7 come i fratelli, e Paolo Valle la bandiera dei Volontari della Morte  delle  “cinque giornate” di Milano del 1848 cui ha sovrapposto segni e simboli grafici molto marcati, alcuni nei caratteri di Capogrossi. Mentre  Wal aggiunge figure tra il totemico e l’infantile ai colori della Bandiera del Ducato di Modena e Reggio, 1830-59, prima dell’annessione al Regno d’Italia, e William Xerra la grande scritta “Vive” sulla Bandiera del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, 1847-50. Infine Gianfranco Zappettini  colora di bianco la bandiera blu con 12 stelle del Consiglio d’Europa del 1950.

Marco Ferri;

E’ una carrellata nella storia patria, per questo abbiamo citato anche gli anni delle bandiere, che richiamano gli eventi popolari e bellici che li hanno contrassegnati imprimendosi nella memoria. Sono le tante tessere del mosaico unitario costituite dai Ducati, dai Comuni, dai movimenti popolari, e dalle lotte risorgimentali fino alla resistenza, espresse sempre in vessilli gloriosi,  fino a quello del Consiglio d’Europa che inizia un nuovo percorso unitario, questa volta a livello europeo.

I 60 artisti citati finora hanno interpretato le rispettive bandiere, come abbiamo visto,  restando aderenti al tema in modi diversi. L’originale è sempre riconoscibile, nella forma o nel colore, o con dei richiami ben evidenti che abbiamo cercato di indicare sia pure sommariamente.

Completiamo la rassegna passando alle opere in cui la libera interpretazione dell’artista si è allontanata maggiormente dalla bandiera cui si è ispirato, fino a rendere il nesso irriconoscibile.

Giovanni Campus

Le variazioni sul tema più libere

Luca Alinari con il tricolore del Granducato di Toscana del 1848, mostra un volto femminile dai grandi occhi senza contorni  intitolato “La bandiera senza la quale”, che lui stesso commenta così “Ogni uomo è un inganno. Ci salva la bandiera”. Mentre di Giosetta Fioroni un moderno volto femminile con occhiali neri contornato dai capelli e la dedica “Per la Donna col bambino da… Giosetta Fioroni”, la finalità benefica prevale sul riferimento alla bandiera, che nella circostanza era quella della Serenissima di Venezia del 1797. “Donne” è il titolo dell’opera di Antonio Marras, due figure stilizzate appena abbozzate, molto diverse dai visi netti delle due opere appana citate, su uno sfondo con i colori della Bandiera di terra  e mare della Repubblica Cisalpina de1 1802. Un viso di donna anche nell’opera “Cheval-roi & cephalopode” di Pat Andrea, con tante gambe, un cavallo coronato e l’aquila in riposo, sono gli elementi reinterpretati ironicamente dello stemma  della Bandiera  del Regno di Napoli di Giuseppe Bonaparte  del 1805-08.

Assadour interpreta i colori della Bandiera mazziniana del 1831 con il motto al centro in due opere dal titolo “Itinerario di una bandiera/ Storia di una bandiera”,  utilizzando le sue geometrie enigmatiche, e  Gabriella Benedini si ispira alla Bandiera garibaldina, che dopo l'”obbedisco” di Teano dovette attendere dieci anni per  tornare a Roma, con l’opera “Il cielo del 26 ottobre  1860”, il giorno di Teano,  un collage del firmamento con astri e corpi vaganti tra cui molto in piccolo in alto si intravede la minuscola bandiera. Alfonso Borghi si allontana dalla Bandiera della Prima Repubblica Cisalpina” del 1797-98,  con “Immagine, omaggio a John Lennon”, una stesura materica in rosso, frastagliata, recante la scritta evocativa REPU. Vi accostiamo idealmente “I fiori e la bandiera” di Fausto De Nisco, ispirata al vessillo del Regno d’Italia con lo stemma sabaudo del 1861, per l’assemblaggio di forme in parte geometriche.

Roberto Casiraghi con “Essere”, forme fluttuanti e addensamenti, interpreta il Tricolore dai colori francesi a bande verticali che durante la rivoluzione del 1848  sostituì provvisoriamente quello orizzontale; lo stesso tricolore viene interpretato da Marino Iotti “nel vento”, un collage di grigi con un lembo rosso a ricordare con un solo colore la bandiera.  Elio Marchegianiinserisce nel  lenzuolo bianco divenuto simbolo dell’impegno comune contro la mafia dopo la strage di via D’Amelio del 1992,  un  triangolo dal vertice in basso con reiterate in crescendo verso l’alto le figure di Falcone e Borsellino. E Attilio Forgioli nel suo “Paesaggio con tricolore”, in una bandierina  a margine riporta i forti colori del vessillo di Ferdinando II del 1848, senza stemma, mentre le delicate tinte pastello delineano l’ambiente, chissà se anche i raduni degli alpini cari all’artista. Alessandro Gamba rende il tricolore codificato il 2 giugno 2004  con l’installazione “Come… in croce”, forse perché si era scoperto che il tricolore al Parlamento Europeo era irriconoscibile con il rosso tendente all’arancione, di qui la rigorosa codifica.

Di Marco Grimaldi “Senza titolo”, dove  si intravvedono appena, dietro forme verticali fluttuanti  in primo piano, i colori del tricolore della seconda Repubblica Cisalpina del 1800-02.   Mentre “Segnale di pericolo” di Carlo Mastronardi, un triangolo rovesciato dalle pennellate grevi,  richiama nel cromatismo il tricolore del giugno 1860 adottato nel  Regno delle Due Sicilie da Francesco II dopo i Mille. Elisa Montessoriinterpreta lo Stemma della Repubblica adottato dai deputati costituenti con “Articolo I della Costituzione  italiana”,  il testo è riportato in scritte in più lingue, con grafiche evocanti il lavoro.  E Giulia Napoleoni dinanzi al simbolo di un’illusione del 1848 –  le reiterate immagini di Pio IX  inquadrate nel tricolore – con tre piccolissime colonnine dai colori diversi esprime forse lo stravolgimento delle illusioni, e annega il tutto nel cromatismo preferito, una vasta campitura blu, in parte variegata, “Prussia-Cobalto” è il titolo.

Nunzio interpreta la Bandiera delle Brigate garibaldine, del 1944-45 – al centro una stella rossa nel tricolore recante l’immagine dell’eroe – nel suo “Tegola nera con dentro la bandiera”, di cui si intravede appena un lembo, forse per proteggerla nascondendola.  E Bruno Raspanti  si ispira alla Bandiera di Napoleone Bonaparte del 1802 della Repubblica Cisalpina con una composizione che esprime, nelle sue parole, “precarietà, evocazione, nomadismo, spazio in cui le cose devono abitare, e soprattutto inattuabilità”. Dal canto suo Giovanni Sesiarende lo spirito di commozione e reazione civile dello striscione con su scritto “E adesso ammazzateci tutti” dietro cui sfilarono i ragazzi di Locri nel 2005 dopo l’assassinio di Francesco Fortugno, con un’opera in tecnica mista su  base fotografica “I caduti fella strage di Locri”, un lenzuolo insanguinato  davanti alla lapide con i nomi delle vittime della mafia.  

Carlo Nangeroni

Medhat Shafik  interpreta la Bandiera di Napoli del 1798-99  con il “Canto epico”, quattro livelli  in verticale con incorporati oggetti nei quali è racchiuso il significato, e Aldo Spoldi per la Bandiera degli Usseri della Repubblica Cisalpina 1797-98  presenta un “Garibaldino a cavallo”,  un vero  e proprio Guidoriccio da Fogliano in chiave risorgimentale, mentre per Mauro Staccioli il tricolore della Costituente del 1947 è la  “Bandiera avvolta su ramo o radice”, a forma di V, simbolo di vittoria.  Nani Tedeschi  si riferisce allo Stemma del Regno delle Due Sicilie, fino ai Mille del 1860,  con l’opera “Dietro ogni bandiera c’è un convitato di pietra”, Garibaldi sul cavallo bianco, davanti al vessillo con il leone  incoronato, in alto una colomba bianca nel cielo blu cobalto.

Spettacolare “Celebra (R.E.) la bandiera” di Nino Migliori, per la Bandiera di bompresso di navi non militari del 1947,  presenta una fotocomposizione arcitettonica  con un tempio al culmine. Mentre Carlo Nangeroni mantiene il campo azzurro della bandiera dell’ONU, ma trasforma il piccolo planisfero tra due foglie d’alloro dello stemma al centro, in una sorta di sistema solare, gli astri sono molti cerchi dal bianco al nero passando per un celeste che si confonde quasi con lo sfondo e ruotano in orbite circolari, forse le principali aree del pianeta; il  planisfero diventa così un empireo dantesco, di certo lontano dalla realtà tormentata, ma aderente all’ideale di pace dell’ONU.

Tommaso Cascella

La rassegna degli ultimi 26 artisti termina con questo finale planetario ispirato alla bandiera dell’ONU, e conclude la cavalcata tra le 90 interpretazioni artistiche di bandiere espressive di mondi ben più ristretti e lontani nel tempo, ma che hanno il respiro della storia ed evocano figure ed eventi  patriottici indimenticabili. 

C’è  infine un ultimo – o primo – artista, la cui opera collega artisticamente l’omaggio alla Bandiera con la Donna alla quale é dedicato l’Ospedale per la Donna e il Bambino reso possibile per il contributo dato dalle opere esposte. E’ Ilario Tamassia,   l’opera è  “Libertà con donna a specchio e bandiera”: due vessilli e un’alta figura femminile con le braccia levate in alto realizzata con pezzi di  specchio, i frammenti del terremoto. “Il dolore è un ponte che raggiunge l’Amore”, ricorda l’artista.

Questo  e tutto il resto ci sembra da non dimenticare. Perciò abbiamo voluto fissarne il ricordo.

William Xerra

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso destro Piazza D’Aracoeli). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel. 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 14 gennaio 2014. Per due tra i 90 artisti cfr. in questo sito anche i nostri articoli “Giosetta Fioroni, monocromie  e ceramiche alla Gnam”, 11 gennaio 2014, e “Isgrò, il modello Italia nelle ‘cancellature’ alla Gnam”,  16 settembre 2013.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori che si ringraziano, con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Bruno Ceccobelli, seguono  quelle di Giuliano Della e Tullio Pericoli; poi di Bruno Raspanti e Marco Ferri; quindi di Giovanni Campus e Carlo Nangeroni, inoltre di Tommaso Cascella e William Xerra; in chiusura, la bandiera di Nino Migliori.

Nino Migliori

Bandiera, 1. 90 artisti italiani interpretano la nostra bandiera

Ripubblichiamo i due articoli usciti in www.arteculturaoggi.com il 14 e 15 gennaio 2014 collegandoli alla recensione alle mostre “Eyedentity” e “Flags”, anch’essa ripubblicata nel giorno dell'”Independence day”, in omaggio ai valori identitari che nella bandiera trovano l’espressione nazionale: un ponte ideale tra i nostri due mondi con una dedica speciale al prof. Steven E. Ostrow, una vita di insegnamento al Massachusetts Institute of Technology, il mitico MIT nel quale ha diffuso – e continua a farlo – la sua cultura classica di innamorato dell’Italia.

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nel “Sacrario delle Bandiere”,  la mostra “Novanta artisti per una Bandiera”  espone dal  22 novembre 2013  al 31 gennaio 2014  le interpretazioni della bandiera assegnata a ciascuno degli artisti che le hanno donate per un’iniziativa benefica: la costruzione dell’Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, la patria della Bandiera italiana, nelle cui strade sono state esposte 86 bandiere per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale nel 2011.

Antonio Segui

L’arte al servizio della storia e anche della solidarietà, una bella combinazione. L’iniziativa è promossa dall’Associazione CuraRE Onlus con lo Stato Maggiore della Difesa e il Comune  di Reggio Emilia, a cura di Sandro Parmiggian, che l’ha realizzata a partire dalla ricerca degli artisti, e ha curato anche il Catalogo di Corsiero Editore con le 90 opere e le esaurienti schede biografiche.

Non è la prima mostra, tra quelle  di cui ci siamo occupati,  che riunisce un certo numero di artisti su un tema preordinato. Ricordiamo le mostre del 2009 “Mitografie” al Museo Carlo Billotti con una serie di artisti operanti a Roma ai quali fu chiesto di interpretare il tema del mito, e “Contemplazioni”, a Rimini sul tema della bellezza, con una scelta di opere già esistenti.

Eugenio Carmi

Le particolarità di una mostra “unica” e irripetibile

Questa mostra è diversa in quanto gli artisti sono stati invitati a un’opera originale non su un tema ma su un “oggetto”, come avvenuto per un’altra mostra che ci piace ricordare, quella evocativa del ruolo dell’Ente comunale di Consumo di Roma sulla base della carta oleata che avvolgeva il  burro.

Nel caso attuale l'”oggetto” dato agli artisti per trarne ispirazione è la massima icona laica che si possa concepire, la Bandiera;  gli esemplari consegnati tutti diversi, perché tante sono le incarnazioni della bandiera, compresi gli Stati preunitari e i vessilli di occasioni particolari. La mobilitazione non poteva che essere massiccia, ben 90 artisti con altrettante opere, con nomi importanti, e la sede espositiva quanto mai prestigiosa, il “Sacrario delle Bandiere” al Vittoriano, l’Altare della Patria.

Ma c’è un’altra particolarità che rende unica la mostra: non è fine a se stessa, e già sarebbe un evento data l’importanza del tema e la qualità delle opere, ma è finalizzata alla costruzione di un Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore. A tale intento meritorio  sono destinati i  proventi dalla vendita delle opere, anche se l’importanza sul piano artistico è tale che al motivo umanitario si associa, nelle parole degli organizzatori, “l’obiettivo tuttavia di preservare l’integrità della rassegna e farne una sorta di raccolta permanente”.

Il Sindaco di Roma Ignazio Marino  ha collegato il tricolore alla finalità  per la donna e il bambino: “Un’unione rappresentata da quel verde, bianco e rosso simboli di rivoluzione, sovranità e libertà del popolo e simbolo di speranza. Di così tanta intensità è l’amore che lega una madre a un figlio. Infinito, sconfinato, unico,  profondo, viscerale. Un amore che va tutelato e protetto. E’ questo che si propone CuraRE Onlus con il suo ‘Ospedale dedicato alla Donna e al Bambino”. 

E la presidente di CuraRE Onlus Deanna Ferretti Veroni lo ha confermato sottolineando che la struttura si prenderà cura della donna e del bambino “integrando accoglienza, familiarità, confort, sapere, professionalità e tecnologia”,  per l'”impegno artistico, sociale, umanitario” degli artisti.

Mentre il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, tra i valori e principi comuni evocati dal Tricolore, simbolo dell’unità nazionale, ha citato, oltre a libertà e a democrazia, la giustizia sociale e la solidarietà.

Walter Valentini

E’ un ospedale  a più piani di oltre 12.000 metri quadrati, quello che si intende realizzare, con le tecnologie e competenze più avanzate, le specialità cliniche dalla Ginecologia e ostetricia, compresa la Procreazione medicalmente assistita, alla Neonatologia, Pediatria e Neuropsichiatria infantile, con il relativo Blocco operatorio.

Perché ciò avvenga,  il sostegno degli artisti è decisivo ma non si manifesta con la pur generosa cessione di un’opera esistente, bensì con l’impegno a crearne una apposita ispirata non al Tricolore in generale, ma alla particolare bandiera  consegnata a ciascuno, con gli specifici colori e simboli.

Fuori dalla torre d’avorio nella quale viene spesso isolata la figura degli artisti, li vediamo  impegnati solidalmente nella soluzione di un problema sociale pressante come l’assistenza alla donna e al bambino. L’immersione nella realtà viva e pulsante non è limitata a questa partecipazione,  perché le bandiere consegnate loro per la traduzione artistica sono state esposte nel 2011, come accennato, nelle strade di Reggio Emilia, dove il tricolore è nato il 7 gennaio 1797,  per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia che ha visto un gran  numero di manifestazioni in tutto il Paese.

Si tratta delle bandiere degli Stati preunitari, giacobine e napoleoniche, dei moti e  insurrezioni popolari del Risorgimento, dell’Unità e del Regno d’Italia, fino ai diversi vessilli della Repubblica e a quelli utilizzati per obiettivi di valore civile e sociale, come nelle manifestazioni antimafia.

Tutte queste bandiere, dopo il bagno popolare di un anno nelle “Strade della bandiera” di Reggio Emilia – la manifestazione inaugurata dal presidente Giorgio Napolitano il 7 gennaio 2011 – sono finite negli studi dei 90 artisti.

Di qui la trasposizione, anzi la trasfigurazione artistica, qualcosa di straordinario che non ha precedenti, e ha visto gli artisti ispirarsi liberamente alla bandiera assegnata e ai suoi colori.

Umberto Mariani

La partecipazione degli artisti al progetto benefico e patriottico

Ma prima di fare un excursus sulle opere realizzate, intendiamo soffermarci sulle riflessioni  nate nella complessa organizzazione dell’evento che ha richiesto la ricerca preliminare degli artisti disposti a partecipare a un’iniziativa fuori del comune.

Ne parla l’artefice dell’iniziativa, Sandro Parmiggiani,   partendo dalla considerazione che “gli artisti vivono con particolare fastidio, e con molte ragioni, la consuetudine di andare a bussare alle loro porte per chiedere un’opera da destinare a un qualche scopo benefico”. Tanto più in questo caso in cui si trattava di un tema predeterminato e di un’opera da realizzare appositamente e non da scegliere tra quelle disponibili e inutilizzate.

Se in passato il ruolo rivestito dall’artista era coerente con le richieste di partecipare ad eventi benefici con la sua autorevolezza, in seguito la sua figura è andata mutando, anche per la crescente mercificazione dell’arte in cui l’aspetto economico ha prevaricato quello artistico per cui le richieste di partecipare  a iniziative benefiche hanno privilegiato il primo aspetto scadendo di livello ed esponendosi a frequenti rifiuti; mentre l’artista per sua stessa natura  è aperto alla società e sensibile alle esigenze dettate dalla solidarietà e dalla partecipazione  alle iniziative comuni.

L’iniziativa legata alle Bandiere ha potuto ristabilire un rapporto fecondo con gli artisti coinvolgendoli in un progetto che alla valenza civile e umanitaria ha unito un forte contenuto artistico, per di più riferito a uno dei valori più nobili dell’identità nazionale, quello legato alla Bandiera. E non a una sola bandiera, ma alle 86 bandiere che riflettono una lunga storia di aspirazioni e di lotte, di vittorie e di sconfitte, approdata alla fine nel Tricolore nazionale.

Lucio del Pezzo

Con la lunga esposizione agli agenti atmosferici nelle strade di Reggio Emilia hanno assunto lo stesso aspetto delle bandiere segnate dai campi di battaglia, in quelle date agli artisti c’era il segno del “vissuto”. La “street exibition” –  ha scritto Alberto Melloni   ha trasformato la città in “un museo a cielo aperto di grandi bandiere, messe come fitte quinte delle strade principali, a marcare le tappe e gli apporti che confluiscono nella bandiera nazionale in un percorso storicamente rigoroso”. 

Ha poi dato l’interpretazione della molteplicità di vessilli esposti che si è tradotta in una corrispondente  molteplicità delle opere d’arte a loro ispirate: “Un racconto muto che partendo dal tricolore francese dicesse le varianti di una metamorfosi nella quale non fosse il mito carducciano del ‘primo’ tricolore a costituire l’asse del discorso, ma al contrario il molteplice rifrangersi di un simbolo civile che, dopo la campagna napoleonica, si iscrive nella storia italiana, dalle bandiere degli Stati dell’Italia disunita”, fino alla Costituzione che ha posto “il tricolore come ultimo dei principi fondamentali”.  Al quale si sono aggiunti i vessilli del Quirinale, dell’UE e dell’ONU. 

Non sono stati posti vincoli alla personale interpretazione della specifica bandiera loro consegnata – scrive Parmiggiani –  da considerare solo “come un  punto di partenza da cui inoltrarsi nel loro cammino,  verso la realizzazione di un’opera che comunque recasse il segno della loro lingua, del loro stile”;  sono stati stimolati “a inoltrarsi su strade inesplorate, esperienze che, depositatesi nella memoria, fermenteranno nell’immaginario e saranno foriere di innovazioni nella loro opera”.

Ed ecco come gli artisti hanno risposto: “Alcuni sono intervenuti sulla bandiera stessa o su una sua parte, dipingendovi sopra o utilizzandola per creare un’opera-oggetto; altri ne hanno utilizzato frammenti per inserirli, attraverso il collage, nei loro lavori; altri ancora hanno creato un lavoro del tutto autonomo: la bandiera loro assegnata è diventata  fonte diretta di ispirazione per i possibili riferimenti di colori, di scritte, di forme disegnate”.

Gabrilla Benedini

Esposizioni delle opere e giudizi autorevoli

Le 90 opere sono state già esposte – “noblesse oblige” – a Reggio Emilia nei Chiostri di San Domenico, in una mostra inaugurata il 13 marzo 2013; poi sono state presentate il 2 giugno, nella festa della Repubblica,  alla sede dell’Accademia militare di Modena,  il cui legame con la bandiera è evidente.

Ma l’approdo al Vittoriano, l’Altare della patria, nel “Sacrario delle Bandiere”, è il culmine che l’iniziativa meritava di raggiungere: “Era un luogo cui appariva impensabile solo pensare, se non  come uno di quei ‘sogni’  che, parafrasando il testo teatrale di Indro Montanelli, ‘muoiono all’alba’”, scrive Parmiggiani, confidando sinceramente  come fosse inattesa l’apoteosi finale.

Nel “Sacrario delle Bandiere” la vastità dell’ambiente e la spettacolarità dei vessilli storici nelle  teche di vetro tutt’intorno fa sì che le opere degli artisti siano discrete, come a non voler turbare l’atmosfera quasi religiosa che vi si respira, una religione civile altrettanto coinvolgente. Ma proprio questa discrezione le fa inserire nello spazio centrale compenetrandole  nello spirito del luogo.

Il Catalogo riporta in elegante veste grafica per ogni artista l’opera realizzata a piena pagina e in aggiunta, riprodotta in piccolo, la bandiera assegnatagli cui si è ispirato; inoltre  una biografia esauriente che, riguardando 90 autori, concorre a formare una inedita, preziosa documentazione, come è preziosa la descrizione degli 86 vessilli, per ognuno dei quali si riassume la storia.

Graziano Pompili

E’ un accurato lavoro di ricerca che rappresenta un ulteriore valore aggiunto del progetto, ma non basta: “Se l’Italia fosse un paese molto diverso – scrive ancora Melloni – chi compra queste opere potrebbe essere tentato di ridonarle alla  città, perché diventino subito patrimonio di tutti”, prospettiva auspicabile ma non certa, per cui aggiunge: “Se non fosse così, se non sarà così, un catalogo dirà cosa questa città avrebbe potuto dire di se stessa a valle di una celebrazione che l’ha vista partecipe con le sue strade e la sua gente”.

Un orgoglio cittadino espresso anche dal sindaco Graziano Delrio: “Ci piace pensare che il tricolore italiano, con il suo impulso alla solidarietà, libertà, convivenza, non potesse nascere in un luogo qualsiasi. Proprio questo luogo non qualsiasi, Reggio Emilia, ha accolto il 150esimo dell’Unità d’Italia” con le strade imbandierate e ne è nata  l’iniziativa benefica. Un orgoglio che Sonia Masini, presidente della Provincia di Reggio Emilia, ha espresso sottolineando il contributo significativo della sua terra nel “far germogliare le radici democratiche della nazione, a radicare i valori della libertà, dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica”.  E  Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato che Reggio Emilia “deve la sua fama, a livello nazionale e internazionale, anche alla cura e all’attenzione dell’universo materno-infantile”,  associando così il richiamo al motivo benefico alla matrice civile patriottica.

Hidetoshi Nagasawa

Le diverse interpretazioni del  tema-oggetto “bandiera”

Dal confronto tra l’opera e la relativa bandiera si può ripercorrere idealmente l’itinerario dell’ispirazione artistica, vedere come il soggetto proposto è stato recepito e trasfigurato.  In una ampia serie di opere la bandiera di base è riconoscibile, o nella forma e struttura complessiva dell’opera oppure nei soli colori, nell’intero dipinto oppure in una consistente parte di esso.

Altre opere ne danno un’interpretazione molto più libera fino a rendere del tutto irriconoscibile la fonte originaria di ispirazione. In qualche caso viene dichiarato espressamente il diverso contenuto, ma si sente sempre che la sensibilità civile e umana è stata sollecitata per cui il nuovo riferimento è altrettanto meritevole. Pensiamo ai valori insiti in  “Imagine” di Lennon, come a quelli sottesi in altre fonti di ispirazioni liberamente associate alla bandiera in una riflessione a raggio più vasto.

E’  uno spaccato di arte contemporanea quello che viene presentato, la cui “lettura” è facilitata dal Catalogo che nell’ampia biografia di ognuno dei 90 artisti inserisce i caratteri salienti del loro stile pittorico, rappresentando una guida preziosa per la mostra oltre che un’istruttiva antologia.

A questo punto visitiamo la mostra, nell’atmosfera magica del “Sacrario delle bandiere”, consapevoli che, dato il gran numero di artisti e delle rispettive opere, dovremo limitarci a una rassegna forzatamente rapida senza poterci soffermare ma dando qualche sommario accenno su ciascun artista, senza omissioni, per una testimonianza completa.  Ne daremo conto prossimamente.

Piergiorgio Colomara

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel- 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una Bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito il 15 gennaio 2014.  Per le mostre citate cfr. i nostri articoli:  in questo sito, “43 artisti, la vecchia carta oleata ispira la modernità” 1° agosto 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e “Contemplazioni, bellezza e tradizione nella pittura italiana contemporanea” 4 agosto 2009.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori della mostra che si ringraziano con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Antonio Segui, seguono  quelle di Eugenio Carmi e Walter Valentini; poi di Umberto Mariani e Lucio del Pezzo;  quindi di Gabrilla Benedini Graziano Pompili, inoltre di Hidetoshi Nagasawa e Piergiorgio Colomara; in chiusura,  la bandiera di Antonio Marras.

Antonio Marras

 

Arcimboldo, le “teste composte” e le “pitture ridicole” a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante 

Ripubblichiamo la recensione uscita con poche immagini in www.arteculturaoggi.com il 18 aprile 2018.

La mostra presenta a Palazzo Barberini,, dal 20 ottobre 2017  all’11 febbraio 2018, per la prima volta a Roma, le opere altamente evocative dell’artista milanese vissuto per un quarto di secolo come pittore di corte nelle sedi imperiali absburgiche di  Vienna e Praga. Oltre alle 20 celebri opere di Arcimboldo, sono esposte circa 80 opere collegate perché espressione del mondo in cui l’artista ha potuto manifestare una creatività così insolita. Organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica  e da MondoMostre Skira, a cura di Sylvia Ferino-Pagden che ha diretto la Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum di Vienna ed è una delle maggiori studiose di Arcimboldo. Ha curato anche il catalogo Skira Editore.  

Giovanni Arciboldo, “Autoritratto cartaceo”, 1587

Un grande inizio, quello con Arcimboldo, del  programma  espositivo  negli spazi dedicati alle mostre temporanee delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Mentre le collezioni permanenti  nell’interminabile teoria di sale del palazzo offrono  un’immersione totale nell’arte al visitatore estasiato da una così vasta esposizione di opere  di valore incalcolabile, che culmina nel capolavoro caravaggesco  “Giuditta e  Oloferne”  e nella “Fornarina” di Raffaello. Ma la nuova direttrice Flaminia Gennari Sartori, disdegna la visione “iconica” basata sulle grandi attrazioni, per la visione “aniconica” che valorizza l’intera collezione. Si tratta comunque di un’opportunità aggiuntiva, un’opzione che accresce l’interesse per la visita alla mostra.

Arcimboldo, “Pannelli di vetrata”, “Santa Caterina, condotta al carcere e decapitata

Il valore della mostra

Perché abbiamo definito la mostra di Arcmiboldo un “grande inizio”?  Per l’eccezionalità dell’evento, dato che è molto difficile avere a disposizione le sue opere sparse tra musei che se ne privano con difficoltà, data la loro forza attrattiva. Si è colta l’occasione della mostra “Arcimboldo nature of Art” al National Museum of Western Art di Tokyo, che ha favorito la disponibilità degli 11 prestatori, europei e americani –  solo 3 in Italia a Firenze, Milano, Genova – che hanno fornito   le  20  principali opere  esposte dell’artista, cui se ne sono  aggiunte altre 80 per inquadrarle nel contesto storico, culturale e artistico in cui sono state create.  

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Giovanni Paolo Lomazzo, “Autoritratto
come abate dell’Acacdemia della Val di Blenio”, 1568

Così è stato possibile presentare Arcimboldo e il suo tempo  per la prima volta a Roma come inizio di un percorso con questo obiettivo, secondo le parole della direttrice Gennari Sartori: “Invitare il nostro pubblico a guardare diversamente, a giocare seriamente, a scoprire l’arte del passato con gli occhi di oggi”. Vedremo come si snoderà questo percorso nelle mostre successive,   intanto ecco come introduce questa mostra: “In uno dei suoi saggi Roland Barthes nel 1978 definì Arcimboldo ‘rhétoriqueur et magicien” mettendo  in luce come il maestro milanese con i suoi ritratti compositi ingaggiasse con lo spettatore un gioco, una sequenza di indovinelli visivi e mentali che ci tengono all’era mutando sottilmente  e profondamente il nostro modo di guardare le opere d’arte”.  

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Arcimboldo, cartone per arazzo “Dormitio Virginis” , con Giovanni Karcher;

Ci accingiamo a “guardare diversamente, giocare seriamente”, dunque. Immergendoci nel mondo di Arcimboldo, ricostruito con le 80 opere di contorno al nucleo delle 20 dell’artista, un mondo affascinante che si  estende da Milano alle corti imperiali dell’Europa centrale  della seconda metà del ‘500, e consente, sono sempre parole della Gennari Sartori, di “immergersi in una cultura che metteva al centro la curiosità, la combinazione  di osservazione minuziosa e scientifica con il gioco, la meraviglia e l’ironia”.  

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Arcinboldo, “Ritratto a mezzo busto di una figlia di Ferdinado I (arciduchessa Elena o Barbara)”, 1563

Il percorso artistico e personale di Arcimboldo 

Arcimboldo aveva la “forma mentis” adatta a valorizzare gli stimoli che riceveva da quella cultura così aperta e coinvolgente. Oltre che pittore era anche poeta e filosofo, si formò nella bottega del padre  Biagio,  pittore di orientamento leonardesco;  a 23 anni, nel 1549,  fece dei disegni per le vetrate del Duomo di Milano,  risultano pagamenti a tale titolo fino al 1557.  Poi, dal 1558 al 1560, cartone per un arazzo del Duomo di Como e affresco per il Duomo di Monza.  Dal 1562 cambia tutto, si trasferisce alla corte dell’imperatore Massmiliano d’Asburgo , dove viene definito “pittore di sua maestà reale”.

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Martino Rota, “L’imperatore Rodolfo II”,” s.d.

 

Come sia passato  dagli austeri  ritratti della famiglia imperiale alle  “Quattro stagioni”  in forma quasi “grottesca” sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto che  era impegnato anche  nell’organizzazione di feste e tornei imperiali,  fornendo disegni per costumi e ornamenti, e in questo contesto  era normale lo sbizzarrirsi della fantasia, secondo il clima dell’epoca.  Torna definitivamente a Milano nel 1587, dopo ben 25 anni, ma l’imperatore non lo dimentica: nel 1592, l’anno prima della morte, Rodolfo II  gli conferisce un’ambita onorificenza nominandolo Conte Palatino. 

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Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” , 1610-22

La fantasia, dunque, come base dell’ispirazione artistica, che troviamo teorizzata nel “Dialogo di Comanini il Figino overo il fine della pittura” definita come imitazione  nelle due forme di “imitazione icastica”, con la riproduzione di un oggetto reale,  e “imitazione fantastica”   con la rappresentazione di un oggetto immaginario, come nelle “grottesche”, le pitture delle grotte romane.  Secondo Comanini  la fantasia entra anche nella rappresentazione della realtà, cosa che di recente è stata riconosciuta ad Arcimboldo riconoscendo che le sue “teste fantastiche”  sono basate su accurati studi scientifici del mondo animale e vegetale, realtà alla quale applica un metodo fantastico nella composizione immaginifica dei soggetti. 

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Arcimboldo, “Allegoria delle Quattro Stagioni: Primavera-Estate, Autunno-Inverno”, 1700

Il suo metodo compositivo ha radici antiche, in Persia, nell’India, in Giappone,  addirittura si risale al Vecchio Testamento e alla poesia antica. In cosa consiste tale metodo “fantastico” che però combina elementi della “realtà” in modo insolito,  apparentemente paradossale?  Risiede nel comporre le teste  con elementi attinenti al significato attribuito al soggetto, se un individuo con elementi della sua attività, se una stagione con elementi  caratteristici della natura. Così abbiamo teste fatte di fogli e libri per il “Giurista” e il “Bibliotecario”, di fiori e frutti, pesci e uccelli a seconda della “Stagione”  o dei “4 elementi” naturali.  

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Arcimboldo, “La Primavera”, 1555-60

Per questa sua vistosa  “irrazionalità”,  è stato considerato dai dadaisti e surrealisti un loro precursore, e Oskar Kokoschka lo ha definito “il patriarca del surrealismo”  affermando che i suoi ritratti di teste “sono composti da un’accozzaglia di cose riunite  per una coincidenza priva di senso”. Abbiamo detto che questo è solo apparente, mentre vi è un preciso significato nella composizione di elementi nel soggetto raffigurato. 

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Arcimboldo, “La Primavera”, “Prrticolare”

Qual è il risultato? La curatrice Sylvia Ferino- Pagden  lo vede così: “Ognuno di questi oggetti, accuratamente scelti, si intreccia e si sovrappone, gareggiando con gli altri per ottenere un ruolo preciso all’interno del dipinto e accentuarne l’impatto complessivo”.  E per il visitatore? “La raffigurazione mimetica della natura crea un effetto oltremodo divertente, che affascina lo spettatore suscitando in lui un piacere intellettuale. Con la sua buona dose di spirito  e ironia, il gioco arcimboldiano non poteva che costituire fonte di ispirazione per la creazione di altri generi, come ad esempio la caricatura”.

Non resta che visitare la mostra per verificare direttamente il fascino surreale dell’artista immergendoci nel mondo in cui si è potuta sviluppare una  visione così inusitata, innovativa e indubbiamente spiazzante l’ortodossia artistica. 

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Arciboldo, “L’Estate”, 1572

L’ambiente milanese e le  opere di Arcimboldo prima della corte absburgica

Nelle prime due sale ci si prepara all’incontro con Arcimboldo, il “clou” della mostra,  inserendo il visitatore nell’ambiente milanese,  con una delle figure più seguite, Giovanni Paolo Lomazzo, di cui viene presentato l’“Autoritratto” come abate”, 1560-70, oltre al libro d’epoca, che abbiamo citato,  di Gregorio Comanini, Il Figino overo del fine della pittura“, 1591. Ma c’è soprattutto l’ “Autoritratto cartaceo” di Giuseppe Arcimboldo, a matita, inchiostro e acquerello, del 1587, a 61 anni, come un  dignitario, austero, con un alto collare dell’abito. 

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Arcimboldo, “L’Estate”, “Particolare”

Siamo a metà del ‘500, con il forte influsso leonardesco, sono esposti dipinti di artisti legati a Leonardo, di Cesare de Sesto,   “Madonna dell’Albero”, 1515-20,  di Martino Piazza da Lodi, “Madonna  con Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta”, 1510-20.  E poi caricature a penna, “Due teste”  attribuite  a Francesco Melzi  che portò a Milano i codici e i disegni di Leonardo, divenuti subito oggetto di studio,  e “Quattro teste” di un Seguace di Leonardo. 

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Arcimboldo, “L’Autunno”, 1572

Ma non è tutto, l’inquadramento milanese è completato da una serie di Monete , tra il 1552 e il 1575, di Leone Leoni  e Annibale Fontana, Antonio Abondio e Francesco di Sangallo, che celebrano artisti impegnati nella produzione di oggetti artistici di lusso con materiali preziosi – Girolamo Cardano, Paolo Giovio e Giovanni Paolo Lomazzzo –  di cui sono esposti degli esemplari, alcune Coppe in cristallo e oro,  fino all’elmo in acciaio di un’armatura, “Borgognotta”.  Questi oggetti di lusso prodotti nel milanese erano conosciuti e  apprezzati  dai collezionisti europei, e in particolare dalla corte imperiale degli Absburgo, cui sono dedicate anche altre Monete, su Carlo V e Massimiliano II,  esposte insieme a quelle sugli artisti.  Si può capire  come potè avvenire che Arcimboldo fosse chiamato alla corte absburgica  dove restò 25 anni. 

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Arcimboldo, “L’Inverno” , 1563

Prima di seguirlo a Vienna, come factotum delle feste imperiali,  e pittore di corte, vediamo esposte alcune opere di Arcimboldo,  2  pannelli di vetrata per il Duomo di Milano, “Santa  Caterina viene mandata in carcere” e “Santa Caterina viene decapitata”, 1556, quando aveva trent’anni, e  l’arazzo realizzato  dal celebre tessitore  Giovanni Kircher per il  Duomo di Como, su cartone di Arcimboldo, “Dormitio Virginis”, del 1561-62, l’anno del trasferimento alla corte imperiale. 

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Arcimboldo, “L’acqua”, 1566

L’inquadramento preparatorio finalmente ci presenta opere di Arcimboldo in carattere con la sua assoluta peculiarità  che lo ha qualificato in modo così prestigioso nel mondo. Sono  celebri teste composte che risalgono al 1555-60, diversi anni prima di trasferirsi a ‘Vienna, “L’ Estate” e “L’inverno”, con la combinazione di una serie di elementi in carattere con tali stagioni.  

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Arcimboldo, “L’Acqua”, “Particolare”, 1566

Dopo questo “assaggio” , torniamo alla cronaca, lo abbiamo lascito con il cartone per il Duomo di Como, prima della partenza per Vienna. Ora lo troviamo a Vienna, non più le opere religiose e le prime teste composte, bensì vediamo tre severi ritratti, a lui attribuiti, “L’arciduchessa Anna, figlia dell’imperatore Massimiliano II”,  “Una figlia di Ferdinando I (arciduchessa Elena o Barbara)” e un “Ritratto di arciduchessa (Margherita?)”.

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Arcimboldo, “L’Aria”, post 1566

Sono tutti del 1563, l’anno dopo il suo arrivo alla corte imperiale, quando viene nominato “pittore di Sua maestà reale” alle dirette dipendenze  dell’arciduca Massimiliano che succederà molto presto al padre  sul trono imperiale,  nel 1664. Muore dopo 12 anni di impero  e gli succede  il figlio di 24 anni Rodolfo II, che essendo un collezionista stima Arcimboldo, lo tiene nella corte a Vienna, e lo porta con sé a Praga allorchè vi trasferisce la corte nel 1583: lo vediamo in un ritratto di Martino Rota 1576-80.   

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Arcimboldo, “L’Aria”, Particolare

Per renderne l’ambiente mediante oggetti artistici,   sono esposte  4 Coppe di Ottavio Miseroni, realizzate tra il 1610 e il 1530, tra esse “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22 , e una  “Bacinella in quarzo” della prima metà del ‘600.  Anche lui è un artiusta milanese presente a Vienna, Arcimboldo ci entra in contatto.

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Arcimboldo, “La Terra”

Il “sancta sanctorum” della mostra, le “Quattro stagioni e i Quattro elementi 

Ma ora entriamo in una sorta di “sancta sanctorum”, il cuore della mostra, una rotonda al centro dell’area espositiva con le più celebrate “teste composte” di Arcimboldo, sono 8, il ciclo delle Quattro stagioni, 1555-1572, “La Primavera” e  “L’Estate”,  “L’Autunno” e “L’Inverno”, e il ciclo dei Quattro elementi, intorno al 1566, “L’Acqua” e “L’Aria”, “”La Terra” e “Il Fuoco” .  Ci piace ittrodurle con le “Allegorie delle Quattro Stagioni: Promavera-Estate, Autunno-Inverno”, acqueforti in inchiostro rosso riprese dalle sue opere nel 1700, un secolo dopo la sua morte del 1596, perchè ne rendono in modo schematico le linee compositive.

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Arcimboldo, “La Terra”, “Particolare”

E’ una bella sorpresa che invita a “giocare seriamente”,  secondo l’intento della direttrice,   con le opere singolari che circondano il visitatore e sembra che lo guardino. E il “gioco” consiste nell’identificare le componenti di queste teste: sia  nelle Quattro  stagioni che nei Quattro elementi  evocano gli aspetti  caratteristici del periodo, dai fiori e frutti di stagione agli animali in carattere con la stagione o l’elemento considerato. Il tutto con una maestria compositiva che amalgama  componenti così eterogenee non solo creando un effetto  del tutto particolare.  

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Arcimboldo, “Il Fuoco”, post 1566

A noi sono sembrati esseri silvani, elfi che emergono dai più riposti recessi naturali, creature che, come avviene nelle fiabe, hanno un che di misterioso e di inquietante. La Ferino-Pagden definisce così  l’impatto sul visitatore : ” Le teste composte di Arcimboldo  racchiudono una molteplicità di punti di vista:  guardando la testa da lontano – che sia raffigurata di profilo, di fronte o di tre quarti – l’osservatore ne coglie la forma complessiva, spesso mostruosa, ma solo dopo essersi avvicinato inizia a notare  la resa accurata dei singoli oggetti che la compongono”.

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Arcimboldo, “Il Fuoco”, “Particolare”

E non è soltanto  una constatazione estetica: “Ognuno di essi – fiori, frutti, pesci, animali vari, ferri per caminetto, segnalibri, fasci di fiori, cannoni e molto altro ancora – contribuisce al significato della rappresentazione, sia che si tratti della caricatura di un individuo o di un mestiere. Di una stagione, di un elemento naturale, di un’allegoria, di una testa reversibile o di una natura morta”. 

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Libro d’epoca con disegni di animali

Nel “sancta  sanctorum” della mostra abbiamo fatto la conoscenza con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  più avanti troveremo la “caricatura di un individuo o di un mestiere”, e anche di “una testa reversibile o di una natura morta”. Prima di queste ultime  trovate particolarmente intriganti, vogliamo citare opere di Arcimboldo più che sessantenne, molto successive alle “teste composite” ora descritte, rientranti però nella più assoluta normalità; riguardano disegni  per le feste di corte, come “Donna in costume con merletto”, “Costume per armigero” e “Costume per la figura allegorica della Musica”, “Slitta con satiri” e “Tre uomini su una slitta“, tutte del 1585,  trent’anni dopo “Le Quattro stagioni”, vent’anni dopo i “Quattro elementi”. Ma non è che la vena  irridente e surreale si fosse esaurita,  e lo vedremo. 

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Hans Hoffmann, “La lepre”, 1585

Due intermezzi, studi naturalistici e “stanza delle meraviglie”  

Prima, però, la mostra presenta  due intermezzi, importanti per meglio comprendere il contesto storico, culturale e di costume nel quale è stato possibile  che la creatività di Arcimboldo prendesse una direttrice così inusitata.  Il primo riguarda gli studi naturalistici in voga nel periodo alimentati dallo sviluppo dei commerci  con l’Estremo Oriente, che portavano i prodotti esotici sconosciuti e tali da susscitare curiosità e interesse, soprattutto verso ciò che era diverso e stravagante.

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Anonimo, “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales”, post 1580

Vediamo questa tendenza nei  4 volumi di “Ornitologia” illustrati da Ulisse Aldrovandi tra il 1599 e il 1603, e in più “De Piscibus…” illustrato dallo stesso nel  1613; anche Arcimboldo illustrò libri naturalistici promossi dallo studioso bolognese. Oltre ai libri di Aldrovandi,  quelli  sugli “Animali” di Leonhart Fuchs, Conrad Genser, e Andrea Mattioli, tra il 1551 e il 1568, e quelli sui “Pesci” di Pierre Belon e Ippolito Salviani. del 1553-54.  Del’ 600,  spettacolari “Tavole di animali” anonime.   Il dipinto di Hans Hoffmann, “La lepre” 1565 è un’espressione pittorica di questo interesse per gli animali negli studi naturalistici.

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Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” , 1610-22

Non solo illustrazioni, i collezionisti si orientavano verso oggetti che si inserivano in questa tendenza,  venivano creati ispirandosi a reperti scientifici con cui erano raffrontati, nasce così la Wunderkammer”, “Stanza delle meraviglie”,  Vediamo esposti alcuni di questi oggetti, “La lepre” e “Due lucertole”, il “Serpente”  e la “Rana”,  fino al “Granciporro”; e anche lampade a olio di forma particolare, come la “Testa di satiro” o il “Volto che fa una smorfia”.  

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo”, s. d.

Ma c’è dell’altro, in questa “stanza delle meraviglie” entrano elementi naturali che diventano vere icone per la lavorazione con materiali preziosi: vediamo esposti la “Noce di cocco”  e un “Corallo bianco” con montature in argento, così il “Corno di rinoceronte” bianco in un calice  e una coppetta,  le “Zanne di tricheco”, il “Rostro di pesce sega”  e la “Mandibola di squalo”, come dei totem,  sono tutti del ‘600, appartengono alla collezione Koelliker.

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo”, “Partiolare”

L’interesse  si acuiva dinanzi a fenomeni  patologici insoliti,  come in “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales”, e “Ritratto di Antonietta Gonzales” di Lavinia Fontana, tra il 1580 e il 1595, famiglia colpita da una malattia che creava  una crescita abnorme di peli, all’epoca gli “irsuti” venivano mostrati nelle corti come attrazione per l’aspetto stravagante, spesso repellente.  

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di donna”, s. d.

Le nature morte con le teste reversibili  

Usciamo dall’immersione nel clima di allora tornando al mondo fantastico e insieme realistico di Arcimboldo, presentato nelle ultime 3 sale della mostra,  in un allestimento che abbiamo trovato magistrale. Ed è come se tornassimo nella rotonda con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  ma cronologicamente si è andati molto avanti, l’artista  è rientrato dopo 25 anni a Milano, dove lo accolgono Giovanni Ambrogio Figino e Vincenzo Campi.

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Seguace di Arcimboldo, “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto)”, tardo 16° sec.

Sono gli anni della formazione di Caravaggio, le  opere  di Arcimboldo sono molto apprezzate per la sensibilità che emerge nella rappresentazione della realtà, piuttosto che per la bizzarria, e questo va inquadrato nella tendenza  verso i significati allegorici e i simbolismi anche in senso morale, che troviamo nel Figino e altri; tra il ‘500 e il ‘600 le rigogliose “Nature morte” , quanto mai “vive”, di Fede Galizia.  

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Arcimboldo, “L’Inverno”, 1572

La prima sorpresa è un altro “Inverno” di Arcimboldo, 1572, sempre la testa arborea, con lievi significative differenze riptto al 1563, mentre un “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto” è di un seguace del tardo ‘500, composizione meno ricca di elementi, anche se la tecnica compositiva è la stessa.  Analogamente, la  “Testa composta di uomo” e la “Testa composta di donna” di Bartolomo/Bartolo Bossi.  

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Arcimboldo, “Il Cuoco / Piatto di arrosto”, 1590-93

La sala con “Il bel composto”  presenta anche opere in  maiolica,  “Piatto con testa composta di falli”, 1536, attribuito a Francesco Urbani, e in bronzo,  “Medaglia con testa composta raffigurante un satiro (recto)“, e “… con testa composta di falli (verso)“, del XVI sec.,  riferimenti sessuali secondo la moda di rendere greve l’allusione satirica e il riferimento caricaturale;   2 xilografie, di Hans Meyer e Wenceslaus Hollr  con “Paesaggio antropomorfo” , tra il 1560 e il 1660, e 2 acqueforti in inchiostro rosso, “Allegorie delle Quattro Stagioni (da Arcimboldo)”, con due teste ciascuna, ” Primavera-Estate” e “Autunno-Inverno”

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Arcimboldo, “L’Ortolano / Ciotola di verdure”, 1590-93

Siamo alla “natura morta” di  cui Arcimboldo ci dà una versione acrobatica  nelle due teste reversibili, “”Il Cuoco/ Piatto di arrosto”, e L’Ortolano (Priapo)/ Ciotola di verdure”, 1590-93: ha più di 65 anni, il suo spirito creativo resta molto attivo, l’inventiva non  è attenuata; muore nel 1596. Non sappiamo se conosceva la “Figura da capovolgere” di Giovanni Andrea Maglioli, esposta in due versioni, maschile e femminile,  capovolta mostra un’immagine animalesca; ma  il mimetismo rovesciato di Arcimboldo va ben oltre,  e l’allestimento della mostra consente al visitatore di cogliere l’effetto sorprendente delle due teste reversibili. 

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Vincenzo Ciampi, ““I mangiaricotta”, 1585

Conclusione del viaggio famtastico, le “pitture ridicole” 

 Le “pitture ridicole” sono l’ultima sorpresa,  prendono avvio addirittura dalle “teste caricate” di Leonardo,  con i lineamenti deformati, delle quali le “teste composte” sono l’evoluzione  estrema.  Vediamo  tre opere   emblematiche a questo fine, in chiave di reazione sarcastica al severo manierismo accademico:   “Homo ridiculo” di Anonimo lombardo, intorno al 1550, con uno straripante riso ironico,  l’“Autoritratto come abate dell’Accademia della Val di Blenio”, forse 1568, di Giovanni Paolo Lomazzo, citato all’inizio, ricorda come il pittore divenuto trattatista con la cecità fondò una associazione di artisti finti “facchini” di quella remota vallata all’insegna della semplicità contro le sofisticazioni,  e  “I mangiaricotta” 1585, “I pescivendoli” 1588-91, di Vincenzo Ciampi , con l’esaltazione delle figure  popolaresche contro quelle paludate.  

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Vincenzo Ciampi, “I pescivendoli” 1588-91

Arcimboldo, dopo  le “Quattro stagioni” e i “Quattro  elementi” , dove  il simbolismo prevale trattandosi di figure che richiamano fenomeni naturali realizza “Il Bibliotecario” e “Il Giurista”, il secondo datato 1566, 4 anni dopo il trasferimento alla corte imperiale, dove l’aspetto caricaturale è evidente, quindi rientrano a buon diritto nelle “pitture ridicole”. Non sono solo teste, ma figure a mezzo busto, il  primo ha i capelli formati da pagine aperte di un libro e il corpo da volumi accatastati, il secondo ha il volto formato dai capponi di Renzo, quindi il termine “giurista” sta ironicamente per “Azzeccagarbugli “.  

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Arcimboldo, “Il Bibliotacario”

E’ un bel commiato, colmo di ironia, da un artista che, pur nella sua eccentricità oltre ogni dire, ha avuto un’elevata valutazione non solo ai suoi tempi – e il quarto di secolo trascorso alla corte imperiale ne è un segno evidente – ma anche dopo.  “Si pensi che dopo una  mostra a Parigi nel 2007 – ricorda la curatrice Ferino-Pagden –   le Stagioni nel Louvre sarebbero diventati i dipinti più famosi dopo la Gioconda”.   

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Arcimboldo, ” Il Giurista”,1566

E, tornando alla mostra di  Palazzo Barberini, non è certo un caso che troviamo al termine  la “Testa composta, con elementi utilizzati nell’atelier Capucci”, è una gustosa realizzazione di  Roberto Capucci, nella contemporaneità più stringente, del 2017, per la mostra. Meglio di così non si poteva concludere il viaggio nel mondo fantasioso di Arcibmboldo, in un realismo naturalistico esasperato fiuno al paradosso. 

Vetrina con disegni di animali

Info

Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13. Da martedì a domenica, ore 9,00-19,00, lunedì chiuso. Ingresso, audio guida inclusa:  intero euro 15,  ridotto euro 13 per le categorie aventi diritto, gratuito under 18, invalidi, soci ICOM, guide turistiche, dipendenti MiBACT; con il biglietto di ingresso al Museo, intero euro 12, ridotto euro 6, l’ingresso alla mostra è ridotto a euro 10.. Tel 06.4824184, prenotazioni 06 81100257. www.barberinicorsini.org, www.arcimboldoroma.it; E mail: Gan-aar@beniculturali.it.   Catalogo “Arcimboldo”, a cura di Sylvia Ferino-Pagden,  Skira Editore 2017, pp. 176, formato 28 x 24.  

Fede Galizia, “Natura morta” fine 16° sec. , inizi 17° sec.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, le Gallerie Nazionali di Arte Antica, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  Sono inserite in ordine di citazione nel testo. In apertura, Giovanni Arciboldo, “Autoritratto cartaceo” 1587, seguono due “Pannelli di vetrata”, “Santa Caterina, condotta al carcere e decapitata“; poi, Giovanni Paolo Lomazzo, “Autoritratto come abate dell’Acacdemia della Val di Blenio” 1568, e Arcimboldo, cartone per arazzo “Dormitio Virginis” , con Giovanni Karcher; quindi, Arcinboldo, “Ritratto a mezzo busto di una figlia di Ferdinado I (arciduchessa Elena o Barbara” 1563, e Martino Rota, “L’imperatore Rodolfo II”” s.d.e ; inoltre, Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22, e da Arcimboldo, “Allegoria delle Quattro Stagioni: Primavera-Estate, Autunno-Inverno” 1700; si entra nel cuore delle “Quattro stagioni”, “La Primavera” 1555-60 e suo “Prrticolare”, “L’Estate” 1572 e suo “Particolare”, “L’Autunno” 1572 e suo “Particolare” , “L’Inverno” 1563 e suo “Particolare”; poi nel cuore dei “Quattro elementi”, “L’Aria” post 1566 e suo “Particolare”, “L’acqua” 1566 e suo “Particolare”, “”Il Fuoco” post 1566 e suo “Particolare” , La Terra” 1566 e suo “Particolare” ; quindi, Libro d’epoca con disegni di animali e il dipinto di Hans Hoffmann, “La lepre” 1585; inoltre, Anonimo, “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales” post 1580, e Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22; ancora, Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo” e suo “Partiolare” , “Testa composta di donna”; continua, Seguace di Arcimboldo, “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto” tardo 16° sec., e Arcimboldo, “L’Inverno” 15ì72; prosegue, Arcimboldo, “Il Cuoco / Piatto di arrosto”, e “L’Ortolano / Ciotola di verdure” 1590-93; poi, Vincenzo Ciampi, ““I mangiaricotta” 1585 e ““I pescivendoli” 1588-91; quindi, Arcimboldo, “Il Bibliotecario” e “Il Giurista” 1566; infine, Vetrina con disegni di animali e Fede Galizia, “Natura morta” fine 16° sec., inizi 17° sec.; in chiusura, Roberto Capucci, “Testa composta, con elementi utilizzati nell’atelier Capucci” 2017.

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Roberto Capucci, “Testa composta, con elementi
utilizzati nell’atelier Capucci”, 2017

16^ Quadriennale di Roma, 4. Le ultime 6 sezioni, con Pasolini

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerun rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo.In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro”, 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim, 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”, 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012. 

Human, il futuro della specie umana, in mostra a Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo la recensione uscita senza immagini nel sito www.arteculturaoggi.com il 17 maggio 2018

Al  Palazzo Esposizioni, dal 27 febbraio al 1° luglio 2018,  la mostra “Human + Il futuro della nostra specie” ha presentato  una serie di evidenze sulle realizzazioni tecnologiche nelle direttrici scientifiche più avanzate riguardanti in particolare il potenziamento delle capacità umane e le prospettive dell’esistenza con tutte le implicazioni della rivoluzione già in  atto che anticipa il futuro. La mostra, realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, con un Team curatoriale di 9 membri e un  Comitato consultivo con 46 componenti è stata a cura di Cathrine Kramer, che ha curato anche il catalogo bilingue.

La copertina del Catalogo della mostra

Il Palazzo Esposizioni prosegue nella sua meritoria attività di approfondimento e  divulgazione, di tematiche legate al mondo scientifico: da “Astri e particelle“, “Darwin”  e “Homo sapiens” del 2009-12 a “Dna” del 2017 attraverso  “Meteoriti”“Numeri” e “Cibo”  del 2014-15. La mostra del 2018, ““Human +“, proietta nel “futuro della nostra specie”, come recita il sottotitolo: futuro nelle riceche avveniristiche e nelle ardite sperimentazioni scientifiche  evocate con le evidenze progettuali  delle sofisticate tecnologie e di nuovi campi di applicazione, il tutto documentato nei pannelli illustrativi.

I traguardi raggiunti dalla scienza – come ha spiegato il Commissario del Palazzo Esposizioni Innocenzo Cipolletta – vengono presentati “in parallelo ad altri aspetti della cultura contemporanea”,  dato che “l’arte fa da ponte con la scienza dando  una diversa interpretazione della realtà, sollecitando interrogativi e un approccio dialettico”.  Vengono evidenziate le potenzialità umane, in gran parte inespresse, e la possibilità di mobilitarle  per “un futuro migliore con vantaggi che sino a poco tempo fa erano solo un’utopia”.

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Protesi

Il potenziamento delle facoltà umane al centro della mostra

Punto centrale di “Human +” è il potenziamento artificiale delle facoltà umane, realizzato anche attraverso protesi e interventi più o meno invasivi, che non deve essere visto come un fatto inedito connesso agli eccessi del modernismo, perché dalla scrittura, agli occhiali, alle lenti a contatto  si è sempre fatto così con le tecnologie esistenti al momento, che oggi  hanno moltiplicato la loro straordinaria potenza.  L’uso della tecnologia per progredire ha favorito la crescita della popolazione umana,  dai 200 milioni di 2000 anni fa agli attuali 7 miliardi, in condizioni di vita di gran lunga migliori.

D’altra parte, come ha ricordato la ricercatrice Juliana Adelman, intervistata dal curatore della mostra, “siamo una specie come un’altra che deve soddisfare esigenze specifiche per sopravvivere. Gli esseri umani si sono  dimostrati incredibilmente adattabili  e così hanno avuto un successo straordinario nel gioco della sopravvivenza”.  ma le difficoltà sono aumentate: “Oggi abbiamo di fronte un futuro che sembra mettere a repentaglio proprio questo successo”. Cita l’esplosione demografica e l’impoverimento, fino ai cambiamenti ambientali globali che “lasceranno tutti un segno indelebile sul futuro della nostra specie”. E si chiede: “L’ingegno umano riuscirà a trovare una via d’uscita dalla nostra situazione attuale?

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Protesi “indossate”

Secondo Mc  Luhan  “la tecnologia è la cosa più umana che abbiamo”, come estensione di noi stessi  tale da aumentare le nostre capacità ma anche da moltiplicare le nostre ansie perché  al cambiamento non corrisponde sempre un effettivo progresso. Ed è proprio questo un nodo cruciale che il titolo della mostra evoca aggiungendo un + ad “Human” nel senso di dare una direzione positiva all’azione della tecnologia.

Viene evocato il rischio che l’ampliamento artificiale di certe capacità può comportare la perdita delle abilità tradizionali, E sulle abilità si sottolinea che sono proprio i diversamente abili colpiti da minorazioni fisiche,  le avanguardie delle tecnologie di potenziamento effettivamente impiegate; al punto da ipotizzare delle Olimpiadi Extraspeciali riservate  a coloro che vengono dotati di superpoteri con protesi particolarmente avanzate; già nell’atletica abbiamo visto come le protesi a gambe di ghepardo sostitutive degli arti inferiori  fanno superare del tutto un handicap motorio apparentemente incolmabile.

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Protesi “gambe da ghepardo”

Oltre ai diversamente abili un importante campo di applicazione è quello militare soprattutto negli USA per i reduci dalle guerre, in particolare Iraq e Afghanistan  che hanno riportato gravi  mutilazioni per le quali vengono studiate protesi non soltanto meccaniche ma anche neurali controllate da un’interfaccia cervello-computer.

Le linee di sviluppo più esplorate sono quelle del trapianto degli organi, tanto che è stato istituito il “New Organ Prize” che si propone di assegnare 10 milioni di dollari a chi trapianterà un nuovo organo entro il 2020. Il movimento transumanista è impegnato per il prolungamento della vita e della giovinezza, anche attraverso le cellule staminali che permettono di creare parti del corpo da sostituire a quelle deteriorate con l’età ed i cloni, finora evocati nella letteratura fantascientifica ma che divengono realtà.

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“Un autoritratto al giorno” di Bryan Lewis Sanders, 4 immagini

Un’ipotesi suggestiva viene avanzata: che l’Homo sapiens sarà superato dall’Homo evolutus , in grado di controllare il proprio destino biologico. Lo preannunciano le conoscenze sul DNA e sulle possibilità di modificarlo, con le possibili conseguenze sul piano sociale, ecologico e ambientale che fanno ritenere utopiche le prospettive avveniristiche di prolungare la vita in modo indefinito con la medicina rigenerativa.

Se questo è vero,  non può essere nascosto neppure quello che viene definito “il rovescio della medaglia del principio di precauzione”,  cioè “i costi e l’etica dell’inazione” insita nella volontà autolesionista di  “non perseguire i miglioramenti del benessere umano nei modi desiderati da individui o gruppi, fatto sempre salvo, ovviamente, che questi miglioramenti non violino i diritti degli altri”.

Dilemma acuto nella fase attuale in cui le possibilità sono moltiplicate – come ha detto Charles Spillane,docente e ricercatore, intervistato dal curatore della mostra – “per via dei progressi tecnologici convergenti nel campo della robotica e delle nanotecnologie, dell’informatica, con l’intelligenza artificiale, delle scienze cognitive e delle biotecnologie”, considerando che “le tecnologie convergenti tendono a generare innovazioni rivoluzionarie” e offrono “entusiasmanti possibilità per il potenziamento umano”.

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“Un autoritratto al giorno” di Bryan Lewis Sanders, altre 2 immagini

La presentazione della mostra conclude così: “A metà tra un negozio di dolciumi e una farmacia, “Human+” ci propone un mondo di pillole, promesse e protesi alla Alice nel paese delle meraviglie. I progetti in mostra sottolineano la natura fragile  e imprevedibile dei possibili percorsi futuri, invitandoci a riflettere sui diversi aspetti , costi e conseguenze  inattese del potenziamento dell’essere umano”.

Vengono presentati progetti in fase avanzata di realizzazione che danno un’idea sulle prospettive concrete di potenziare le capacità umane e pongono al contempo l’accento sulle scelte che dovranno venire compiute; questo soprattutto a livello collettivo perché sul piano individuale le scelte già avvengono, se si considera il numero di coloro, peraltro sempre più ridotto, che rifiutano  computer  e posta elettronica  subendo in tal modo, più o meno consapevolmente,  limitazioni nella vita personale e professionale.

Inoltre, aspetto di particolare interesse, la rassegna tecnologica  è corredata da opere di  artisti, la cui importanza va oltre la testimonianza: la prospettiva “basata totalmente, o quasi, su una idea di progresso all’insegna dell’idea di miglioramento tecnologico” viene opportunamente integrata, se non corretta: “A ben guardare – afferma Valentino Catricalà di “Mondo digitale”– , una nuova rilettura di questa visione può partire proprio dagli artisti selezionati nella sezione italiana di questa mostra, il cui principio  di selezione si è basato soprattutto sul tentativo di dare uno sguardo nuovo, più contemporaneo, a questi fenomeni”.

Impianto del “terzo orecchio” di Sterlac

Protesi e interventi, strumenti e robot, macchine e cyborgismo

“Capacità aumentate”, la 1^ sezione della mostra, riguarda i metodi fisici, chimici e biologici che possono essere adottati per potenziare la mente  e il corpo.  Sono presentate diverse protesi, tra quelle realizzate alcune sostituiscono parti del corpo deficitarie, altre servono a potenziare le prestazioni della persona, fino al congegno che stimola emozioni particolari.

La prima protesi presentata è quella in fibre di carbonio modellata sulle Gambe del ghepardo per Aimee Mullins, nata senza peroni, con le gambe amputate sotto al ginocchio. Era destinata a una sedia a rotelle mentre ai giochi  paraolimpici del 1996 ha stabilito addirittura i record mondiali dei 100, 200  metri piani e salto in lungo, è sfilata sulle passerelle di moda e nel 2011 è diventata ambasciatrice globale per una grande casa di cosmetici, l’Oreal Paris, una icona positiva.

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“Casco deceleratore”

Sono esposte anche le Protesi a basso costo del programma FabLab, dell’House of Natural Fiber Sprint, in particolare regolabili per gli arti inferiori a un costo di produzione  addirittura inferiore a 50 dollari; in tal modo offrono la possibilità di far fronte a una domanda di protesi in forte crescita ostacolata dagli alti costi che così vengono abbattuti. Gli utenti finali sono coinvolti nel progetto realizzato con una rete globale di altre 400 FabLab, che va, MIT di Boston ad Amsterdam, da Nuova Delhi all’Indonesia.

Nello stesso campo incontriamo il “Progetto per arti alternativi” creato da una designer di protesi ortopediche, Sophie de Oliveira Barata su sollecitazione di una ragazza, Polyanna Hope, che ogni anno le chiedeva una protesi diversa, e di una cantautrice e modella, Vikatoria Modesta, che le commissionava protesi alternative per la gamba sinistra amputata in grado di cambiare la percezione della disabilità valorizzandola come bellezza, ha progettato anche un braccio bionico.

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Progetto di “impollinazione umana”

Sulla bellezza, “Tagliare lungo la linea” mostra la performance dell’artista Regina José Galindo, che ha fatto evidenziare con un pennarello da un famoso chirurgo plastico venezuelano, Billy Spence, le parti del corpo che avrebbe  modificato per raggiungere i canoni della bellezza, in tal modo il corpo viene paradossalmente decostruito in forme astratte su aspettative irrealistiche.

Impressionante la provocazione del performer anticonformista americano Bryan Lewis Sauders che dal 1995 dipinge “Un autoritratto al giorno”, ne ha realizzati 10.000 e intende proseguire ponendosi al centro delle raffigurazioni del mondo, e per meglio esplorare la percezione di se stesso lo ha fatto anche assumendo ogni giorno droga e .registrando i propri cambiamenti correndo gravi rischi.

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“Foraggeri”, con la biologia sintetica

In questa ricerca che va fino all’autolesionismo si inserisce l’Impianto a Los Angeles del terzo orecchio dell’artista Serlac”nel braccio sinistro per il progetto “Extra Ear” in una serie di grandi fotografie dell’australiana Lina Sellars della serie “Obliquo” che è “situata tra il teatro chirurgico e la teatralità del barocco”.

Con il “Casco deceleratore”, di Lorenz Potthast, esposto in mostra, si ha una “percezione personalizzata” al rallentatore che muta il rapporto con il tempo nel divario verso la percezione temporale, nelle modalità “Auto” automatica, “Press” scelta autonoma, “Scroll” in sequenza scorrendo nel tempo.

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“Scultura di neonato” su cui si è intervenuti chirurgicamente

Si può indossare anche la “Macchina Avatar”, di Marc Owens, che trasmette scene di vita reale come fossero di una terza persona in una “visione extracorporea di se stesso in tempo reale”, mescolando spazi reali a spazi virtuali  che sono regolati da norme e comportamenti sociali diversi.

Ugualmente indossabili i prototipi della serie “Superpoteri animali”,di Chris Woebken e Kenichi Okada, con i quali si possono acquisire le capacità straordinarie, ad esempio, degli uccelli e delle formiche, a seconda dell’apparato scelto, migliorando così il proprio rapporto empatico con questi esseri.

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“Bambole scacciapensieri semoventi”, di ingegneria tissutale

Ci si avvicina così alla disumanizzazione tecnologica del Cyborgismo attraverso il “Braccio sismico e la testa sonocromatica” realizzati dalla Cybor Foundation applicando la cibernetica alla biologia. L’antenna installata nel cranio del fondatore, Neil Harbisson, gli fa percepire i colori visibili e invisibili come onde sonore anche provenienti da televisione, cellulari, Internet. e  i terremoti.

“No Body’s Perfect”, che conclude la sezione, è un documentario del regista tedesco  Niko Von Glasgow, sulla paradossale proposta a 11 colpiti dalle deformazioni del Talidomide di posare nude per un libro fotografico in grado di evocare curiosità, entusiasmo od orrore secondo le reazioni a tale proposta.

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“Nessun (corp)o è perfetto”

Relazioni umane e tecnologiche in ottica avveniristica

La 2^ sezione, “Incontrare gli altri”, è sull’invadenza nella vita dell’intelligenza artificiale, . e si apre con “Area V  5”, di Louis. Philippe Demers, ul dialogo con le macchine mediante gli occhi e il disagio creato dai robot.

Due Robot indisciplinati”, di Heidi Kumao, rovesciano il tradizionale concetto delle macchine perfette e ubbidienti  e si ribellano ad ogni indicazione comportandosi in modo del tutto incontrollabile.

Ma c’è anche il primo libro scritto da un computer, “True Love” una variante di Anna  Karenina in cui l’intelligenza artificiale ha cercato di rendere un vero amore basandosi su 17 classici smembrati e ricomposti nel 2008 in un’opera del tutto nuova dal caporedattore russo Alexander Prokopovic.

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Danza virtuale

Si torna agli animali e agli Avatar con “Tardigotchi”, un microrganismo vivente e un suo Avatar artificiale convivono in una sfera di ottone, ma hanno comportamenti differenti pur se  correlati, autori gli artisti Douglas Easterly e Matt Kenyon con il progettista Tiago Rorke.

Un “Dispositivo empatico improvvisato“, degli stessi autori,  traduce i dati del sito web sul numero di soldati americani uccisi in punture al braccio per mantenere viva l’attenzione ad ogni messaggio.

Impressionanti le immagini dei robot ritratti nei laboratori di ricerca dal francese Yves Gellie, sono denominati “Versione umana 2.0” per il loro aspetto umanoide non solo esteriore, entreranno nella vita quotidiana.

Un robot in costruzione

“Utopia  di chi?” è un video dell’artista multimediale cinese Cao Fei che mostra il contrasto tra aspirazioni dei lavoratori e vita quotidiana, in un sistema in cui le macchine sono dotate di intelligenza umana mentre gli uomini sono portati ad agire come macchine rinunciando alla propria creatività.

In un ambiente artistico è nata anche La macchina per essere un altro”, del  BeAnotherLab, che fa vivere esperienze altrui come le proprie mediante un visore con il quale si osserva il mondo “nei panni degli altri”.

E’ ispirata anch’essa alle relazioni sociali, questa volta molto strette,  la Teledildonica per relazioni a distanza”,della Kiiro di Amsterdam, vicina al quartiere a luci rosse: consente “rapporti sessuali tattili via computer”, assicura la Kiiro,  “potrai connetterti intimamente con chiunque, dovunque”.

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Un robot “domestico”

I rapporti con l’ambiente e la natura

Dal rapporti personali a quelli naturali, nella 3^ sezione, “Essere artefici del proprio ambiente”, il Progetto di impollinazione umana” dell’americana Laura Allcorn con il kit per l’impollinazione manuale fa sentire la responsabilità di sostituirsi alle api per assicurare la necessaria impollinazione.

E rispetto alla natura va fronteggiata la possibile carenza di cibo rispetto alla sovra popolazione, con “Foraggeri” dei britannici Anthony Dunne Fiona, dispositivi di biologia sintetica per realizzare “batteri dello stomaco” in grado di incrementare i valori nutritivi degli alimenti sempre più scarsi.

Sempre in campo alimentare “Il nostro pane quotidiano”,un film di Nikolaus Geyrhalter con cui vengono mostrati i sistemi e le tecnologie delle moderne aziende per massimizzare la produzione.

Componenti

Un altro film dello stesso autore presenta uno scenario sulla fragilità della vita umana con la fine dell’era industriale,  la disgregazione e desolazione del pianeta, si intitola “Homo sapiens”.

L’impatto dei progressi della scienza, e delle biotecnologie, con l’interazione tra cultura e natura è al centro della rassegna di “Organismi europei”,  per lo più geneticamente modificati, del Center for PostNatural History, che fa riflettere sulla loro diversità nella storia naturale  e postnaturale.

In “Nuova città: macchine di produzione umana e post-umana” il regista cinematografico australiano Liam Young presenta immagini urbane con le profondi distorsioni indotte dalle nuove tecnologie, una fabbrica sconfinata con schiere di robot e il corpo umano come una macchina.

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Altri componenti

La genetica del futuro, la durata della vita

Nella 4^ sezione, “La vita ai limiti”, ci si pone l’interrogativo sui limiti della manipolazione genetica negli organismi viventi, iniziando con le manipolazioni del corpo umano: nelle Trasfigurazioni” di Agatha Haines si vedono 5 sculture di neonati su cui si è intervenuti chirurgicamente per modificare il loro corpo positivamente, evidenti i problemi etici e non solo.

Dopo questa problematica,  quella dei “Futuri riproduttividi Zoe Papadopoulou e Anna Smajdor, esplora i mutamenti indotti dalle metodologie di procreazione assistita e dalle  tecniche genetiche, come i gameti artificiali da cellule staminali, da cellule somatiche incidenti sull’origine della vita.

Le Bambole scacciapensieri semiventi” sono sculture di ingegneria tissutale realizzate dal 2000  dal “Tissue Culture and Art Project”, si tratta dell’uso delle cellule  viventi per rigenerare tessuti e, potenzialmente, organi, le bambole sono il simbolo di una fase ancora carica di dubbi e di speranze.

Montagne russe eutanasiche”

Speranze che riguardano anche la possibilità di rallentare fino a invertire l’invecchiamento Il progetto di Jaeim Paik esplora le conseguenze familiari e sociali di Quando vivremo fino a 150 anni”, con sei generazioni che si troverebbero a vivere insieme e gli inevitabili modelli alternativi.

Abbiamo specularmente la problematica dell’interruzione anticipata della vita con le Montagne russe eutanasiche”, macchine che con accelerazioni e rallentamenti visualizzano i diversi effetti, dall’euforia al brivido nella “scultura cinetica” del “viaggio fatale”, autore Julijnas Urbonas.

L’eutanasia e anche la fine naturale dell’esistenza evocano “La vita dopo la morte”,  non sul piano religioso ma tecnologico, viene conservata in una batteria  a secco che raccoglie e mantiene il potenziale elettrico del corpo: in questo modo James Auger e Jimmi Loizeau hanno  reso possibile conservare la propria energia o quella dei propri cari se si vuole la certezza di mantenere la vita in un pur lontano futuro.

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Macchine che “si ribellano”

L’umanità nelle sculture cinetiche e digitali e nelle macchine

E siamo alla parte artistica della 4^ Sezione dal titolo “Umano, sovrumano”.  Inizia con “Ghostwriter”, del collettivo Aos di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, che scrive la nostra autobiografia a nostra insaputa con algoritmi che utilizzano i frammenti del nostro essere digitale attraverso le tracce che lasciamo  nei social network, e mail, carte di credito, ecc.

Questo evoca il controllo della nostra immagine sulla rete, cui è dedicata “Obscurity” del net-artist Paolo Sirio, che ha clonato i principali siti web per nascondere le informazioni su 15 milioni di arrestati negli Usa sfuocando le immagini all’insegna di un loro diritto alla “privacy”.

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“Il guerriero”, ispirato da Leonardo

Siamo invece nella “tortura programmata” della macchina informatica con “J3RR1”, del gruppo romano “None collective”, è sottoposta a stress continuo e cerca di migliorarsi senza sapere come.

Ed ecco la scultura cinetica Leonardo sogna le nuvole”, di Donato Piccolo, che riproduce il volto del “Guerriero” di Leonardo da Vinci, ritenuto il suo, muove le labbra ed espelle fumo, con un atteggiamento disteso in rapporto sereno con la macchina, e non potrebbe essere altrimenti.

Dello stesso autore Sebastiano (il Nottambulo)”, scultura ispirata al modello del ritratto ancora di Leonardo da Vinci, con la figura piegata e dei pennarelli che disegnano mossi da bracci robotici: diversisono i significati filosofici insieme al segno dell’accoglienza della tecnologia fino a scherzarci sopra.

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“Sebastano, Il nottambulo”, ispirato da Leonardo

Altri bracci robotici in “Equilibrium variant”, di Roberto Pugliese, questa volta c’è un microfono da un lato del braccio, con uno speaker in un rapporto uomo-macchina in cui si cerca di continuo un equilibrio sempre instabile attraverso due bracci robotici che si rincorrono incessantemente.

Si torna alla scultura, questa volta digitale, con “Matter”, dell’artista visivo londinese Quayola, un blocco di materia che muta continuamente, passando da varie forme all’informe, si tratta del “Pensatore” di Roden, definito “il corpo della tradizione scultorea occidentale”, e in quanto tale metafora di noi stessi e del sottile confine tra percezione razionale e visiva, formale e informale.

Abbiamo citato  le realizzazioni presentate in mostra in modo quanto mai coinvolgente, in una sorta di galleria tecnologica che apre gli occhi su quanto di avveniristico viene esplorato e fa anche riflettere sulle prospettive e insieme sulle incognite che si aprono in un futuro, peraltro già iniziato.

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Un pannello luminoso

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale, Roma, Catalogo “Human +. Il futuro della nostra specie”, a cura di Cathrine Kramer,  Azienda Speciale Palaexpo, Science Gallery at Trinity College of Dublin., pp- 160. formato 17 x 23, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le precedenti mostre nella stessa sede citate all’inizio, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, “Dna” 29 marzo 2017,   “Numeri” 23, 26 aprile 2015, “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014; in archeorivista.it “Homo sapiens” 7 gennaio 2012, in cultura.inabruzzo.it, “Astri e particelle” 12 febbraio 2010, “Darwin” 28 aprile 2009. Gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli, che sono disponibili, saranno trasferiti su altro sito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra- meno le n. 1, 11-13, 15 e 19-20 – tratte dal Catalogo , si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, e l’Editore, per l’opportunità offerta. In apertura, La copertina del Catalogo della mostra ; seguono, 3 immagini sulle protesi, protesi “indossate”, protesi “gambe da ghepardo” poi, “Un autoritratto al giorno”, di Brian Lewis Snders, 4 immagini e altre 2 immagini; quindi, Impianto del “terzo orecchio” di Sterlac, e “Casco deceleratore”; inoltre, Progetto di “impollinazione umana” e “Foraggeri”, con la biologia sintetica; ancora, Scultura di neonato” su cui si è intervenuti chirurgicamente, e “Bambole scacciapensieri semoventi”, di ingegneria tissutale; continua, Danza virtuale e “Nessun (corp)o è perfetto” ; prosegue, Un robot in costruzione e Un robot “domestico” ; quindi, Componenti e Altri componenti; inoltre, Montagne russe eutanasiche” , e Macchine che “si ribellano” ; ancora, “Il guerriero” e “Sebastiano, il nottambiulo” ispirati da Leonardo; infine, un pannello luminoso e, in chiusura, una sequenza finale.

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Una sequenza finale

Barberini, il nuovo allestimento della pittura del ‘600

di Romano Maria Levante 

Dal 13 dicembre 2019 sono riaperte al pubblico 10 sale dell’ala nord di Palazzo Barberini, piano nobile con il nuovo allestimento della pittura del ‘600, rinnovato nei criteri espositivi, negli “apparati” illustrativi  e negli altri aspetti  rilevanti, dall’illuminazione al restauro architettonico.

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Caravaggio, “Giuditta e Oloferne”, 1597

E’ un rilancio della collezione di Arte Antica che,  ad operazione completata, andrà dal Medioevo al ‘500, dal ‘600 al ‘700  con la spettacolare esibizione di un grande patrimonio di arte e storia. La direttrice Flaminia Gennari Sartori ne ha indicato gli intenti e i motivi ispiratori.

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Sala 19, Manierismo: 1. Gerolamo Musiano

I criteri del uovo allestimento

Dopo l’allestimento nelle sale di Palazzo Barberini recuperate dalla  interminabile occupazione da parte del Ministero della Difesa per il Circolo Ufficiali  della pittura del ‘700,  questa volta è la pittura del ‘600 a venire sistemata in dieci sale  per 550 metri quadri; inoltre è stato preannunciato per il prossimo ottobre  2020 il riallestimento delle opere del ‘500 e successivamente nel 2021 di quelle  collocate  al piano terra con la conclusione dell’intera operazione. 

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2. Jacob De Backer

Viene aggiornata così,  secondo nuovi criteri, la presentazione della prestigiosa collezione di Arte antica, senza intaccare quella di Palazzo Corsini che ne rappresenta la naturale prosecuzione. Si segue una “narrazione” in cui le opere “dialogano tra loro”  per gli accostamenti non solo cronologici ma soprattutto  tematici e di derivazione o  influenza di seguaci, come i “caravaggeschi” esposti in un raffronto intorno ai capolavori di Caravaggio in tre sale. 

Sala 20, Venezia: 1. Tiziano Vecellio

Le opere “dialogano” non solo tra loro, ma anche con il visitatore, per il quale sono stati studiati “apparati”  innovativi nella grafica e nell’esposizione: sono   panelli esplicativi ed  etichette dalle didascalie essenziali e nello stesso tempo esaurienti, in un impianto di illuminazione  anch’esso del tutto rinnovato.

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2. Tintoretto

Si tratta di un nuovo “impianto concettuale” – ha sottolineato la direttrice Flaminia Gennari  Sartori impegnata a realizzarlo – “che focalizza a Palazzo Barberini una struttura espositiva narrativa dal Medioevo al Settecento, cercando di valorizzare anche la storia del Palazzo e dei Barberini, lasciando integra la quadreria  settecentesca a Galleria  Corsini”.

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3. El Greco

La famiglia Barberini  è  l’espressione più alta della gerarchia ecclesiastica,  cardinalizia e papale con Urbano IV, ma anche dell’aristocrazia  laica, tanto che le due ali del  palazzo con diversa destinazione e frequentazione storica  si saldano nei grandi saloni di rappresentanza. E’ stata citata anche  dalla  Flamini Sartori  la compresenza nel  Palazzo, nelle diverse ali, “dell’esuberanza della natura  con i giardini e della vitalità urbana”, due scenari  spettacolari molto diversi offerti dalle finestre  che si aprono nelle pareti espositive. 

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Sala 21, Pittura di genere: Bartolomeo Passerotti

In questa prospettiva, il nuovo allestimento è stato accompagnato dal restauro della parte architettonica. Nelle nuove sale  con le finestre che danno sul giardino  sono collocate 80 opere di  artisti del ‘600  seguendo un itinerario di tipo circolare dallo scalone Bernini allo scalone Borromini, ed è tutto dire. 

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Sala 22, Altarolo: Annibale Carracci, con Innocenzo Tassoni

Ciò premesso, percorriamo le sale in cui le opere sono raggruppate intorno a  temi, periodi e artisti capifila, citandone le principali caratteristiche e gli artisti rappresentati senza commentare le singole opere, dato che non è una mostra temporanea ma un’esposizione permanente che invita il visitatore ad approfondirle immergendosi nel suggestivo contesto espositivo di cui riportiamo un’ampia parte.

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Sala 23, Paesaggio: Paul Brill

Le prime 5 sale, con Tiziano e Tintoretto, Annibale Carracci e il paesaggio

Il percorso inizia  nella sala 19^, il cui soffitto è affrescato con  le storie del patriarca  Giuseppe  e gli stemmi cardinalizi come espressione  della protezione divina accordata alla famiglia proprietaria, non ancora i Barberini ma gli Sforza, su commissione di Paolo I di Santa Fiora.  Tra i pittori che li realizzarono spicca il Pomarancio.

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Sala 24, Caravaggio 1: 1. Carlo Saraceni

Sono esposte opere del manierismo romano con Pietro Francavilla e Gerolamo Muziano,  Jacopo Zucchi e Marcello Venusti, di quest’ultimo ricordiamo la recente mostra “I colori di Michelangelo”; e del manierismo internazionale con Jacob de Backer, Joseph Heintz, Jan Metsys.

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2. Orazio Borgianni

Siamo alla fine del ‘500, viene sottolineato  il “cambio di passo”  nell’atteggiamento verso gli artisti e le loro opere che si manifesterà appieno nel  ‘600. Cresce l’attenzione alla finalità e al significato delle immagini pittoriche valutando il modo in cui sono utilizzate. Si tende  a passarle al  vaglio soprattutto dopo che nel 1564 Giovanni Andrea Gilio in “Degli errori e degli abusi dei pittori” critica gli usi inappropriati delle opere.

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3. Bartolomeo Manfredi

I ritratti possono essere espressione di esibizionismo, le immagini religiose snaturate rispetto alla fede e al bene e il male, tema trattato nel 1582 dal vescovo Gabriele Paleotti  nel “Discorso intorno alle immagini sacre e profane”.  Al culto degli artisti si associa così la rilevanza delle opere analizzate con spirito critico dando avvio a una storia esegetica  destinata a perpetuarsi nella critica d’arte.

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4. Giovanni Baglione

La sala 20^  è dedicata alla pittura di Venezia, presenti i grandi maestri   Tiziano  e la sua scuola,  con “Venere e Adone”, restaurato per l’occasione,  e Tintoretto, ci sono due opere inconfondibili di El Greco, formatosi nella scuola veneziana.

Erano molto diffuse le botteghe, particolarmente fiorenti quelle di Tiziano e Tintoretto, per cui si pone il problema di distinguere le opere progettate ma non eseguite dal caposcuola da quelle totalmente o in parte dovute alla sua mano: il riferimento diretto si può attribuire sulla base delle peculiarità della sua impronta  quando è chiaramente individuabile.

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Caravaggio 2.: 1. Josepe de Ribera

Non poteva intervenire nella gran parte delle opere affidate agli allievi dato il notevole afflusso delle committenze, della Serenissima, ecclesiastiche ed aristocratiche; e anche quando eseguiva i dipinti di propria mano, poi venivano soddisfatte le molte richieste con copie e repliche degli allievi sotto la sua direzione.

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2. Simon Vouet

All’arte ispirata al sacro, che va oltre i soggetti tradizionali,  si affianca quella ispirata ai temi mitologici e ai temi  derivanti dalle leggende immortali di Ovidio. Questi ultimi sono alla base dei  dipinti  “Poesie”, realizzati da Tiziano per l’imperatore Carlo V e Filippo II di Spagna.    

Nel Soffitto,  l’affresco “Carro di Apollo  con le quattro Stagioni” celebrativo delle nozze del principe Urbano Barberini, del 1693, autore Giuseppe Chiari.

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Caravaggio 3: 1. Orazio Gentileschi

La terza tappa del nostro percorso, la sala 21^ – con gli affreschi della volta valorizzati dalla nuova illuminazione –   aggiunge ai temi religiosi e mitologici di cui si è detto, quelli legati alla realtà, cosa che costituisce un’importante innovazione pittorica. 

Gli oggetti diventano soggetti dell’immagine,  si tratta della  Pittura di genere, per rispondere alle richieste del mercato sempre più ampio e diversificato con artisti sempre più professionali e specializzati; anche nelle opere religiose e mitologiche viene dato  spazio crescente alla visione  circostante in cui spiccano oggetti visti nella loro consistenza materiale, lo si nota nelle opere della bottega dei Bassano oltre che in quelle  dei fiamminghi. 

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2. Artemisia Gentileschi

Lo stile non è più aulico ma “modesto”, una sorta di “sermo humilis”  che, paradossalmente, come si legge nella presentazione, “trova posto in una concezione delle arti visive esemplata sul modello dell’eloquenza retorica”.  Sullo sfondo la passione per le Wunderkammerm.

Vediamo 2 dipinti   di Bartolomeo Passerotti, espressione delle ricerche naturalistiche di fine ‘500 di Ulisse Aldrovandi, che in certo senso anticipano le nature morte; e altri esposti molto di rado, come il “Diluvio universale” della scuola di Jacopo Bassano  e le opere di Frans Francken il giovane.

I temi  aulici tornano nella Galleria con la “Fondazione di Palestrina” di Francesco Romanelli, divenuta feudo di Taddeo Barberini, marito di Anna Colonna cui era riservata la Galleria, e il “Sacrificio di Giunone”  di Giacinto Gimignani.

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3. Bernardo Strozzi

La  piccola sala 22,   raccolta e per la prima volta  aperta al pubblico, presenta  Annibale Carracci, ma non un suo dipinto, bensì l’”Altarolo portatile”, realizzato con Innocenzo Tacconi su commissione del cardinale Odoardo Farnese:  un Tabernacolo con la Pietà e i santi Cecilia ed Ermenegildo all’interno, san Michele e l’Angelo, Cristo e Dio all’esterno; ci sono anche la Maddalena costernata con le braccia aperte e san Giovanni che sorregge la Madonna abbandonata tra le sue braccia mentre stringe a sè  il corpo di Cristo, gesto che la rende “co-redentrice”.

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Sala 27, Caravaggeschi: 1. Valentin de Boulogne

Nella scelta di alcuni santi c’è  il riferimento al committente, il cardinale era devoto di Santa Cecilia, aveva dovuto rinunciare a posizioni di potere ed aveva scelto la via della fede nel nome di valori pià alti;  come  Ermenegildo, principe visigoto che  si convertì al Cristianesimo contro la volontà del padre e fu  martirizzato. Un’opera splendida, veramente spettacolare.

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2. Charles Mellin

Dopo questo intermezzo suggestivo, l’orizzonte si apre nella  sala  23  con la pittura di paesaggio, in particolare vediamo tre paesaggi di Paul Brill che rappresentano i “Feudi Mattei”,  Fino ad allora era considerato soprattutto uno sfondo,  ma alla  fine del ‘500 e poi nel ‘600  il paesaggio diventa soggetto principale non solo per motivi artistici ma soprattutto  per il  notevole rilievo dato dal Concilio di Trento alla natura  nella sua bellezza come espressione  della creazione di Dio.

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3. Mathias Storn

Si inizia con piccoli quadri  su rame commissionati  ai pittori fiamminghi dai cardinali; tra loro il potente Federico Borromeo  che ha scritto come questi dipinti fossero sostitutivi della natura in cui immergersi nella preghiera. Divennero presto di grandi dimensioni, spettacolari arredi delle ville in campagna dei nobili romani. In questa sala ne vediamo un esempio, con riprodotti nella residenza romana gli ambienti naturali delle proprietà feudali.

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4. Trophime Bigot

Nel Soffitto,  paesaggi di scuola fiamminga, animati dalle figure dei Profeti e delle Sibille con libri sui quali sono scritte le profezie.

Caravggio, i seguaci e i “caravaggeschi”

Ed ora la grande pittura di Caravaggio distribuita in tre sale, in ciascuna  un quadro del Maestro, circondato dalle opere di seguaci o comunque di pittori  con il suo influsso.

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5. Hendrick Terbruggen

La sala 24, con vista sul Giardino, espone  il primo dipinto di Caravaggio, “Giuditta e Oloferne”, il quadro che con aspro realismo presenta la scena della decapitazione da parte dell’eroina la quale nel vibrare  il colpo fatale sembra allontanare da sé la testa dallo sguardo vitreo, in cui alcuni vedono un suo autoritratto, mentre la figura della vecchia rugosa si pone in contrasto con l’esuberanza e freschezza della protagonista.

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6. Gerrit Van Honthorst

I caratteristici tagli netti di luci e di ombre e la forza della raffigurazione ci immergono in una forma espressiva che fu provocatoria  nei toni e nei modi, e lo è  anche nei riguardi dell’osservatore che si sente obbligato “a partecipare, più che solo a contemplare”.

Si capisce subito l’impatto che ebbe sulla scena artistica, con la spinta a seguire la nuova strada da  lui tracciata tenendo conto, però,  dei desideri della committenza, non sempre pronta a simili provocazioni.  Perciò anche i suoi seguaci più fedeli, riconoscibili dalla raffigurazione  realistica dei soggetti e dalle sciabolate di luci a tagliare le ombre,  declinano in  modo diverso la sua forma espressiva e la sua struttura compositiva, per l’insorgere di altri motivi e di nuove esigenze.

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7. Giovanni Serodine

Vediamo esposte  opere di Carlo Saraceni, il più vicino al suo realismo ma che lo rivive in termini personali,  di Orazio Borgianni che pur muovendosi nel solco tracciato se ne distacca maggiormente, di Bartolomeo Manfredi e Giovanni Baglione, quest’ultimo  tra l’ammirazione e l’emulazione da un lato e la rivalità e l’inimicizia dall’altro che lo fecero entrare in duro conflitto, anche giudiziario, con lui.  Ebbene, la sua opera è esposta affiancata a quella dell’antico rivale-nemico.

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8. Lionello Spada

La seconda opera di Caravaggio  destinata alla  sala 25 è “Narciso”, sarà esposto dal mese di giugno 2020, la figura del giovane che si specchia nell’acqua  è suggestiva per il rilievo scultoreo che fa sentire l’osservatore partecipe diretto della vicenda.

Il  naturalismo caravaggesco  assume qui un aspetto particolare, la rappresentazione va oltre la riproduzione fedele della realtà tipica del grande artista,  evoca il rapporto tra realtà e apparenza che è al centro della leggenda ovidiana e provoca la tragedia quando cade il velo: la realtà della figura riflessa sull’acqua  è anche apparenza.

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9. Giovanni Caroselli

In primo piano la percezione, che può differenziarsi dalla realtà, come scriveva Cartesio nell’affermare che l’efficacia delle immagini non dipende dalla somiglianza, anzi  “per essere immagini più perfette  e rappresentare meglio un oggetto esse non devono somigliargli”.

Le opere di Josepe de Ribera, Simon Vouet  e Candlelight  Master esposte possono essere viste in questa prospettiva intrigante.

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10. Valentin de Boulogne 2

“San Francesco in meditazione”  è la 3^ opera  di Caravaggio esposta nella sala 26,  il santo  è raffigurato nella povertà e nel sacrificio,  con il saio logoro e rattoppato, il viso arrossato dal freddo nella grotta gelida,  mentre guarda il teschio che ha nelle mani,  inginocchiato in  posizione di preghiera ma senza appoggiarsi, il crocifisso è fatto  di due semplici assi  sopra un tronco d’albero.

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Sala 28, “Reni”: 1. Guido Reni

Gli artisti presenti nella sala con le loro opere sono particolarmente significativi, Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia Gentileschi, Antonio Petrazzi, Bernardo Strozzi e ancora Bartolomeo Manfredi. E’ interessante per il visitatore ricercare i segni caravaggeschi nel loro stile, dal realismo figurativo alle luci che piovono più o meno violente e creano ombre più o meno nette.

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2. Guercino

Questo “gioco” per il visitatore è ancora più intrigante nella successiva sala 27. dedicata ai caravaggeschi come Valentin de Boulogne e Charles Mellin, Simon VouetMattias Storn, Michael  Sweerts e Trophime Bigot , Hendrick Terbruggen, e Gerrit Van Honthorst, Giovanni Serodine, Lionello Spada e Giovanni Caroselli.

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3. Giovanni Lanfranco

Per impulso del mercato, che ricercava in modo particolare le opere in stile caravaggesco, gli artisti erano spinti a renderne gli effetti più evidenti, mantenendo nel contempo la propria impronta personale. Questo portò allo sviluppo della pittura “a lume di notte”, con gli effetti luministici e umbratili  delle fonti di luce artificiali come candele e lanterne applicati alle rappresentazioni più diverse, dai temi biblici alle scene di taverna, dalle visioni religiose alle allegre brigate di musicanti. 

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4. Guido Reni 2

Ma questo non sempre era limitato agli aspetti stilistici, per Valentin de Boulogne, in particolare – si legge nella presentazione – gli effetti del chiaroscuro caravaggesco riguardano “ la focalizzazione drammaturgica dell’azione, l’individuazione del suo culminate momento di forza  e dei suoi effetti sullo spettatore”.

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5. Guercino 2

Guido Reni e la scuola bolognese, il mistero del ritratto di Beatrice Cenci

Nella sala 28, l’ultima dell’allestimento del ‘600, l’artista emiliano che in qualche modo può considerarsi il contraltare di Caravaggio, Guido Reni e altri grandi artisti, il Domenichino  e il Guercino, Giovanni Lanfranco  e Pier Francesco Nola, fino a Charles Mellin allievo di Simon Vouet che ritroviamo anche in questa sala dopo la seconda di Caravaggio.

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6. Giovanni Lanfranco 2

Questo  fatto  ci introduce  alla presenza, nel primo trentennio  del ‘600,  di una molteplicità di scuole ed espressioni stilistiche molto diverse per il crescente sviluppo del mercato che induceva gli artisti a rendersi riconoscibili con la propria impronta.

Un  indirizzo visibilmente opposto al caravaggesco  quello di Guido Reni della scuola bolognese e degli artisti di impronta classicista con “l’elegante disegno, l’eleganza compita e l’ideale aspirazione”. Ma questi aspetti del “divin Guido” pur  contrapposto al Merisi “maledetto” – osserva la presentazione – “non sono necessariamente percepiti in insanabile conflitto con la ricerca di sensualità, di pathos e finanche di violenza  da cui il pubblico del tempo è pure certamente attratto. Un tempo in cui in pittura, come in letteratura o a teatro,  si cerca il ‘gradevole furore’, il ‘dolce terrore” e una ‘aggraziata pietà’” negli ossimori dell’”Arte poetica” di Nicolas Boilau, “pur convinto che ‘soltanto il vero è bello’ e solo ‘la natura è vera’”.

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7. Guercino 3

A conclusione della galleria seicentesca troviamo al centro della sala,  in una “enclave”  apposita, il celebre dipinto  noto come “Ritratto di Beatrice Cenci”,  attribuito sia pure con incertezze a Guido Reni, che viene intitolato invece “Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci”, circa 1650,  e attribuito al posto di Guido Reni a  Ginevra Cantofoli , bolognese, 1618-72.  

Il quadro  passò alla famiglia Barberini nel 1818 dalla collezione Colonna dove risulta dal 1783,  ne circolavano molte copie perchè la storia  tragica aveva suscitato forte emozione popolare con il tragico epilogo della decapitazione insieme ai familiari per l’uccisione del padre, che aveva oppresso la famiglia, aveva segregato la figlia e forse assoggettata alle sue “disordinate voglie”, secondo il Muratori, dopo un processo e la  grazia negata da papa Clemente VIII.

8. Guercino 4

Una storia dalle tinte violente, che ha ispirato scrittori e poeti romantici come Shelley e Stendhal, Dickens e Melville, fino ai più vicini Artaud e Moravia, con l’emozione  già suscitata all’epoca divenuta vero culto cui  ha contribuito  l’immagine angelica del suo volto, che  appariva nel  dipinto, definito come “incapace di qualunque disegno malevole” nell’opera di Lavater del 1778 sui “frammenti fisognomici”. Guido Reni l’avrebbe ritratta poco prima della morte, cosa ritenuta altamente improbabile per una condannata, ed “oggi l’attribuzione a Guido Reni è generalmente respinta” si legge nella presentazione. 

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9. Guercino 5

E’ un riconoscimento encomiabile per la galleria proprietaria del dipinto, come è apprezzabile peraltro che nella nuova intitolazione venga indicato “presunto ritratto di Beatrice Cenci”, mantenendo quindi quel riferimento.  Ci lascia nella suggestione che quel volto ha suscitato perché legato alla triste storia di una delle eroine immortali  e non potrà esserne dissociato: la “donna con turbante” della nuova intitolazione resterà per noi, e crediamo per tanti,  sempre la dolcissima Beatrice Cenci. 

Enclave Beatrice Cenci: Ginevra Cantofoli,
Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci)”,
(già attribuita a Guido Reni), circa 1650

Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e categorie particolari. comunicazione@barberinicorsini.org.  www.barberinicorsini.org. Per mostre recenti, in particolare nelle sale riaperte, cfr. i nostri articoli: in questo sito, “”L’enigma del reale. Ritratti e nature morte alla Galleria Corsini” 24 maggio 2020, “Michelangelo a colori, confronti e scoperte a Palazzo Barberini” 23 maggio 2020, “Palazzo Barberini, il ‘700 nelle nuove sale recuperate all’arte” 21 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com “Eco e Narciso, 1. La mostra nelle sale recuperate: le prime 7, a Palazzo Barberini” 25 settembre, ed “Eco e Narciso, 2. Le altre 6 sale recuperate in mostra, a Palazzo Barberini” 30 settembre 2018, “Mattia e Gregorio Preti, i due fratelli insieme a Palazzo Barberini” 24 febbraio 2019. 23 maggio 2020, e, per gli artisti citati, su Ovidio   1, 6, 11 gennaio 2019,     Caravaggio    27 maggio 2016, 6 giugno 2013,   Caravaggeschi e Carracci   5, 7, 9 febbraio 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013, Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013, Guercino   15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Caravaggio 8, 11 giugno, 23 febbraio, 21, 22, 23 gennaio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli trasferiti su altro sito).

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Caravaggio, “San Francesco in meditazione”, 1605-06

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, tranne l’ultima non ancora esposta tratta dal sito web carnetdevoyage.it, si ringrazia la direzione della Galleria, con i titolari dei diritti, oltre al titolare del sito citato, per l’opportunità offerta. Sono riportate nell’odine di citazione degli artisti nel testo – tranne le 3 di Caravggio poste in apertura e in chiusura – indicando nella 1^ immagine il numero della Sala e l’intitolazione (non ripetuta nelle immagini successive numerate con i nomi degli artisti autori delle opere riprodotte). In apertura, Caravaggio,“Giuditta e Oloferne” 1597; seguono, Sala 19, Manierismo: 1. Gerolamo Musiano e 2. Jacob De Backer; poi, Sala 20, Venezia: 1. Tiziano Vecellio, 2. Tintoretto, 3. El Greco; quindi, Sala 21, Pittura di Genere: Bartolomeo Passarotti, Sala 22, “Altarolo”: Annibale Carracci con Innocenzo Tassoni, e Sala 23, Paesaggio: Paul Brill; inoltre, Sala 24, Caravaggio 1: 1. Carlo Saraceni, 2. Orazio Borgianni, 3. Bartolomeo Manfredi, 4. Giovanni Baglione, Sala 25, Caravaggio 2.: 1. Josepe de Ribera, 2. Simon Vouet, Sala 26, Caravaggio 3: 1. Orazio Gentileschi, 2. Artemisia Gentileschi, 3. Bernardo Strozzi; Sala 27, Caravaggeschi: 1. Valentin de Boulogne, 2. Charles Mellin, 3. Mathias Storn, 4. Trophime Bigot, 5. Hendrick Terbruggen, 6. Gerrit Van Honthorst, 7. Giovanni Serodine, 8. Lionello Spada, 9. Giovanni Caroselli; continua, Sala 28, Reni: 1. Guido Reni, 2. Guercino, 3. Giovanni Lanfranco, 4. Guido Reni 2, 5. Guercino 2, 6. Giovanni Lanfranco 2, 7. Guercino 3, 8. Guercino 4, 9. Guercino 5; Enclave Beatrice Cenci: Ginevra Cantofoli, “Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci)”, (già attribuita a Guido Reni), circa 1650; infine, Caravaggio, “San Francesco in meditazione” 1605-06 e, in chiusura, Caravaggio, “Narciso” 1597-99.

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Caravaggio, “Narciso”, 1597-99

Friedler, 2. L’espressione della catarsi interiore, a Palermo

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro commento sulla mostra in corso nella città di Palermo, Fondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, aperta dal 7 giugno al 7 luglio 2020, “”Mapping” di Julien Friedler, 35 dipinti su un “corpus” di 140 opere. Altre 25 dipinti saranno esposti dal 25 luglio al 27 settembre a Villa Lagarina, Palazzo Libera, Trento, nella mostra prodotta da CD Studio d’Arte, Padova, che ha collaborato a questa organizzata da MLC Comunicazione, coordinamento di Maria Letizia Cassata.   A cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella – curatrice pure della mostra di Villa Lagarina con Carlo Silvestrin – che hanno curato anche il Catalogo trilingue, italiano-francese-inglese, edito da La Route de la Soie Éditions, Paris.

Le rifuge”. 2019

Al termine della rassegna delle opere in mostra – integrata dalla citazione di molte realizzate nello stesso intensissimo 2019, e riportate nel Catalogo, 25 saranno esposte a Villa Lagarina – abbiamo formulato il seguente interrogativo: come viene espresso artisticamente tutto questo? E in “tutto questo” ci sono i tanti motivi presenti in quella che si può definire “seduta psicanalitica lunga un anno” con ritorni ossessivi anche se non nella forma totemica precedente. Un viaggio di “liberazione” nella “catarsi” interiore esplorando paesaggi e mondi iperurani, fino alla “Levitation” e “L’elevation” dopo “Tremblement”, con i suoi tremiti, e le “Vibrations”, mentre ci presenta “La Mansarde” come “Le rifuge”, in cui lo immaginiamo nella figura di “L’hermite” accompagnato dalla figura rassicurante e consolatrice di “La belle Héloise” .

“Mapping”, 2019

La curatrice  Dominique Stella risponde così all’interrogativo sull’espressione artistica: “Lo spazio pittorico si organizza  a partire da chiazze di colore giustapposte componenti una trama vaporosa  che crea un’illusione di atmosfera pur privilegiando  tenacemente la superficie piana della tela”.  La tempesta cromatica sembra contenuta, “il colore nasce talvolta dal fondo bianco della tela che, in talune occasioni, secondo una concezione minimalista dell’opera, resta dominante”. Ma proprio per questo  “richiama la magnificenza del colore”  ed evoca l’apertura catartica all’infinito  liberatorio.

“Les plongeur”, 2019

Non si tratta, tuttavia, di un passaggio indolore, per così dire, e la curatrice lo fa capire citando i contrasti  tra spazio e assenza di spazio, il pieno  e il vuoto,  nostalgia e realizzazione, timore o speranza: “Tali e tanti dubbi  filosofici emergono dalla rivelazione delle opere che l’artista  pone come un enigma”. Anche perché l’enigma  è in lui, “Mapping” non ci sembra nascere da un “progetto” preordinato, né esprimere un processo la  cui trama venga lasciata  volutamente  nel mistero; ci sembra un percorso  psicanalitico nel quale sono compresenti gli opposti, come nelle opere scultoree di Anselmo, da noi citato in precedenza  come mera associazione di idee, per certi aspetti significativa data l’importanza dell’antinomia.

“Méduse”, 2019

Del resto entrambi, oltre che darvi corpo nelle loro espressioni artistiche,  lo hanno scritto: Friedler  nel suo “La Verità nel Labirinto”  definisce l’opera addirittura “una congiunzione degli opposti, una scrittura paradossale, un’iscrizione dei flussi che attraversa lo spirito”.  E sulla spinta interiore  parla del “runore” e “furore” che ci circondano con un interrogativo che ora ci sembra rivelatore: “Sarebbe possibile per l’arte divenire un giorno  un rifugio dal rumore  e  dal furore  che abitano dentro di noi?”  Quelli che ci circondano penetrano in noi, fino ad imprimersi nel nostro inconscio. La Stella cita la  risposta contenuta in una nota: “Un’estetica minima e senza pregiudizio, un punto di vista contemplativo, contrario di ogni tipo di militanza”. Ma la vera riposta Friedler l’ha data con l’”exploit” dei 140 dipinti  nel 2019, allorché si è isolato nel “rifugio” dell’arte, riveltosi non solo protettivo ma anche liberatorio.

Harpye”; 2019

L’occhio di Polifemeno e di Giano bifronte, nel “rifugio” dell’arte

La Stella  cita anche “l’esistenza di una vera  e propria potenza estetica all’opera nell’universo”, tema sviluppato dall’altro curatore della mostra  Gianluca Marziani: “la Terra è Dio, l’Universo è Dio, ogni Stella è Dio” significa “spostare l’Uomo fuori dal centro, riportandolo sulla linea degli altri viventi, significa ripensare al Pianeta come ad un Dio che accoglie  la vita nella sua molteplicità non  solo umana”.

“Tremblement”, 2019

Il curatore definisce “la pittura come oracolo propiziatorio, frammento di stelle, pulviscolo cosmico”.  E  ne fa il campo ” dell'”apparenza del caos espressivo,  di una tempesta che s’irradia sulla superficie  e frammenta gli impasti, schizzando gocce  lasciando colare e raggrumare,  spruzzando raggrumando con la frequenza randomica della pioggia al suolo”: descrizione di un “action painting” alla Pollock che in queste parole sembra materico, non psicologico. Ma aggiunge: “In realtà, dietro le apparenze di un espressionismo selvaggio, si nasconde la centralità di un Giano che osserva il mondo da ogni angolazione,  una visione centrifuga che passa  dal bifronte al multifronte per aprirsi alla totalità delle voci, alle alchimie di un’umanità omerica”.

“Paysage”; 2019

Tale nterpretazione non dovrebbe riferirsi a un “Giano”  cosciente, dato che un disegno preordinato non può preesistere nel percorso psicanalitico evocato: il “nostro  Giano” si abbandona alle  visioni che lo assalgono nel “rifugio” consolatorio dell’arte. Del resto, Marziani parla di “un dipingere catartico e muscolare” evocando sia il carattere liberatorio, sia la compresenza degli opposti, da noi già sottolineata, con le parole  “impatto e levità, forza e carezza ventosa, spinta centrifuga e  e sospensione astrale”.  

Improvisation florale (miroir)”# 1, 2019

E anche se vede un “centro magnetico” – e l’“occhio ciclopico dell’artista, un occhio che guida una visione unica e pacificatrice” – precisa che “il centro non si mostra con didascalica presenza, spesso si nasconde dietro il caos cromatico, dietro la materia informale, dietro le astrazioni radianti”. Tornano gli opposti compresenti in questa interpretazione, in cui alla “guida” e alla “visione unica” si contrappone il il caos, quindi l’informale con le astrazioni incontrollabili che non provengono da un “dominus”  determinato, ma dall’abbandono inconsapevole od onirico per giungere all’emersione dall’inconscio.

Improvisation florale (miroir)”# 2, 2019

Una compresenza di opposti anche nella “moltitudine liquida dei colori”, per esprimere “la drammaturgia e la catarsi, l‘esilio e il cambiamento, la follia e la  poesia”; e “l’ambivalenza tra stimolo superficiale e valore custodito, come fosse una chimera inquieta ma curativa, uno spazio di benessere entro  il caos irrequieto del colore…. archetipi del pensiero filosofico in ua sintesi materica”.

Atmosphère” , 2019

In questa visione che coesiste con la concezione del “centro magnetico”, l’’immagine dell’albero che secondo Marziani caratterizza ogni mostra dell’artista attribuendo a ciascuna una specificità, ci sembra esprimerne la coerenza interna e la differenziazione rispetto alle altre espressioni; ma riteniamo avvenga “ex post” rispetto al processo creativo le cui fasi trovano manifestazione pubblica nelle esposizioni in cui si è “messo in ordine” ciò che nello “spiritual painting” non lo era, come avviene nell’attuale “mappatura”.

“Transparence”; 2019

Come abbiamo osservato per la “guida” e  la “visione  unica”, pensiamo che con “albero” non vada inteso un disegno preordinato,  l’”unità aristotelica” da noi evocata all’inizio riguarda il confinamento temporale, non certo i soggetti e i contenuti, quanto mai variabili e indefinibili come lo sono i moti dell’animo. La “continuità narrativa tra le singole pitture”  la riferiamo al percorso di tipo psicanalitico, nel quale si svolge l’“ideale montaggio che ricrea un embrione  schizoide e metafisico”: non sarebbe  “schizoide” se fosse consapevole e preordinato. Questa nostra interpretazione ci sembra confermata dalla definizione data da Marziani di “viaggio satellitare e stereofonico, privo di orizzonti definiti, privo di  una polarità nordica, privo di identità geografica” che va “in tutte le direzioni”, come nell’abbandono psicanalitico all’inconscio.

“”Senza Titolo”, 2019

Se questo è il “set”  virtuale, senza contenuti né   confini – l’opposto di quello costruito e poi fotografato dall’americano Lachapelle nel quale troviamo anche il “landscape” evocato per altri versi da Marziani –  i risultati pur nella loro genesi individuale, anzi personale, assumono una valenza più vasta, nella visione dell’artista che, come si è detto, è impegnato in questa trasposizione.  Ricorda il curatore che “tutti siamo partecipi del rumore di fondo dove ognuno di noi appartiene al suono della vita dentro l’orchestra degli esseri reali”.   Per esprimerlo, l’artista “mescola figurazioni e astrazioni come accade nella vita, unendo le varie tematiche in un meta genere oracolare e partecipativo”.

“Mapping 4”, 2019

Ed è naturale che tornino immagini ispirate ai suoi viaggi con forme al di fuori da ogni stereotipo africanista, unite a figurazioni irreali dei propri sogni anche ad occhi aperti, “un sapere complessivo che viene trasfigurato nel meccanismo catartico del gesto, nella frequenza rapida di un dipingere rituale”. Al quale aggettivo vorremmo dare il significato dello “spiritual painting” non materico, cioè di rito magico, piuttosto che di gesto e atto abituale, consueto e normale.

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“Lèvitation”, 2019

“Mapping – conclude Marziani – è una vertigine elettromagnetica, un campo di forze  contrastanti e liberatorie”; perciò, aggiungiamo, non può che riflettere un processo interiore senza nulla di precostituito, “una sorta di viaggio tra microcosmo e macromondo, nel ritmo caotico delle cellule e nei rumori infiniti delle stelle”. Va ben oltre i limiti della finitezza umana, ma dall’umanità trae linfa e alimento: “Un viaggio  dalla terra al cielo, passando per il ciclo della vita, per la potenza dei cuori, per la spinta emotiva, per  il parossismo della passione”. Lo abbiamo visto dalle intitolazioni di molte sue opere.

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Sage contemplative dell’extravagance humain”, 2019

Viene espresso in un “metaforismo spirituale che  contiene segni, codici, graffiti,  disegni elementari  e altre conferme di un alfabeto d’accoglienza globale. Si intuisce  un’ampiezza che sfida il tempo ideale e lo spazio percepito, una prospettiva a 360 gradi  con l’energia dell’occhio metafisico, come se il nostro Giano abbracciasse la bellezza di ogni possibile conoscenza, dalla caverna ai microchip, dal mattone al silicio, dal fossile al feticcio”. Una sintesi suggestiva, quella di Marziani, che fa pensare all’infinito e all’eterno.


“Invocation nocturne” , 2019

Lo sguardo di “E.T.”,  umanità cosmica nella forza pittorica

Questo è “Mapping”, e all’occhio di Polifemo e di Giano bifronte vorremmo aggiungere quello di E.T. – creato da Carlo Rambaldi, il mago degli “effetti speciali” – per come abbiamo percepito la visione dell’artista:  intensamente umana che intenerisce quanto lo sguardo dell’extraterrestre, pervasa ddll’umanità cosmica richiamata dai due curatori della mostra palermitana.

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”Ouverture mystique”, 2019.

Le due mostre – a Palermo e a Villa Lagarina, con le 60 opere esposte complessivamente – presentano solo una parte del “corpus” di 140 opere realizzate da Friedler nell’”unità aristotelica” temporale di cui si è detto. E’ un unico “albero”, un gigantesco “baobab”, per la sua estensione diviso in gruppi differenziati che, però, non devono far perdere la visione d’insieme: la tensione liberatoria, con l’anima alla ricerca di tutto ciò che possa far filtrare raggi luminosi e disperdere le ombre sottostanti, come gli “alberi” di Manuel Felisi, protesi verso il cielo alla conquista della luce che piove e si fa strada evocando “il presente del passato” in un intenso “caos quieto” esistenziale.

“Ballons multicolores, 2019

Per questo motivo abbiamo citato in precedenza anche tante opere non esposte in mostra che ci sembrano tutte strettamente complementari; alcune di esse rivelatrici, in particolare “Le refuge” e “La Mansarde” , fino a “La Belle Héloise” che vediamo ideale compagna e guida del suo viaggio dantesco, novella Beatrice. E ci siamo immedesimati virtualmente nel suo eccezionale “exploit” operato nel raccoglimento della “mansarda”, il “rifugio” artistico che ne qualifica e accresce il significato,  moltiplicandone  il valore.

L’hermite”, 2019

Abbiamo chiesto come si spiega questo ”exploit” a Dominique Stella, che conosce così bene l’artista. Ci ha risposto: “Credo proprio che Friedler sia stato folgorato dall’idea di annegarsi nell’idea stessa di pittura”.  E’ una sintesi di opposti anche la sua che rende icasticamente  la “folgorazione” di un attimo e l’”annegarsi” di un anno nell’”idea stessa di pittura” connaturata con il proprio essere di artista: nell’identificazione e immedesimazione di natura psicanalitica che lo rende protagonista e nello stesso tempo testimone della propria catarsi.

La mostra di Palermo ci ha fatto riscoprire Julien Frieler nella sua umanità oltre che nella forza pittorica, in un processo che ci ha intimmente coinvolto, e anche emozionato. Come avverrà per tutti coloro che vorranno seguirlo nel percorso che lo ha portato alla “liberazione”, spirituale e insieme artistica.

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La belle Héloise”, 2019

Info

F ondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, Corso Vittorio Emanuele 25, Palermo.  Da martedì a domenica, ore 10-13 e 16 -20, lunedì chiuso. Ingresso eccezionalmente gratuito, a piccoli gruppi con guanti e mascherine. Tel. 091.6123832, www.fondazionesantelia.it. Cataloghi: Julien Friedler, “Mapping”, a cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella, La Route de la Soie Éditions, Paris 2020, pp 204; Julien Friedler, “Behind the World”, La Route de la Soie Editions, Paris 2018, pp. 64; dai due Cataloghi trilingue, italiano-francese-inglese, sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito ieri 13 maggio 2020, l’articolo sulla mostra precedente in www.arteculturaoggi.comFriedler, il colore degli abissi, al Vittoriano” 17 novembre 2018. Per gli altri artisti, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su Anselmo 23 maggio 2020, Carlo Rambaldi 22 maggio 2020, Lachapelle 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, su Manuel Felisi 5 novembre 2018, 25 aprile 2016, 11 maggio 2015, Lachapelle 12 luglio 2015, Pollock in “Stati Uniti e Cuba, con Haiti, al Vittoriano per l’Expo” 3 luglio 2015, “Guggenheim. Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, su “Dante” 2 articoli 9 luglio 2011 (gli articoli di quest’ultimo sito, non più raggiungibile, saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dalla curatrice che ringraziamo,  con i titolari dei diritti, compreso il fotografo Vincent Everarts. Sono tutte opere di Julien Friedler del 2019 e – a parte l’apertura, 2 “Mapping” e “Senza Titolo” – sono riportate nell’ordine in cui sono citate nel primo articolo. In apertura, “Le rifuge”; seguono, “Mapping” e “Les plongeur” ; poi, “”Méduse” e “Harpye”; quindi, “Tremblement” e “Paysage”; inoltre, “Improvisation florale (miroir)” # 1 e 2 ; ancora, “Atmosphère”  e “Transparence”; continua “”Senza Titolo” e “Mapping 4 “; prosegue, “Lévitation” e ” Sage contemplative dell’extravagance humain” ; poi, ”Invocation nocturne” e ”Ouverture mystique” ; quindi, “Ballons multicolores” ; infine,“L’hermite” e “La belle Hèloise” ; in chiusura, “La Mansarde”.

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“La Mansarde”, 2019