Coronavirus, la prima linea e le retrovie di una guerra asimmetrica

di   Romano Maria Levante

Sul fronte della cultura va sottolineata positivamente l’iniziativa “la cultura non si ferma” con cui il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo fornisce agli italiani “tutti in casa” i  link per visite virtuali a Musei e non solo, fino all’offerta delle storie illustrate negli “albi”  della mostra “Fumetti nei Musei” raggiungibili “on line” con un click,  sul sito del Ministero, e alla giornata dantesca “Dantedì”, ringraziamo il ministro Dario Franceschini. Inoltre viene annunciata la visita virtuale “on line” aperta a tutti a partire dal 26 marzo alla grande mostra “Raffaello 1520-1483” nel 5° centenario, attraverso il sito e i social delle “Scuderie del Quirinale”, ringraziamo il presidente Mario De Simoni. L’Accademia di Santa Cecilia mette a disposizione Concerti registrati “in streaming” negli stessi giorni e ore di quelli consueti “in vivo” e visibili con facili collegamenti per l’intera settimana, lo comunica Giuseppe Maria Sfligiotti che li definisce “concerti in tempore belli”, lo ringraziamo. L’Associazione Civita ha lanciato il “contest di scrittura” #tiracconto da casa” per raccconti brevi di 1500 battute, “lo spazio interno che siamo chiamati ad abitare è quello delle nostre case ma anche l’interno di noi stessi”, grazie al presidente Gianni Letta. La messa mattutina di Papa Francesco dalla cappella di Santa Marta trasmessa in TV alle ore 7 su Rai1 è il messaggio consolatore quotidiano unito all’invocazione salvifica: se ne ha tanto bisogno in questa fase angosciosa, gli siamo grati oltre che devoti per la sensibilità umana congiunta all’ispirazione religiosa. Dopo questa premessa culturale e religiosa riteniamo doveroso commentare la drammatica situazione dell’emergenza sanitaria.

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Non possiamo reprimere la spinta che ci preme dentro dalla prima fase dell’emergenza “coronavirus” dinanzi  a un’evoluzione sempre più drammatica che sin dall’inizio abbiamo pensato aggravata dalla visione legata al quotidiano senza lungimiranza, sebbene  l’esperienza cinese fosse stata molto istruttiva sulla via del rigore da intraprendere subito. Non è il senno del poi, né un’accusa al governo e al Comitato che ha indicato la linea seguita, ma la constatazione di  una linea perdente con i risultati sotto gli occhi di tutti che finalmente si sta correggendo. Ne parleremo senza presunzione esternando ciò che riteniamo pensino tanti italiani, privi di intenti polemici, solo per fornire un contributo costruttivo. Si è in tempo a rettificare il tiro, e lo si sta facendo, non è sciacallaggio avanzare osservazioni, lo sarebbe tacere quando si hanno rilievi potenzialmente utili, che possono essere contrastati, non tacitati.

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Tra l’alluvione di interventi di scienziati e virologi, specialisti di malattie infettive e di epidemie, ci è apparsa rivelatrice l’affermazione del prof. Massimo Galli, primario infettologo  all’ospedale Sacco di Milano impegnato fino allo stremo nell’emergenza sanitaria,  il quale all’intervistatore che lo definiva “in prima linea nella guerra al coronavirus”  ha replicato che “in prima linea non siamo noi, ma  tutti i cittadini, noi siamo nelle retrovie dove affluiscono i feriti spesso in condizioni disperate, di una  guerra che si svolge nel territorio”.  Affermazione rivelatrice perché  fornisce una chiave interpretativa dei drammatici eventi che stanno sconvolgendo la vita di tutti. Prima linea e retrovie hanno ricevuto un grado di attenzione asimmetrico, ed è stata una grave anomalia, che ha scandito il mese nel quale l’assalto del “nemico”  è risultato devastante.

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La “guerra” nelle “retrovie”, gli ospedali

Le “retrovie”  si sono  mobilitate al di là delle capacità organizzative ed umane; non si è fatto per la prima linea, cosa che ha reso oltremodo gravoso fino alla insostenibilità l’impegno eroico delle retrovie. Gli ospedali sono stati rivoluzionati per moltiplicare le disponibilità ad accogliere i feriti che arrivavano dal “fronte” sempre più numerosi e in condizioni sempre più gravi, le terapie intensive sono state incrementate per quanto possibile con una ricerca inesausta utilizzando tutti gli strumenti, medici, infermieri e operatori sanitari hanno superato sé stessi con una dedizione strenua senza limiti. 

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Anche l’attenzione dei cittadini  si è concentrata sulle “retrovie”, quasi che il problema fosse soltanto “la crisi del sistema sanitario nazionale”, finché nelle regioni più colpite  non solo le terapie intensive pur potenziate si  sono saturate,  ma anche l’accoglienza ospedaliera è stata compromessa;  i “feriti” gravi non sono potuti neppure entrare negli ospedali da campo, sia pure in barelle nei corridoi, sono morti  a casa o nelle ambulanze ferme per ore in attesa che si liberasse un posto nell’ospedale stracolmo.  Poco di tutto questo è stato percepito all’esterno,  a parte la saturazione dei posti in terapia intensiva, per un malinteso e a nostro avviso inappropriato intento  di rassicurare i cittadini.

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Il “leit motive” è stato che il vero problema posto dal coronavirus riguardava la “tenuta del sistema sanitario nazionale per la concentrazione della necessità di terapie intensive in un tempo troppo ristretto per potervi far fronte”. Per cui la strategia seguita era di “rallentare il diffondersi del contagio in modo da alleggerire le terapie intensive”  e metterle in grado di assistere tutti i bisognosi di tale supporto: tutto qui. Sarebbe  come se la strategia bellica, nelle guerre convenzionali, fosse commisurata  alle disponibilità degli ospedali  da campo di curare i feriti  e non alla forza  del nemico da sconfiggere sul campo con ogni mezzoe soprattutto con le strategie giuste. E poiché la “prima linea” sono i cittadini, la loro mobilitazione doveva essere pari, se non superiore, a quella che c’è stata nelle “retrovie”, e la comunicazione nonché le misure del governo dovevano essere coerenti con questa esigenza vitale a cui richiamare proprio tutti con severità.

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Non abbiamo dimenticato il paradossale rifiuto iniziale alla richiesta, pur sacrosanta, delle regioni Lombardia, Veneto e Friuli, di stabilire la quarantena per i ragazzi provenienti dalla Cina – dalla quale peraltro erano stati bloccati i voli – per impedire la probabile fonte di contagio, come la campagna a favore dei ristoranti cinesi. A parte questa non trascurabile falla, anzi in coerenza con essa, si è scelta la linea della rassicurazione, insistendo in modo ossessivo sul fatto che è un morbo non grave, quasi trascurabile, poco più dell’influenza, e soprattutto riguarda soltanto i più anziani, in particolare gli ottantenni per i quali, comunque, c’è la terapia intensiva; quindi se si riesce ad adeguarla alle esigenze – si ripete, dei più anziani – il problema si può superare.

In ogni “bollettino di guerra” quotidiano delle  ore 18, tranne solo in quello del 23 marzo e successivi – quasi un positivo ripensamento – si è insistito in modo altrettanto ossessivo  su questa “esclusiva” del rischio, anzi aggiungendo con uguale insistenza che sono gli “ottantenni con più patologie” la parte di gran lunga preponderante dei decessi; “soltanto l’1% inferiori a 50 anni e con altre patologie”. Altro   “leit motiv”  è stato il “morti con coronavirus e non per coronavirus”,   sottolineando che “viene alterato un equilibrio comunque precario, è solo la goccia che fa traboccare il vaso”, quindi di per sé nessuna grave pericolosità per i sani anche se anziani. questo almeni si è pecepito.

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La “guerra” nella  “prima linea”, i cittadini sul territorio

E così possiamo passare alla “prima linea” dove si svolge la guerra contro il coronavirus, riferita invece impropriamente solo alle “retrovie”.  Neppure per le retrovie, peraltro,  il messaggio è adeguato, la “trasparenza” ha riguardato soltanto i dati –  peraltro non del tutto specchio della situazione, come vedremo più avanti – finché i servizi giornalistici hanno alzato il velo su una realtà oscurata forse per il consueto intento rassicurativo.  Si è visto in “Piazza pulita” su “La 7”  cosa vuol dire essere ricoverati per il coronavirus,  perdendo ogni contatto con i familiari  fino al decesso in una terribile solitudine; com’è terribile la   “terapia intensiva” e  come può essere grave la malattia anche nel decorso fausto, e soprattutto come possa colpire i giovani in modo gravissimo, perfino mortale.

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Eloquente la recente intervista a un “tronista”  della trasmissione televisiva di “Amici”, giovane e sano, che ha narrato il  suo calvario in ospedale, temeva di addormentarsi e non svegliarsi per il respiro quasi bloccato, sentiva i polmoni di vetro, e tanto altro. Si sono oscurate le morti di giovani e il dramma spaventoso della malattia, mentre si sono amplificati i casi “asintomatici” di tanti personaggi, protagonisti della politica, dello sport e dello spettacolo,  trovati positivi ma senza sintomi, ripresi a casa e intervistati via Skype. E’ notizia del 24 marzo che nel bergamasco ben 1.800 trentenni sono stati colpiti da polmonite da coronavirus, e da ogni parte giungono notizie del drastico abbassamento dell’età  dei colpiti dal morbo e ospedalizzati; si paga la rassicurazione percepita, con prevedibile leggerezza, dai giovani che si sono sentiti poco minacciati, quindi non hanno preso le precauzioni istintive quando si sa di rischiare la vita. 

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L’effetto non voluto ma forse prevedibile della  linea operativa e non solo comunicativa è stato che i cittadini sul territorio –  definiti dal primario  “la prima linea nella guerra” –  sono risultati di fatto, pur se limitatamente alla parte meno responsabile di loro,  poco più che  spettatori di qualcosa che non  li riguardava personalmente, se non per un generico “senso di responsabilità” riferito, lo ripetiamo, prima alle esigenze del “sistema sanitario nazionale” e non a se stessi, poi  ai più anziani,  gli ottantenni ossessivamente indicati come gli unici sostanzialmente a grave rischio se con patologie aggiuntive. Tutti gli altri quasi al riparo da conseguenze serie, anche perché  non si è detto nulla delle condizioni dei ricoverati giovani, amplificando la normalità dei positivi rimasti a casa.

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Come poteva reagire la “prima linea” dinanzi  al bombardamento di messaggi rassicuranti, come se il problema riguardasse quasi solo il “sistema sanitario nazionale” e, tra la popolazione, vogliamo ripeterlo ancora, gli ottantenni con patologie, e il virus fosse un Erode dei vecchi?  E’ venuta fuori  la ben nota caratteristica nazionale di essere refrattari agli appelli alla “responsabilità” collettiva per il bene comune, quindi tanti hanno mantenuto i comportamenti individuali consueti. Nel senso che non si sono sentiti “richiamati” per “combattere”  al fronte, ma spettatori disinteressati; mentre i più anziani sono stati lasciati soli a “combattere”, con l’angoscia di essere esposti a un rischio mortale proprio perché in “prima linea” si sono sentiti praticamente  abbandonati.

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Torniamo a dire che non si doveva chiedere solo la pur doverosa  ma volontaria solidarietà intergenerazionale, bensì l’ autodifesa dei singoli di ogni età per il grave rischio corso personalmente da tutti, ne sarebbe derivata  anche la difesa collettiva. Diciamo con questo che si sarebbero dovuti  nascondere i dati per ottenere la mobilitazione  di coloro che in effetti non corrono rischi? Assolutamente no,  ma la quotidiana, ripetiamo di nuovo fino all’esasperazione, ossessiva sottolineatura che i decessi riguardano quasi esclusivamente i più anziani, oltretutto con più patologie, ha fatto  sentire al sicuro tutti gli altri; mentre non sono affatto al sicuro, a stare ai casi di decessi anche di giovani,  e soprattutto alle gravissime condizioni nella degenza dei malati di giovane età con tremende sofferenze negli ospedali, anche senza patologie pregresse come il “paziente 1”, atletico maratoneta di 38 anni.  Come si insiste con il dire giustamente che il virus non sente confini geografici, si doveva insistere che non sente neppure confini generazionali, pur nel differente impatto ma sempre grave.

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Quale l’effetto del bombardamento mediatico rassicurante? Che le altre classi di età al di sotto dei più anziani nel mirino, si sono sentite rassicurate e non hanno seguito le raccomandazioni diffuse largamente – questo sì, occorre riconoscerlo, in ogni occasione pubblica e privata e in tutti i mezzi di comunicazione  –  sulle attenzioni  e cautele prima, sugli obblighi tassativi poi.  Siamo italiani, e non potevamo non conoscere che se non toccati direttamente non ci sentiamo obbligati, putroppo se ne è avuta conferma.

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Altrimenti come si spiega che con tutte le raccomandazioni di stare a casa, tenere le distanze, evitare gli assembramenti, ecc. ecc. i servizi televisivi hanno documentato le macroscopiche violazioni su larga scala con le “movide”  e i luoghi  di svago animati,  le spiagge affollate e le metropolitane stracolme, i treni e i bus presi d’assalto?  Nessun ottantenne ma delle altre classi di età, giovani in primis, che si sentono al sicuro, e anche le deplorazioni che sono state fatte riguardano sempre la scarsa coscienza collettiva e la responsabilità per la diffusione del contagio, mai il rischio personale; e neppure quello familiare, dovendo comunque rientrare tutti nelle proprie famiglie diffondendo un contagio  che li espone su questo duplice fronte. Mentre andava ripetuto in modo insistente – cosa che non si è fatta, anzi si è fatto l’opposto –  che anche nei decorsi fausti, per fortuna maggioritari, la malattia è tremenda, e non si può fare affidamento sui casi “asintomatici, che vengono amplificati nei personaggi di politica, spettacolo e calcio, mentre non si parla del presidente di una società calcistica morto a 35 anni, né  del duro decorso di giovani e forti pur se con la consolazione del lieto fine.

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Si è prescelta la linea rassicurante, mentre la mobilitazione della “prima linea” doveva essere basata su messaggi trasparenti e veridici, sì, ma realistici, sulla gravità di una malattia dal decorso drammatico per ogni età, anche fino ad esiti fatali, non attenuata dalla diversa frequenza e probabilità data dai numeri, che non andavano pervicacemente divisi per età come si è fatto, ma potevano essere forniti globalmente. Nonostante questo, si deve riconoscere che la  maggioranza dei cittadini ha  rispettato le restrizioni ed è giusto che ne venga dato atto, ma si deve anche sottolineare che la piccola minoranza deresponsabilizzata può aver alimentato il contagio con l’effetto moltiplicativo dei contatti personali e familiari senza la remora del rischio personale. A Milano  il 40%  del consueto è risultato nelle strade,  una presenza che ha scandalizzato i medici cinesi alloro arrivo: non bastano le piazze e le vie deserte di cui riportiamo tante immagini – che provano la disciplina della larga maggioranza – purtroppo la “circolazione” del virus è tale che sono bastate le indiscipline e le esenzioni  dovute a movimenti permessi ma senza i presidi protettivi, come vedremo tra poco, molto diffuse nella prima fase.

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Questa è una delle carenze in una “guerra” che doveva impegnare la “prima linea” dei cittadini e non solo le “retrovie” degli ospedali che hanno subito  gli effetti devastanti di una “prima linea” in cui hanno “combattuto”  quasi da soli  i più anziani,  soccombendo soprattutto nel bergamasco, tanto  che Mattarella ha parlato di “strage di una generazione”,  mentre il sindaco Gori  di “scomparsa di intere generazioni”, perchè anche i meno anziani se ne sono andati. Il principale ospedale di Bergamo giunto al collasso, la terapia intensiva satura, anziani che muoiono senza poter essere assititi e senza alcun conforto, il contagio che corre nell’ospedale: un quadro disperato che fa invocare agli operatori ospedalieri bergamaschi un intervento sanitario diffuso sul territorio per allentare l’insopportabile pressione sugli ospedali, incapaci di farvi fronte.

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Magari si fosse trattato soltanto di difetti di comunicazione, mentre la “prima linea” veniva rafforzata nei fatti! E’ avvenuto l’inverso, la “prima linea” dei cittadini è stata  privata delle armi indispensabili, come le “mascherine”. E questo con le altrettanto pervicaci indicazioni – proseguite alla data del 26 marzo – che “le mascherine non servono a proteggersi, anzi possono essere dannose dando una sicurezza che può far ridurre le attenzioni necessarie”; è stato detto doverle  indossare, oltre agli operatori sanitari,  soltanto i positivi perché non trasmettano le “goccioline” che provocano il contagio nel micidiale “droplet”. A questa si è aggiunta l’indicazione che “gli asintomatici non diffondono il contagio perché il loro virus è molto attenuato”. Quindi il messaggio percepito è stato: “Girate senza mascherina tranquilli, basta distanziarsi di un metro, comunque rischiano quasi solo i più anziani soprattutto ottantenni…. fatelo per loro a rispettare le prescrizioni di non affollarsi  e per il sistema sanitario nazionale!”.  

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Soltanto adesso sta trapelando una realtà ben diversa, gli “asintomatici” sono contagiosi eccome!  Lo abbiamo temuto da tempo, altrimenti come si spiegherebbe il diffondersi del contagio anche agli alti livelli che si presume ben protetti, quali il viceministro della salute, persino Bertolaso – pochi giorni dopo l’arrivo a Milano chiamato dal presidente della Lombardia per realizzare in pochi giorni un nuovo grande ospedale nella Fiera – i presidenti di due Regioni, il principe Alberto di Monaco e Carlo d’Inghilterra, le consorti dei presidenti di Canadà e Spagna, personaggi dello spettacolo come Placido Domingo e Giuliana de Sio, e della televisione come Nicola Porro e Piero Chiambretti, tanti calciatori fino a 12 operatori della Protezione civile, e molti altri, per non parlare di medici e infermieri, purtroppo esposti con grave pericolo personale. Come si può pensare  che siano stati contagiati da starnuti o colpi di tosse, o dal respiro  ravvicinato, non lo si può credere trattandosi di personaggi ben avveduti, cautelati e protetti.

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E se sono gli “asintomatici” – nei quali si annida subdolo il virus come facevano i “commandos”  vestendo  la divisa del nemico – a contagiare favoriti dall’invisibilità dei sintomi, l’obbligo delle “mascherine” per tutti avrebbe  protetto  i sani ignari e inermi proprio dagli “asintomatici” ignoti, quindi era una esigenza indifferibile.  Si potrebbe obiettare che le “mascherine” non sono disponibili neppure per tutti gli operatori della salute, figurarsi per i cittadini, e per questo si è dovuta forzatamente dare tale indicazione negativa. Sarebbe inappropriata anche questa obiezione, andrebbe invece sottolineata l’esigenza di coprirsi naso e bocca, magari con sciarpe e “foulard” protetti da fogli in plastica, un ”fai da te” che soltanto Barbara Palombelli su Rete 4 ha cercato di diffondere, ma il suo messaggio è stato sistematicamente smentito in televisione dalle risposte degli “esperti”  che anzi le ritenevano pericolose, per cui lo hanno neutralizzato.

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Quindi alla replica  che neppure le “retrovie” ospedaliere hanno avuto le “armi” necessarie, pertanto non poteva averle la “prima linea” costituita di tanti milioni di cittadini, si oppone il rimedio del “fai da te”, forsei insufficiente ma responsabilizzante per i singoli,  insieme alla consapevolezza che chiunque poteva contagiarli e in tal caso ci sarebbero state gravi conseguenze anche per i giovani, non solo per gli ottantenni per di più con patologie. Non ci sarebbe stato l’”assalto ai treni” per il Sud  all’annuncio del decreto del 7-8 marzo, senza alcuna protezione, perché i singoli si sarebbero sentiti esposti a un contagio con gravi effetti personali,  e questo conta molto più che l’appello alla responsabilità collettiva, vogliamo ripeterlo. E sembra che sia stato dell’ordine di 100 mila l’esodo dei lavoratori e studenti dalla Lombardia alle regioni del Sud, con il 15%  febbricitanti e su mezzi affollati, con alte probabilità di contagiarsi, rientrati nelle famiglie  con alte probabilità di contagiarle; finora si assiste a un vero miracolo perché non c’è stata, e speriamo non ci sarà, la temuta  esplosione al Sud, incrociamo le dita!

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La conduzione della “guerra”   con “gradualità”, criterio perdente

Questo ci fa entrare   nel tema altrettanto decisivo  evocato dalla rivelatrice definizione della “prima linea dei cittadini” da parte del primario dell’Ospedale Sacco di Milano, la “retrovia” più esposta, e riguarda la conduzione della “guerra” da parte dello stato maggiore e del comandante in capo. Prima considerazione, non si sa se c’è o meno un “comandante in capo”: Angelo Borrelli, che era  ritenuto  “Commissario per l’emergenza”  ha corretto il giornalista che lo definiva tale dicendo di essere soltanto “Capo dipartimento della Protezione civile”. Il titolo di Commissario è stato dato dopo un mese di “guerra”,  ma con un ruolo limitato agli approvvigionamenti, a Domenico Arcuri, un manager sperimentato  il quale dopo sei giorni ha potuto comunicare risultati positivi sulle “munizioni” procurate, pur se insufficienti, come le “mascherine” che saranno anche prodotte in Italia a 50 milioni di unità al mese per la  “prima linea”  dei cittadini  e per le “retrovie” ospedaliere, da parte loro potenziate notevolmente nei posti di terapia intensiva e posti letto di degenza,  nei medici e infermieri, negli ospedali da campo con immane sforzo. Ma si è trattato ancora di un annuncio con scarso seguito, pertanto si protrae la grave carenza di materiale protettivo per i sanitari che pagano un alto prezzo in termini di contagiati e di vittime, come i soldati dell’Armir mandati in Russia nella guerra mondiale con scarpe di cartone nella morsa del gelo dell’inverno siberiano.

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Si sono aggiunti, fornendo un aiuto generoso e insperato, gli espertissimi medici cinesi, oltre 300 arrivati in tre riprese, 52 medici e operatori sanitari cubani, 170 medici militari e operatori sanitari giunti “dalla Russia con amore” su 15 aerei carichi dei preziosi materiali sanitari che da noi scarseggiano; in più 300 medici reclutati con il bando italiano su quasi 8 mila domande, che sono una importante riserva cui attingere. Alla mobilitazione internazionale in nostro socorso l’Occidente finora ha partecipato poco, la Germania accogliendo finora circa 40 malati in terapia intensiva, la Francia con un po’ di materiale, gli Stati Uniti hnnno promesso un ospedale da campo, con l’Europa del tutto assente a livello sanitario, cosa che non la qualifica agli occhi dei cittadini europei, che si sentono abbandonati nel più grave pericolo della storia recente.

Tornando alla figura dominante in tutte le decisioni, il presidente del Consiglio, non si può non notare che ha sostanzialmente annullato, o almeno oscurato,  persino il Ministro della Salute  costituzionalmente  competente sulla materia,  fatto anomalo perché il Presidente avrebbe anche altre pesanti incombenze in campo economico e internazionale, mentre sulla “linea di combattimento” occorrerebbe una guida operativa che si aggiunga ai vertici istituzionali. Un inpegno generoso, però non sempre adeguato.

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Si è anche evocato l’intervento del Parlamento, cosa  comprensibile ma con le ovvie controindicazioni, e sul piano formale basta la “dichiarazione di guerra”, nel caso dell’“emergenza nazionale” questa c’è stata a fine gennaio, subito dopo quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi tempestiva, con l’indicazione del più operativo DPCM, Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, rispetto ai comuni Decreti legge, lo ha precisato il presidente Conte il 24 marzo.  Si evita così giustamente  ogni lungaggine politica nelle misure contro il virus, solo per i gravissimi problemi economici  vige la normalità istituzionale e parlamentare, non per la difesa della salute, la “prima linea dei cittadini”, per cui comunque vanno sentite le opposizioni. In ogni caso i DPCM vengono inseriti sinteticamente in successivi decreti legge sottoposti al Parlamento, per cui sono pretestuose le accuse di autoritarismo, per non parlare di quelle per la limitazioni alla libertà personale, doverosa per difendere la vita.

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Vanno evitati in questo percorso emergenziale  i ben noti limiti della politica dominata dalla preoccupazione per il consenso popolare, non vorremmo che abbia contribuito anche se inconsciamente alla preoccupazione del presidente del Consiglio “per la tenuta psicologica dei cittadini” che lo ha fermato dal prendere subito misure più restrittive, dopo un inizio in cui aveva giustamente ed efficacemente drammatizzato la situazione con la presenza domenicale nella Protezione civile e le 16  apparizioni in altrettante trasmissioni televisive con il maglioncino che sottolineava l’emergenza nazionale. 

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Di qui un’impostazione che forse nessun “comandante in capo” che non sia un politico avrebbe adottato, il “criterio della proporzionalità” degli interventi alla situazione del momento, con la “gradualità” e l’’impegno a rivederli per “adeguarli di volta in volta all’evolversi della situazione”, come ha ribadito anche il ministro per le Regioni, Boccia, e lo stesso Presidente nelle comunicazioni al Parlamento del 25 e 26 marzo, nelle quali – citando sempre come fonte il Comitato tecnico-scientifico che ha indicato le misure per l’emergenza – ha difeso “la gradualità e la proporzionalità rispetto all’andamento epidemologico” con misure “via via bilanciate” in modo da “contemperare… ” e così via.

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Ci sembra che la “proporzionalità” e l’impegno  a rivedere le misure “secondo l’evolversi della situazione” dovesse operare all’inverso: cioè misure rigidissime come in Cina inizialmente per 20 giorni, con attenuazione se “l’evolversi della situazione” lo avesse consentito, per prevenire il contagio, e non inseguirlo mentre il “nemico” seminava morti e feriti. Del resto, anche  sulla sostenibilità economica, non si chiude tutto per 20 giorni a Ferragosto, salvo nei luoghi di villeggiatura?  A quelle eccezioni stagionali poteva corrispondere l’apertura solo per negozi e servizi essenziali con le filiere industriali connesse. Sarebbe stata una anticipazione del “fermo” di Ferragosto e  forse saremmo già fuori del tunnel, ora è più difficile arginare la massa di contagiati.

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Freudianamente il  presidente del Consiglio nella conferenza stampa del 24 marzo, nel replicare al giornalista che pensava le misure fossero fino a luglio 2020, ha  precisato che quello è il termine per l’emergenza fissato a fine gennaio, mentre le restrizioni attuali scadono il 3 aprile  e verranno prolungate o attenuate secondo “l’evolversi della situazione” con il “dosaggio graduale” che è la scelta del governo: abbiamo detto “freudianamente” perché  questo sì che sarebbe stato il “dosaggio graduale” appropriato, allentare i freni  di volta in volta, se possibile, e non frenare bruscamente quando il veicolo ha preso una velocità incontrollata, come avvenuto per i contagi al cui dilagare, non va mai dimenticato, sono collegati i decessi e il collasso delle strutture ospedaliere.

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Il “dosaggio” preventivo è un controsenso anche con un altro paragone, è come se l’antibiotico si dosasse  rispetto alla febbre e non come terapia d’urto per bloccare “ex ante” l’infezione batterica senza sperare di tamponarla ma con danni “ex post”. Sembra incomprensibile che il Comitato tecnico-scientifico abbia indicato questa linea senza avere la necessaria capacità previsiva in un campo, quello epidemiologico, ben noto da secoli nella forza diffusiva del contagio, per di più con l’esperienza cinese illuminante.

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E’ risultata  una   strategia perdente perché “di volta in volta”  la “prima linea  dei cittadini”  è stata inadeguata rispetto alla forza d’urto del “nemico” e si è avuta una pur positiva correzione con i decreti successivi, sempre più restrittivi ma putroppo tardivi. Questa disperata difesa senza prendere coscienza dell’errore di base, ricorda i “bollettini di guerra” del 1942-45, che parlavano di “ripiego sulle posizioni prestabilite” mentre erano altrettante sconfitte, tale è stato “l’evolversi della situazione”, cioè il dilagare del contagio dai focolai ad aree sempre più vaste con il  crescente carico di morti. Sono nel cuore di tutti le meste teorie dei camion militari che a Bergamo giornalmente portano fuori regione per la cremazione le salme che non possono essere più collocate nel cimitero cittadino e sono la manifestazione di una tragica sconfitta.

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Sottovalutazioni,  omissioni e prudenze perdenti

Anche la letalità è stata  sottovalutata, attribuita sempre agli ottantenni, quasi colpevoli di esistere in numero maggiore che in altri paesi e di resistere alle altre patologie, mentre il dilagare tra loro è dipeso anche dall’insufficienza delle “armi” date alla “prima linea”.  E ci riferiamo alle misure governative tardive, con i divieti imperativi che dovevano sopperire alla deresponsabilizzazione degli incoscienti ingenerata dai messaggi rassicuranti. Così si sono avuti gli interventi per le “zone rosse” del 22 febbraio per il Lodigiano e Vo del Veneto, che si è dovuto estendere dopo tre giorni, il 25, ad altre zone del Veneto e della Romagna, e poi all’Italia “zona protetta” del 7-8 marzo e “zona rossa” del 22-23 marzo e dei giorni successivi. Tempestivo rigoroso l’intervento iniziale, ma viziato nell’immdiato dal criterio della “gradualità” e “proporzionalità” in assenza di una capacità previsionale anche di soli tre giorni per le altre aree limitate e di 10 giorni per la regione più colpita, che ha impedito di prendere misure drastiche subito, anche se poi si sono estese all’intero paese in regioni ancora preservate : non sappiamo se per indicazioni specifiche del Comitato tecnico-scientifico definite dagli esperti in base al criterio di “proporzionalità rispetto alla situazione in atto” e non rispetto alla previsione sull’andamento epidologico per poterlo anticipare.

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Il tutto nonostante la pressione delle regioni più colpite, la Lombardia e anche Veneto ed Emilia, pur se dopo  il “milanononsiferma”  e l’“aperitivo”  di Zingaretti a Milano, con il contrappasso della sua ammonitrice positività al virus,  e correlativa apertura nazionale, quasi come l’8 settembre 1943 allorchè ci si illuse che tutto era finito. Qui le preoccupazioni sui danni economici prevalevano sulla difesa della salute e della vita.

E quando si è disposta la stretta per impedire che dalle “zone rosse” il contagio dilagasse nella penisola, purtroppo  non  si è pensato di bloccare, ripetiamo,  la partenza dei treni e autobus per il Mezzogiorno, pur essendo ben noto che molte diecine di migliaia di meridionali lavorano o studiano in Lombardia, zona a rischio perché infetta dal virus.

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La causa non è stata la fuga di notizie della bozza diffusa nel pomeriggio del 7 marzo provocando l’assalto ai treni e bus della sera; perché è continuata in seguito, dal momento che  nell’”autocertificazione” uno dei motivi per gli spostamenti oltre a quelli per lavoro, spesa, salute, era il raggiungimento “delle località di residenza e domicilio”, non solo la residenza verificabile sul documento di identità ma anche il domicilio, sede generica dei propri affari;  e non c’era neppure il divieto di spostarsi per sieropositivi e in quarantena, i primi da dover bloccare, errore corretto solo tardivamente.

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Non è questa l’unica minaccia, c’è quella di tutti i 25 mila positivi a casa malati o in quarantena, con il rischio che i familiari portino l’infezione all’esterno, speriamo che le prescrizioni reggano eci sia una adeguata assistenza. A parte questo ulteriore problema, l’esperienza dei forse 100  mila rientrati al Sud a seguito  del  decreto del 7-8 marzo è servita perché al decreto annunciato il 21 marzo è stato collegato subito il divieto a spostarsi in un altro comune compreso quello di residenza e domicilio, correzione doverosa, purtroppo gran parte dei buoi sono già  scappati; lo si doveva fare anche il 7 marzo, perchè si poteva prevedere tale esodo. Continuiamo ad incrociare le dita!

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M a c’è dell’altro, il “timore per la tenuta psicologica” del “tutti in casa”  ha portato a consentire comportamenti che si sono tradotti in una non certo modesta elusione delle prescrizioni del decreto del 7-8 marzo: così la possibilità di fare sport nei parchi pubblici, che ha costretto i grandi comuni a intervenire direttamente chiudendo quelli recintati, così le 20 tipologie di attività commerciali consentite, così il mantenere attive tutte le attività produttive con il risultato delle metropolitane superaffollate non solo per gli incoscienti irresponsabili ma anche per i lavoratori che dovevano recarsi al lavoro.

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Inspiegabile lasciare aperte 20 tipologie di esercizi commerciali con proprietari e commessi che vanno al lavoro aspettando clienti i quali, facendo acquisti  non essenziali – come è improbabile anche se la scarsa responsabilizzazione individuale non lo esclude –  violerebbero il divieto che consente solo  la spesa o andare in farmacia; e per le violazioni era prevista monetariamente solo una ammenda di 200 euro. “Il medico pietoso fa la piaga verminosa”, secondo l’antica saggezza popolare, ed è quello che è avvenuto con il “timore per la tenuta psicologica”, si è ignorato il più pressante timore per la vita.   Con questo non vogliamo sottovalutare i possibili traumi per la reclusione domestica, soprattuto in ambienti ristretti e per soggetti psicologicamente fragili, e il rischio di violenze familiari; ma per questo problema deve essere attivata una azione idonea di operatori specializzati sul territorio, il “campo di battaglia”, la “prima linea”.

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Il decreto annunciato del 21-22 marzo e quello successivo  hanno rimediato  a tali macroscopiche contraddizioni solo in parte, ma non del tutto. Sembrava che molte delle 80 attività produttive restassero attive, l’annunciato sciopero dei sindacati che le hanno ritenute al di là di quelle indispensabili e vogliono proteggere i lavoratori dal contagio sembra abbia ottenuto le restizioni necessarie; l’ordinanza della regione Lombardia le ha giustamente inasprite lasciando solo le attività veramente essenziali, chiudendo uffici pubblici e studi professionali, cosa non prevista con altrettanto rigore dal governo, mettendo una sanzione di 5.000 euro per gli assembramenti; il governo l’ha seguita comminando multe da 400 a 3.000 euro, elevabili a 4.000  per le auto, di carattere amministrativo senza lungaggini penali. E stata ammessa con una apposita norma la possibilità delle Regioni – che peraltro stavano già operando in tal senso – di inasprire le misure restrittive del governo che pure ne mantiene la titolarità sul piano nazionale.  

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Si è vista una strada di Napoli affollata di persone ciascuna con un sacchetto bianco della spesa,  evidente elusione del divieto perché  l’acquisto non può consistere solo in un piccolo sacchetto che è una evidente copertura;  e poi la spesa in tanti casi viene fatta dai vari membri della famiglia tutti i giorni, come il cane viene portato a spasso più volte al giorno da diverse persone per eludere il divieto, viene anche prestato agli amici per farli uscire. In Cina la spesa una volta a settimana da una sola persona, salvo le molto diffuse forniture a domicilio, nessuna fila.  Alla base di queste demenziali  elusioni c’è sempre la deresponsabilizzazione individuale non sentendo rischi personali per l’età non anziana considerata l’unica a rischio, e ritenendo il coronavirus “poco più di un’influenza” con tragico errore personale e collettivo. Ma sembra che il governo finalmente se ne sia reso conto e i messaggi degli esperti non sono più rassicuranti e sottolineano rischi per tutti.

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L’esigenza di proteggere il territorio, il “nemico” è tra noi

C’è dell’altro ancora da dire sulla gestione dell’emergenza, senza un comandante in capo che non avesse  impegni politici e con interventi rivelatisi tardivi anche per le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico alle cui valutazioni ci si è affidati, ma che è contraddetto dai fatti.. E’stato dirompente l’intervento del rappresentante italiano all’Organizzazione Mondiale della Sanità espressamente affiancato al Ministro della Salute – come controllore più che come onsigliere – per impedire i “tamponi” diagnostici del coronavirus anche agli “asintomatici” a rischio per essere stati in contatto con gli infettati, come si era fatto all’inizio soprattutto nelle zone aggredite dal virus. Si disse che in tal modo si violava il protocollo internazionale  seguito dagli altri paesi esponendo l’Italia a una sopravvalutazione dei contagi con un grave danno di immagine, “tamponi” in pratica solo ai ricoverati.

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L’imperativo, proclamato di continuo, fu “tamponi solo in presenza di due condizioni, gravi sintomi e in più contatto con persone delle zone rosse del Nord”: neppure con evidenti sintomi perché quelli della normale influenza, occorre anche la condizione del contatto con persone delle zone a rischio. Ed essendo contatti riconosciuti rischiosi,   ripetiamo ancora, non si doveva consentire a 100.000 di esse il ritorno al Sud dalle famiglie, costringendo i presidenti delle regioni meridionali alla precipitosa schedatura senza peraltro poter impedire i contagi familiari che vanificano la quarantena dei singoli.

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Finalmente ci si sta accorgendo che  l’estensione dei “tamponi” come si era fatto all’inizio sarebbe necessaria per individuare gli “asintomatici” molto pericolosi, a differenza di quanto propalato con insistenza; con la limitazione adottata non si sono individuati neppure i sintomatici senza contatti rischiosi perché esclusi dal “tampone” impedendo tra l’altro di curarli tempestivamente. Sembra che gli “asintomatici”  possano arrivare, lo ha ammesso anche il Capo Dipartimento della Protezione civile,  fino a  10 volte gli accertati, per cui potrebbero essercene  in giro ben 600.000,  una terribile spada di Damocle sull’evoluzione del contagio, che conferma come la negazione della “guerra” sul territorio possa portare a disconoscere elementi decisivi.

Solo in questi giorni  cominciano a parlarne in televisione gli onnipresenti specialisti che avevano escluso ogni rischio al riguardo. Il “nemico” è tra noi, nascosto in modo subdolo,  ricordiamo il “Taci, il nemico ti ascolta” dell’ultima guerra, ora non basta, il “nemico” va scovato e ci vogliono i “tamponi” su scala ben più vasta, sia pure in modo miratoc e non totalitario, per “tracciare” il percorso dei contagi e poterlo contrastare prevenendolo e non soltanto inseguendolo dopo che è dilagato in modo inarrestabile.

Una “guerra” da vincere, lo dicono i bambini che “andrà tutto bene!”

Viene detto che è stato un “nemico”  nuovo e sconosciuto, non si sapeva come combatterlo. Però c’è stata l’esperienza di successo della Cina, in anticipo di due mesi, quindi perfettamente a tiro, che non ha seguito il criterio perdente della “proporzionalità”  e la “gradualità” con l’adeguamento delle misure “rispetto all’evolversi della situazione”. Con la chiusura drastica e immediata e controlli militari ha isolato e protetto 60 milioni di abitanti impedendo che dilagasse nel miliardo  e 400 milioni di popolazione, e c’è riuscita facendo ripartire l’economia in tempi rapidissmi. Non ha chiuso l’intera nazione, ma ha subito isolato i 60 milioni di persone del focolaio, costruito  in pochi giorni nuovi ospedali per migliaia di degenti, mobilitato l’esercito E non è dipeso dal regime dittatoriale il rispetto della misure, ma dalla loro severità e rigore con la mobilitazione sul territorio, che un sistema democratico può e deve adottare, si tratta della vita!

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E’ una “guerra” che i cittadini in “prima linea” sono chiamati a “combattere” peraltro  restando a casa, cosa alla portata di tutti, ma lo fanno se sanno di proteggere sé stessi e non tanto per proteggere gli altri. Con questa convinzione non può mancare la “tenuta psicologica” che c’è stata quando la guerra era sul fronte e non ci si poteva rifiutare pena le sanzioni per la diserzione e le pene capitali per il rifiuto agli ordini. Più comoda incommensurabilmente la casa, anche se poco spaziosa, con la TV, Internet e lo smartphone,  che la trincea con i reticolati, e il nostro popolo che ha affrontato quella guerra, con le famiglie sotto i bombardamenti e gli adulti al fronte, non può affrontare anche questa guerra resistendo psicologicamente alle pur fastidiose restrizioni? Per chi è fragile e potrebbe non sopportare la costrizione domiciliare, ripetiamo, va prevista un’assistenza appropriata con un’azione sul territorio rivolta, oltre a questo problema, anche e soprattutto all’emergenza delle degenze dei positivi a domicilio con possibili contagi familiari e delle quarantene; fino all’ospedalizzazione tempestiva per evitare l’aggravarsi dei sintomi, a volte fatale, da gestire con una vicinanza adeguata non lasciando soli coloro che, non va dimenticato, sono “in prima linea”.

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E’  stata annunciata per i primi di aprile la riapertura di Hubei con l’epicentro di Wuhan in Cina, le “zone rosse” in un paese sconfinato di 1 miliardo e 400 milioni di abitanti con 80.000 contagiati e 3.400 morti, l’Italia 60 milioni di abitanti  già con 8.000 morti e 60.000 contagiati ufficiali, primo paese al mondo di gran lunga, che si avvia a triplicare i morti dichiarati in Cina in questa terribile classifica,  e non si vede la luce in fondo al tunnel!

Né vale che ha una popolazione più anziana, in particolare  di quella cinese, quindi più indifesa rispetto al virus killer: perché proprio per questo le misure dovevano essere, se  possibile, più restrittive di quelle cinesi, dato che  i cinesi rischiavano molto meno e noi molto di più; invece non solo non si è proceduto con rigore, ma si sono lanciati i messaggi rassicuranti che hanno fatto disattendere le blande misure prese all’inizio. 

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Ora sembra si ascolti anche l’insegnamento della Corea del Sud,  con il “call” rivolto alle “start up” informatiche e telematiche sui metodi di” tracciabilità” degli spostamenti,  per creare una “task force tecnologica”, ed è paradossale che ci si preoccupi della “privacy”, data la posta in gioco. Si  comincia a capire che non si può trascurare il “territorio”, dove si combatte la guerra, dopo essersi occupati essenzialmente delle “retrovie” ospedaliere, eroiche fino al supremo sacrificio, ma proprio per questo da proteggere con azioni adeguate. Ad esempio, non si è pensato che forse la distanza di un metro non basta a causa dell’effetto “aerosol”  in base al quale per il contagio non sarebbe richiesto solo il contatto molto stretto con il passaggio  delle “goccioline” maledette  impossibile a distanza ,  ma il virus potrebbe trasmettersi nello spazio  restando nell’aria, perciò viene raccomandata la  areazione degli ambienti, ma non dalle  autorità. Che ignorano il “principio di precauzione” in base al quale si deve esagerare in prudenza per sicurezza, riportandosi all’antica saggezza del “melius abundare quam deficere” tanto più in questa situazione che comporta rischi mortali.

“ANDRA’ TUTTO BENE!”  scrivono i bambini sotto il disegno dell’arcobaleno, e ce lo auguriamo con la forza della volontà e la spinta della speranza, “spes contra spem” nonostante tutto, e aggiungiamo un arcobaleno naturale, un arco di speranza sulla nostra terra. Ripensiamo alle parole della canzone di Franco Battiato, “Povera patria”, rendono la nostra ansia ai “bollettini di guerra” quotidiani delle ore 18: “”Non cambierà, non cambierà”, temiamo, poi pensiamo “no cambierà, forse cambierà”; fino alla reazione volitiva, “sì che cambierà, vedrai che cambierà”, che si eleva nell’auspicio di tutti, “si può sperare che il mondo torni a quote più normali/ che possa contemplare il cielo e i fiori”. Il nostro arcobaleno nel cielo azzurro di una bella vallata d’Abruzzo è più di un augurio.

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La vittoria verrà come sempre dallo “Stellone d’Italia”, che i bambini ingenuamente invocano,  se diverranno disciplinati quelli che sentendosi al sicuro eludono le disposizioni, il “tutti in casa” per isolarsi e il “distanziamento” per proteggersi: dopo l’ultima “stretta”, nei primi due giorni su 2 milioni di controlli ben 100 mila denunce per violazioni.  Confidiamo nella  sospirata Vittorio Veneto, ci riportano alla 1^ guerra mondiale le immagini da “Addio alle armi” della nostra eroica “retrovia”.

Non ci sarà un nuovo Armando Diaz, e non si è voluto il “dictator” che nell’antica Roma prendeva la guida nelle emergenze per un periodo limitato. Saranno onorate le “retrovie” con le “salmerie” costituite dai tanti che operano nei settori dei servizi essenziali, i supermercati e le farmacie con le relative filiere , i volontari – ben 10.000 impegnati nel territorio a protezione dei più deboli – la Protezione civile e le forze dell’ordine; e i veri eroi,  le migliaia di medici e infermieri alle prese con il nemico mortale giorno e notte, 6.000 contagiati, 50 medici caduti nell’impari lotta – ospedalieri e anche medici di base – tanti infermieri crollati per la fatica e uccisi dal morbo, in una commovente abnegazione. Ci vorrà un riconoscimento concreto alla loro dedizione per strappare dalla morte i tanti che vengono continuamente salvati tra rischi personali e difficoltà inenarrabili; e per i medici e infermieri che sacrificano il bene supremo, la vita, la gratitudine  dell’intero paese espressa in un riconoscimento di altissimo valore civile alla loro memoria.  

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Foto

Leimmagini intendono illustrare alcuni aspetti dell’emergenza coronavirus per rendere visivamente il dramma che il nostro paese, come la gran parte dei paesi del mondo, sta vivendo. Dopo l’immagine di apertura, con le terribili molecole del coronavirus, seguono 7 immagini su quelle che il prof Massimo Galli chiama le “retrovie” della guerra contro il coronavirus, gli ospedali con i medici e gli infermieri, oltre agli altri operatori della sanità, impegnati strenuamente giorno e notte per far fronte alla massa di contagiati colpiti in forma grave che vengono ricoverati, in una lotta per la vita dei malati nella quale rischiano la loro, li vediamo in attesa, con l’ambulanza in arrivo, e all’opera, fino alla terapia intensiva, con le loro maschere e le tute protettive che fanno capire la fatica immane cui sono sottoposti. Poi, passando alla “prima linea” di coloro che nel territorio dovrebbero lottare contro il virus con mezzi molto più semplici come il “distanziamento sociale”, 8 immagini sui “disertori”, anzi “collaborazionisti col nemico”, i giovani irriducibili nelle loro “movide” sconsiderate del 7 marzo in diverse città, da Milano a Roma, Venezia, Genova, Trieste, che hanno contribuito al dilagare del contagio, seguite da 5 immagini sull’affollamento nei mezzi di trasporto negli stessi giorni, di cui le 2 ultime nei treni per il Sud affollati in modo altrettanto sconsiderato. Quindi la “stretta” decisa finalmente dal governo il 7-8 marzo ma inasprita il 14-15: marzo, dopo 3 immagini sulle file avanti ai supermercati e gli scaffali vuotati, 2 sui mezzi pubblici finalmente svuotati, 2 su strade romane finalmente vuote, e 11 su piazze storiche finalmente deserte, 3 a Roma, le successive 8 a Milano e Venezia, Genova e Bologna, Firenze e Pisa, Napoli e Palermo. Dopo questo deserto triste ma necessario, torna l’elemento umano, i medici e infermieri mandati dalla Cina, Cuba e Russia nell’ordine, quelle fotografate sono solo le avanguardie di spedizioni imponenti, con operatori sanitari e tanti materiali preziosi, un “arrivano i nostri” della generosità e solidarietà con noi italiani nel momento più drammatico che stiamo attraversando. In conclusione, l’arcobaleno disegnato da mani infantili con la scritta che ne esprime l’ingenua ma benaugurante certezza “Andrà tutto bene!”, seguito da un altro arcobaleno, disegnato nel cielo dopo la tempesta, un augurio cosmico e soprannaturale sulla nostra terra. Evocazione espressa nelle ultime 2 immagini, nella prima il Crocifisso e di fronte un operatore sanitario impegnato nella disinfezione, nella seconda Papa Francesco chiude la galleria con il momento culminate della celebrazione religiosa, in cui eleva le sue preghiere al Signore perchè ci “liberi dal male”, ha voluto che la sua messa mattutina delle ore 7 a Santa Marta sia trasmessa quotidianamente in televisione. Tutte le immagini, meno la terz’ultima, sono state prese da una serie di siti web di cui si ringraziano i titolari, per l’opportunità offerta rendendole pubblicamente disponibili, dichiarando che sono meramente illustrative senza il minimo intento economico e commerciale, pronti ad eliminarle su semplice richiesta se la pubblicazione non è gradita. Citiamo, in ordine alfabetico, con la nostra gratitudine, i siti da cui abbiamo tratto le immagini, s.e.o.: artnews, ansa.it, asknews, affaritaliani.it, blizquotidiiano.it,  cataniauniversity.it, coordown.it, corriere.it,  corrieredelveneto.corriere.it, diarioromano.it, dir.e.it, genovatoday.it,  ilgazzettino.it, ilgiornale.it, ilgiorno.it, ilmessaggero.it, ilpiccologeolocal.it, ilrestodelcarlino.it, ilsole24ore.it, iltempo.it, milanotoday.it, nuovaveneziageopal.it, meteo.eu, quotidiano.net, rainews.it, repubblica.it, sanmarinorti.sm, tgcom24.mediaset.it, tg24sky.it, triestecafe.it,  winenews.it. La terz’ultima immagine è di Aligi Bonaduce, tratta da un post recente su Facebook, lo ringraziamo per il segno augurale dal comune paese natale, Pietracamela.

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Quadriennale di Roma, la storia e la 17^ mostra di ottobre

di Romano Maria Levante

Affollata presentazione della “Quadriennale di Roma”  il 12 febbraio 2020 al Tempio di Adriano,  con la platea contornata dai posti in piedi gremiti.  Tale partecipazione, che ha visto i posti a sedere  completamente occupati ben prima dell’inizio, indica l’aspettativa per le novità attese e per le preziose anticipazioni che si sperava di avere sulla mostra in programma per il  mese di ottobre 2020.

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Presentazione, al microfono il presidente Umberto Croppi

La novità nella presentazione, istituzionale e non artistica

Possiamo dire che questa attesa, almeno per quanto ci riguarda,  è andata inizialmente delusa, dato che se “sotto il sole” di Roma qualcosa “di nuovo” c’è stato,  era “anzi d’antico”, con la rievocazione delle precedenti mostre fatta dal presidente Umberto  Croppi, mentre l’esposizione del direttore artistico Sarah Cosulich ha ripetuto notizie ben note sull’impostazione del programma della Quadriennale in tre linee: due per il sostegno, con la formazione, degli artisti contemporanei italiani e per la loro promozione all’estero, la terza sull’impostazione generale dela 17^ mostra della Quadriennale.

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Presentazione, il presidente onorario Franco Bernabè seduto in prima fila al centro, il terzo della fila con alla dx appena visibile Jas Gawronski, anch’egli già presidente della Quadriennale.

Ai programmi di sostegno e promozione, infatti, era stata dedicata una presentazione presso l’ex GIL dell’allora presidente Franco Bernabè nel marzo 2018,  con la Cosulich da lui nominata Direttore artistico della Fondazione  incaricata di curare la prossima mostra assistita da un altro curatore scelto da lei, Stefano Collicelli Cagol. Presentazione esauriente quella di allora, seguita dai comunicati sull’espletamento concreto dei vari momenti di un percorso basato su qualificati “workshop”  formativi  all’interno e su sostegni finanziari mirati alla nostra presenza all’estero. Si sono ripetute in estrema sintesi  linee e realizzazioni  ormai acquisite come “aggiornamento” e prosecuzione di una storia gloriosa anch’essa reiterata  essendo già nota, almeno agli addetti ai lavori; la cui ripetizione  ha potuto far pensare a un modo di sopperire alla difficoltà di fornire una maggiore informazione sulla mostra di ottobre, restata del tutto in ombra, anche se l’effetto può essere stato comunque positivo.

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Presentazione, il presidente Croppi con il direttore artistico
Sarah Cosulich al termine mentre rispondono alle domande

Una giustificazione ci sentiamo di avanzarla, collegandoci a quella che è stata la vera “novità” della presentazione: la sottolineatura del ruolo dei tre “partner istituzionali”, forse per la prima volta nella storia recente intervenuti tutti e tre con i propri rappresentanti che hanno preso la parola: oltre al presidente della  Camera di Commercio di Roma, Lorenzo Tagliavanti, padrone di casa, a nome di Roma capitale l’Assessore alla Crescita culturale e  Vice sindaco Luca Bergamo, a nome della Regione Lazio il Capo di Gabinetto del Presidente della Regione Albino Ruberti, a nome del  Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo il Direttore generale Creatività contemporanea Nicola Borrelli e il sottosegretario Lorenza Bonaccorsi.  Presenze, tuttavia, per lo più a livello tecnico-funzionale, anche se elevato e molto qualificato; sono mancati i vertici istituzionali, dei quali  abbiamo notato l’assenza.

La “foto opportunity” finale della presentazione, da sin. a dx, Cosulich e Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT,
ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio

Questo perchè il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti partecipava sempre con un proprio intervento alle presentazioni delle mostre a Palazzo Incontro allorché era presidente della Provincia di Roma, lo ricordiamo a quella su “Pasolini”, e la sindaca Virginia Raggi l’abbiamo vista alla fine del 2018 presente con un proprio intervento alla presentazione della mostra “Vite spezzate” al Museo della Shoah. A parte tali assenze, ancora meno comprensibile quella del ministro Dario Franceschini,  chissà se dovuta alla sostituzione del Presidente della Quadriennale, da lui nominato, da parte del successore ministro Bonisoli, sostituzione che potrebbe averlo sconcertato, come tanti, perchè avvenuta non solo in extremis, ma anche a un anno dalla mostra su cui aveva tanto lavorato il presidente non confermato.

“La “foto opportunity” della presentazione della Quadriennale del 2016 con al centro il ministro del MiBACT Dario Franceschini, alla sua dx l’allora presidente della Quadriennale Franco Bernabè e alla sua sin. il Commissario dell’Azienda Speciale Palaexpo Innocenzo Cipolletta, ai loro lati gli 11 curatori delle 10 sezioni della mostra

Abbiamo notato l’assenza del Ministro sia perché non manca mai a queste  manifestazioni – lo ricordiamo alla presentazione della recente mostra sui “Fumetti nei Musei” in cui ha preso la parola non in modo rituale intervenendo nel merito nell’ultima mostra e in quella precedente – sia perché non solo partecipò alla presentazione della precedente Quadriennale di Roma nel giugno 2016, ma volle che si svolgesse presso il Ministero per marcare il proprio coinvolgimento; come ha fatto molto di recente, prcisamente il 24 febbraio, con la presentazione al Ministero  della  mostra su Raffaello, anche se poi non è potuto intervenire all’insorgere dell’emergenza.   Comunque, è prestigiosa la sede scelta per presentare la 17^  Quadriennale, il Tempio di Adriano, pur senza la cornice istituzionle attesa.

Un momento del “workshop” Q-Rated , Milano, Hangar Bicocca, marzo 2019

La  presentazione della  16^ Quadriennale ebbe carattere  istituzionale soltanto per la sede ministeriale, nel contenuto il suo carattere fu artistico: gli 11 curatori prescelti in base a una accurata selezione, esposero, cone ampie motivazioni, i temi che sarebbero stati declinati dagli artisti da loro indicati per la mostra dopo quattro mesi, dal titolo “Altri tempi, altri miti”. Furono illustrati da loro i nuovi “miti” per i “tempi” mutati suscitando interesse e creando aspettative per come tutto ciò avrebbe trovato risposta negli artisti espositori.  Fu un esaltante “workshop”  di tipo artistico, nulla di rituale sebbene si svolgesse nella sede ministeriale alla quale i temi trattati nell’incontro avevano tolto la sua connotazione abituale.

“Positions # 4” di Alessandro Puoti e Dandi Hilal, dall’esposizione
al Abbemuseum di Eindhoven con il sostegno di Q- International , 2018

E’ quanto mai espressiva al riguardo l’immagine conclusiva, con il ministro Dario Franceschini e il titolare del  Palazzo delle Esposizioni sede della mostra che veniva illustrataa, Innocenzo Cipolletta,  insieme all’allora presidente della Fondazione Quadriennale di Roma Franco Bernabè circondati dagli 11 curatori; l’analoga foto della nuova presentazione vede invece il nuovo  presidente della Fondazione Umberto Croppi con il direttore artistico Sarah Cosulich circondati dai rappresentanti di Comune, Regione, Ministero, più  Camera di Commercio,  quasi in una riappropriazione dell’arte da parte delle istituzioni, bene  se vista come sostegno, male se come ingerenza e burocratizzazione in un arretramento rispetto all’impostazione precedente.

1^ Quadriennale del 1931, il Manifesto

Nulla di inappropriato crediamo vada addebitato al presidente Umberto Croppi, sensibile su questo piano facendo già parte del Consiglio di Amministrazione della Fondazione, presidente di Federculture, già  Assessore alla cultura del Comune di Roma. Anche perché è stato nominato dal ministro MiBAC Bonisoli il 7  agosto 2019, alla vigilia della caduta del governo,  quando i programmi della presidenza  Bernabè erano  in fase di attuazione da tre anni e la strada verso la mostra dell’ottobre 2020 era segnata e in buona parte già percorsa.  La sua repentina nomina, a poco più di un anno dalla celebrazione della mostra per la quale aveva lavorato il presidente da lui sostituito, è sembrata fuori tempo, sarebbe apparso ben più  logico attendere il compimento del  lavoro fino ad allora svolto.  E’ stato come se si fosse sostituito il Commissario tecnico della Nazionale di calcio a pochi mesi dall’inizio dei campionati mondiali od europei, non per demeriti – nel qual caso sarebbe stato doveroso – ma per la mera scadenza temporale superabile con una “prorogatio” se non si intendeva confermare.

, 1^ Quadriennale, Enrico Prampolini, “L’automa quotidiano“, 1930

Ed è qui, forse, l’origine dell’incongruenza ora evidenziata, la scadenza quadriennale della nomina di Bernabè nell’agosto 2019 doveva portare a una riconferma almeno temporanea fino alla mostra che sarà aperta nell’ottobre 2020; in tal modo si sarebbe potuta ricondurre stabilmente la scadenza dell’incarico al termine della mostra che ne rappresenta in un certo senso il culmine. Non si è fatto questo, e il presidente Croppi si troverà con la spada di Damocle  della possibile sostituzione al termine del mandato nell’agosto 2023, prima di aprire la prossima mostra dell’ottobre  2024, rischiando di non poterne realizzare appieno nessuna, dato che quella del 2020  reca l’impronta del predecessore, un paradosso che  non gli auguriamo. Speriamo che quest’esperienza sia istruttiva per tutti, e le istituzioni pongano rimedio alla plateale, inammissibile contraddizione tra impegno reale e scadenza formale.

1^ Quadriennale, “La sala dei futuristi, in primo piano
Ernesto Thayaht, “La vittoria dell’aria”, 1930

Croppi ne è stato talmente consapevole che non solo ha accettato l’incarico nel segno della continuità, ma  nel primo Consiglio di amministrazione da lui presieduto nel’ottobre 2019 ha nominato Bernabè Presidente onorario della Fondazione. E ne ha riconosciuto il ruolo decisivo svolto nel rilanciarne l’attività, sebbene anch’egli fosse stato nominato nel 2015, una anno prima della data della 16^ mostra; ma si veniva da un vuoto di otto anni, non essendosi svolta la mostra della Quadriennale nel 2012, in parte “surrogata” dal “Padiglione Italia” della Biennale di Venezia con appendice romana,  curato da Vittorio Sgarbi nel 2011 in modo innovativo nella selezione degli artisti nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Vediamo Bernabè in prima fila alla Presentazione, nel segno della continuità assicurata dal successore. 

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2^ Quadriennale del 1935, “Giardino d’inverno”,
Foto Giacomelli Carbone Venezia Roma

Cosi forse si spiega il modo con cui è impostata la presentazione  dell’evento quadriennale, il presidente Croppi  ha parlato della storia retrospettiva della Fondazione, dell’impegno delle tre istituzioni, Ministero, Regione, Comune, e delle linee generali d’azione, non entrando in ciò che era stato preordinato dal predecessore come da lui esplicitamente sottolineato; vi è entrato parzialmente il direttore artistico Sarah Cosulich trattandosi dell’attività esercitata da lei nell’attuazione dell’incarico avuto in precedenza. Un comportamento obbligato e per certi versi meritorio,  quello di Croppi, ma  forse non era compito della presentazione ripetere programmi  già  noti e in parte attuati, e neppure reiterare una storia gloriosa, senza aggiungere quanto di nuovo si poteva fornire riguardo alla mostra dell’ottobre prossimo. Di qui la nostra sorpresa, ma forse ci ha tradito il ricordo di quattro anni fa.

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2^ Quadriennale, Lucio Fontana, “Atleta in attesa
(Campione olimpionico)”, 1931-32

Le anticipazioni sulla mostra di ottobre 2020 e i programmi di promozione in atto

Cominciamo a dare conto della presentazione andando a ritroso, cioè iniziando dalla parte finale,  precisando che è stata conclusa dagli interventi dei rappresentanti delle istituzioni, i quali  hanno ribadito il coinvolgimento diretto di Ministero, Regione e Comune nel rilancio della Quadriennale  di Roma  già avviato e in cui è impegnata appieno la nuova presidenza, come vedremo più avanti dall’intervento del presidente  Croppi. Le poche anticipazioni sulla mostra le ha date la Cosulich, come direttore artistico, con i programmi in corso per la “mappatura” dell’arte contemporanea in un confronto anche formativo con operatori qualificati e la promozione dei giovani artisti all’estero.

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2^ Quadriennale, Scipione, “Il Cardinal decano”, 1930

Sulla Mostra, che  inizierà il 1° ottobre 2020  dopo i canonici 4 anni dal 2016, e  resterà aperta tre mesi, le  sue anticipazioni sono state di carattere generale:  ha confermato la  sede storica, il Palazzo delle Esposizioni, e ha  preannunciato iniziative collaterali  – apposite “performance”  e uno “speciale evento d’inaugurazione”  – entro il calendario internazionale dell’arte che coinvolgeranno la città di Roma con la partecipazione della  rete di musei e istituzioni, fondazioni e gallerie  “unite in un progetto condiviso e di dimensione internazionale per presentare al mondo l’arte del nostro Paese”.

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3^ Quadriennale del 1939, Inaugurazione con il re Vittorio Emanule III e altre autorità

I 30 artisti espositori sono stati selezionati nel triennio precedente  la mostra dalla Cosulich con il curatore Collicelli Cagol  mediante un’accurata ricerca svolta sul territorio  “nella consapevolezza  di dover restituire uno sguardo  contemporaneo plurale ed eterogeneo  ma coeso nelle sue connessioni”. L’intento è  fornire una rassegna delle molteplici espressioni dell’arte contemporanea  che vedono un pluralità di linguaggi multidisciplinari nella contaminazione delle arti visive con altre forme d’arte, dal teatro alla danza, dalla musica al film.

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4^ Quadriennale del 1943, Allestimento. Foto Giacomelli

Ma non sembra limitata all’attualità immediata: “La mostra vuole ripensare la narrazione  dell’arte in Italia dagli anni Settanta ad oggi, anche in relazione ai contesti sociali, politici, tecnologici che l’hanno generata, individuando percorsi di lettura alternativi al canone storico-artistico predominante”  in stretto contatto con “i linguaggi multimediali della contemporaneità”. Verranno presentate “le ricerche, le poetiche, e gli immaginari di artisti di diverse generazioni” attraverso “progetti monografici in spazi dedicati”  nello speciale allestimento dei 4000 metri quadri nei due piani del Palazzo delle Esposizioni.  Temi in particolare rilievo “i giovani, le figure femminili, i vari orientamenti e le diverse identità sessuali, le sperimentazioni d’avanguardia”; aspetti particolari “il display, in relazione con l’archivio storico della Quadriennale  e la performatività della mostra”.

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5^ Quadriennale del 1948, Inaugurazione

Se si voleva suscitare curiosità sulla mostra con queste anticipazioni di massima in parte criptiche, ci si è riusciti; un’aspettativa diversa da quella indotta dalla presentazione della mostra della Quadriennale del  2016  nella quale, come abbiamo accennato,  furono copiosi i contenuti forniti dagli 11 curatori: allora l’attesa era di vedere come sarebbero stati tradotti nelle scelte dei singoli artisti che avrebbero dato corpo con le loro opere a  tali intendimenti, oggi l’attesa è anche sul tipo di contenuti.

5^ Quadriennale, Visitatori commentano un’opera esposta

Nella staffetta dalla 16^ alla 17^ Quadriennale c’è stata anche questa variante  comunicativa con il passaggio del testimone alla nuova presidenza:  quella uscente  ha compiuto l’iter preparatorio di tre anni con il direttore artistico e il curatore, e i due programmi di formazione all’interno e di promozione all’estero, illustrati nell’incontro del 13 marzo 2018 nella sede dell’ex Gil, e subito posti in esecuzione con l’effettuazione dei “workshop” con giovani artisti ed esperti internazionali e dei bandi per sostenere la partecipazione italiana alla mostre all’estero; quella attuale prosegue nel rilancio.

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6^ Qudriennale del 1951-52, Allestimento. Foto Giacomelli

Per la “mappatura completa del contesto artistico italiano”  in vista dell’ imminente edizione della mostra Quadriennale,  è stato impostato nel 2017 e attuato  dal 2018 il programma “Q-Rated”  che promuove “un dibattito costruttivo e altamente formativo sui temi dell’arte contemporanea” mediante “workshop”  i quali mettono in contatto giovani artisti e curatori italiani con “figure internazionali di spicco del mondo dell’arte”.  Nello scorso biennio ne sono stati svolti tre annuali di 3 giorni ognuno in 3 città, nel 2018 a Roma il 3-5 luglio, a Lecce il 25-27 settembre, a Torino il 10-12 dicembre; nel 2019 a Milano il 26-28 marzo, a Nuoro il 3-5 luglio, a Napoli il 27-29 novembre.

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7^ Quadriennale del 1955-56, “In primo piano
Giacomo Manzù, ‘Danzatrice'”, 1954, bronzo. Foto Magis

Il programma di promozione dell’arte italiana all’estero,  “Q- International”, è volto al sostegno delle istituzioni straniere mediante l’erogazione di un finanziamento  di supporto per ottenere l’esposizione nelle loro mostre di opere di artisti italiani; viene attuato  con un bando semestrale cui segue il vaglio delle candidature da parte di un comitato composto dal Presidente della Fondazione, dal Direttore artistico e dal curatore, più tre illustri esterni, Cristiana Collu direttore della Galleria Nazionale di Roma, Pietroiusti presidente del Palazzo delle  Esposizioni e artista, Villani responsabile del Centro  di Ricerca Castello di Rivoli.   Ai 4 bandi del 2018-19 è seguito il finanziamento a 34 organizzazioni tra le 140  partecipanti;  altri 2 bandi sono previsti per il 2020.

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7^ Quadriennale, Alberto Burri, “Sacco e Rosso”, 1954

La Cosulich ne ha fatto un’ampia esposizione con la soddisfazione di aver potuto realizzare il programma in base al quale era stata nominata dopo la selezione per il Direttore artistico.  

Le direttrici di sviluppo della Quadriennale

Il presidente Umberto  Croppi è partito dalla storia della Quadriennale per tracciarne le linee di sviluppo nell’impegno per il rilancio già in atto con il concreto avvio dei  programmi sopra citati  che vengono mantenuti;  per l’ulteriore crescita si fa affidamento sui tre partner istituzionali i cui rappresentanti sono intervenuti  per sottolineare la vicinanza attiva di Ministero, Regione, Comune. La lunga storia di 90 anni di presenza molto importante  nell’arte italiana ha consentito di accumulare testimonianze preziose  sull’evoluzione artistica del ‘900.

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8^ Quadriennale del 1959-60, Leoncillo Leonardi, “Ritratto di Titina Maselli”, 1945, ceramica. Foto Giacomelli. Venezia

In poco meno di un secolo si è accumulato uno straordinario “archivio specialistico che ha pochi uguali nel mondo”: 14.000 fascicoli di documentazione sugli artisti del ‘900, 2.000 fascicoli e registri, 30.000 immagini fotografiche, 400 video, 1.000 manifesti, oltre a 40.000 volumi, 2.150 riviste d’arte, 10 fondi archivistici e 9 fondi librari donati alla Fondazione. Si aggiunge l’attività editoriale con due collane,   “Quaderni della Quadriennale” e  “Archivi dell’Arte contemporanea”,  oltre a una diecina di opere monografiche. Inoltre 2.700 opere vendute nelle mostre per le raccolte di importanti  istituzioni pubbliche e private, 100 esposizioni all’estero, dall’Europa alle Americhe, al Giappone, Cina e Australia, con la diffusione dell’arte contemporanea italiana nei continenti.  

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9^ Quadriennale del 1960-65,
Mimmo Rotella, “Lo schermo” , 1965,
foto emulsione su tela. Foto Oscar Savio

Per  l’immediato futuro si aggiunge la grande novità della nuova sede assegnata nel marzo 2018 alla Quadriennale dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo: il settecentesco Arsenale Pontificio di Clemente  XI  in un piazzale di 4.000 metri quadri lungo il Tevere nei dintorni di Porta Portese  con tre antiche costruzioni,  il Magazzino del sale, le Corderie  e l’Arsenale, un edificio di 1.000 mq con due navate sovrastate da arcate  a sesto acuto dove passavano le navi.  Il progetto di restauro già finanziato e affidato all’impresa vincitrice del concorso – lo studio Insula, società di architettura, progettazione  urbana e ingegneria –  sarà completato nel 2022 e allora si avrà il trasferimento dalla prestigiosa ma decentrata e  ristretta  Villa Carpegna  nella nuova sede  i cui ampi spazi consentiranno di svolgere “in loco” attività artistiche;  il tutto  in un’area nevralgica della città che verrà riqualificata nel “più importante intervento di rigenerazione urbana in corso nella Capitale”.

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10^ Quadriennale del 1972-77, “La ricerca estetica dal 1960 al 1970” ,
“Sala dedicata a Pietro Manzoni”

Quali sono, dunque, le principali linee di sviluppo dell’attività della Quadriennale nel programma per il prossimo quadriennio? Sono state indicate  da Croppi  le direttrici  in cui trovano posto i programmi di cui ha parlato il direttore artistico Cosulich.  La direttrice fondamentale è il ritorno della Quadriennale  “al suo spirito originario di strumento in cui gli artisti siano  al centro della sua attività”, non solo come destinatari delle iniziative, ma direttamente “coinvolti nella costruzione dei suoi indirizzi e degli eventi prodotti”; in tal modo la Fondazione  diventa un  riferimento per il “sostegno della produzione artistica e la selezione di talenti“ anche come punto di incontro di artisti e collezionisti. 

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10^ Quadriennale, Lucio Fabro, “Italia d’oro“, 1971

In relazione a ciò si muove  la direttrice di promuovere il contesto socio-economico e culturale costruendo “una rete stabile di relazioni e coordinamento con le altre istituzioni del contemporaneo, sia pubbliche che private, con le fondazioni, le gallerie, le associazioni, gli studi, le scuole”. Questo  in un’accezione molto vasta che oltre alle arti visive abbraccia musica, danza, teatro e non è limitata all’ambito nazionale ma intende aprirsi alle istituzioni internazionali, cominciando da quelle presenti a Roma, e considerando soprattutto le aree cruciali per la valorizzazione degli artisti. Sarà sviluppata un’attività di studio e ricerca, con sbocchi anche editoriali per la diffusione della conoscenza dell’arte, in collaborazione con università, accademie e istituti di formazione.

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11^ Quadriennale del 1986, Facciata della sede eccezionale, il Palazzo dei Congressi

L’ulteriore direttrice riguarda le risorse e il coinvolgimento nei progetti delle istituzioni economiche e finanziarie, e  viene declinata ponendo la Quadriennale come “punto di riferimento per aziende e fondazioni bancarie, nel potenziare l’utilizzo dell’arte nella cultura d’impresa”. A tal fine  verranno individuati dei partner, uno principale ed altri minori, non solo con finalità di sostegno economico  in aggiunta alle normali sponsorizzazioni,  ma per “costituire una comunità più direttamente coinvolta nella vita della Fondazione”. Sarà predisposto anche “un piano di membership, con focus immediato la mostra del 2020” che prevede  sei figure di appassionati: amico e amico sostenitore, partner sostenitore e partner onorario, mecenate sostenitore e mecenate onorario, con sottoscrizioni individuali crescenti in relazione alla qualifica e ai benefici  connessi di varia natura.

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12^ Quadriennale del 1992-96, Veduta della mostra con un’opera in primo piano

Il presidente Croppi ha concluso così la propria presentazione  dopo aver sottolineato l’impegno suo, del  Consiglio di amministrazione e dei collaboratori  nel prendere “il testimone da illustri predecessori”: “Il futuro e il successo saranno però assicurati soltanto dalla capacità di raccogliere il consenso, lo stimolo e l’attiva partecipazione del vasto mondo che anima questo territorio della vita italiana, a cominciare da coloro da cui e per cui la Quadriennale fu concepita: gli artisti”.

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12^ Quadriennale, sul tema “Ultime generazioni”
Stefano Arienti,”Senza titolo”, 1996, stampa su carta intelata a trasferimento elettrostatico da diapositiva graffiata. Foto di Giuseppe Schiavinotto

La storia gloriosa dei 90 anni della Quadriennale   

Nel suo intervento Croppi ha rievocato i 90 anni della Quadriennale con accenti  appassionati che hanno elevato  il tono della manifestazione; noi ci limitiamo a citare una serie di  nomi di artisti presentati o “scoperti” nelle mostre succedutesi  ogni quadriennio con delle pause e delle varianti in particolari periodi, fino alla 16^ edizione del 2016, in attesa della 17^ del prossimo ottobre 2020.  

12^ Quadriennale, Vanessa Beecroft, “Lotte”

La sede per quasi tutte le edizioni è stata il Palazzo delle Esposizioni, con la sua architettura monumentale, i due piani, la rotonda centrale e la raggiera di gallerie espositive tutt’intorno.

Cominciando dagli anni ’30, la 1^edizione  del 1931  fu una vetrina di grandi maestri,  Bartoli e Carena, Carrà e Casorati,  Sironi e Tosi,  Thayaht e  i Futuristi, come la 2^ edizione del 1935, in cui ai grandi artisti affermati   de Chirico e de Pisis, Marini e Messina, Rossi e Severini con una personale di 36 opere, si aggiunsero le nuove scoperte che rispondono ai nomi di Afro e Cavalli, Cagli e Capogrossi, Gentilini e Mafai,  Pirandello e Ziveri. Le altre due edizioni del decennio  furono in tono minore, nella 3^ edizione del 1939 vi fu comunque una personale di Giorgio Morandi con 53 opere, e la 4^ edizione del  1943 si svolse nonostante il conflitto.

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13^ Quadriennale del 1997-99, Luigi Ontani, “Caino e Abele” ,
ceramica policroma, 1999. Foto di Guido Guidotti

Nel 1948, la 5^ edizione, prima Quadriennale postbellica, pur se di transizione,  fu ugualmente una rassegna delle tendenze in atto ed ebbe  al centro il dibattito artistico tra astrattisti e realisti, con protagonista Guttuso,  ci fu anche la presenza dei neocubisti.

Dal 1950 al 1983 quella che viene chiamata “era Bellonci” – il segretario generale per  oltre un trentennio – è impegnata nell’approfondimento storico-critico dell’arte italiana, anche attraverso l’attività editoriale dei “Quaderni della Quadriennale” e degli “Archivi dell’Arte contemporanea”;   oltre ai singoli artisti il Divisionismo,  Futurismo e Liberty  sono oggetto di una ricerca accurata.

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14^ Quadriennale del 2005, in “Fuori tema” in primo piano
Jacob Hashimoto, “Water Block4.0”, 2003,
poliuretano ad alta densità verniciato. Foto di Lorenzo Abbate

Tra  il 1952 e il 1960,  la 6^, 7^ e 8^ edizione portano alla ribalta le radicali innovazioni dei “sacchi” di Burri e delle lacerazioni spaziali di Fontana, e i grandi astrattisti  Birolli e Corpora,  Morlotti e Santomaso, Turcato e Vedova.  Mentre la 9^ edizione, del 1964, si spinge ancora più avanti con l’arte cinetica, visuale e programmata, neodada e  pop, dei  Gruppi 1 e T e degli artisti Angeli e Festa, Marotta e Rotella, in un rassegna con 750 espositori e 3000 opere.

Negli anni ’70 una variante organizzativa: la 10^ edizione  è articolata in 5 mostre, dal 1972 al ’77, gli artisti partecipano su invito, non ci sono premi per effetto del clima post ’68;  nella  mostra del 1973 sono rappresentati tutti i movimenti del decennio1960-70, neodada e pop art, arte povera  e arte programmata, environment,  happening, comportamentismo.

Una mostra negli anni ’80, l’11^ edizione del 1986, eccezionalmente al Palazzo dei Congressi all’Eur, con un “excursus” storico del trentennio 1950-80 e 6 sezioni tematiche sulle nuove tendenze.

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14^ Quadriennale, Michelangelo Pistoletto, “Il nuovo segno di infinito”, 2005

Negli anni ’90  si inizia con mostre di grande valore, sulla Secessione romana 1913-16 e sulla retrospettiva di Prampolini nel 1992, a cura di Enrico Crispolti; e si programma la 12^ edizione sul tema “Italia 1950-1999” articolata in tre fasi delle  quali viene realizzata soltanto la prima nel 1992, “Profili”, con 33 artisti delle tendenze più originali ed espressive dell’arte italiana. Segue un profondo rinnovamento nello Statuto e nella direzione, alla presidenza va Lorenza Trucchi, viene introdotta la carica di Direttore generale dedicata alla gestione complessiva dell’organizzazione, funzione ben diversa da quella del Direttore artistico nominato per la Quadriennale del 2016.

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15^ Quadriennale del 2008, Veduta del colonnato,
Foto di Giorgio Benni

Nel 1996 la mostra “Ultime generazioni” presenta le nuove leve di artisti milanesi e bolognesi, come Arienti e Airò, Bartolini e Beecroft,  Cattelan e Manzelli, Moro, Todero e Tosi, romani come Carone e Pietrolustri,  della scuola di San Lorenzo come Dessì, Nunzio, Pizzi Cannella, e i giovani Basilè, Pintaldi, Salvino. Teodori. La 13^ edizione del 1999, dopo la mostra “Valori plastici” nel 1998, chiude il millennio, e si avvia la sistemazione dell’“Archivio storico” della Quadriennale; nello stesso anno da Ente autonomo diviene Fondazione,  sempre con la partecipazione del Ministero per i beni  culturali e del Comune di Roma, nel 2011 si aggiunge la Regione Lazio.

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16^ Quadriennale del 2016-17, sul tema “Ehi voi!”
Patrick Tuttofuoco, “Portraits (Christian)”, 2016

Anche la 14^ edizione, come  era stato per la 12^, viene articolata in tre mostre per il triennio 2003-05, due “Anteprime” eccezionalmente fuori Roma, a Napoli nel 2003 e a Torino nel 2004, dedicate a giovani artisti come Beninati  e Bertocchi, Biscotti e Demetz, Favalli e Stampon e la conclusione a Roma nel 2005 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna con 100 artisti attivi e due retrospettive: alla ribalta diverse generazioni, dagli affermati Rotella, premiato alla carriera, ai giovani Roccasalva,  Simeti, Vezzoli. Non solo le arti tradizionali come la pittura, che vede anche Cingolani, De Maria e Giovannoni, e la scultura, con Cerone, Mondino, Zorio; ma anche  la fotografia con Ontani e Pivi, le installazioni con Airò, Mocellin-Pellegrini, i video con Favaretto, Migliora, Sighicelli. Nel 2004 riprende la pubblicazione dei “Quaderni della Quadriennale”, si organizza il convegno “Arte e cultura negli anni ‘90”, e  la Fondazione si trasferisce nella sede di Villa Carpegna.

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16^ Quadriennale, sul tema “Cyphoria” Quayola , “Lacoon #20-Q1″, 2016

Con il 2008 la 15^ edizione che, a differenza della precedente aperta fino agli artisti degli anni ’60 ancora attivi, è riservata agli artisti affermati dagli anni ‘90: premiati Cattelan alla carriera, Ligorio e Paci.  L’interesse alle nuove generazioni porta nel 2009  ai tre appuntamenti “Artista chiama artista”, e per il centenario del Futurismo  viene pubblicata un’edizione aggiornata degli “Archivi del Futurismo”.

Siamo al 2016, con la 16° edizione dopo un intervallo di 8 anni, perchè la mostra che doveva esserci nel 2012 non si è tenuta, al suo posto  la pubblicazione “Terrazza. Artisti, storie, luoghi, negli anni Zero” e soprattutto incontri e mostre a Villa Carpegna  “Arte in Italia. Le parole e le immagini”; d’altra parte il nuovo presidente Jas Gawronski era stato nominato solo nel mese di gennaio 2012.

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16^ Quadriennale, sul tema “La seconda volta” Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012

Analogo avvicendamento quasi “in extremis” con la nomina alla presidenza  nell’aprile 2015  di Franco Bernabè, che riesce ad organizzare per ottobre 2016 la 16^ edizione “Altri tempi, altri miti”, mobilitando dopo  un’accurata selezione  11 curatori che hanno scelto gli  artisti della generazione del 2000 come migliori interpreti dei motivi più attuali enunciati nella presentazione;  sono state premiate le  giovani Biscotti e Huani-Bey. A seguire, dopo la mostra, la nomina del Direttore artistico con l’altro Curatore, e l’avvio dei due programmi “Q-Rated” e “Q-International”, di cui si è detto in precedenza.

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Anno 1975, dal Fondo Lorenza Trucchi, qui con Fellini, Guttuso, Manzùo.

A conclusione di questo evocativo “excursus” artistico delle Quadriennali, alla delusione iniziale per non aver avuto anticipazioni sui contenuti della prossima mostra di ottobre del tipo di quelle avute per la mostra precedente, subentra un appagamento per aver potuto ripercorrere tanti momenti esaltanti della sua storia con i grandi artisti allora esordienti che si son fatti conoscere nelle esposizioni quadriennali. Basti pensare alle “scoperte” di  Guttuso a 20 anni, Dorazio e Perilli a 21, Fazzini a 22, Ziveri e Fioroni a 23,   Vedova a 24,  Cagli e Sanfilippo a 25,  De Dominicis, Senatore  e Biscotti a 26,  Beecroft, Festa, Lambri  e Tesi  a 27,  Guccio e Stucchi a 28,  Pirri e Zorro a 29 anni.

Una  storia nota, almeno nelle sue linee generali,  ma riviverla fa tornare alla memoria periodi indimenticabili sul piano artistico e socio-culturale nei quali il mutamento dei costumi è stato accompagnato da un’evoluzione dell’arte per merito di artisti anche giovanissimi, spesso con il sovvertimento di qualunque schema precostituito. Come nell’arte contemporanea attuale.  

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La sede attuale della Fondazione Quadrienanle di Roma , Villa Carpegna

Questo non vuol dire ripiegamento sul passato, e il presidente Croppi lo ha detto esplicitamente: “Come ogni altro organismo la Quadriennale ha il dovere di ripensarsi costantemente, di misurarsi con le condizioni ambientali che mutano, con le nuove esigenze, con un più forte rapporto con la città e con gli operatori, con la persistente vitalità degli obiettivi, allo scopo di rafforzare sempre di più il suo ruolo  di promozione dell’arte italiana sia nel nostro paese che all’estero”.

Per questo il 2018-20 è stato definito “Ritorno al futuro”, sulla piattaforma  di lancio del passato glorioso, e ne vedremo i primi risultati nell’attesissima mostra del prossimo ottobre. Dare il merito al presidente Croppi  di averlo sottolineato con  forza nella presentazione al Tempio di Adriano, senza che abbiamo nascosto con sincerità una certa delusione iniziale, è  un atto doveroso ma che compiamo volentieri.  E non può mancare l’attesa che con la nuova sede funzionale nell’antico “Arsenale pontificio” la  saldatura passato-futuro sia un propellente quanto mai efficace; è il nostro augurio.

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La sede futura della Fondazione, l’Arsenale Pontificio

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Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma. Fascicolo “La Quadriennale”, novembre 2019. Cfr. i nostri articoli, in www.arteculturaoggi.com: per la 16^ Quadriennale, 16 giugno, 24, 27 ottobre, 1°, 29 novembre 2016; per gli artisti citati, in questo sito Cagli 5, 7, 9 dicembre 2019, de Chirico 22, 24, 26 novembre, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22 settembre, 25, 27, 29 novembre 2019, e la mostra citata con il ministro Franceschini “Fumetti nei Musei” 2 gennaio 2020; in www.arteculturaoggi.com, Guttuso 26 luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 25, 30 gennaio 2013; Futuristi 7 marzo 2018, Pirri 10 maggio 2017, Thayaht 27 febbraio 2017, Sironi 2 novembre 2015, 14, 29 dicembre 2014, Morandi 17, 25 maggio 2015, Deco-Liberty 1, 14, 23 novembre 2015, Secessione 21 gennaio 2015, Fioroni 1° gennaio 2014, Padiglione Italia 8, 9 ottobre 2013, Astrattisti 5, 6 novembre 2012, Marotta 13 ottobre 2012, e le mostre citate con il sindaco di Roma Raggi su “Vite spezzate” al Museo della Shoah 11 ottobre 2018 e con il presidente della Provincia di Roma Zingaretti su “Pasolini” 11 e 16 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, de Chirico 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009, Sironi 26 gennaio 2009.

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La sede delle mostre Quadriennali, il Palazzo delle Esposizioni, 2016, Foto OKN Studio

Foto

Le immagini che danno conto della Presentazione – di cui una per la presentazione della mostra precedente – sono state riprese da Romano Maria Levante (n. da 1 a 5); le immagini di Q-Rated e Q-International, della sucessione delle Quadriennali dal 1931 al 2008 e delle sedi della Fondazione sono state fornite dalla stessa Fondazione, alcune attraverso il fascicolo “La Quadriennale” distribuito alla Presentazione (le n. 6, 7 , 9, 12, 13, 19, 23, 25, 27, 30, 35), altre trasmesseci direttamente su nostra richiesta con una cortesia di cui ringraziamo vivamente; (le n. 8, 10, 11, da 14 a 18, da 20 a 22, 24, 26, 28, 29, da 31 a 34), nelle quali riportiamo la didascalia fornitaci, meno il sigillo che citiamo ora “una tantum” valido per tutte, “Courtesy Fondazione La Quadriennale di Roma”); le immagini sulla Quadriennale del 2016 (da n. 31 a 33) sono di Romano Maria Levante, tratte da tre dei 5 suoi articoli sopra citati su tale mostra. In apertura, la Presentazione, la sala vista dal fondo mentre è al microfono il presidente Umberto Croppi, seguita da una ripresa frontale in cui si intravede il presidente onorario Franco Bernabè seduto in prima fila al centro, il terzo della fila con alla dx appena visibile Ias Gawronski, già presidente; poi, il presidente Croppi con il direttore artistico Sarah Cosulich al termine mentre rispondono alle domande, e la “foto opportunity” finale della presentazione, da sin. a dx, Cosulich e Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT, ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio; quindi la “foto opportunity” della presentazione della Quadriennale del 2016 con al centro il ministro del MiBACT Dario Franceschini, alla sua dx l’allora presidente della Quadriennale Franco Bernabè e alla sua sin. l’allora Commissario dell’Azienda Speciale Palaexpo Innocenzo Cipolletta, ai loro lati gli 11 curatori delle 10 sezioni della mostra; inoltre un momento del “workshop” Q-Rated , Milano, Hangar Bicocca, marzo 2019, e “Positions # 4” di Alessandro Puoti e Dandi Hilal dall’esposizione al Abbemuseum di Eindhoven con il sostegno di Q- International, 2018; inizia la successione delle 16 edizioni, 1^ Quadriennale del 1931, il Manifesto, e 2 opere, Enrico Prampolini, “L’automa quotidiano” 1930, e “La sala dei futuristi, in primo piano Ernesto Thayaht, “La vittoria dell’aria” 1930; poi, 2^ Quadriennale del 1935, “Giardino d’inverno”. Foto Giacomelli Carbone Venezia Roma, Lucio Fontana, “Atleta in attesa” (Campione Olimpionico) 1931-32, Scipione, “Il Cardinal decano” 1930; quindi, 3^ Quadriennale del 1939, Inaugurazione con il re Vittorio Emanuele III e altre autorità, e 4^ Quadriennale del 1943, Allestimento. Foto Giacomelli; inoltre, 5^ Quadriennale del 1948, Inaugurazione, Visitatori commentano un’opera esposta, 6^ Quaadriennale del 1951-52, Allestimento. Foto Giacomelli; ancora, 7^ Quadriennale del 1955-56, “In primo piano Giacomo Manzù, ‘Danzatrice'” 1954, bronzo, Foto Magis, e Alberto Burri, “Sacco e Rosso” 1954; segue, ‘8^ Quadriennale del 1959-60, Leoncillo Leonardi, “Ritratto di Titina Maselli”, 1945, ceramica. Foto Giacomelli Venezia, e 9^ Quadriennale del 1960-65, Mimmo Rotella, “Lo schermo” 1965, foto emulsione su tela. Foto di Oscar Savio; poi, 10^ Quadriennale del 1972-77, sul tema “La ricerca estetica dal 1960 al 1970” , la “Sala dedicata a Pietro Manzoni” e Lucio Fabro, “Italia d’oro” 1971; quindi, 11^ Quadriennale del 1986, Facciata della sede eccezionale, il Palazzo dei Congressi, e 12^ Quadriennale del 1992-96, Veduta della mostra con un’opera in primo piano, e sul tema “Ultime generazioni” Stefano Arienti, “Senza titolo” 1996, stampa su carta intelata a trasferimento elettrostatico da diapositiva graffiata. Foto Giuseppe Schiavinotto, poi Vanessa Beecroft, “Lotte” ; inoltre, 13^ Quadriennale del 1997-99, Luigi Ontani, “Caino e Abele” 1999, ceramica policroma. Foto di Guido Guidotti, e 14^ Quadriennale del 2005, in “Fuori tema” Jacob Hashimoto, “Water Block4.0” 2003, poliuretano ad alta densità verniciato. Foto di Lorenzo Abbate, Michelangelo Pistoletto, “Il nuovo segno di infinito”, 2005; 15^ Quadriennale del 2008, Veduta del colonnato. Foto di Giorgio Benni, e 16^ Quadriennale del 2016-17, sul tema “”Ehi, voi!” Patrick Tuttofuoco, “Portraits (Christian)” 2016, sul tema “Cyphoria” Quayola, “Lacoon #20-Q1″ 2016, sul tema “La seconda volta” Marcello Maloberti, “Himalaya” 2012 ; completiamo la galleria delle Quadriennali con un’immagine “storica”, Anno 1975, dal Fondo Lorenza Trucchi, qui con Fellini, Guttuso, Manzù; infine, immagini delle Sedi della Fondazione Quadriennale di Roma, La sede attuale di Villa Carpegna seguita dalla Sede futura dell’Arsenale Pontificio e La sede delle mostre Quadriennali, il Palazzo delle Esposizioni, 2016. Foto OKN Studio; in chiusura, La sede della presentazione della 17^ Quadriennale, il Tempio di Adriano.  

La sede della presentazione della 17^ Quadriennale,
il Tempio di Adriano

Ritratti di Poesia, la 14^ edizione del 2020 all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante

All’Auditorium della Conciliazione a Roma, nei pressi del Vaticano, con piazza San Pietro sullo sfondo,  nel “foyer” appositamente allestito, il 21 febbraio 2020 si è svolta la 14^ edizione della “maratona” poetica “Ritratti  di Poesia”: dalle ore 9 alle 19, dieci ore pressochè ininterrotte, con la lettura da parte di  poeti italiani e stranieri delle proprie composizioni precedute  da interviste sulle motivazioni alla base del loro impegno e sui contenuti della loro poetica. Ideatore e realizzatore con la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale di cui è presidente Emmanuele F. M. Emanuele, premiato poeta oltre che docente, operatore finanziario e culturale, imprenditore; Vincenzo Mascolo come ogni anno curatore, conduttore, intervistatore.  

Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento conclusivo

In passato alla rassegna poetica si è aggiunto il collegamento della poesia con  danza,  la musica e la pittura,  questa volta l’adattamento di poesie classiche e opere d’arte ai fumetti e sculture di volti misteriosi in pagine di libri di terracotta. Il “foyer” da atrio di passaggio è stato trasformato in un salone reso quanto mai accogliente dalla scenografia di Enrico Miglio – un “ritorno” dopo l’artista Liu Zi Xia e le sue “mani aperte” in segno di accoglienza e solidarietà del 2019 – passato dagli ingranaggi di orologi alla “Tempi Moderni” del 2018 ai 12 grandi termometri al calor rosso nelle pareti con pannelli dalle tinte accese per la calura e un’ “oasi di frescura” al riparo degli alberi con una panchina e una bicicletta, una ambientazione magistrale che evoca e fa sentire nella pelle il riscaldamento climatico.

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Vincenzo Mascolo nella presentazione iniziale

Lo vitalità  e  il  valore della maratona poetica

Non sente il segno del tempo e dei tempi l’annuale maratona poetica. Il tempo potrebbe averla logorata, trattandosi della 14^ edizione della rassegna ideata da Emmanuele F. M. Emanuele nel 2006 e realizzata senza alcuna interruzione dalla Fondazione da lui presieduta a cura di Vincenzo Mascolo,  puntuale nell’introdurre le varie sezioni e parti, colto  nell’intervistare, preciso nel  ritmo scandito da un contaminuti, per cui alle 18,20 precise, come previsto nel programma, terminava la sfilata poetica per le premiazioni prima del  finale con Mogol intervistato sulla poesia, poco dopo protagonista del grande concerto. Oltre al tempo trascorso dalla sua ideazione, potrebbero essere i  tempi  – con i repentini mutamenti –  a relegare la poesia tra i generi superati per le giovani generazioni “connesse” con i social. 

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Mascolo davanti a un pannello sul “riscaldamento globale” di Enrico Miglio con ai lati due dei 12 grandi “termometri” posti nelle pareti della sala

Tutt’altro che questo, invece del logorio si ha un rilancio in grande stile, dalla sede consueta del Tempio di Adriano si passa a un’altra sede di grande valore, l’Auditorium della Conciliazione, nella quale tra l’altro – ha annunciato il Presidente – potranno esservi mostre ed altre iniziative della Fondazione. Inoltre si reintroduce il concerto conclusivo all’insegna della poesia tradotta in musica, dopo l’interruzione  degli ultimi anni; in passato c’erano stati Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia, questa volta le canzoni di Lucio Battisti con un cantante somigliante nel volto e nella voce, e la partecipazione di Mogol, i cui testi poetici  hanno contribuito in modo determinante a creare la magia di tante “emozioni” musicali; un grande concerto notturno con un’orchestra di 16 elementi, non nella sala della “maratona” poetica con pochi musicisti, come nei precedenti, ma nel vasto Auditorium, in un vero teatro.

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Un’installazione sul “riscaldamento” globale” di Miglio

Analogamente  per l’altro fattore di logorio, la poesia non è affatto un  genere superato, nell’era dei “social” i giovani  sono tra i protagonisti della manifestazione con la sezione iniziale dedicata a loro, vediamo gli studenti delle scuole romane che si sono particolarmente impegnate partecipare numerosi e appassionati; per di più un premio è dedicato addirittura al “format” dei social tipo Twitter, nell’aggiornamento di quest’anno che segue quello dei social, da 124 battute a 280 con il Premio “Ritratti di poesia 280”, inoltre “Ritratti di poesia.storie” per Istagram;  la sfida dell’estrema  sintesi viene così raccolta dalla poesia che, del resto, ha avuto nella sinteticità espressiva una delle sue caratteristiche fondamentali, poemi a parte, si pensi ai sonetti fino al folgorante “M’illumino d’immenso”.

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Un’altra installazione sul “riscaldamento globale” di Miglio

Qual è il segreto di questa vitalità? E’ stato alla  base dell’intuizione iniziale dell’ideatore e realizzatore Emmanuele F. M. Emanuele partito dalla semplice considerazione che la poesia è innata nella natura umana come forma istintiva di espressione dei sentimenti, a fianco delle tante altre forme  sviluppatesi nel tempo, dalle arti visive come pittura e scultura alla danza, al teatro e poi al cinema. In quanto tale deve avere la stessa “rilevanza, visibilità e fruibilità” delle altre arti e un palcoscenico adeguato come la “maratona”  annuale. Inizialmente per gli addetti ai lavori e gli appassionati,  ha esteso il suo raggio d’azione aprendosi alle scuole, ai giovani e al grande pubblico come rassegna poetica di livello internazionale con l’apposita sezione dedicata ai poeti stranieri affiancata a quella per i poeti italiani; per entrambe le sezioni il conferimento del Premio Fondazione Terzo Pilastro Ritratti di Poesia.

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Dal “riscaldamento globale” all'”oasi di frescura” nell’installazione di Miglio

La Fondazione opera nel Terzo Settore, di recente ha sostituito la qualificazione “Internazionale” a quella precedente “Mediterraneo” per la caduta dei confini in una visione globale della vicinanza alla persona umana in campo sanitario e della ricerca scientifica, sociale e welfare  educativo e formativo  nel quale rientra la cultura e l’arte in un ponte tra le diverse culture nel mondo, in particolare tra Oriente ed Occidente. Nel suo ambito la Fondazione cultura e arte per la promozione e diffusione di iniziative culturali e artistiche.  Alla base  c’è l’assunto iniziale che ha portato il presidente Emanuele a ideare la manifestazione, il ruolo dell’arte e della cultura – nel casso specifico della poesia – nella crescita integrale della persona realizzata nella storia del genere umano. Questo si manifesta “nell’affermazione dei valori  di condivisione e solidarietà, e nella formazione della coscienza collettiva, annullando le differenze e ampliando i confini, a favore dell’inclusione sociale degli individui e del dialogo costruttivo tra i diversi popoli”.  E un dialogo mediante la poesia,  sconfinata ed eternatrice,  è quanto di più universale ed elevato si possa concepire.

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Un’installazione con l'”oasi di frescura” di Miglio

All’insegna di questa visione internazionale anche la “maratona” di poeti, con la sezione “Poesia sconfinata” dedicata ai poeti stranieri, le cui 7 parti si sono alternate con le 7 parti della sezione “Di penna in penna”  dedicata ai poeti italiani,  20 minuti per ciascun poeta straniero, 10 per ogni italiano, in maggior numero. Tutti i poeti si sono avvicendati sul palco  leggendo una serie di proprie poesie dopo un’intervista in cui sono stati interrogati  sulle motivazioni e i contenuti del proprio impegno poetico. Sia che recitassero dal palcoscenico sia che lo facessero dal podio costituito da un simil-blocco di ghiaccio in scioglimento per il riscaldamento climatico hanno potuto esprimere con accenti genuini i loro sentimenti; per gli stranieri  la traduzione italiana dei testi poetici recitati nella propria lingua scorreva sul grande schermo. Ne daremo qualche pillola fior da fiore, pescando nella raccolta scritta che con un componimento ciascuno consente di rivivere il   “viaggio nella poesia”  dopo le suggestioni della recitazione orale.  Lo faremo senza seguire l’alternanza opportunamente adottata nella giornata per dare maggior ritmo alla sequenza delle singole parti, le raggrupperemo nelle diverse sezioni; tra la sezione di poesia nazionale e quella di poesia internazionale così raggruppate abbiamo tuttavia inserito le altre sezioni riunite anch’esse in un capitolo unico, per intervallare la parte poetica e dare ritmo anche noi.

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Un’altra installazione con l'”oasi di frescura” di Miglio

Inizia la manifestazione, spazio ai giovanissimi poeti

Prima della rassegna poetica la citazione dei tre licei romani Vittoria Colonna, Convitto Nazionale V. Emanuele II,  Cavour, G. De Sanctis, N. Machiavelli che, con  la platea animata dai  loro  studenti  attenti  appassionati, sono stati protagonisti della prima sezione, “Caro Poeta” : l’incontro degli studenti-poeti in erba saliti alla ribalta con i poeti Franco Buffoni e Maria Grazia Calndrone, Terry Olivi, Lidia Riviello ed Elio Pecora, presente anche lo scorso anno. Non c’è che dire, vedere i giovanissimi aspiranti poeti a fianco di questi celebri nomi senza timori reverenziali né momenti di imbarazzo è stato  rassicurante a conferma della forza interiore che si sprigiona con la poesia.

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“Caro Poeta” , gli studenti recitano le loro poesie

Altrettanto rassicuranti le due sezioni successive, dedicate ai Premi per la poesia declinata nel linguaggio dei “social”, con la sua brevità icastica: i giovani e giovanissimi “connessi” si sono cimentati al ritmo scandito dalle regole di Twitter e Istagram, in Ritratti di poesia 280”,  raddoppio di battute come avvenuto in Twitter, e Ritratti  di poesia.storie” per Istagram. La giuria era formata da Silvia Bre, Bruno Galluccio e Domenico Sinfonico, poeta partecipante alla sezione “Di penna in penna”  per il primo; da Andrea Cati, Sivia Salvagnini per il secondo.

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“Poesia illustrata” , i fumetti di Julian Peters ispirati dall”opera di Eugenio Montale “Dora Markus”

Altre citazioni d’obbligo   la “Poesia illustrata” nell’incontro con Julian Peters e “Opera prima”  di Giovanni Libello, Francesco Maria Terzago e Giovanna Cristina Viviantetto che hanno concluso la fase iniziale dedicata ai giovani. Perché Julian Peters ha tradotto nel linguaggio fumettistico da loro prediletto  poesie classiche della letteratura inglese, francese e italiana,  tra gli altri vediamo  fumetti su “Dora Markus” di Eugenio Montale.  

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“Di penna in penna”, Luca Benassi

Dei tre poeti con la loro “opera prima” citiamo alcuni versi. Giovanni Libello: “Amin, è quasi giorno, ecco l’ignota rovina./ Oltre la vetrata flagelli di margherite: l’amore è la mia tirannia./ Amin, è quasi giorno, è la resa dei fuochi invernali/ l’ectoplasma del divenire. Dio, gheriglio di stella insegnaci a svanire/ poco  poco/  insegnaci il dialogo amoroso/ tra i picchi delle braci e l’arpionata notte”. Francesco Maria Terzago: “Non è qualcosa che abbia un’importanza/ secondaria, considerare la torsione/ degli astri  che comprime la notte/ ricordandoci il sottile discrimine/ tra l’esistenza e la mancanza/… Non è qualcosa che abbia un’importanza/ secondaria, conoscere il nome delle piante/ che mettono un balzo verde tra le discontinuità/ del porfido, dell’asfalto/ … Non sono gli spettri/ quelli che pettinano l’erba del prato, nel parco pubblico/ quelli che la pareggiano eliminando ogni discontinuità”. Giovanna Cristina Vivinetto: “Ha dovuto sapere che tutta la vita dopo la morte,/  se è clemente, è come quella luce rarefatta/ che si mescola lenta alla sabbia grumosa/ e per un attimo di grazia la benedice/ – per un attimo solo e poi scompare”.

“Di penna in penna”, Andrea De Alberti

La poesia italiana nella sezione “Di penna in penna”

Il “viaggio con la poesia” della sezione italiana “Di penna in penna” si apre con la lirica di Emmanuele F. M. Emanuele tratta da “Le pietre e il vento”,  sono due archetipi della sua Sicilia di cui ha cantato le bellezze e i sentimenti che ispira: “Le palme parlano tra loro/ con il linguaggio del vento./ Raccontano il loro lungo viaggio/ dai deserti e dalle oasi./ Ora approdate all’isola/ vivono in un mondo a loro ignoto,/ di incanto dicono i visitatori,/ guardando la loro armonia e grazia./ Ma alle palme tutto ciò appare incomprensibile./ Rumori, odori, a loro/ sono del tutto estranei./ La cosa che dà loro conforto e felicità di esistere/ è il vento, la vista del mare/ che nel ricordo le congiunge alle terre da dove/ partirono,/ la vista delle altre piante sorelle,/ e il canto della lodola/ che si rifugia tra i loro rami.”

“Di penna in penna”, Giusi Quarenghi

Seguono i “tutor” poetici  degli studenti romani in  “Caro poeta” : Franco Buffoni:  “Il mondo… Il mondo no,/ Lui continua e continua/ Col suo sorriso da dinosauro/ Dipinto sul viso/ E un Ego grande/ come un monumento funebre/ Vòlto al mare aperto….”. Maria Grazia Calandrone: “Siccome nasce/ come poesia d’amore, questa poesia/ è politica.” Terry Olivi: “Ha indossato un vestito diverso/  la primavera che sta arrivando./ Non ancora la seta rosata/ della sua fioritura splendente/ tunnel spazio-temporale/ di bellezza siderale,/ due sacchettini di plastica/ color cielo delle isole greche/ gonfi di tramontana,/ trafitti dai rami,/ danzano immemori al vento,/ otri di polietilene,/ sconosciuti sakura/ dei nostri tempi sbandati”. Elio Pecora: “Da qui il visibile è di scorcio./ Non angeli che soffiano/ in tube specchianti,/ né demoni  a tessere ansie./ Dietro il rumore/ – immenso assordante – / un silenzio insodato./ Chi parla di storie remote,/  di glorie intatte? Chi dice/  che tutto è da ricomporre?/ Affondano nelle foglie/ i passi. I rami intagliano/ l’ombra. Forse la salvezza/ sta nel proseguire, forse/ smarcare nella distrazione”. Lidia Riviello: “… in questo sonno/ solo il cinque per cento dei sogni/ contiene palma mare sabbia tropicale./ fuori dal mercato avremmo un altro aspetto,/ ma la minoranza di cose sagge e meravigliose/ ne conosce talmente che l’indotto, il marchio, il riciclo, fioriscono/ indisturbati/ nel tribal/ andrea mantegna non viene più esposto / per un equivoco fra prospettiva/ e orizzonte di attesa”.

“Di penna in penna”, Anna Elisa De Gregorio

La carrellata dei poeti succedutisi nel palco per leggere le proprie poesie dopo l’intervista su motivazioni e contenuti comincia con la 1^ parte di “Di penna in penna”.  Sempre nel “fior da fiore”  del “viaggio nella poesia”   Luca Benassi: “Già la strada sembra un grido di vento/ un azzurro ingolfato fra le chiese/ a levigarti il sorriso sopra il volto/  che risplende nella piena del sole./ che ci invade.” Antonio Bux: “Se ti guardano le lucertole/ vuol dire che sei morto/ e  se sei morto come una pietra/ levigata dal dolce sonno/ … continueranno le tue ossa a vivere l’ombra/ e le parole, che tu guardi e non sai/  continueranno le solitudini del corpo, le striature/ perché parlare il tuo muovere l’ostacolo / se camminando sai di tacere”.

“Di penna in penna”, Renato Minore

Con la 2^ parte altre inquietudini e temi personali. Andrea De Alberti: “Chi tradisce una segreta inquietudine/ è sotto la minaccia di una stagione di fuoco./ E’ primavera inoltrata,/ in questo periodo dell’anno dobbiamo aspettarci/ stravaganze da qualsiasi uomo”. Damiano Sinfonico: “E’ tornata, mi dicono, la barista russa./ Scorbutica, scontrosa./ Io non la ricordavo lì per lì./ Poi sì, uno scontrino battuto in fretta”.  Alberto Pellegatta: “Fai bene a non parlare, le frasi/ non ti lasceranno più in pace../ Interamente in rossori/ dipendi dai nostri preconcetti./… anche la primavera ci danneggia/ ricoperta di spore. Strilli/ sotto la nostra sdegnosa magnolia.”

“Idee di carta”, per CapoVersi di Bompiani
Gerardo Masuccio e Paolo Maria Bonora, con Mascolo

Da temi planetari a  locali nella 3^ parte. Marisa Papa Ruggiero: “L’ombra in cammino sulla pelle del mondo/  Le torbe antiche, le millenarie catene arboree sono tizzoni esplosi/ nel fondo del respiro. –E’ ora, è adesso che accade –/… E’ già sepolto il domani negli occhi dell’ultima orsa polare/ ed ora sai che per ogni grattacielo di ghiaccio scivolato nel nulla,/  per ogni creatura in fuga divorata dal fuoco, si è spenta una stella./… Le meduse marine sulla sabbia arsa hanno smesso di respirare,/ l’ala bianca, bruciando alto, lascia il volo nell’aria./ Ma torneremo…/ di nuovo nati, di una diversa sostanza”.. Gianni Zampi: “Ma è l’aria di quassù che più mi colpisce/ l’aria che trascolora e si flette, che/ mi sembra stanchissima. Allora lancerò/ lontano la schifezza dei fondi del caffè/  e dell’anima che se c’è batte un colpo – / stai tranquillo, ti dico: al chilometro zero/ sono io il museo”.

“Idee di carta”, per la rivista NiedernGasse
Paola Silvia Dolci con Mascolo

Nella  4^ parte  troviamo i colori. Giuseppe Grattacaso: “Se il giallo si confonde e non conclude/ la sua testimonianza, allora invecchia/ il corpo spento, avverte che l’attesa/ è una fermata in bilico sul nulla./ Quando poi la marcia è consentita/ e il verde si profonde in cerimonie/ e partiamo all’assalto, consumato/ è il terreno, vediamo il precipizio/ ad ogni passo, speriamo in una sosta/ più duratura al prossimo passaggio,/ che il giallo ci conservi nell’indugio, l’incertezza ci liberi dal viaggio.”. Giusi Quarenghi: “Il gelsomino/ bianco messo a dimora/ con tutte le cure è morto  vive/ invece in un vuoto del muro di pietre/ il seme sfuggito anche al vento/  randagio caparbio fratello/ capace di farsi bastare ogni/ niente. Lo nutre il desiderio/ quello che gli manca”.

” Letteratura e poesia”, Ersi Sotiropoulos con Mascolo

La  5^ parte evoca temi personali, anche l’amore. Fernando Acitelli: ”Il fatto è che l’amore deve/ prevedere il Tutto altrimenti è altro/ e per me la ricognizione/ sul passato inabissato, accatastato/ sui fondali, vale più di qualsiasi/ fanciulla a termine, molata/ fin che si vuole, ma a termine./ La mia sostituibilità? Con chi?/… Per tutto questo ha senso innamorarsi”. Anna Elisa De Gregorio: “Solo strisce verticali/ a disegnare bianche la finestra/ nel confronto col blu della persiana/ contraltare orizzontale./ Lampada gialla e rosso di tramonto/  in ballo fra le stecche meticolosi/  contorni evidenziati/ con pennellate nere./… insinua un vuoto rettangolare…/ nessuna linea curva ai piani alti / della solitudine nessuna diagonale./… L’idea dei neri contorni/  del tutto cancellata. Così l’imprevisto: metà ombra metà luce./ E il ritmo diventa l’unica guida”. Stefano Simoncelli: Non assomiglio più a nessuno/ quando mi incontro sulla specchiera/ di un bar con mezza sigaretta in bocca/ e un bicchiere di qualche ambrato veleno./ Certe volte sembro un banco di nebbia, impenetrabile e denso./… Altre volte sono pulito e trasparente/ come un vetro attraverso il quale/ vedo quello che ero, un ragazzo/ svelto, aggressivo e arrogante/ che va incontro alla notte.”

“Scultura e poesia”, Paola Grizi con Mascolo

Un  singolo poeta nelle ultime due parti. Nella  6^   parte  l’immagine della donna  ci riporta, in termini diversi non meno suggestivi, alla canzone ‘cult’  “Quello che le donne non dicono”,  nella poesia di Annalisa Alleva: “Noi creature baciate dall’insicurezza,/ noi che piacciamo per la voce infantile,/  i modi garbati, l’innocenza,/ quando loro fan di tutto per corromperci./ Noi a cui viene chiesta eterna giovinezza,/ serietà, sensualità, intelligenza, pazienza./ Noi viviamo in un paese di tiranni:/ dobbiamo adularli, ingoiare, obbedire,/ fingere di accontentarci di far loro da sfondo/ da cornice/… Noi incapaci di solidarietà, noi che ci temiamo/  come possibili rivali, noi sole,/ noi che non ci amiamo./ Noi dell’istinto, della facile emozione,/ noi della terra, dell’amore totale, noi della casa.”

Paola Grizi, Scultura-poesia # 1

Infine, nella 7^  parte  irrompe la forza del pensiero di un poeta affermato, Renato Minore, con la recente raccolta  “O caro pensiero”: sebbene pesi sull’anima e la memoria, oltre che sulla vita quotidiana, il pensiero è alla base anche del futuro,  si vive per ricordare e per elaborare il ricordo in pensiero. Con la densità del pensiero in cui restano anche gli avvenimenti del passato – ha affermato nell’intervista prima della lettura poetica – “riusciamo ad elaborare l’esistenza. Il pensiero dà senso all’insensatezza della realtà, esprime esperienza di vita, esperienza di parola, un’intensa umanità; può riflettere il massimo di concentrazione e anche il massimo di indiffernza”. Versi da “Filo e vento d’amore”: “Le cose che io so le cose che tu sai/ Le cose che facciamo finta di sapere/ Le cose che fanno il mondo grasso e tondo/  Le cose che hanno angoscia e fondo/ Le cose appena sussurrate/ Intuite eppure dimenticate/ Svanite appena la luce s’avvicina/ … Non hai che pelle erosa/ guaina che inghiotte inghiottita/ l’io del  mondo, storia e differenza,/ dolcissima idea del movimento/ appena smorzato dal pensiero della sua fine…”.

Paola Grizi, Scultura-poesia” # 2

Editoria, letteratura, scultura, legate alla poesia

Prima di passare alla rassegna dei poeti stranieri, un intermezzo sugli altri momenti della manifestazione nei quali non si sono recitate e commentate poesie,  ma si è restati sul tema.

Così nella tradizionale sezione “Idee  di carta”, sulle case editrici che operano in un campo così impegnativo per tanti motivi, tra i quali le difficoltà sul piano commerciale che rendono meritoria la loro attività.  Tanto più quando si tratta di iniziative nuove, particolarmente innovative e stimolanti.  Vincenzo Mascolo ne ha discusso ampiamente con i rappresentanti di due di esse.

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Paola Grizi, Scultura-poesia # 3

Per Bompiani, la prima casa editrice, Gerardo Massuccio e Paolo Maria Bonora hanno parlato dell’impostazione della  nuova collana poetica “CapoVersi”, titolo che nel solco di una prestigiosa quanto specialistica tradizione editoriale  evoca la ripresa dopo l’andata a capo, l’aiuto della poesia per rinascere, come il “corrimano” indicato  da una poetessa al quale ci si aggrappa nella vita;  viene selezionata la migliore poesia contemporanea, nell’equilibrio tra i grandi nomi del Novecento e i nuovi autori  del terzo millennio, quindi tradizione e  avanguardie, tra Occidente e Oriente.

“Poesia sconfinata” , la britannica Jenny Mitchell

La seconda realizzazione editoriale, illustrata dalla direttrice dell’edizione italiana  Paola Silva Dolci,  è la rivista semestrale di poesia  e cultura  “Niedergasse”,  con edizioni italiana, inglese e tedesca: la linea editoriale è all’insegna della rapidità e velocità, attraverso interviste e recensioni, traduzioni e approfondimenti, estesi a fotografia e musica, arte e spettacolo, fino ai documentari.

Il  libro “Cosa resta della notte (Nottetempo)” che  rievoca la storia di uno dei più grandi poeti  del ‘900, Costantino Kavalis,  è stato presentato da  Ersi Sotiropoulos, in completo nero che ci ha ricordato la figura esistenzialista di Edith Piaf;  l‘autrice, intervistata da Mascolo, ha seguito il poeta nella parte iniziale della sua maturazione artistica nel crocevia esistenziale tra arte, vita e desiderio erotico: “in un clima trasognato, sensuale, quasi allucinato e dantesco, Kavafis compie un’iniziativa creativa, fronteggiando i suoi demoni interiori, superando una serie di prove,  la più dura delle quali consiste nell’accettarsi,  nel trovare la propria patria interiore, la propria Itaca”.

“Poesia sconfinata”, il belga German Droogenbroodt

Dalle letteratura alla scultura con “La materia e le parole”, incontro   condotto da Mascolo con l’artista italiana a livello internazionale Paola Grizi che fa emergere visi femminili da pagine scolpite in bronzo o terracotta; ci ha ricordato, pur nelle radicali differenze,  le “Porte di Rosanna Borzelli” con i volti impressi su vecchie porte lignee e i “Libri d’artista” di forte impianto materico di Vittorio Fava. Nelle sculture  della Grizi, esposte in sala, i  volti emergono dalle pagine scolpite come “epifania della coscienza”,  e “sembrano voler raccontare le loro storie di persona, come se le vite vissute nel testo si specchiassero nei nostri occhi. Sono volti che si costruiscono nel tempo”, perciò rivelano appieno i loro profondi contenuti  solo “dopo molteplici visioni”. Infatti “sembra che le pagine accartocciate, divelte, e usurate, siano ciò che  noi siamo dopo le esperienze che ci toccano nel profondo”.

“Poesia sconfinata”, il britannico Philip Morre

La poesia straniera, “Poesia sconfinata”

Torniamo alla poesia, con la sezione dedicata agli stranieri, “Poesia sconfinata”, in 7 parti, con un poeta ciascuna, salvo un’eccezione, si va dall’Europa agli Stati Uniti. Anche qui qualche scampolo, “fior da fiore”, di una delle tante poesie lette dagli autori nella loro lingua, con la traduzione sullo schermo.

La britannica Jenny Mitchell: “Ha un abito fatto di musica/ modulata lungo l’orlo, le note alte nelle cuciture./ Un inno esaltante/ adorna il corpetto/ di puro pizzo./ Il cuore è cucito con amen altisonanti, il dorso una linea curva/ di alleluia./ E’ fiera a sufficienza per tenere / il proprio applauso/ infilato in una piega della vita./ La gonna oscilla libera/ quando lei cammina/ a mostrare l’assenza di catene./ Ha un abito fatto di musica”. E’ intitolata “Canzone per un’ex schiava”.

“Poesia sconfinata”, al centro le americane
da sin. Nicole Sealey e Samiya Bashir

Sempre dalla Gran Bretagna Phillip Morre, con “Still Life”: “ Due pesche, quattro banane, due pere,/ schiaccianoci in allerta, cestino di acciaio; con bordo metallico arrotondato, posato/ senza sfoggio su tovaglia verde e blu – olive o/ sono prugne? Questo vedo, e mi chiedo/ se questo, dovesse fallire la terapia, potrebbe/ diventare il mio mondo, la sua pienezza  e limite,,,”.

Dal Belgio Germain Droogenbroodt  inizia così la descrizione della “Vista dalla mia finestra  di mattina”:   “Due mondi, uniti da un’illusione ottica:/  la pozzanghera grigia del mare/ che sembra impenetrabile/ come la cortina di nebbia/ che pesa sulla terra,/ si estende all’orizzonte,/ e impedisce di vedere oltre/ rimanendo nell’enigma e nel mistero.”

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“Poesia sconfinata”, l’americana Nicole Sealey

La svedese Eva Strom nel suo “Il rosso vuole il rosso e dissolversi nel velo”: ”Sto a guardare la grata, e la persiana/ Sto a guardare il velo, e la membrana/ Sto a guardare la persiana, la membrana, / Sto a guardare il velo, la persiana/ Il rosso vuole il rosso, il velo, la membrana, la linea/ Vuole diluirsi, bagnarsi e diluirsi/ Il rosso vuole il liquido, la linfa  e l’osmosi/ Il rosso vuole il rosso e dissolversi nel velo/ Impregnarsi e per osmosi diluirsi/ Il rosso si fa rosso, liquido e osmosi.”.

Poi due poetesse americane, insieme sul palco con le intervistatrici, recitano poesie distinte una dopo l’altra.   “Anamnesi” di Nicole Sealey è un quadro disperante di malattie e lutti familiari  e di ansie e  timori personali: “Ci vedo male./ Il vento mi spaventa/… Zio Ken, saggio com’era, è stato messo sotto/ da un’auto, come per confutare qualsiasi teoria/ verso la quale tendo con lo scrivere. E, lo so,/ le stelle in cielo sono già morte”. Di Samiya Bashir la poesia “Una piccola questione di ingegneria”: “La vecchia torre dell’acqua una volta conteneva/ ogni goccia in cui vivevamo. Le pareti/ scure contornate in cima da mattoni scuri simili/ a collant da supermercato si ergono ancora/ ritte a cavalcioni della strada principale/ dove la via si separa tra/  campi opposti. Da questa parte / tutto sparito da quanto tempo chiunque/ riesca a ricordare e l’inverno ancora freddo/ come non è mai stato. Dall’altra parte?/ Senti. Hai sempre avuto il tratto/ di fiume più ampio, amico. Sta di fatto: noi/ siamo ancora qui. Qualsiasi altra cosa ti sia rimasta -/ beh – lasciaci con una sete folle. Dai, ti sfido”.

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“Poesia sconfinata”, la svedese Eva Strom

Fino all’ultimo poeta, ancora un americano, Philip Schultze con “Nomadi”: “Sono venuto a vuotare la stanza di mia madre,/ mettere in una borsa tutto quello che aveva./… Ero l’unica cosa che le era venuta bene, mi diceva,/ eppure non ero parte del passato che ricordava./ ‘Mancherà a qualcuno?’ chiedo, lasciando/ cadere la foto nella borsa. ‘No’, Lisa sorride,/ ‘qui non manca mai niente  a nessuno’”.

Termina così il nostro “excursus” poetico che, ripetiamo, coglie “fior da fiore”  alcuni brani di un’unica poesia tra le tante recitate dai poeti stranieri in questa sezione e dai poeti italiani nell’altra. Con l’impressione che c’è tanta inquietudine e pochi sospiri d’amore, anche questo segno dei tempi.

“Poesia sconfinata”, l’americano Philip Schultz

La premiazione e la chiusura della “maratona”

La  consegna dei  “Premi Fondazione Terzo Pilastro – Ritratti di Poesia”  è sempre il momento culminante della manifestazione, si è svolta al termine con il Premio Nazionale a Paolo Valesio  e il Premio Internazionale alla poetessa rumena Ana Blandiana.

Paolo Valesio, di formazione linguistica, i suoi studi di retorica nella scrittura, anche nella dimensione spirituale, lo hanno avvicinato a D’Annunzio e Marinetti che considera “fondamentali per lo sviluppo della poesia italiana ed europea del Novecento”, per il centenario del futurismo nel 2009 ha organizzato un convegno nella Columbia University e curato la publicazione di un’opera di Marinetti. Insigne letterato e docente in prestigiose Università americane, ha creato il “Yale Poetry Group” e nel 1997 la rivista poetica “Yale Italian Poestry”, dal 2006 divenuta “Italian Poetry Review”. Narratore ininterrotto ha alternato prosa e poesia dalla prima rassegna ibrida, “Prose in poesia” del 1979, pubblicata un anno dopo il suo primo romanzo “L’ospedale di Manhattan”, sono seguiti romanzi e racconti, fino ai “diari romanzati o romanzi quotidiani” di un “Tetralogia” in parte inedita; e soprattutto 20 raccolte poetiche, l’ultima nel 2018, “Esploratrici solitarie”. “Le mie poesie, ha detto lui stesso, non appartengono al genere ormai un po’ logoro del poemetto in prosa, voglio che la prosa irrompa nella poesia”. Dalla raccolta ora citata, la poesia “Stati e stadi della vita”, per Louis Aragon: “Un poeta ha parlato/ di ‘Paniere dell’oblio’./ E il vagabondo oscuro e barcollante/ che ne sentiva il delicato fascino/ adesso ne ha paura:/ quando le palpebre diventano sipario/ lui non sa se il prossimo istante/ sia sonno o svenimento o -/ com’è peraltro vano/ l’esorcismo della parola!/ Forse il meglio che può desiderare/ è che la paura questa/ sì metamorfosi/ in una serena curiosità./ teme però che mai raggiungerà/ la scienza di contemplare se stesso/ e resterà impigliato nell’orlo/ del manto dell’azione/ (che potrebb’essere una benedizione)”.

Premio nazionale “Ritratti di poesia”, Paolo Valesio

Ana Blandiana, nome d’arte della poetessa rumena  Otilia Valeria Coman, è stata dissidente rispetto al regime comunista, impegnata nel sostenere i diritti dell’uomo contestando pubblicamente il dittatore Ceausescu, fino alla sua caduta nel 1989, mettendo in gioco la propria posizione, aveva vinto il Premio Herder nel 1982.  In Italia ha avuto nel 2005 il Premio letterario Cesare Acerbi per “Un tempo gli alberi avevano occhi”, sono seguite le raccolte poetiche “Il mondo sillaba per sillaba” nel 2012, “La mia patria A4. Nuove poesie” nel 2015, fino a “L’orologio senza ore “ del 2018.  Ha dichiarato che per essere scrittori e poeti bisogna essere liberi, per questo ha lottato ed è stata considerata”una persona he non rinuncia a dire la verità, ma la mia verità e semplicemente poesia”; e per lei “la poesia è qualcosa che non si può spiegare, é un’emozione”. Non solo, va oltre: “Credo che esista una categoria di poeti per i quali la poesia è qualcosa di vicino alla religione. Entrambe parlano di ciò che non è dicibile, di indicibile. Questo crea un’attesa per qualcosa che non si può dire”. Anche perchè alla poesia aggiunge quest’altra finalità: “Lo scopo della poesia è quello di ripristinare il silenzio, la capacità di tacere”. Dalla raccolta “Un tempo gli alberi avevano occhi” la poesia “Non scegliere”: “Convocata al supremo giudizio/ che termina spedendoci in terra,/ io, dichiarata non colpevole,/ ho avuto il diritto/ di scegliere me stessa./ Ma né uomo, e né donna , / e neppure un animale scelsi di essere,/ e neppure un uccello, e neppure una pianta./ Si odono i secondi cadere/ dal diritto supremo della scelta./ Lì si ode sbattere sulla pietra: no, no, no, no./ Invano convocata in giudizio,/ invano non colpevole”.

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Premio internazionale “Ritratti di poesia”, Ana Blandiana

Il saluto del presidente Emanuele  chiude la  “maratona” poetica con una intensa rievocazione del cammino percorso a partire dalla sua intuizione iniziale sul ruolo che l’arte e la cultura possono avere nei periodi di crisi anche a livello economico e alla particolare importanza della poesia che merita di essere portata alla ribalta come le altre arti. Ma non si è limitato al piano culturale, lo ha collegato alle  iniziative benefiche della Fondazione in cui è impegnato direttamente e stabilmente non solo a livello nazionale. L’ampliamento dell’ottica dal Mediterraneo allo scenario globale fa sì che l’azione si estenda  alle altre aree cruciali nell’era della globalizzazione, in un’attività fatta di iniziative concrete in tanti campi, con l’aiuto e l’assistenza coniugati a poesia, cultura e arte.

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Anteprima al concerto, Emanuele accoglie Mogol

Ma la “maratona” poetica non è finita,  segue  una breve conversazione sulla poesia dello stesso Emanuele e  di Mascolo con l’autore dei testi musicali Mogol, al secolo Giulio Rapetti, che tutti ben conoscono, l’Anteprima al Concerto notturno “Emozioni” con le canzoni di Lucio Battisti di cui ha scritto le parole. Afferma  Mogol che “scrivere poesie è trasmettere emozioni, e farlo nella forma più semplice, che è anche la più diretta”;  e cita le gustose esclamazioni del piccolo nipote dinanzi alle attenzioni di una ragazzina e dell’anziano genitore dinanzi a due procaci infermiere, agli opposti nell’età e nelle situazioni ma convergenti nella spontaneità frutto di emozione, e  conclude:  “Questa è poesia”.

Antepima al concerto, Mogol sulla poesia

Il gran finale

Il  Concerto “Emozioni” nel grande “Auditorium” – palco teatrale e platea ad anfiteatro con spettacolari effetti di luce – ha avuto protagonisti Mogol, seduto sul palco da un lato, intervistato dal figlio in modo spigliato e disinvolto, e il cantante Gianmarco Carroccia, una reincarnazione di Lucio Battisti nell’aspetto e  nella voce. Mogol ha rievocato come sono nati i suoi testi poetici delle canzoni  la cui esecuzione da parte del  cantante è stata inframmezzata ai suoi ricordi:  circa 15 belle canzoni, in quelle maggiormente restate nel cuore e nella mente il pubblico ha accompagnato l’interprete cantando  le parole scritte da Mogol e musicate da Battisti, in uno spettacolare turbinio di suoni, luci, emozioni.

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“Emozioni”, Gianmarco Carroccia canta “Pensieri e parole”

Fino al colpo di teatro conclusivo: Mogol lascia il palco e scende in platea ad abbracciare il presidente Emanuele, seduto tra  il pubblico, non tanto per aver promosso lo spettacolo, quanto soprattutto  per la meritoria realizzazione di importanti iniziative benefiche nel campo della salute, lodate poco prima da un grande chirurgo, Massimo Msssetti, che era salito per questo sul palco.  Vediamo il chirurgo, ridisceso in platea,  alzarsi in piedi e applaudire l’abbraccio di Mogol, e tutti unirsi al suo applauso. Anche queste espressioni a cui abbiamo assistito e partecipato, “chiamale se vuoi, emozioni…!”

“Emozioni”, al centro Mogol sceso in platea abbraccia Emanuele,
in fondo il chirurgo Massimo Mazzetti in piedi applaude

Info

Auditorium della Conciliazione, Via della Conciliazione 4, Roma, ” foyer” allestito con i pannelli e le installazioni di Enrico Miglio, e Auditorium teatrale. Cfr. i nostri articoli: sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di Poesia” in www.arteculturaoggi.com l’11 febbraio 2019, il 1° e 3 marzo 2018, il 10 marzo 2017, il 10 febbraio 2016, il 15 febbraio 2013; in fotografia.guidaconsumatore.com il 30 gennaio 2012, in cultura.inabruzzo il 9 maggio 2011. Sulla poesia di Emmanuele F. M. Emanuele, “Al Quirino la poesia di Emanuele diventa teatro”, in questo sito il 22 ottobre 2019, in cultura.inabruzzo.it il 21 ottobre 2010; sulla figura di Emanuele, “Premio Montale a Emanuele” in www.arteculturaoggi.com “”La poesia specchio di tante vite” 14 aprile, e“Un lungo cammino” 20 aprile 2019. Per le altre citazioni del testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, i “Libri d’artista” di Vittorio Fava il 22 agosto 2018 e le “Porte di Rosanna Borzelli” il 17 aprile 2014; i Futuristi il 7 marzo 2018, Marinetti il 2 marzo 2013, D’Annunzio il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013; in cultura.inabruzzo.it, i Futuristi nel centenario, 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009 (I siti citati cultura.inabruzzo.it, fotografia.guidaconsumatore.com non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito e sono comunque a disposizione).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel “foyer” durante la “maratona” poetica e nell’Auditorium teatrale durante il Concerto conclusivo. Sono riportate, a parte quelle iniziali sui pannelli dell’allestimenti, nella succesione in cui le singole seioni sono citate nel testo. In apertura, Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento conclusivo; seguono, Vincenzo Mascolo nella presentazione; e davanti a un pannello di Enrico Miglio con ai lati due dei 12 grandi “termometri” posti nelle pareti della sala; poi, unj’installazione tra il “riscaldamento” globale” e l'”oasi di frescura” e 2 installazioni sull'”oasi di frescura” nell’ambiente attiguo; quindi, nella sezione “Caro Poeta” , gli studenti recitano le loro poesie, e nella sezione “Poesia illustrata” , i fumetti di Julian Peters ispirati dall”opera di Eugenio Montale “Dora Markus”.; inoltre inizia la sezione “Di penna in penna” con Luca Benassi e Andrea De Alberti, poi Giusi Quarenghi e Anna Elisa De Gregorio, chiude Renato Minore; si passa alla sezione “Idee di carta” per CapoVersi di Bompiani Gerardo Masuccio e Paolo Maria Bonora, per la rivista NiedernGasse Paola Silvia Dolci intervistati da Mascolo; poi, per la letteratura e la scultura riferite alla poesia, rispettivamente Ersi Soriropoulos e Paola Grizi anch’esse intervistate da Mascolo, seguono 3 immagini sulle sculture della Grizi; ancora, inizia la sezione “Poesia sconfinata” con la britannica Jenny Mitchell, il belga German Droogenbroodt e il britannico Philip Morre, poi le americane al centro, da sin Nicole Sealey e Samiya Bashir, segue Nicole Sealey mentre legge le sue poesie, quindi, la svedese Eva Strom e l’americano Philip Schultz; il “clou” con i vincitori dei Premi Ritratti di Poesia Fondazione Terzo Pilastro, per il premio nazionale Paolo Valesio, per il premio internazionale la rumena Ana Blandiana; poi, l’anteprima al Concerto notturno, Emanuele accoglie Mogol e Mogol al microfono risponde sulla poesia; infine, immagini del concerto “Emozioni” con le canzoni di Lucio Battisti introdotte da Mogol, autore delle parole, nella prima il cantante Carroccia nell’esecuzione di “Pensieri e parole”, nella seconda Mogol sl centro ceso in platea abbraccia Emanuele, in fondo il chirurgo Massimo Mazzetti in piedi applaude; in chiusura, particolare del palco con parte dell’orchestra di 16 elementi e il cantante Gianmarco Carroccia, a dx.

“Emozioni”, particolare del palco con parte dell’orchestra
di 16 elementi e il cantante Gianmarco Carroccia, a dx

Fotografi e pittori, 3. I “magnifici 7”, tra l’800 e i primi del ‘900

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Home > Mostre > Roma. 7 grandi fotografi (’800 – primi ‘900) nel libro di Marina Miraglia

Il libro “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia inquadra l’evoluzione della fotografia dall’800 al ‘900 nel rapporto tra regola e creatività su cui si basava la distinzione dei generi tra “alti” e “bassi” cancellata anche per l’opera dei grandi fotografi dell’800-primi ‘900, cui sono dedicati 7 saggi del libro, come declinazione pratica del quadro teorico iniziale e dell’approfondimento su paesaggio e impressionismo, temi già da noi trattati in precedenza. Ora concludiamo con i 7 grandi fotografi considerati isolatamente, come altrettanti fotogrammi dell’ampio lungometraggio presentato nel libro.

Federico Faruffini, “Il rimprovero”, 1868

In pieno ‘800: Faruffini e Julia Cameron

Si inizia con Federico Faruffni (1833-69), pittore che si dedicò poco all’attività fotografica ma lasciò il segno. Rimangono poche foto di vita familiare tra il 1868 e il 1869, l’anno della sua tragica fine, tuttavia la sua visione fotografica la vediamo nella pittura dove la trasferiva con l’uso del controluce; anzi forzava molto il luminismo come avveniva per l’effetto chimico della fotografia di allora, tanto da essere messo in guardia da questi eccessi per non cadere nel manierismo.

Era l’epoca in cui la fotografia costituiva mero supporto della pittura fornendo la base oggettiva su cui si sarebbe esercitato l’estro soggettivo del pittore. Però l’attrazione che aveva Faruffini per il contrasto di chiaro e scuro portava a un risultato così descritto dalla Miraglia: “La risposta alla richiesta di mimesi che era alla base della fortuna della fotografia, veniva infatti negata dalla forte interpretazione chiaroscurale che Faruffini imprimeva alle proprie fotografie, limitandone l’utilizzo da parte dei pittori contemporanei cui, nelle intenzioni dell’autore erano destinate”

Federico Faruffini, “Studio di modella in costume (Ritratto della moglie in giardino)”, 1868-69

Su questo paradosso scrisse a Pio Joris: “Purtroppo anche la fotografia non va, caro amico. L’altro giorno al Caffè Greco , Simonetti diceva a qualcuno che tu consoci bene ch’io taglio le fotografie troppo da pittore e all’artista non rimane da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo molto bene”. Parole eloquenti, aveva capito le potenzialità della fotografia nel superare l’effetto solo mimetico per entrare nella sfera estetica, quindi artistica; e questo con l’uso accorto della luce e la scelta compositiva che per lui era di una semplificazione estrema, senza il superfluo.

E’ con Julia Margaret Cameron (1815-79), comunque, che si compie un progresso decisivo con anticipazioni del Postmoderno, nell’abbinare al realismo rappresentativo e per se stesso oggettivo, nuove sollecitazioni di segno molto diverso che portano ad una spiccata soggettività. Lo strumento di questo balzo in avanti fu il “soft focus”, immagine soffusa e sfumata molto meno aderente alle cose osservate dell’allora imperante “scharf focus”, “nitido e tagliente nella resa referenziale”. Quest’ultimo si avvaleva di una “scrupolosa messa a fuoco, sostenuta dall’uso di obiettivi ‘normali’ più di altri in grado di sottolineare la stretta parentela rappresentativa tra meccanismi ottici della fotografia e selezione dello spazio, tipico della tradizione rinascimentale italiana”.

Julia Margaret Cameron, “The Parting of Sir Lancelot
and Queen Guinevere”, 1874

Il suo “soft focus” la Cameron lo spiegò così nel 1927: “Quando, durante il procedimento di messa a fuoco, io giungo a un qualcosa che agli occhi miei era bello, lì mi fermavo, invece di insistere con l’obbiettivo per una messa a fuoco più precisa, come fanno gli altri fotografi”. In questo modo si allontana dalla visione tradizionale di tipo mimetico e rappresentativo “come specchio del reale” data dallo“scharf focus” e si ispira a un principio proprio dell’arte fino ad allora non adottato nella fotografia: “Che sia l’idea, tipica di tutte le esperienze estetiche, a svolgere la funzione fondamentale di inglobare e rendere visibile, nel referente preso a modello, le verità iconiche e simboliche che l’autore vuole significare”.

Icona e simbolo prima riservati solo alla pittura si aggiungono ai “valori indexicali”, gli unici riconosciuto alla fotografia, coniugando l’“invenzione”, intesa come osservazione diretta di ciò che si trova nella realtà con l’“immaginazione” che può “manipolare a suo piacimento i dati dell’esperienza sensoriale”. Di qui chiaroscuri intensi con luminescenze sfumate alla Rembrandt, inquadrature strette, volti più che figure intere per concentrarsi sugli occhi e lo sguardo espressione dei sentimenti interni e non dell’esteriorità.

Julia Margaret Cameron, The Passy of Arthur , 1874

Ai confini del ‘900: Morelli e Pellizza da Volpedo

Con Domenico Morelli (1826-1901) la fotografia viene utilizzata come modello e strumento della propria attività di pittore e anche come veicolo di diffusione delle proprie opere sviluppando la funzione documentativa della fotografia manifestatasi fin dai primi dagherrotipi. Sotto il primo aspetto va oltre l’esperienza di Faruffini, costruendo composizioni fotografiche preparatorie del dipinto pittorico che aggiungono due funzioni a quella di consentire di mantenersi aderenti al vero: “la possibilità di previsualizzare il quadro, contemporaneamente ponendo a fuoco i punti di massima incidenza della luce e gli effetti che ne derivano nello spazio e sulla resa volumetrica delle singole figure che su di esso si dislocano”.

Non operava isolato, c’era uno scambio di fotografie e incisioni, la conoscenza delle più importanti produzioni fotografiche anche attraverso la partecipazione alle mostre; considerava la fotografia come possibile spunto, insieme ad elementi di tipo letterario o storico, per far scattare l’idea pittorica. Il rapporto con la realtà è mediato dalla fotografia con i contrasti chiaroscurali e le masse cromatiche contrapposte nonché con “la cattura dell’istante”. Fu promotore della “revisione del dipinto di storia” che investì, “con l’aiuto della fotografia, l’intero campo dell’arte, sconvolgendo la piramide gerarchica dei generi e ponendoli tutti su un medesimo piano di giudizio”.

Domenico Morelli, “Studio per gli Ossessi”, 1875

Del tutto particolare il rapporto con la fotografia di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), perché “nega la mimesi”e, sebbene attirato dal mezzo, non gli interessa dal punto di vista tecnico né lo padroneggia; tuttavia nel suo archivio fotografico sono stati trovati persino negativi da lui stampati e montati su cartoncini, che con quelli stampati da altri mostrano “straordinarie capacità di memorizzazione e di messa a punto di un’emozione, di previsualizzazione dell’immagine e della sua composizione”, e nello specifico fotografico “un’eccezionale capacità di cogliere la qualità della luce e delle sue sfumature”.

In questo rapporto, più spesso mediato e non diretto con il mezzo meccanico, si possono istituire “continui e determinati parallelismi, referenziali e di dialettica linguistica, tra la fotografia e alcuni suoi dipinti”. In particolare. come ha sottolineato Aurora Scotti nel 1981, la fotografia lo ha aiutato a superare nei suoi principali dipinti – tra i quali il celeberrimo e altamente simbolico “Quarto Stato” – la tradizione rappresentativa convenzionale, in un “progressivo ribaltamento della rappresentazione dal piano della oggettività alla sfera della soggettività, o, meglio, dell’idealità soggettiva, con effetti particolari e voluti di luce o di colore”.

Domenico Morelli, “La sultana torna dal bagno”, 1877-83

Viene citato l’iter creativo di “Il ponte” preparato da molte fotografie non sue ma di Fausto Bellagamba che tra le figure umane riprende la famiglia del pittore, cui seguono bozzetti e schizzi sul “dato naturale, già ricondotto nelle dimensioni bidimensionali della ripresa fotografica”; in questo modo l’artista dalla visione realistica e oggettiva di un momento di vita passa “alla proiezione sulla tela di concetti e sentimenti, ottenendo una realtà ideale”. Nella recente mostra alla Gnam “L’arte dopo la fotografia, 1850-2000” abbiamo visto la serie dei grandi bozzetti preparatori del “Quarto Stato” comprese delle fotografie di assembramenti popolari presi a modello.

A cavallo tra il Realismo e il Simbolismo, Pellizza quando legge il reale con l’aiuto della fotografia “crea poi, come i fotografi a lui contemporanei, realtà diverse e ideali, che vanno, implicitamente e apoditticamente, molto al di là della realtà oggettuale”. In questo li aiuta l’uso dello “sfocato” del “soft focus”, in grado di dare, con la visione realistica dell’oggetto, “i sentimenti e le emozioni che esso può suscitare e che il fotografo vuole esprimere”; processo naturale, del resto, dato che lo stesso occhio mette a fuoco solo ciò che si osserva direttamente lasciando il resto “sfuocato e indefinito, sia nella profondità dello spazio, sia nella visione laterale”, come osservava Emerson già dal 1889. Per Marina Miraglia, “la fotografia si inserisce nell’iter creativo di Pellizza come elemento imprescindibile di una precisa metodologia di indagine e di lavoro, insieme legata all’istanza realistica e al suo superamento” al fine di “creare, o contribuire a creare, nuovi linguaggi pittorici”.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, “La piazza di Volpedo in giorno di fiera”, 1890

In definitiva, “la tecnologia del mezzo meccanico, ma soprattutto la sua capacità di porsi fra verità ed emozione, sono individuate come punto nevralgico su cui poggiare la tensione simbolista, senza per questo rinunziare al realismo e all’imitazione”. Non pedissequa, considerando le differenze anche profonde nei lineamenti dei ritratti pittorici rispetto agli omologhi fotografici perchè i soggetti “studiati nella fotografia, sono poi profondamente modificati e idealizzati sulla tela”.

Si entra nel ‘900: Michetti, Sartorio, Gloeden 

Si entra nel ‘900 con Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che iniziò a dedicarsi anche alla fotografia, oltre che alla pittura sin dal 1871, colpito dalla sua capacità di cogliere “aspetti del reale non percepibili dall’occhio umano e, soprattutto, di prescindere dalla linea di contorno “, considerando che “il mondo, lo spettacolo della natura, delle cose, degli animali, e degli uomini, appaiono infatti ai nostri occhi come un insieme di macchie cromatiche più o meno luminose che sembrano sfuggire all’ordine razionale e prospettico dello spazio quattrocentesco”.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Doppia veduta della vasca di Rosano”, 1900-1905

Infatti la sua pittura era bidimensionale, e le sue figure – scriveva Francesco Netti – “tutte pare che stiano sullo stesso piano, qualmente chiare e dipinte a fior di tela. Manca l’avanti indietro, come dicono i pittori”. Ed esprimevano il realismo nel suo mondo di soggetti naturalistici e popolari, presi dalla realtà della sua terra, l’Abruzzo del mondo agricolo-pastorale e delle tradizioni e miti arcaici immortalato anche nelle sue fotografie, spesso in sequenza per cogliere il movimento. Rifuggiva dalla figura “stante” perché “la fotografia e soprattutto il suo istantaneismo, lungi dal costituire per Michetti un ripiego di comodo, rispondono a una profonda ‘esigenza del modo di intuire la figura e, in essa, di esprimersi’”, secondo la definizione di Delogu del 1966. Di qui i suoi “tagli” per cogliere l’azione nel suo svolgersi temporale, le immagini seriali, l’uso del primo piano e del campo lungo; inoltre i soggetti perfettamente a fuoco e fermi con gli elementi di sfondo mossi per dare il senso del movimento.

Francesco Paolo Michetti, “In attesa della benedizione”, 1895-900

Un rapporto continuo tra fotografia e pittura, l’impiego della“tridimensionalità virtuale della fotografia”, tra i passaggi intermedi “per giungere alla bidimensionalità trasfiguratrice del quadro, in una perenne verifica le cui fasi venivano scrupolosamente documentate e catalogate, non certo per ottusa pignoleria, ma per definire la traccia di un  metodo che dalla ricerca e dallo studio del vero,  giungeva fino alla formulazione dell’immagine”.

Per Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), illustratore e pittore, la fotografia assunse presto il ruolo di “primo e ideale tramite di conoscenza per accedere al vero, al di là di ogni mediazione della ragione o della cultura, spontaneamente e naturalmente, inserendola nell’iter della creazione artistica come elemento imprescindibile di lavoro”. Ciò si riscontra nei suoi dipinti paesaggistici, sui quali scriveva nel 1922: “L’arte del paesaggio non è una pedestre copia del vero, ma un’intelligente ricerca del vero, di quanto ha commosso l’autore in un determinato momento”; e nella “pittura guerresca” nella quale esprime ugualmente i sentimenti provati, questa volta nella vicenda bellica alla quale aveva partecipato da soldato dove emergeva nella sua tragicità il dramma umano, come si vede nei 61 quadri con questi soggetti.

Francesco Paolo Michetti, “Modella in posa per le serpi (Cecilia)” 1900

Alla base c’è la fotografia, prima immagini di altri, tra cui Michetti e Primoli, in particolare nei “tableaux vivant”, iconografie costruite nella realtà e fissate con la fotocamera; poi fotografie riprese da lui stesso, come gli scatti di guerra quelle sui campi di battaglia. Quando la fotografia di base sarà sua, apporterà poche modifiche nella pittura, in quanto ha già composto l’immagine riprendendola secondo la propria visione; infatti non utilizza solo la resa naturalistica ma tutte le possibilità che offre,  come l’ingrandimento del soggetto, l’intervento sulle tonalità di chiaro e scuro, la proiezione in angoli inconsueti, come dall’alto per togliere l’identificazione personale ai soggetti  e dare loro il valore di metafora, come per le scene di guerra rese nei particolari realistici che per la loro drammaticità “costituiscono infatti un’innegabile e forte simbologia dell’orrore”.

Lo stretto rapporto tra fotografia e pittura porta “il movimento come motore e protagonista dell’opera sartoriana” con un salto di qualità rispetto alla precedente tendenza classica verso forme espressioniste, sulle quali Bruno Mantura nel 1989 ha scritto che sono state “recepite tramite il fedele, l’iperfedele sguardo della macchina fotografica sulla natura del movimento”.

Giulio Aristide Sartorio, “Studio di donna con bambino”, 1926

Ma il passaggio decisivo, tra l’800 e il ‘900, dalla “riproduzione” della realtà alla “produzione” creativa lo compie Wilhelm von Gloeden, il “barone di Taormina”, con i suoi nudi fotografici non realizzati in studio, bensì nel paesaggio siciliano “quali puntelli simbolici in grado di esprimere visivamente i contenuti del proprio mondo interiore”. La fotografia, come ha scritto Mollino nel 1949, mira “a far vedere come realtà dei nostri occhi, il frammento di un mondo quale l’abbiano sognato” e offre “il doppio registro dell’oggettività e, insieme, della più assoluta soggettività”; Gloeden diceva “di far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che egli aveva provato davanti alla natura”. Nel suo caso si tratta di un “difficile quanto instabile equilibrio fra una sorta di arcadia classicheggiante, rivisitata però in chiave simbolista, e un compiacimento carico di desiderio e di piacere nel guardare, nell’essere guardato e nell’esplorare se stesso e la propria diversità nel corpo fisico dei giovani efebi che mette in immagine”.

Giulio Aristide Sartorio, “La moglie dell’artista (Fregene)” , 1926

In tal modo, togliendo temporalità all’immagine, riesce a dare ad essa un sapore che evoca l’antichità greca e romana, “un paradiso perduto di sessualità, di bellezza e di libertà”, senza pregiudizi sull’amore nelle sue diverse espressioni. La luce “bianca, diafana e trasparente”, crea un’atmosfera metafisica, un clima magico in cui il soggetto è inserito perfettamente nel paesaggio. Barthes ha scritto nel 1978 che Gloeden, anticipando i postmoderni, ha unito “vero e verosimile, realismo e falso, un onirismo al contrario, più folle del più folle sogno”; e Lemagny nel 1988  lo ha ritenuto “il precursore di alcuni dei fotografi contemporanei più impegnati nella ricerca e nell’avanguardia”, in quanto per lui “la macchina fotografica e il suo obiettivo diventano uno strumento che recupera, per l’immaginario, tutta l’esattezza del reale”; e la fotografia “tutta intera fuori del sogno essa può ben essere considerata anche tutt’intera nel sogno se ci ricordiamo che per il nostro occhio interiore il tessuto della nostra realtà è il medesimo di quello dei nostri sogni”.

Si concludono così i nostri fotogrammi staccati dal lungometraggio del libro sui “magnifici 7” di Marina Miraglia, “flash”  indicativi di contenuti ben più profondi e articolati; e termina il nostro resoconto di un libro istruttivo, denso di analisi, notizie e citazioni, che offre tessere fondamentali per la costruzione del mosaico della fotografia nella sua evoluzione storica verso forme di vera arte

Wilhelm von Gloeden,“Ritratto di ragazzo con flauto” ,1900

Info

Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità“, Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22; dal libro sono tratte le citazioni del testo; l’inquadramento teorico generale e l’approfondimento su paesaggio e impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura sono stati oggetto di due nostri precedenti articoli su questa rivista “on line”. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i primi 2 articoli sono usciti, in questo sito, il 10 e 15 febbraio 2020. Cfr. inoltre i nostri 3 articoli su “Fotografia e Arte” , in fotografia.guidaconsumatore.com nell’aprile 2012 ripubblicati, anch’essi in questo sito, il 26, 27, 28 dicembre 2019, il primo dei quali preceduto da un’introduzione sui motivi della ripubblicazione.

Foto

Le immagini originarie, la n. 1 e 3 sono tratte dal libro citato di Marina Miraglia. Aggiornamento: in sede di ripubblicazione ne sono state inserite altre otto: sei tratte dal Catalogo della mostra, “Arte in Italia dopo la fotografia, 1650-2000”, Electa 3011, parallela al libro della Miraglia, le n. 2, 5, da 7 a 10, si ringrazia l’editore; due dai siti web di pubblico dominio, la n. 4 da dailyartmagazine.com, la n. 6 da artribune.com, si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta, precisando che l’inserimento è a mero titolo illustrativo senza alcun interesse di natura economica o pubblicitaria e si provvederà all’eliminazione su loro semplice richiesta. Per ognuno dei “magnifici 7” sono riportate due opere, nell’ordine di citazione degli artisti. In apertura, Federico Faruffini, “Il rimprovero” 1868, seguito da “Studio di modella in costume (Ritratto della moglie in giardino)” 1868-69; poi, Julia Margaret Cameron, “The Parting of Sir Lancelot and Queen Guinevere” e The Passy of Arthur , 1874; quindi, Domenico Morelli, “Studio per gli Ossessi” 1875, e “La sultana torna dal bagno” 1877-83; inoltre, Giuseppe Pellizza da Volpedo, “La piazza di Volpedo in giorno di fiera” 1890, e “Doppia veduta della vasca di Rosano” 1900-1905; ancora, Francesco Paolo Michetti, “In attesa della benedizione” 1895-900, e “Modella in posa per le serpi (Cecilia)” 1900; continua, Giulio Aristide Sartorio, “Studio di donna con bambino”, e “La moglie dell’artista (Fregene), 1926; infine, Wilhelm von Gloeden, “Ritratto di ragazzo con flauto” 1900, e “Ritratto di ragazza” 1900-1910.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 7 maggio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Wilhelm von Gloeden, “Ritratto di ragazza” 1900-1910.

Fotografi e pittori, 2. Paesaggio e impressionismo

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Guide > Libri > Paesaggio e impressionismo di fotografi e pittori nel libro di Marina Miraglia

Inquadrata l’evoluzione della fotografia dall’800 al ‘900 nel rapporto tra regola e creatività rispetto ai vari generi – come abbiamo riassunto in precedenza – il libro “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia, approfondisce il tema del paesaggio e dell’impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura, in due densi capitoli, ai quali se ne aggiungono sette su alcuni fotografi dell’800-primi del ‘900. Dopo avere dato conto di recente della parte teorica, lo facciamo ora per i due temi sopra citati rinviando al prossimo articolo i flash che isolano come dei fotogrammi alcuni tratti dei 7 fotografi.

Domenico Bresolin, Padova 1813-99

Il paesaggio dell’Ottocento tra fotografia e pittura

Il paesaggio è il crocevia nel quale convergono fotografia e pittura alla ricerca di una nuova “sintassi rappresentativa” che faccia andare oltre i “codici della tradizione” per il superamento dei generi fino alla nascita del “paesaggio pittorico in chiave moderna”.

Si inizia con il “vedutismo” di matrice settecentesca, derivato dalla “camera ottica” del veneziano Canaletto con il dettaglio di tutti gli elementi in una composizione convergente su un punto definito secondo le leggi della prospettiva rinascimentale, con la “coincidenza illusionista di reale e immagine”. Gli “études après nature”, che rilevavano la realtà, precedevano l’elaborazione pittorica in studio in base alla “soggettività artistica e interpretativa dell’’immaginazione’”.

Ci si allontanava dal realismo per il “paesaggio ideale” ispirato ai paesaggi classici studiati dal vero; viene ricordato l’uso della fotografia da parte dei pittori per la resa del vero e il contrasto chiaroscurale, e dello “specchio nero”, o “specchio di Claude” dal primo utilizzatore Lorrain nel ‘600, per rettificare gli effetti luminosi anche nella seconda metà dell’800, uniformandoli in un’atmosfera atemporale “idealizzante, perfettamente corrispondente ai propri ideali estetici”.

Giacomo Caneva, Padova 1813-65

Nel 4° decennio del secolo, sul paesaggio è ancora dominante la pittura finché la fotografia non modifica lo stesso approccio del vedutismo veneto, con Domenico Bresolin, che alle ampie vedute accademiche sostituisce soggetti naturalistici poveri e dimessi. Si trattava, del resto, di un retaggio dell’illuminismo che nella sua ricerca positiva di “restituzione fedele del reale” faceva apprezzare la fotografia come opera di un mezzo meccanico con basi scientifiche legate all’ottica e alla chimica; mentre la tecnica con la calotipia/cartasalata “incominciò a rivelare la natura non solo meccanica, ma anche testimoniale, iconica e simbolica, decisamente autoriale della fotografia”.

Nel decennio 1847-57 si valorizzano gli “elementi linguistici” della fotografia, che secondo i tempi lunghi di ripresa e la diversa sensibilità dei prodotti chimici, davano immagini dai contorni sfumati, in una luminosità diffusa per cui le forme risaltavano nel contrasto chiaroscurale con lo sfondo. Sono rilevanti al riguardo gli “études après nature” realizzati “en plein air” da molti autori.

A questo punto la palestra delle sperimentazioni e il palcoscenico dei risultati diventano la Campagna romana e il Golfo di Napoli con le sue isole, per la luce cristallina, la natura rigogliosa e, per Roma, la presenza dei ruderi dell’antichità classica. Alle ampie prospettive vedutistiche si sostituiscono inquadrature ristrette che diano una visione realistica del vero nell’ambiente naturale.

Carlo Baldassarre Simelli, Terni 1811-85

Corot iniziò a dipingere “en plein air” in modo di percepire il vero con immediatezza captando nella pittura la luce e la meteorologia “di un determinato momento, scelto, per la sua qualità, quale momento epifanico dell’emozione”. La fotografia lo faceva già, rivoluzionando il concetto di “paesaggio ideale” e fissando “gli aspetti di una quotidianità casuale e contingente, effimera e discontinua, meteorologicamente variegata, colta nell’irripetibile particolarità percettiva di un attimo fuggente”. In particolare la calotipia, nella variante definita “The Roman Process”, con il minore contrasto e la maggiore latitudine di posa dava una maggiore gamma di chiaroscuro e di sfumature, compensando la luminosità con un’aderenza al vero apprezzata da Caneva, nel 1855.

Una tecnica molto adatta per valorizzare le riprese romane con il paesaggio naturale “considerato anche come skyline di vedute urbane o, ancora, come ambiente selvaggio e di incontaminata bellezza in cui, secondo un gusto ancora romantico, emergono isolati, misteriosi e silenti i resti dell’antica Roma”. Tra i fotografi,Caneva e Simelli con la natura fatta di alberi che si riflettono sui fiumi e i laghi e le fotografie “di paesaggio” che inseriscono case e steccati con lo sfondo dei monti.

Il segno della fotografia si ritrova in molte opere pittoriche perché gli artisti tornavano dal viaggio di formazione a Roma con le immagini fotografiche dei luoghi poi puntualmente dipinte. Era un ausilio decisivo sia per i quadri sulla natura che per quelli sulla figura umana, i costumi popolari, gli animali e le abitazioni, cui si rivolgevano gli scatti di Caneva e Sinelli, appena citati, e di tanti altri.

Gustave Le Gray, Villers-le-Bel Francia 1820-84

“L’unità degli elementi paesaggistici sottesa a un così vasto e articolato insieme di immagini – sottolinea la Miraglia –  che inizialmente era risultato di particolare pertinenza formativa per i pittori romantici, continua, anzi rafforza la propria ragion d’essere nella seconda metà dell’Ottocento quando il realismo, la pittura macchiaiola e l’Impressionismo, porranno i propri occhi sulla continuità ininterrotta del mondo, sul carattere episodico della vita quotidiana, sulla contingenza effimera dei suoi accadimenti”. Alla fine del secolo “le tensioni della pittura sociale, con il sostegno della fotografia istantanea, opereranno un’ulteriore fusione di figure e paesaggio”.

Una nuova “poetica del paesaggio”, ben diversa dal vedutismo e dalla “fotografia di paese” prende piede in Europa, anche per l’influsso della scuola di Barbison, culla degli impressionisti. In Italia il baricentro si sposta da Roma più a Sud nel Mezzogiorno, da Napoli alla Sicilia: quest’ultima per il suo carattere mediterraneo cui si univano i ruderi e i templi, i mosaici e l’antico, l’aspetto rustico e la solarità in cui veniva introdotta in modi anche particolari, come da Gloeden, la figura umana.

Ci sarebbe ancora molto da dire sul “paesaggio antropizzato” e sul “valore testimoniale della fotografia” nel trasmetterci i volti della gente del popolo e il lavoro nei vari mestieri attraverso “gesti ripetitivi quasi liturgici” in cui si fissa l’immagine di un tempo remoto che diventa storia; sul piano tecnico, c’era incompatibilità tra l’esposizione del cielo chiaro e della terra scura, troppo contrastanti, che Le Gray superò fotografando all’alba e al tramonto con il sole basso, i Fratelli Alinari con immagini solo del cielo, Altobelli con finti notturni ottenuti da due negativi sovrapposti.

Ancora le parole della Miraglia come conclusione tecnica ma non solo: “Il complesso delle problematiche qui presentate focalizza ancora una volta il potere della fotografia di indagare scientificamente la relazione che intercorre fra la realtà e suo apparire e di studiare il rapporto fra la luce totale del quadro e la luce delle singole figure in relazione alla loro definizione cromatica”.

Gioacchino Altobelli, Terni 1814-78

La fotografia e gli impressionisti 

Siamo nella seconda metà dell’’800, la società europea subisce un profondo rivolgimento con l’ascesa della borghesia, il radicarsi dell’industria e del capitalismo, a fronte del tramonto della nobiltà e dell’aristocrazia. La fotografia, già affermata, si rivela il mezzo più adeguato sia a trasmetterne i valori di concretezza e pragmatismo, sia a farne una celebrazione di tipo nuovo rispetto a quelle tradizionali.

Al posto delle rappresentazioni statuarie dell’anciéne regime, che nella fissità innaturale e nella “atemporalità” sancivano la perenne immutabilità del potere, la ritrattistica fotografica della classe borghese rappresenta gli esponenti della politica e dell’economia, della letteratura e dell’arte, nella spontaneità naturale di espressioni e gesti colti nella “quotidianità effimera dell’attimo fuggente”.

Nei ritratti la fotografia si sostituisce alla pittura e alla miniatura per “l’inedita possibilità di catturare l’attimo fuggente con una felicità e una fedeltà precluse al più abile pennello e giustamente ritenute caratteristiche rappresentative irrinunciabili” rispetto “al carattere imprenditoriale e all’attiviamo individuale e collettivo della borghesia”; cerca di superarsi non limitandosi alla fedeltà riproduttiva ma esprimendo le sensazioni provate al momento dello scatto che pur nell’istantaneismo implicava lunghi tempi di esposizione e la scelta delle angolature.

Viene costituita la Società Française de Photographie, cui aderiscono anche pittori come Delacroixnel 1855, anno in cui la fotografia è all’Esposizione Universale e viene ritenuta interprete dell’esprit humaine” da Jules Zuiegler, pittore e fotografo; la macchina fotografica è considerata da Durieu non un semplice congegno ottico che agisce meccanicamente, ma “uno strumento che il fotografo può dirigere e controllare secondo la propria sensibilità personale”, per cui il suo uso, anche se è un mezzo tecnico, può portare ad opere “aperte ai valori soggettivi” . Francis Wey aveva detto nel 1851 che con la “calcotipia l’apparecchio fotografico si fosse quasi dotato d’intelligenza” in modo da “interpretare la natura e accompagnare alla semplice riproduzione l’espressione del sentimento”.

Nadar, Parigi 1820-1910

La nuova temperie culturale dà alla fotografia la superiorità di “afferrare e fissare, sospendendolo dal continuum dello spazio e del tempo, ciò che circa un secolo dopo Walter Benjamin avrebbe definito l’hic et nunc della fotografia, “realizzare cioè, meccanicamente, il calco e il prelievo indexicale di una data cosa in un determinato momento”. Marina Miraglia ne parla come di una “rivoluzione tale da poter essere definita copernicana” in quanto permette di cogliere con assoluto realismo “la verità visiva e transeunte di particolari situazioni atmosferiche” – e cita le fronde che stormiscono, i corsi d’acqua nel loro fluire, le nuvole che si spostano – oltre che di fissare corpi umani e animali, cose e oggetti “in un determinato movimento e in qualsiasi spazio essi si trovino”.

E’ lo spirito dell’Impressionismo pittorico, non a caso il grande fotografo Nadar, al secolo Felix Tournachon, antesignano del ritratto moderno – che nelle individualità scolpiva l’appartenenza all’élite intellettuale – ospitò nel suo atelier la prima mostra degli impressionisti. Ricordiamo che nella mostra del 2010 al Vittoriano “Da Corot a Monet la sinfonia della natura”, oltre agli straordinari dipinti degli impressionisti, era esposta una vasta serie di fotografie e acqueforti dell’ambiente naturale, selvaggio e niente affatto idilliaco, con valorizzato l’intervento umano.

Manet utilizza le fotografie di Nadar a Baudelaire per il dipinto sul grande personaggio, e quelle dell’imperatore Massimiliano per il famoso quadro sulla sua fucilazione. Degas è attratto dalla fotografia fin dal 1855 – approderà ad una autonoma attività fotografica:nel 1985 – e vi fa ricorso anche per l’inserimento della figura umana nello spazio urbano oltre che per il suo tema preferito “non per catturare e congelare il movimento, ma per esprimerne l’impressione fugace, sfruttando le caratteristiche del fantasma fotografico e la suggestione offerta dalle diverse pose delle ballerine che avevano posato per Disderi”; il fantasma fotografico era la traduzione del movimento nel lungo tempo di posa in una scia dai contorni sfumati che attirava gli impressionisti.

Eugène Delacroix, Saint-Maurice Francia 1798-1863

Li attirava anche, della fotografia, non la riproduzione del reale, ma l’esercizio visivo che volendo penetrare la verità delle cose, faceva cogliere intanto “non ciò che è ma ciò che vedono come impressione rivelatrice di un particolare momento e di una situazione specifica”. E i loro colori piatti affiancati senza disegnare i contorni corrispondevano al procedimento fotografico di allora che dava immagini indefinite, anche al di là della scia del fantasma fotografico, a causa dell’uso di carte salate e di prodotti chimici con sensibilità diverse rispetto al vari colori dello spettro solare.

Si sposta l’attenzione “dalla verità delle cose alla verità della visione” secondo l’assunto di Delacroix e di Le Gray che parlavano di “maggior contrasto, maggiore splendore”. A questo riguardo la fotografia con le sue imperfezioni chimiche ed ottiche non è una mera riproduzione automatica; mentre diventa addirittura più veritiera della vista perché se “l’occhio corregge a nostra insaputa le infauste inesattezze di una prospettiva rigorosa, l’imparzialità meccanica della camera e la sua prospettiva matematicamente ineccepibile avrebbero potuto dischiudere una nuova visione del mondo” soprattutto “per le inedite modalità di taglio suggerite dalla fotografia rispetto a quelle canoniche e tradizionali”.

Lo pensava Delacroix, che ricorse largamente alla fotografia – senza nasconderlo a differenza di molti pittori – oltre che come modello, anche per la percezione visiva, “la resa della luce/ombra, la definizione dei volumi e la profondità tridimensionale dello spazio”. Per la parte cromatica era noto che “due colori adiacenti vengono percepiti dall’occhio in modo diverso da come sono realmente”, visti uno per volta su un fondo neutro. Ma era proprio “l’impressione” trasmessa dalla realtà materia della loro ricerca pittorica, e con gli elementi oggettivi forniti dalla fotografia portava a una precisa conclusione: “Il principio che sia l’idea pittorica a costituire l’essenza dell’arte che, facendo leva sulla creatività, erode l’ontologia referenziale, per dar luogo a realtà iconiche che vivono sulla tela”.

Edgar Degas, Parigi 1834-1917

Si tratta di realtà che per l’ “occhio vergine” degli impressionisti, come per la fotografia di allora in certe condizioni, erano sfumate e spesso indefinite, delle volte con “i primi piani come lontani e i lontani come vicini, perfettamente definiti nella loro ‘messa a fuoco’”. Venivano fissate delle “impressioni”, cioè “emozioni particolari e transeunti, colte nell’irripetibile momento di un attimo fuggente” dall’artista suggestionato non solo da certe situazioni e da determinati movimenti, “ma anche dallo scorrere del tempo e dal cambiamento della luce nelle diverse ore del giorno o nel passare delle stagioni”. Esemplari al riguardo opere di Monet quali soprattutto la celebre serie di dipinti sulla “Cattedrale di Rouen” nelle più diverse condizioni climatiche e atmosferiche, di luminosità e cronologiche dall’alba al tramonto e sulle “Ninfee” all’alternarsi delle stagioni.

Chiude il cerchio la conclusione di Marina Miraglia: “Nel decennio compreso fra il 1880 e il 1890, la fotografia andava sempre più accelerando la crisi naturalistica della pittura e il suo allontanamento dalla rappresentazione del reale, aprendola e avviandola verso i problemi della forma, della forma-colore e dei loro significati astratti, in un precipitare senza ritorno verso la rottura finale del Modernismo e dell’arte contemporanea”. Un grande cammino è stato percorso, il libro dal quale abbiamo tratto argomenti e citazioni ripercorre l’itinerario anche attraverso la storia di 7 fotografi dell’800-primi ‘900. Di questi “magnifici 7” daremo  rapidi “flash” prossimamente.

Edouard Manet, Parigi 1832-83

Info

Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità“, Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22. L’immagine di apertura riproduce la fotografia “stampa al sale da negativo su carta” di Gustave Le Gray, “Crocevia nella foresta, Fontainebleau”, 1852, New York. Hans P. Kraus, Jr; è tratta dal Catalogo Skirà a cura di Stephen F. Eisenman, “Da Corot a Monet la sinfonia della natura, si ringrazia l’editore Skirà con i titolari dei diritti. Dal libro della Miraglia sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; l’inquadramento teorico generale è stato oggetto di un nostro precedente articolo su questa rivista ”on line”, seguirà il terzo e ultimo articolo sui “magnifici 7” fotografi-pittori. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, il primo articolo, con un’introduzione sui motivi dell’iniziativa, è uscito in questo sito il 10 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 20 febbraio 2010. Cfr. inoltre i nostri 3 precedenti articoli su “Fotografia e Arte” , usciti in fotografia.guidaconsumatore.com nell’aprile 2012 ripubblicati, anch’essi in questo sito, il 26, 27, 28 dicembre. In merito agli artisti citati, cfr. i nostri articoli su Degas, Manet, Monet e gli Impressionisti, in www.arteculturaoggi.com il 12, 18, 27 gennaio, 5 febbraio 2015; in cultura.inabruzzo.it il 27, 29 giugno 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le prime 3 immagini sono tratte dal Catalogo della mostra “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, Electa 2011, Editore che si ringrazia; le altre 7 immagini sono state aggiunte in sede di ripubblicazione, tratte da siti web di pubblico dominio precisando che l’inserimento è a mero titolo illustrativo senza alcun interesse di natura economica o pubblicitaria e si provvederà all’eliminazione su semplice richiesta dei titolari dei siti, che si ringraziano per l’opportunità offerta. I siti sono i seguenti, nell’ordine di successione delle relative immagini: 4. giornalepop.it, 5. zankyou.it, 6. thewalkman.it, 7. stilearte.it, 8. libreriamo.it, 9. analisidellopera,it, 10. roma-eventi.it. Viene indicato il nome dell’autore dell’opera, dove è nato e il periodo in cui è vissuto, le immagini sono riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati. In apertura, opera di Domenico Bresolin, Padova 1813-99; seguono, opere di Giacomo Caneva, Padova 1813-65, e Carlo Baldassarre Simelli, Terni 1811-85; poi, opere di Gustave Le Gray, Villers-le-Bel Francia 1820-84, e Gioacchino Altobelli, Terni 1814-78; quindi, opere di Nadar, Parigi 1820-1910, e Eugène Delacroix, Saint-Maurice Francia 1798-1863; inoltre, opere di Edgar Degas, Parigi 1834-1917ed Edouard Manet, Parigi 1832-83; in chiusura, opera di Claude Monet. Parigi 1840-1926.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 25 aprile 2012 – E mail levante@guidaconsumatore.com

Claude Monet. Parigi 1840-1926

Fotografi e pittori, 1. La loro modernità nel libro di Marina Miraglia del 2012

di Romano Maria Levante

Copertina del libro di Marina Miraglia

E’ il secondo servizio sul rapporto tra fotografia e arte che ripubblichiamo ad oltre 7 anni dalla  prima uscita nel 2012 nella rivista “on line” fotografia.guidaconsumatore.it, non più raggiungibile. Viene dopo  il servizio sulla mostra alla Gnam “Arte in Italia dopo la fotografia”,  e si  basa sul libro di Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” “ pubblicato nel 2012, negli stessi mesi  della mostra. Questa nuova pubblicazione dei due servizi in 3 articoli ciascuno è stata originata dall’interesse mostrato al  tema da un artista, ne abbiamo  parlato nell’introduzione al precedente servizio,  riportiamo di seguito la nostra motivazione testualmente. “  L’artista  Massimo Omnis ha voluto augurare Buone Feste ai suoi   “followers” di Facebook  con  una sconfinata galleria di  immagini delle  sue molteplici opere soprattutto pittoriche, ma pure scultoree e non solo,  comprese   fotografie evocative, si  assiste anche al momento creativo fino alla fase espositiva; sono oltre 250 immagini, tutte da vedere e gustare nel loro intenso cromatismo e nella loro intrigante figurazione di forme e  contenuti . E’ una vera innovazione, una grande  mostra nel social network,  dall’eccezionale varietà compositiva e maestria  artistica. Nella mostra del 2014 a Roma abbiamo potuto vedere da vicino le sue opere  di allora, in testa la spettacolare installazione “Il V Stato”, e le abbiamo commentate  nel  sito www.arteculturaoggi.com con un articolo reperibile alla data del 14 aprile 2014; le immagini attuali  aggiornano la galleria di cinque anni fa  con nuove ardite  esplorazioni e sperimentazioni unite a  rassicuranti conferme. Per avere un’idea della forza creativa dell’artista basta rileggere le parole che ci ha rivolto su Facebook  il 24 dicembre scorso: “Non è facile tracciarsi una strada propria nel mondo dell’arte.  Io in tanti anni di arte a 360° ho cercato di creare bellezza ed emozioni. Non so se ci sia riuscito.  Continuo a credere che questa sia la strada giusta.  Non c’è giorno che io NON senta un qualcosa che mi spinge a creare… creare un qualcosa che non esiste ancora. Ecco, quando mi chiedono cos’è un artista, io rispondo sempre ‘ un artista  è colui che crea una cosa che non esiste ancora’”.  Nei giorni precedenti ci aveva scritto, sempre su Facebook, che  sarebbe stato interessante approfondire e rendere noto ai nostri  lettori  il rapporto tra fotografia e pittura; anche perché nella  sua mostra virtuale su Facebook in molte immagini le due arti sono abbinate,  viene fotografato  davanti a un suo quadro o mentre lo completa, o in altri momenti della creazione, in composizioni che spesso  le  vedono compresenti   Stimolati dalla sua osservazione e dal suo interesse abbiamo pensato di ripubblicare  i nostri  due servizi  in 3 articoli ciascuno, in cui   vengono sviscerati i rapporti tra le due arti fin dalle origini, con gli  artisti-fotografi pionieri.    E’ un nostro omaggio all’inizio del Nuovo Anno per ricambiare il  regalo natalizio che ha fatto a tutti noi l’artista Massimo Omnis con la mostra virtuale su Facebook,  donandoci  ritratti coinvolgenti che restano dentro e paesaggi  che suscitano emozioni, come la profondità del mare e le immagini che evoca con il viso femminile che ci ha riportati alla incantevole figura della ‘Leggenda del pianista sull’oceano,  il  film di Tornatore al quale siamo  particolarmente affezionati”.  Segue il 1° articolo del servizio sul libro di Marina Miraglia,  poi  in successione gli altri  due articoli con i quali si completa  la nostra ripubblicazione dei 6 articoli che restano pienamente attuali.

William Henry Fox Talbot, Dorset Inghilterra, 1800-1877

Fotografi e pittori, 1. La loro modernità nel libro di Marina Miraglia

fotografia.guidaconsumatore.it – Guide > Libri > Roma. La fotografia e la modernità in un libro di Marina Miraglia

Non è un libro come gli altri “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia. E’ stato presentato il 14 marzo 2012 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, da Carlo Sisi, presidente del Museo Marino Marini di Firenze e da Monica Maffioli, direttore scientifico Fratelli Alinari, Fondazione per la Storia della Fotografia, Firenze. Ha introdotto la soprintendente della Galleria Nazionale Maria Vittoria Marini Clarelli, che aveva curato di recente la grande mostra “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, nella stessa Gnam, di cui abbiamo già parlato.

La particolarità del libro non sta solo nei titoli di eccellenza dell’autrice, fondatrice e componente della “Società Italiana per gli Studi sulla Fotografia” e del Comitato scientifico che ha istituito il Museo di Fotografia Contemporanea di Villa Ghirlanda, oltre ad essere docente di Storia della Fotografia all’Università “La Sapienza” di Roma e direttore della scuola per Restauratore della fotografia di San Casciano dei Bagni. E’ particolare l’impostazione: un quadro teorico iniziale sui “generi” tra regola e creatività, un varco in cui si è inserita la fotografia fino all’abbattimento degli steccati tra i generi; poi un approfondimento speciale su paesaggio e impressionismo e 7 “ingrandimenti” su grandi fotografi e temi dell’800 le cui forme peculiari di fotografia hanno fatto progredire il genere nei rapporti con la pittura. Teoria e pratica, dunque, in una feconda staffetta.

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Julia Margaret Cameron, Calcutta, 1815-1879

La fotografia e il superamento della gerarchia tra i generi

Si inizia con la gerarchia tra i generi in base alla classificazione, che risale al 1669, di André Félibien des Avaux secondo i dettami della tradizione storico-artistica italiana: il più alto è la “pittura di storia” per la forza narrativa e la valenza simbolica degli eventi storici, mitologici o religiosi; poi viene il ritratto che della persona coglie fisionomia ed espressione, carattere e psicologia; scendendo si trova il paesaggio nel quale si ripropone uno squarcio naturalistico e un momento atmosferico particolare dato dalla realtà; al gradino più basso, la natura morta con la quale si rappresentano oggetti inanimati definendo solo composizione e distribuzione della luce. Nei generi più “bassi” c’è “un’implicita priorità delle capacità mimetiche su quelle estetiche e creative”.

Questa contrapposizione di valori, che resta dominante anche nel secolo successivo e in parte dell’800, premia la capacità dell’invenzione nei generi “alti” di “trascendere e idealizzare il reale”, mentre investe il realismo rappresentativo dei generi “bassi”, e lo fa “globalmente e senza distinzione, in un giudizio dispregiativo inappellabile” perché manca una visione critica in una “pura e semplice capacità manuale di copiare fedelmente, peggio ancora di scimmiottare malamente, il dato naturale dei referenti presi a modello, animati o inanimati che siano”.

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Domenico Bresolin, Padova, 1813-1900

E’ evidente che dal momento della sua invenzione, la fotografia si collocò nei valori più bassi tra i generi della pittura “il che inevitabilmente la travolge in quei giudizi di demerito e di sommo disprezzo che, prima del suo avvento, avevano così pesantemente gravato sui medesimi generi delle arti sorelle”; con il particolare peggiorativo che alla deprecata mera manualità della pittura realistica si sostituiva una ancora più deprecabile “meccanicità involontaria di un processo che automaticamente la escludeva da ogni possibilità interpretativa ed autoriale”. Aggiungiamo che per questo fu posta al servizio della pittura alla quale forniva la rappresentazione fedele della realtà su cui il pittore esercitava il proprio estro che acquistava creatività anche nei generi “bassi”.

Come la fotografia abbia superato questo grave “handicap” iniziale lo ha dimostrato la ricca esposizione della mostra citata all’inizio sull’”Arte in Italia dopo la fotografia”. Diamo solo qualche flash dell’accurata e colta ricostruzione che fa il libro di questo processo. Già alla metà dell’800 veniva sottolineato dalla trattatista fotografica “come anche la fotografia, malgrado la sua meccanicità, dia accesso non soltanto alla mimesi, ma anche all’individualismo estetico dei suoi prodotti, aprendo una dialettica pittura/fotografia di centrale portata storica per il divenire della pittura moderna”. Infatti anche la pittura “non esita ad adottare le modalità di trascrizione del reale tipici della fotografia e dei suoi valori congiunti di indice, icona e simbolo”, e lo fa “prima di rinunziare definitivamente alla rappresentazione”; ne viene sconvolta la gerarchia tra i generi i cui significati e posizioni cambieranno ripetutamente nel Novecento fino al definitivo superamento.

William Klein, New York, 1928

Già nel 1839 William Henry Fox Talbot , inventore di un mezzo fotografico, all’Accademia delle Scienze di Londra presentò la sua invenzione definendo la fotografia “il processo con cui oggetti naturali possono delineare sé stessi senza l’aiuto della matita dell’artista”. Nel 1858 Oscar Gustav Rejlander scriveva che “se lo scopo e la tensione dell’arte sono da individuare soprattutto nella mimesi naturalistica”, ne derivava che “la fotografia, con il suo realismo e la sua referenzialità fosse da considerare senz’altro più artistica della pittura”. E osservava come gli artifici tecnici non esistevano soltanto nella fotografia ma in tutti i media mentre anche questa pur nell’aderenza al reale richiedeva una visione soggettiva impegnando “capacità ideative compositive, nella scelta della luce e dell’inquadratura, nell’ideazione del soggetto e della sua efficacia rappresentativa, ossia nelle espressioni dei modelli, nella loro armonia e in quella dell’insieme”. Tutto questo comporta “doti concettuali e mentali non comuni per la loro elaborazione formale ai fini dell’espressione”.

Con il proprio simbolismo fotografico Julia Margaret Cameron rimise in discussione il “monopolio ideativo e formalizzante della pittura alta”, e in tal modo portò a “riconoscere l’autorialità del medium meccanico e, simmetricamente, a incamminarsi, con decisione, sulla strada del superamento dei generi”.

A questo punto  viene approfondito il rapporto tra generi e creatività, regole e invenzione; il che vuol dire tra la tradizione che segna i confini della cultura dell’epoca e l’innovazione con cui l’intelligenza personale riesce a cogliere i mutamenti in fieri. “L’ossimoro regole-creatività” viene “individuato e scientificamente composto soltanto dal pensiero scientifico del Novecento”, ma non possiamo neppure accennare a questa analisi che viene compiuta con dovizia di citazioni colte.

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Diane Arbus , New York, 1923-71

L’autorappresentazione della realtà nella fotografia nell’’800 

Tornando alla fotografia, i generi più ricorrenti nell’800 sono la ritrattistica che segnò “l’affermazione sociale del nuovo medium”; poi la veduta, il paesaggio, il panorama, quindi la documentazione dell’opera d’arte; seguono il nudo e le “accademie”, meno frequente la “natura morta” e il tema “di contro amatissimo, della natura vivente”; i “tableaux vivant” e l’illustrazione dei luoghi sede di eventi, bellici e di altra natura, genere che anticipa il “reportage”. Ciascuno di questi campi aveva diverse articolazioni interne, in base a soggetti, tecniche e destinatari. Esponente del “paesaggio pittorico” che guarda alla fotografia fu Domenico Bresolin, con la sua celebre “Casa diroccata”, che fece cambiare la pittura veneta sulla base delle esperienze fotografiche.

Alla mimesi veniva sostituita “l’autoriproduzione e l’autorappresentazione spontanea della realtà, implicita nei meccanismi chimici del processo” fotografico. Il tutto era favorito dall’affermarsi del positivismo anche nelle arti, sotto la spinta dell’iIluminismo settecentesco, con “il valore testimoniale dell’hic et nunc benjaminiano”; in tal modo la fotografia contrastava “la mimesi interpretativa di pittura e produzione calcografica”. Restava anche nell’ambito delle “regole della rappresentazione” basate sulla tradizione rinascimentale della prospettiva e oltre al carattere “indexicale” poteva assumere anche quello di icona e simbolo proprio della pittura.

A ciò aggiungeva una peculiarità, quella di consentire una “narrazione realistica con “tutti gli elementi, anche i più minuti del raffigurato”; una prerogativa, quella di dare corpo “all’istanza illuministica di un sapere più diffuso e meno classista favorendo la conoscenza di luoghi, persone e cose altrimenti destinati a rimanere del tutto ignoti, estranei e sconosciuti per le difficoltà e i costi dei viaggi”; una forza evocativa immediata per accostarsi alle persone care lontane come ai personaggi ripresi nella loro naturalezza “tali e quali, quando camminano, quando pensano, quando non fanno niente del tutto, come scriveva la “Gazzetta Piemontese il 27 luglio 1860; una forza riproduttiva delle opere d’arte che ne consentiva la più vasta diffusione e la comparazione.

Garry Winogrand, New York, 1928-74

Il ‘900, modernismo e postmodernismo nella fotografia

Dal livello “referenziale, iconico e simbolico” raggiunto nell’’800, la fotografia risponde alla sfida della modernità nel ‘900 “che fa soprattutto leva sul riconoscimento dei valori estetici interni alla struttura sintattica del mezzo, automaticamente svincolandolo dalla gabbia ristretta dei generi e dall’obbligo di attenersi ai meccanismi rappresentativi del cubo prospettico rinascimentale”. Non c’è più soltanto l’idea che l’essenza dell’arte è quella di “trasformare e trascendere il reale e di creare realtà iconiche e simboliche che nulla hanno in comune con il reale”; dagli anni ’50 del ‘900 viene concepita “come specchio dello smarrimento delle certezze di un tempo e come campo aperto alle nuove, indefinibili inquietudini dell’esistenzialismo”; dagli anni ’80 come espressione del Postmoderno, che porta ad una “strepitosa accelerazione delle trasformazioni e delle modalità d’uso dell’immagine” favorita dall’introduzione del digitale.

A Umberto Eco si deve un’anticipazione del Postmoderno allorché nel 1962, dopo aver descritto “un mondo in cui la discontinuità dei fenomeni ha nesso in crisi la possibilità di un’immagine unitaria e definita”, fornisce come risposta l’“opera aperta” che può darci l’immagine della discontinuità, non raccontandola ma presentandola, “un modo di vedere ciò che si vive”  nel campo dell’indeterminatezza. Ecco le sue parole in un testo pubblicato nel 2009: “Opera aperta come proposta di un ‘campo’ di possibilità interpretative, come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza, così che il fruitore sia indotto a una serie di ‘letture’ sempre variabili; struttura infine come ‘costellazione’ di elementi che si prestano a diverse relazioni reciproche”.

La fotografia lo aveva addirittura precorso nei fatti, alla metà degli anni ’50, passando “dall’immagine ‘chiusa’, ‘sicura di sé’ e formalmente conchiusa di Henri Cartier Bresson, al possibilismo infinito dell’informazione, svelato da autori come Klein, Frank e Arbus”. Ne fu palestra e palcoscenico la mostra del 1955 “The Family of Man”, curata da Steichen, con larga partecipazione dei maggiori fotografi – la “Magnum” al completo, in testa Cartier Bresson e Robert Capa – il cui assunto di una palingenesi universale dopo la tragedia della guerra non fu seguito dai fotografi presi dall’inquietudine esistenzialista, del tutto opposta rispetto all’“unità gioiosa e rassicurante” che per Steichen portava all’abbraccio tra classi sociali ed etnie diverse.

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Lee Friedlander, Aberdeen Usa, 1934

Ai tre fotografi citati, William Klein, Robert Frank, Diane Arbus, più Garry Winogrand e Lee Friedlander, ben si addicono i concetti di Eco e di Lyotard in “La condizione postmoderna” del 1979, che coniò tale termine, in cui “la caratteristica più peculiare del nostro contemporaneo viene riconnessa al venir meno delle ‘grandi narrazioni’ metafisiche elaborate dall’Illuminismo, dall’Idealismo e dal Marxismo”, e questo a causa della “perdita della fiducia e della certezza nei valori della tradizione”. L’effetto? “Quelle inquietudini che porteranno alla morte del ‘soggetto’, frammentato nella propria identità dalla percezione di una società spogliata di ogni storicità”, come ha scritto Jameson nel 2007.Va sottolineato che la duttilità del mezzo fotografico lo rende prezioso a tutti i livelli, di alta e bassa creatività, perché fornisce “una pluralità e un’infinita casistica di segni, di forme e di simboli che sembrano realizzare su scala mondiale e in tempo reale quel Museo immaginario che Malraux (2009) aveva ipotizzato già negli anni trenta del XX secolo. Pensando al museo tradizionale o immaginario che sia, è indubbio che esso si offra all’artista postmoderno come un contenitore”. Viene evocata anche la “serialità” delle opere di Andy Warhol, esplicita nei multipli, ma presente anche nelle nature morte di Giorgio Morandi e nei “Sacchi” di Burri. In questo “Museo immaginario” si può realizzare quella che Francesco Radino nel suo “Inside” del 1903 ha definito “cancellazione di generi”: il ridefinire una visione “dove gli oggetti possono vivere armoniosamente, gli uni accanto agli altri, in un unico mondo senza gerarchie”.

Così si chiude, in un ritorno all’assunto iniziale, il cerchio dell’analisi di Marina Miraglia che abbiamo cercato di rendere in “flash” estremamente riduttivi rispetto alla ricchezza dell’esposizione, un’analisi in profondità costellata di citazioni colte da noi appena sfiorata. Seguono 9 densi capitoli, 2 dedicati al paesaggio nell’800 e all’impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura; e 7 dedicati ciascuno a un grande fotografo dell’epoca. Faremo presto uno sforzo ancora più drastico di fornire per ciascuno di questi capitoli almeno dei sintetici fotogrammi descrittivi

Henry Cartier Bresson, Chantelup-en-Brie Francia, 1908-2004

Info

Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” , Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22,00. L’immagine di copertina è di Wilhelm von Gloeden, Caino, 1900 ca. Dal libro sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; su questa rivista “on line” prossimamente i due articoli sui temi indicati: paesaggio e impressionismo e  7 grandi fotografi dell’’800-primi ’90, in base al libro della Miraglia. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i due prossimi articoli usciranno in questo sito il 15 e 20 febbraio 2020. Cfr. inoltre i nostri 3 precedenti articoli su “Fotografia e Arte” , usciti in fotografia.guidaconsumatore.com nell’aprile 2012 ripubblicati, anch’essi in questo sito, il 26, 27, 28 dicembre 2019.

Foto

Le immagini, a parte quella di apertura, sono state aggiunte in sede di ripubblicazione, tratte da siti web di pubblico dominio precisando che l’inserimento è a mero titolo illustrativo senza alcun interesse di natura economica o pubblicitaria e si provvederà all’eliminazione su semplice richiesta dei titolari dei siti, che si ringraziano per l’opportunità offerta. I siti sono i seguenti, nell’ordine di successione delle relative immagini: 2. artsy.net, 3. subalpinafoto.it, 4. it.wilkipedia.org, 5. grandifotografi.com, 6. artslife.com, 7. artribune.com, 8. pinterest. it, 9. fotografarefacile.net, 10. lundici.it. Viene indicato il nome dell’autore dell’opera, dove è nato e il periodo in cui è vissuto, le immagini sono riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati. In apertura, la Copertina del libro di Marina Miraglia; seguono opere di William Henry Fox Talbot, Dorset, Inghilterra, 1800-1877, e Julia Margaret Cameron, Calcutta, 1815-1879; poi, opere di Domenico Bresolin, Padova, 1813-1900, e William Klein, New York, 1928; quindi, opere di Diane Arbus, New York, 1923-71, e Garry Winogrand , New York, 1928-74; inoltre, opere Lee Friedlander, Aberdeen Usa, 1934, e Henry Cartier Bresson, Chantelup-en-Brie Francia, 1908-2004; in chiusura, opera di Robert Capa, Budapest, 1913-54.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 18 aprile 2012 – E mail levante@guidaconsumatore.com

Robert Capa. Budapest, 1913-54

L’Enigma del reale, ritratti e nature morte alla Galleria Corsini

di Romano Maria Levante

La mostra “L’Enigma del reale”, aperta dal 24 ottobre 2019 al 2 febbraio 2020 alla Galleria Corsini  presenta, a cura di Paolo Nicita,  una serie di “Ritratti e nature morte dalla Collezione Poletti e  dalle Gallerie Nazionali Barberini Corsini”, in un itinerario che  si snoda all’interno del  Palazzo. Una variante espositiva  rispetto alla precedente mostra di Mapplethorpe  nella quale le opere del celebre fotografo erano disperse nella sterminata “quadreria” delle  singole sale; qui  Ritratti e Nature Morte sono raggruppati  in 5  ambienti  dedicati a questi dipinti, ma se ne attraversano altri 4, che danno alla mostra l’impronta di percorso evocativo nella storica residenza.

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Jusepe De Ribera, “Il filosofo contadino”, 1915-18

Ritratti, Nature morte di fiori e frutta ma non solo  di autori in varia misura caravaggeschi, prevalentemente dalla Collezione Poletti  con significative aggiunte – rispetto alla precedente mostra della Collezione Poletti  al Palazzo Reale di Milano –  di opere dalle collezioni delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica: un’esposizione  nella linea della direttrice Flaminia Gennari Sartori di valorizzare le collezioni delle Gallerie Nazionali attivando raffronti con altre raccolte o con opere singole frutto di una ricerca accurata.

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“Maestro della  Maddalena Briganti,Maddalena penitente”, prima metà 17° sec.

Il collezionismo è nel DNA di Palazzo Corsini con la sua quadreria settecentesca ancora oggi com’era in origine, quindi è stato presentato Mapplethorpe, anche grande collezionista oltre che artista-fotografo. Ora viene presentato  Poletti, con la peculiarità  di essere nostro contemporaneo, e non un collezionista d’epoca del tipo di  quelli che  sostenevano con i loro acquisti i pittori allora sconosciuti destinati a diventare famosi, come gli artisti della mostra  contemporanea a Palazzo Bonaparte. che celebra con gli “Impressionisti segreti” i collezionisti che ne raccoglievano le opere consentendo loro di sbarcare il lunario.

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Bartolomeo Manfredi, “Bacco e fauno”, 1620

Il  collezionista e artista Poletti

Geo Poletti, storico dell’arte e pittore egli stesso, ha realizzato la sua raccolta iniziando dal 1950, quando era venticinquenne,  sull’onda del rinnovamento nei musei e della nuova tendenza della critica a considerare le opere   per quello che sono indipendentemente dal contesto e da elementi esterni; quindi nel loro valore artistico, nella qualità e nell’unicità dell’intrinseca forza creativa.

La spinta iniziale è stato l’interesse per l’arte verso cui si orientò sin dai primi studi a Milano, dove era nato nel 1926, dopo i primi anni ’30 vissuti con padre e fratello  a  San Paolo del Brasile,  nei quali ebbe anche la passione per la musica, e in particolare la lirica, trasmessagli dalla madre, amica dei maestri Arturo Toscanini e Carlo Maria Giulini.

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Dall’interesse passò all’impegno diretto in campo artistico come pittore anche su sollecitazione soprattutto di Mario Sironi – conosciuto durante il  soggiorno, negli anni della guerra, con la famiglia a Bellagio, sul lago di Como – insieme a Umberto Boccioni, il campione del  futurismo e a Giorgio de Chirico, il creatore della metafisica; ma più che questi grandi artisti italiani che lo spinsero sulla via dell’arte, la sua pittura fu influenzata dal tormentato  Francis Bacon.    

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Nel 1962 espone a Milano in una personale alla Galleria “Il Milione” curata da Giovanni Testori, seguita  cinque anni dopo da una nuova mostra nella stessa galleria per la quale lo storico dell’arte Francesco Arcangeli diede una definizione quanto mai centrata, vedendo in lui “un appassionato conoscitore di molta arte del passato”,  ma riscontrando al contempo le caratteristiche di “uomo moderno”, due poli della sua attività di collezionista, oltre che pittore. Modernità su una base tradizionale non è un ossimoro ma un equilibrio virtuoso raggiunto da Poletti non senza un travaglio interiore: appassionandosi alla pittura antica si sentiva  attratto dal collezionismo mentre la propria pittura la considerava  uno sfogo personale non destinato all’esposizione al pubblico.

A questa  sua evoluzione contribuì il rapporto con il critico Roberto Longhi – cui regalò un dipinto  presente nella quadreria della sua Fondazione – e con altri critici, storici dell’arte e studiosi frequentatori della sua casa milanese in via Cernaia – da Giovanni Testori a Federico Zeri, da Mina Gregori a Giuliano Briganti – che portò a un approfondimento  dell’arte di Caravaggio e dei caravaggeschi con la pittura italiana dl ‘600; le nature morte, anche del ‘700, furono al centro della sua attenzione, e lo vediamo nelle opere della sua collezione esposte in questa mostra.

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I Ritratti, o meglio, “la realtà del corpo” e il suo enigma

L’itinerario della mostra all’interno di Palazzo Corsini  inizia con l’Anticamera e la Prima Galleria, per poi percorrere la Galleria del Cardinale in fondo alla quale, in un’”enclave”, troviamo il primo ritratto, “Il filosofo contadino”, 1915-18, una figura dal volto sorridente, seduta con mantello dimesso, dei libri sul tavolino e un foglio scritto tra le mani, autore Jusepe  De Ribera, il celebre “Spagnoletto”  stabilitosi a Napoli dalla nativa Spagna. Il filosofo è stato identificato in “Democrito”  della metà del V sec. a. C., proprio per il suo sorriso ironico, mentre Eraclito veniva rappresentato con espressione malinconica: il pensiero filosofico deterministico di  Democrito, secondo cui tutto avviene secondo necessità, lo portava a non preoccuparsi di ciò che era inevitabile, a differenza di Eraclito.  

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Il filosofo  sorride per la fragilità umana ed è ritratto come un contadino per esprimere l’essenza dell’umanità, la vera filosofia risiede nella genuinità senza orpelli. C’è dell’arte fiamminga ma anche l’impronta caravaggesca nella peculiare derivazione di De Ribera con l’effetto realistico di luci ed ombre.

Dapo la Galleria del Cardinale si attraversano  la Camera del Camino, la Camera dell’Alcova e il Gabinetto verde per trovarsi nella Camera Verde, anche in origine rivestita di tessuti di quel colore,  nella quale la mostra presenta “La realtà del corpo” identificata in 3 opere, due della Collezione Poletti ed una della collezione Gallerie Nazionali d’Arte Antica.

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Entriamo così nel cuore dell’esposizione dopo il preludio del “Filosofo Contadino” di De Ribera. con  la sorpresa di vedere una “Maddalena penitente” , prima meà del 17° sec., della Collezione Poletti dall’aspetto sensuale del tutto insolito: un corpo procace coperto solo da un drappo banco nella nudità del seno florido e delle gambe scoperte, seduta al suolo con la testa appoggiata alla mano destra, il gomito su un rialzo del terreno scuro e roccioso, il piccolo crocifisso alle sue spalle su uno sfondo nero; dalle indagini diagnostiche è risultato che la Maddalena in origine guardasse il Crocifisso, poi il viso è stato rivolto erso l’osservatore, in  un’immagine molto terrena; in primo piano un teschio e il “libro dei santi” che lei regge aperto con la mano sinistra.

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L’autore anonimo viene indicato come “Maestro della  Maddalena Briganti”, nome che identifica il mercante storico dell’arte fiorentino Aldo Briganti, padre di Giuliano Briganti, che ne fu il primo proprietario; portato a Roma nel 1966 Testori citò l’attribuzione tradizionale  all’artista seicentesco romagnolo  Guido Cagnacci,  ma lo attribuì a un artista francese; Poletti la acquistò nel 1992 all’asta a New York dal Paul Getty Museum dove l’opera era entrata dal 1969 registrata al pittore spagnolo Puga, da una scritta sul retro del dipinto, ora ricoperta, attribuzione contestata perché non accostabile allo stile di tale pittore; l’ultima attribuzione è quella di Vittorio Sgarbi  al pittore caravaggesco del ‘600  Giovanni Serodine.

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La preferenza dei curatori della mostra è verso  un pittore spagnolo vicino a Velasquez, per le forti pennellate e  il tono naturalistico dell’insieme,  ma restano aperti a nuove interpretazioni favorite dall’esposizione che consente ulteriori riflessioni e confronti.

Son esposte vicine, quindi messe a confronto, le altre due opere di questa sezione, “Bacco e fauno” , 1620, della Collezione Poletti, e Fauno con uva e flauto”    delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, entrambe riferibili al pittore mantovano Bartolomeo Manfredi, sempre del ‘600. Nel primo dipinto il fauno di cui non si vede la testa ma soltanto il braccio sinistro, tende la ciotola che ha in mano verso il volto di Bacco di cui spicca oltre al viso con le fronde nei capelli, il torace e il braccio destro, scolpito dalla luce che illumina il  braccio del fauno, in una composizione luci-ombre fortemente caravaggesca.

Analogo effetto nel secondo dipinto, pur nelle differenze compositive, la luce scolpisce l’anatomia di corpi muscolosi visti nella scompostezza che deriva dallo stato di ebbrezza e dal conseguente  abbandono, e li rende sgraziati ma con un forte realismo e un senso popolaresco.

Questo anche perché  il mito di Bacco  è collegato all’allegoria dell’Autunno con la vite  e il vino, e lo si vede nei due dipinti  dove non mancano tali elementi, in entrambi il flauto,  nel primo  anfora, grappolo d’uva e tralci di vite , nel secondo  fruttiera, uva e foglie verdi su fondo scuro. Sono “nature morte” inserite nella composizione  mitologica, e introducono alla sezione dedicata alle nature morte vere  e proprie.

Le Nature morte, la “Natura senza tempo”

Ci ricorda una mostra degli anni scorsi sulle “Nature morte”  della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, oltre ai dipinti floreali di Brueghel, a illustrazione di un genere molto praticato:  questa volta siamo concentrati nel ‘600-‘700   e gli artisti della Collezione Poletti sono caravaggeschi, un vero e proprio sigillo.

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La Collezione Poletti, oltre ai Ritratti, molto qualificati ma in numero ridotto, è dedicata prevalentemente alle “Nature morte” che sono esposte senza cornice come le aveva nella propria abitazione, una forma molto spartana scelta dal collezionista e qui rispettata;  mentre le “Nature morte”  delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica hanno le normali cornici lavorate ed ornamentali diverse l’una dall’altra. E’ significativa l’assenza di cornici, perché riflette il periodo in cui Poletti iniziò la sua collezione, gli anni ’50, nei quali si tendeva, come si è accennato, a dare risalto all’opera d’arte in sé e per sé, indipendentemente dal contesto.

Erano gli anni delle “Nature morte” di Giorgio Morandi, dove non c’erano fiori e frutti ma bottiglie e oggetti immersi nel mistero, delle grandi mostre sul tema a Parigi e a Napoli,  e delle ricerche di Roberto Longhi e Federico Zeri, ricordate dal curatore; nelle gallerie principesche  era uno dei generi prediletti.

Per questa mostra vi è stato un tale approfondimento  che si sono identificate le numerose varietà di fiori e frutti tanto che  vengono  fornite  le “Schede botaniche” di tali esemplari, a cura di Flavio Tarquini, dell’Orto botanico di Roma. Si va dalle varie specie di “Ibicus” e “Lilium” all’”Iris” e al “Narcisus”, dal “Fuxus” alla ”Tulipa”, dal “Sambucus” alla “Rosa”, dal “Nigella” alla “Covallaria”.

Entriamo nella “Sala blu” e sembra di immergersi in un orto botanico fresco, vivo e avvolgente. C’è una matrice comune nelle opere esposte, l’esplodere prima a Roma tra il 1590 e il 1630, poi in tutta l’Italia della pittura caravaggesca su fiori e frutta, gli autori di uguale  tendenza  spesso sono  ignoti.

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Citiamo soltanto alcune opere che colpiscono in modo particolare, il dipinto con due composizioni accostate, “Vasi di fiori”  a sinistra, con i fiori in  un vaso di vetro, frutti a destra su un piatto, compatti come bouquet, dal cromatismo soffusi e delicato; mentre in altro dipinto, fiori e frutti sono esposti in modo più arioso, invece della compattezza si cerca il respiro della natura, in un cromatismo più forte e  variegato. Le attribuzioni vanno da Orazio Gentileschi a Carlo Saraceni. Poi, a raffronto nel mare di “Nature morte” della Collezione Poletti,  l’inconsueta “Natura morta con tuberosa” delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, con i fiori nella luce caravaggesca su un fondo nero. Attribuzioni incerte, da Luca Forte a Filippo Napoletano, lungo l’asse Roma-Napoli in cui si sviluppava la pittura di natura morta nel 1620-40.

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Di notevole interesse le tre “Nature morte” riferibili allo stesso artista, anche se ignoto: “Natura morta con alzata di agrumi, carciofi, uva, colomba e fagiano”,  “Cesta di frutta, piccione e melograno”,  e “Coniglio con uva, pesche, vaso di fiori e uccelli”. Le ragioni dell’interesse sono la compresenza di animali, frutta e in uno dei tre anche fiori nella stessa composizione, con la mobilitazione della natura nelle sue espressioni vitali, l’effetto altrettanto vitale delle luci ed ombre che creano “il senso dell’attesa”, la perfezione naturalistica della raffigurazione.  Poletti le attribuiva a Simone del Tintore da Lucca,  Giuliano Briganti  nel 1960 esaltandone la bellezza le attribuì a Paolo Porpora, attivo a Roma sempre nel ‘600.

Non vi sono dubbi sull’attribuzione al genovese Bernardo Strozzi, di una serie di “nature morte” esposte, per lo più del 1630-35, le incertezze sono piuttosto  tra il caposcuola e la sua bottega, alcune concepite a Roma nella prima parte del ‘600.  Del caposcuola la “Cesta con zucchine , uva e prezzemolo, cavolo e vaso di fiori”,  dove è  “l’atmosfera di indefinita astrattezza , derivante dalla ‘Canestra’ caravaggesca, a dominare la composizione”, nota il curatore. Forse  con gli allievi “La brocca e alzata di peltro con mele, fichi e altra frutta”,  quando operava a Venezia dove l’intensità del lavoro richiedeva il lavoro della bottega  guidata dal capo scuola titolare. Ugualmente ispirata alla “Canestra” di Caravaggio il “Catino con fiori” con Ibis raffigurati all’insegna della leggerezza, aperti in modo arioso in una varietà cromatica con altri fiori.

Si dissente dall’attribuzione fatta da Poletti ad Annibale Carracci di altre “nature morte”, intime e raccolte, che non hanno la “monumentalità” del grande artista bolognese, pur se si condivide il riferimento all’ambiente emiliano nella seconda metà del ‘600, che prepara già la pittura settecentesca: si tratta di “Cucina con carne e pollame”  e di “Cucina con verdure, frutti, pesci e un vaso di garofani”, composizione quest’ultima di notevole leggerezza, quasi in dissolvenza.

Altre opere di forte impatto  sono la piccola “Natura morta con noci, nocciole, mandorle, fichi secchi e frutti” e  Piatto di pesche”, “Natura morta con uva, noci, castagne, patate e pettirossi”, quest’ultimo dello spagnolo Luis Meléndez, e “Natura morta con anatra, volatili, frattaglie, cavolo e testa di maiale”  del milanese Giacomo Cerutti,   quest’ultima in pieno ‘700, dopo le prime ora citate della seconda parte del ‘600  che seguono le precedenti citazioni relative alla prima parte del ‘600. Un percorso completo,  dunque, nel quale oltre a fiori e frutti irrompono altri elementi, come gli animali, sempre più vistosi.

La conclusione della sezione “Nature morte” è spettacolare, si tratta  di Evaristo Baschenis, artista definito da Roberto Longhi “un nostrano Vermeer sacrificatosi in provincia”, come ricorda il curatore,  che definisce così il suo capolavoro esposto, espressivo della “pittura di  realtà” che inizia in Lombardia: “La sua giovanile ‘Natura morta con cesta di mele e piatto di prugne, meloni  e pere’ del 1645-50, con la cesta carica di frutta che sporge dal bordo del tavolo, ancora in omaggio a Caravaggio, su di uno sfondo astratto e senza tempo, ha la potenza di una visione lucidissima  della realtà. Un pittore minore che racchiude il misterioso principio di ogni cosa”.  

La chiusura con il mistero del pescivendolo

Se con questo implicito “mistero” termina la sezione sulle “Nature morte”,  la mostra si chiude con quello esplicito che ruota intorno all’ultima opera, all’insegna appunto del Mistero del pescivendolo”,  esposta nella “Saletta blu” immediatamente dopo  la “Sala blu” della “Natura senza tempo” con le “nature morte”.

E’  una piccola “enclave” con tre opere apparentemente simili, una di fronte e due sulle pareti destra e sinistra. Sono tutte e tre di pittore napoletano non identificato, della metà del ‘600, provenienti rispettivamente dalla Collezione Poletti,  dalla raccolta delle  Gallerie Nazionali d’Arte Antica e dal Museo Nazionale di Varsavia, per la prima volta esposte insieme per un confronto stimolante.

Rappresentano un pescivendolo dall’espressione molto intensa mentre con un coltello sventra un pesce,  intorno una cesta, una bilancia. La nobiltà del suo volto lo ha fatto riferire a Masaniello, l’eroe della rivoluzione di Napoli i cui numerosi ritratti – di cui parla Bernardo de Dominici nelle sue “Vite” –  furono distrutti nella restaurazione, per cui si sarebbero salvati questi, divenuti simbolo, nei quali veniva raffigurato nelle spoglie del pescivendolo per non farlo identificare e quindi distruggere: ricostruzione ritenuta fantasiosa, ma affascinante che dà un valore storico e leggendario, oltre che artistico, ai tre dipinti gemelli.

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Non per spirito casalingo, ma per accertamento oggettivo, il curatore afferma che “il prototipo è certamente il dipinto delle Gallerie Nazionali, come emerge anche dalle indagini diagnostiche (Riflettografia IR, analisi della fluorescenza dei raggi X ed esame radiografico) che  hanno evidenziato la presenza di numerosi pentimenti”: non ci sarebbero stati in una copia. Inizialmente fu attribuito a Caravaggio, ma all’acquisto nel 1914 fu mutata l’attribuzione  al romagnolo Cagnacci della prima metà del ‘600, nel 1961 Roberto Longhi lo attribuì al pittore fiorentino Orazio Fidani,  stesso periodo, e così fu presentato alla mostra del 1964, poi negli anni ’80 fu riferito alla pittura napoletana, dal giovane Luca Giordano a Fracanzano

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E gli altri due dipinti “gemelli”?  Il “Pescivendolo” della Collezione Poletti proviene da Venezia e le indagini hanno mostrato  la sua derivazione da quello ora illustrato con le varianti dei  rossi e verdi più intensi e il disegno più netto, mentre i rosa della carne sono più chiari. Il terzo, prestato dal Museo Nazionale di Varsavia, cui pervenne nel 1969 da un’asta all’estero,  mostra differenze anche negli elementi della composizione, in particolare le monete in primo piano che non figurano negli altri due. Anche per questo ci fu l’attribuzione a Fidani, poi si è passati all’autore napoletano.

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Così  si conclude il “mistero del pescivendolo” e l’interessante mostra della Collezione Poletti: ”Ad infittire la questione delle tre versioni è la presenza in diverse collezioni private anche di alcuni pendant dei nostri dipinti raffiguranti una composizione con un Pescivendolo dal berretto roso che vende un pesce a una suora” . In quest’ultimo, l’atteggiamento è meno truculento che quando sventra il pesce, ma risulta ancora più misterioso l’accostamento alla suora, un’acquirente insolita nel mercato ittico forse scelta per l’estrema dissimulazione di Masaniello, che nessuno avrebbe accostato a una religiosa.

Con questo mistero nel mistero  si chiude una mostra stimolante pur se le “Nature morte” possono ritenersi un genere per certi versi scontato. Invece così non è stato e ci sembra di aver reso i tanti motivi di interesse uniti ad autentiche suggestioni fino agli intriganti enigmi finali che restano impressi nel visitatore.  

Due versioni del “Pescivendolo”, autore incerto

Info

Palazzo Corsini, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Via della Lungara, 10. Dal mercoledì al lunedì (martedì chiuso), ore 8,30-19, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12, ridotto euro 2 (giovani 18-26 anni), gratuito per scuole e insegnanti, studenti e docenti di architettura e lettere orientamento storico e artistico, Beni culturali, Accademie Belle Arti, Icom, con handicap accompagnati, guide e giornalisti. Biglietto valido 10 giorni per le due sedi Barberini e Corsini. www.barberinicorsini.org. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2019, su Mapplethorpe 3 giugno, de Chirico 22, 24, 26 novembre, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre; in www.arteculturaoggi.com, su Futuristi 7 marzo 2018, de Chirico, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20 giugno, 1° luglio 2013, Sironi 2 novembre 2015, 1,14, 29 dicembre 2014, Morandi 17, 25 maggio 2015, Brueghel 5 marzo 2013, Caravaggio e Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013′, Vermeer 14, 20, 27 novembre 2012; in www.cultura.inabruzzo.it, de Chirico 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009, Caravaggio, 8, 11 giugno, 23 febbraio 2010, Caravaggio e Bacon 21, 22, 23 gennaio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Corsini alla presentazione della mostra, si ringrazia la Direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Jusepe  De Ribera,“Il filosofo contadino”, 1915-18 ; seguono, Maestro della  Maddalena Briganti, “Maddalena penitente” prima metà 17° sec., e Bartolomeo Manfredi, “Bacco e Fauno”, ‘1620; poi 6 immagini con altri Ritratti dello stesso periodo; quindi, una serie di immagini di Nature morte, le prime 8 della Collezioni Poletti nell’assetto caratteristico senza cornici, le successive 11, di Poletti e Gallerie Nazionali, con le cornici; infine due versioni del “Pescivendolo” , di autore incerto e, in chiusra, l'”enclave” con le tre versioni del “Pescivendolo”.

L'”enclave” con le 3 versioni del “Pescivendolo”

Michelangelo a colori, raffronti e scoperte al Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

La mostra “Michelangelo a colori”, aperta a Palazzo Barberini dall’11 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020,  espone  un serie di  dipinti, accuratamente  selezionati, a raffronto con i disegni  di Michelangelo ai quali si sono ispirati, e anche tra loro. La mostra è curata da Francesca Parrilla e Massimo Pirondini, con il coordinamento scientifico e organizzativo di Yuri Primarosa  e si avvale della collaborazione del Museo Gonzaga di Novellino. Catalogo di De Luca Editori d’arte.

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“Annunciazione”, Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Un’ulteriore sorpresa delle Gallerie Nazionali di Arte Antica,  per molti si tratta anche di una scoperta.  La direttrice Flaminia Gennari Sartori  ci regala un’altra “chicca” negli originali  “cluster” espositivi   con i quali ha innovato positivamente rispetto  ai criteri tradizionali. E presenta così la sorpresa o comunque la dimostrazione pratica  portata visivamente davanti ai visitatori: “Giocando sulla doppia rappresentazione dei principali temi sacri trattati dal Buonarroti ripresi puntualmente da pittori diversi è possibile cogliere lo stretto legame esistente tra le opere esposte, messe per la prima volta a confronto tra loro, e i disegni del grande artista toscano, esposti in riproduzione”.

Michelangelo, “Annunciazione”

I confronti di Venusti, Orsi, Pino, tra loro e con Michelangelo

Il primo confronto diretto, anche per gli addetti ai lavori, è tra l’Annunciazione” di Venusti  della Galleria Corsini e lAnnunciazione”  di Lelio Orsi del Museo Gonzaga di Novellino, prestito ottenuto  per quella che viene definita “fruttuosa collaborazione”. Ambedue le opere richiamano il disegno dell’”Annunciazione” di Michelangelo appartenente alla Pierpont Morgan Library di New York,  ed  esposto in un confronto di grande interesse sul piano artistico,  storico e culturale.

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Marcello Venusti, “Annunciazione” 1555-60

Altro confronto molto significativo tra due Orazioni nell’orto”, di Venusti, anche questa volta  con riferimento all’omonimo disegno di Michelangelo che si trova agli Uffizi, anch’esso esposto.  Sempre  di Venusti, anche LaMadonna del Silenzio”  viene raffrontata  ugualmente al disegno di Michelangelo della Horley Gallery,  Weilbeck. Seguono  i momenti della Passione di Cristo successivi all’Orazione nell’orto.  Crocifissione”, “Deposizione”,  in un  film cristologico che si dipana dinanzi agli occhi del visitatore nel continuo confronto tra i disegni di Michelangelo e i dipinti di artisti che vi si sono ispirati, ancora Venusti con Marco Pino,  anche loro a confronto.

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Lelio Orsi, “Annunciazione”, 1555-60

Yuri Primarosa  rivela come tutto è  nato dall’offerta della direttrice del Museo Gonzaga di Novellino  di esporre  l’”Annunciazione”  di Lelio Orsi a Roma, alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica. Di lì, a cascata, l’idea di porla a raffronto con l’omonima opera di Venusti  esistente nella Galleria Corsini, e poiché sono entrambe ispirate al disegno di Michelangelo, al raffronto tra loro si è aggiunto quello con l’opera del grande Maestro.

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“La Madonna del silenzio” , Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Perché a cascata? La risposta è semplice, da questo spunto è nato il progetto scientifico prima che espositivo, di considerare ulteriori opere ispirate ai disegni di Michelangelo, sia di Venusti, sia di altri artisti. “Elementare, Watson”, si direbbe, ma di certo è eccezionale che questo avvenga per la prima volta per il pubblico dei visitatori. Va aggiunto che i confronti sono  illustrati con le nuove acquisizioni di natura  storica e critica, documentaria e anche diagnostica ottenute proprio in rapporto con la mostra e la sua preparazione. Si è andati ben oltre, quindi, la normale curatela.

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Marcello Venusti, “La Madonna del silenzio”, post 1563

E’ interessante, dalle vite e dal percorso artistico di Venusti e Orsi, ricercare il rapporto con Michelangelo, che è l’elemento centrale del progetto  espositivo e della sua realizzazione;  ed evidenziare le rispettive peculiarità che ne fanno meglio apprezzare  il confronto diretto.

Venusti e Michelangelo

Marcello Venusti,  nato inteono al 1512, per la tendenza alle riproduzioni michelangiolesche, è stato definito “copista”, ma in lui c’è anche l’influenza di Raffaello  nella dolcezza delle espressioni  e nella sensibilità cromatica, tanto che Pasquale Coddè nel 1837 lo definì “il Raffaello di Mantova”.

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“La preghiera nell’orto”, Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Arriva a Roma dove incontrerà Michelangelo dopo l’avvento  nel 1534 di papa Paolo  III della famiglia Farnese,  che promosse la rinascita delle arti dopo il “sacco di Roma” del 1527 che aveva inferto un grave colpo alla città rinascimentale di Clemente VII. Gli artisti che l’avevano lasciata per sfuggire alle violenze rientrano a Roma, tra loro gli eredi di Raffaello e Michelangelo subito impegnati nei cantieri di Castel Sant’Angelo e nella costruzione della nuova Basilica di San Pietro.

Venusti entrò nel gruppo di artisti  sotto la guida di Perin del Vaga coordinatore dei progetti papali che conobbe mentre Perin era impegnato a realizzare la “Spalliera” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, su  incarico di Paolo III. Lui stava riproducendo su un foglio di modeste dimensioni il grande affresco michelangiolesco rivelando un talento e un’attitudine per quel  particolare lavoro artistico che non sfuggì al coordinatore papale; era il 1541-42, come risulta dalle due lettere dell’ambasciatore mantovano Nino Sernini  rivolte al cardinale Gonzaga. 

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Michelangelo, “La preghiera nell’orto”

Nel  1549 dipinse la copia del “Giudizio Universale”, sempre in dimensioni ridottissime,  su incarico del cardinale Farnese che intendeva  conservare la memoria dell’opera di cui veniva chiesta l’eliminazione secondo i rigidi dettami della Controriforma che non tollerava l’esibizione di nudi e non solo; poi fu mantenuto l’originale del grande affresco, salvato ma “censurato”  nelle parti del corpo ritenute invereconde  con l’intervento di Daniele da Volterra, soprannominato “braghettone”.

Il dipinto lo riproduce com’era, ma Francesca Parrilla osserva: “Tuttavia, la versione venustiana mitiga la potenza della composizione michelangiolesca,, non solo per il piccolo formato, ma anche per la grazia  e la gentilezza dei volti della Madonna e di Cristo, nei quali prevale un’espressione di dolcezza in contrasto  con l’austerità delle fisionomie sistine”: è  l’impronta di Raffaello. Altre differenze, non di stile ma di contenuto, sono: l’aggiunta in alto, al centro, dell’immagine del Padre eterno in volo e dello Spirito santo in forma di colomba; e in basso, a sinistra, del volto di Michelangelo, un omaggio del “copista” all’autore del grande affresco.

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Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Ma quando ci fu l’incontro di Venusti con Michelangelo? L’accurata ricostruzione della Parrilla riporta quanto documentato nel 1959 da Johannes Widea che cita la corrispondenza del segretario vaticano Giovanni Francesco Brini, morto nel 1556, il quale lo definisce “mantovano dipintore deputato già da Paolo b[uona] m[emoria] à seguitar la Cappella nuova” con Michelangelo in età avanzata e  non in buona salute.  Tanto che sostituì Michelangelo come “perito estimatore” a Trinità dei Monti  degli affreschi di Daniele da Volterra quando al rifiuto del Maestro nel 1553 scattò la clausola che  poteva essere scelto chi gli era vicino, e i della Rovere lo scelsero come “suo allievo”.

Altri indizi si ricavano dalla lettera che nel  1557 Cornelia Colonnelli, vedova di Raffaello, scrisse a Michelangelo, nella quale si legge: “Io desidarei che per mezzo vostro messere Marcello ne facesse due, di quelli medesimi”, cioè dipinti ispirati ai disegni del Maestro che erano visibili soltanto ai suoi stretti collaboratori.  Addirittura la Parrilla afferma: “Nei suoi ultimi anni, il rapporto  del Buonarroti con la pittura sembra dunque  passare prevalentemente attraverso Venusti, che certamente dovette assistere il maestro nei lavori del cantiere paolino, incarico che il vecchio artista aveva accettato controvoglia, anche perché non era ancora conclusa quella che considerò la ‘tragedia’ della sua vita: il sepolcro di Giulio II”.

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Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Il  primogenito di Venusti,  come ha testimoniato il Baglione, “fu tenuto  al fonte battesimale dal Buonarroti e chiamato Michelangelo in suo onore”,  e alla morte del padre nel 1579   ereditò i suoi disegni  e gli strumenti professionali, del resto era pittore e fu presente a fianco del padre negli anni ’60 e ’70 del ‘500. Da Michelangelo maestro di Venusti siamo a Michelangelo figlio di Venusti, che da allievo di Michelangelo (Buonarroti) diviene maestro di Michelangelo (Venusti). Potenza del nome e dell’arte!

Orsi e Michelangelo

Lelio Orsi  nacque nel 1508, quattro anni prima di Venusti,  a Novellara, il feudo del quale l’imperatore aveva investito i conti Gonzaga: alla morte del conte Alessandro I  il dominio passò nelle mani della vedova Costanza, assistita dal cognato Giulio Cesare Gonzaga, ecclesiastico a Roma come “prelato domestico” del Papa con il quale, quindi, instituì proficui rapporti. Citando le complesse vicende successorie dei Gonzaga, Massimo Pirondini afferma: “Questi saranno per Lelio Orsi i committenti, i protettori, gli amici; per loro il pittore sarà il ‘genius loci’ artistico, l’abile diplomatico, il fidato consigliere di trame politiche e segreti personali, l’animatore dei festeggiamenti, dei grandi eventi, nonché della vita quotidiana della corte di Novellara”; la vicinanza con Mantova  lo porta a lavorare all’inizio in tale città, già nel 1930 a 22 anni è definito “maestro” in un documento d’epoca.

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Le due opere di Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Si trasferisce a Reggio Emilia intorno al 1535, lo prova la sua partecipazione a “un rusticano sabba” nel fregio  della sala nel cuore della della canonica di un castello in un paesino del reggiano; poi importanti commissioni, come le decorazioni del Palazzo dell’Arte e della Lana e della Torre dell’orologio nella piazza principale con l’affresco “Apollo sul carro del sole”, andato perduto, ma di cui si conservano i disegni al Museo del Louvre. Siamo all’inizio degli anni ’40 del 1500, e pur se la derivazione è soprattutto da Giulio Romano, si avverte  la conoscenza del “Giudizio Universale”, del quale circolavano  delle stampe: è questo il primo contatto indiretto trovato con Michelangelo.

Torna a Novellara nel 1546, la reggente contessa Costanza lo protegge dall’accusa di complicità in omicidio, che cadrà nel 1522, è impegnato in importanti lavori di trasformazione della Rocca in una sede rinascimentale:   si ricorda il “Camerino di Ganimede”  in cui agli influssi di Giulio Romano aggiunge, con varianti,  “l’idea, tutta romana e michelangiolesca, del giovane rapito  dall’aquila, tratto senza alcun dubbio da una qualche derivazione o copia  del celebre  e perduto disegno, con il ‘Ratto di Ganimede’,  donato nel 1533  dal Buonarroti a Tommaso de’ Cavalieri”.

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Cristo vivo sulla croce” , Michelangelo tra Marcello Venusti a sin, Marco Pino a dx

Finora non si hanno indizi di soggiorni romani,  ma con l’accresciuto ruolo di Alfonso Gonzaga anche  nella Curia vaticana,  si trovò ad assisterlo, accompagnandolo in viaggi come quello del 1553 a Venezia, e soprattutto assistendolo  a Roma per moderarne gli eccessi del suo “bel vivere”.  A Roma resterà stabile un anno, dal dicembre 1954, presso il conte Alfonso, forse impegnato anche nei lavori  di ristrutturazione del palazzo, di cui si ha notizia di un disegno di Lelio Orsi.

Contatti  con Michelangelo potrebbero essere avvenuti  attraverso Tommaso de’ Cavalieri, amico del Buonarroti  e consulente per le antichità  di Alessandro Farnese, “compagno di baldorie” del conte Alfonso, interessato ai reperti tanto da far effettuare  scavi nel giardino e nella propria vigna. Un dipinto di Orsi “La Leda e il cigno” si ispira visibilmente  a un rilievo romano del II sec. d. C.  A Roma non c’erano più Perin del Vaga e Giulio Romano, scomparsi da 7-8 anni, ma artisti della stessa generazione di Orsi, tra cui proprio Marcello Venusti.   “ma su tutti – osserva Pirondini – sovrastava la presenza, silenziosa e immanente, del grande vecchio, Michelangelo, che da neppure un lustro sveva portato a compimento gli affreschi della Cappella Paolina; per tutti nuovo terribile oggetto di imprescindibile meditazione”.   Orsi ne fu fortemente influenzato, anche attraverso Venusti che ebbe modo certamente di conoscere. Nella primavera del 1574 Orsi torna a Roma   ma sembra per risolvere questioni economiche dei Gonzaga e non per impegni artistici.  

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Michelangelo, “Cristo vivo sulla croce”

Rispetto al grande Buonarroti, viene visto da Pirondini nel dipinto “San Giorgio” a Napoli   un “michelangiolismo toccato da  brillanti lumeggiature”, e da Briganti, in tanti dipinti di piccole dimensioni destinati ad opere religiose per devozione privata, un “michelangiolismo in miniatura”.

Oltre ai pochi riferimenti michelangioleschi che ci interessano in questa sede  per introdurre l’opera in mostra derivata da un disegno del Buonarroti, aggiungiamo che Pirondini, citata la definizione di Longhi come “uno degli artisti più significativi della sua epoca”,  lo descrive “fra onnivore sperimentazioni, inquiete e mutevoli esperienze, imprevedibili e personalissime invenzioni,  il tutto filtrato  e narrato con quella strana ‘Natura ed espressione’, con quel particolare umore emiliano…” tradotto nell’iscrizione che volle  sulla sua tomba: “Laelio Urso in architectura magno in pictura maiori et in delineamentis optimo…”. 

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Marcello Venusti, “Cristo vivo sulla croce”, post 1550

L’Annunciazione e la Madonna del  Silenzio

L’”Annunciazione” di Marcello Venusti, 1550-55 e quella di Lelio Orsi, 1555-60 mostrano la chiara dipendenza  dal disegno michelangiolesco  della Perport Morgan Library di New York, esposto a confronto in riproduzione.  L’ “Annunciazione” di Venusti,  che si avvalse direttamente del disegno originale ottenuto dal cardinale Federico Cesi grazie a Tommaso de’ Cavalieri, è più vicina al disegno ispiratore  sia nelle figure della Madonna e dell’Angelo, praticamente sovrapponibili, sia nell’atmosfera soffusa senza i forti contrasti che invece appaiono  nel dipinto di Orsi, il cui Angelo che sembra balzare dalla finestra nella stanza – quindi è più un’irruzione che una magica apparizione – si differenzia nettamente anche come  aspetto e atteggiamento da quello di Michelangelo e di Venusti. praticamente collimanti.  

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Marco Pino, “Cristo vivo sulla croce” , 1570-80

Il dipinto di Orsi è tornato a Novellara, e di qui è venuto a Roma, dopo un’odissea di secoli. Da Modena a Roma nel 1618  per arredare la residenza  del cardinale Alessandro d’Este, ma già nel 1624 non figura più nella sua raccolta, forse perché donata a Maffeo Barberini divenuto papa nel 1623;  dopo 55 anni risulta appartenere al collezionista  padre filippino Sebastiano Resta il quale lo mette in vendita addirittura con un’autentica firmata da una serie di artisti  dell’epoca che lo attribuisce al Cotteggio, l’autentica figura ancora nel retro dell’opera; solo dopo la vendita,  a seguito di un viaggio in Emilia dove conosce direttamente le opere di Orsi e di Correggio, Resta si accorge dell’errore di  attribuzione.  Intanto il quadro ai primi del ‘700 è in Inghilterra nella collezione, che comprende altri quadri italiani,  di John Churchill,  duca di Marlboroogh, condottiero di epiche battaglie contro i francesi, ancora sotto il nome del Correggio.  Fu rivenduto mentre apparteneva alla raccolta del  7° duca della dinastia, John Winston Spencer Churchill,  nonno del celebre primo ministro inglese che porterà il suo paese alla riscossa nella 2^ guerra mondiale; forse alla metà dell’’800, dato che non figura  più nell’inventario della sua raccolta datato 1851 e tanto meno negli elenchi delle due tornate d’asta presso Christie’s del 1886 quando fu alienata parte della sua raccolta dopo la sua scomparsa. 

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Michelangelo, “Deposizione di Cristo”

L’opera sparisce per ben un secolo, finché riappare  nel 1950 nientemeno che a Roma, sul mercato antiquario, proveniente dall’Inghilterra e attribuita non più al Correggio ma a Venusti; Federico Zeri la attribuì a Orsi in uno scritto del 1952, L’odissea non è finita, l’opera viene acquistata dall’ambasciatore dell’Argentina presso la Santa Sede, Maximo Erchecopar.e trasferita a Buenos Aires, ma nel 1988 viene messa all’asta a Milano, aggiudicata a una galleria londinese, e poi ceduta nel 1991 al notaio italiano Carlo Veneri  che la riportò a Reggio Emilia; alla sua morte la famiglia  la vendette nel 2002 al comune di Novellara. In questo interminabile gioco dell’oca l’opera torna si torna alla casella iniziale dopo aver fatto il giro del mondo. Non foss’altro per questo, vederla a Palazzo Barberini a fianco a quella di Venusti suscita viva  emozione, è un evento ececzxionale.

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Marcello Venusti, “Deposizione di Cristo” , 1550-60

Della “Madonna del Silenzio” l’attribuzione a Marcello Venusti è ritenuta la più probabile, anche se in passato veniva citato “Prospero Bresicano e lo stesso Michelangelo o altri della sua scuola, per l’edizione  delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica proveniente dalla collezione Falconieri, mentre per quella del Museo di Lipsia la firma dell’artista Venusti dovrebbe togliere ogni dubbio. Fanno parte di una serie di  copie di piccolo formato ispirare al disegno di  Michelangelo dell’Harley Gallery  di Nottinghamshire, esposto in riproduzione, con il Bambino abbandonato sulle ginocchia della madre in un’anticipazione della Passione per il richiamo alla Pietà, mentre è come se con la sinistra togliesse un velo invisibile e con la destra  tiene un libro, il piccolo san Giovannino con il dito sulle labbra invita al silenzio e alla meditazione dinanzi al mistero della fede.

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Jacopino del Conte, “Deposizione di Cristo”, 1550-60

La Passione di Cristo

Nell’intero ciclo della “Passione” troviamo sempre Venusti, in interessanti raffronti con altri artisti dell’epoca oltre che con le riproduzioni esposte dei disegni ispiratori di Michelangelo.

Per “L’Orazione nell’orto” il raffronto è fra tre dipinti riferiti allo stesso  Marcello Venusti  tra il 1565 e il 1570, mentre il disegno ispiratore di Michelangelo, del Gabinetto degli Uffizi, è appena  abbozzato  e molto oscuro rispetto alla nitidezza cromatica  dei dipinti delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica e  della Fondazione Marignoli di Montecorona di Spoleto, e alla chiarezza adamantina  senza il profilo di Gerusalemme di sfondo del dipinto del Museo storico di Vienna, forse della bottega. E’ veramente stimolante cercare assonanze e differenze tra i dipinti dello stesso artista e il disegno di Michelangelo, questa volta appena delineato e fonte di ulteriore curiosità.

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Michelangelo, “Pietà”

La “Crocifissione” è il momento successivo, l’opera di Venusti, “Cristo crocifisso vivo, con la Madonna, san Giovanni e Maria Maddalena ai piedi della croce” è riferita a due disegni di Michelangelo, “Cristo vivo sulla croce” del British Museum di Londra, e “la Madonna, san Giovanni Evangelista” del Louvre parigino, i cui motivi ispiratori sono riuniti, con l’aggiunta di altre figure, nel dipinto del Venusti, molto cromatico ed espressivo. Va sottolineato che a Michelangelo va il merito di aver riscoperto, nel disegno per la marchesa Vittoria Colonna, sua sodale, l’immagine di Cristo sulla croce  senza altre presenze, visto nella sua nudità e nella sua solitudine,  cui sono seguite molte versioni.

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Marco Pjno, “Pietà”, 1570-75

Questo disegno  ha ispirato anche il “Cristo vivo sulla croce”, dall’identico titolo, attribuito a Marco Pino, 1770-80,   un Crocifisso essenziale, impressionante su fondo nero, mentre nella Crocifissione” dello stesso Pino,  della chiesa dei santi Severino e Sossio di Napoli, si affollano molte figure, pur se il richiamo michelangiolesco è ancora presente.

Dalla “Crocifissione” alla “Deposizione di Cristo”,  ancora di  Venusti,  1550-60, la torsione del busto di Cristo adagiato sul sepolcro da Giuseppe d’Arimatea e san Giovanni è  michelangiolesca, come lo  è la sproporzione delle braccia rispetto  al petto nella vista di scorcio; oltre che per questi caratteri richiama il disegno di Michelangelo dell’Oxford Ashmolean Museum – una composizione ben diversa, a differenza dei disegni precedenti sostanzialmente collimanti –  il viso urlante sulla destra.  Dello stesso  titolo l’opera di  Jacopino dal Conte, 1560-70, chiaramente ispirata nel corpo abbandonato e statuario del Cristo non al disegno ma alla “Pietà Bandini” di Firenze.

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Marcello Venusti, “Pietà”, 1570-79

Con due “Pietà” dipinte dal solito Venusti, 1570-79,  e da Marco Pino, 1550-75, si conclude la galleria cristologia, questa volta l’aderenza al disegno michelangiolesco  dell’Isabel Stewart Gardner Museum di Boston  è completa in entrambe le opere, mentre  un’ulteriore “Pietà” di Venusti in una chiesa di Palermo se ne distacca nella posizione delle braccia della Madonna e di Cristo  e nell’assenza dei due angeli che aiutano a sollevare il corpo. 

Un percorso istruttivo e stimolante

Non posiamo nascondere l’emozione, giunti al termine del percorso, breve ma intenso, per un itinerario che inizia con l’”Annunciazione” e termina nella “Pietà”, con i passaggi intermedi della Passione di Cristo, scandito da confronti suggestivi con i disegni michelangioleschi ispiratori e tra le opere di diversi artisti che ne sono derivate. Di più non si può chiedere all’approfondimento colto, fonte di scoperte che suscitano l’intimo coinvolgimento del visitatore,  partecipe di una riscoperta nella quale, attraverso le comparazioni, può trovare, oltre alla normale condivisione, elementi personali di valutazione e di giudizio.

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Marcello Venusti, “Giudizio Universale” , 1541
copia dell’affresco di Michelangelo

Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie.  www.barberinicorsini.org; per informazioni, omunicazione@barberinicorsini.org.  Catalogo: “Michelangelo a colori, Marcello Venusti, Lelio Orsi, Marco Pino, Jacopino del Conte”, a cura di Francesca Parrilla, con la collaborazione di Massimo Pirondini, De Luca Editori d’Arte, settembre 2019, pp.120, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli autori citati, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi. com, Tiziano 10-15 maggio 2013, Michelangelo (e Rafffaello) 12, 14, 16 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto” 6 febbraio 2012 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Delle immagini riportate, 13 sono state  riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, e 7 tratte dal Catalogo (le n. 2, 5, 16, 19-22), si ringrazia la Direzione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; alcune opere, prima di essere riportate come singole, sono riportate affiancate per un confronto diretto. In apertura, “Annunciazione”, affiancata quella di Michelangelo, a sin., e di Marcello Venusti a dx, singolie Marcello Venusti 1555-60, e Lelio Orsi 1555-60; poi, “La Madonna del silenzio”, affiancati Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx, singoli Michelangelo e Marcello Venusti post 1563; quindi, “La preghiera nell’orto”, affiancati Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx, singoli Michelangelo, due di Marcello Venusti 1565-70 poi insieme a confronto diretto; inoltre, “Cristo vivo sulla croce” , affiancati Michelangelo al centro, Marcello Venusti a dx, Marco Pino, a sin., singoli Michelangelo, Marcello Venusti post 1550, Marco Pino 1570-80; ancora, “Deposizione di Cristo” , singoli Michelangelo, Marcello Venusti 1550-60, Jacopino del Conte 1550-60; continua, “Pietà”, singoli Michelangelo, Marco Pino 1570-75, Marcello Venusti 1570-79; infine, Marcello Venusti, “Giudizio Universale” 1541, copia da Michelangelo e, in chiusura, la Locandina della mostra.

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La Locandina della mostra

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Rambaldi, il mago degli effetti speciali, e Tecniche d’Evasione, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

In contemporanea con la  mostra “Sublimi anatomie” ,  dal 22  ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 al Palazzo Esposizioni, di Roma, al piano superiore,  la mostra “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a  Makinarium”  espone una serie di reperti e documentazione di prima mano sui maggiori successi cinematografici del mago degli effetti speciali insignito di 3 Premi Oscar, e presenta l’organizzazione che ha curato la mostra e si muove,  per così dire, nello stesso campo della meccatronica con gli ultimi aggiornamenti.   Sempre al piano superiore,   la mostra fotografica “Tecniche d’Evasione” con una serie di immagini che esprimono il disorientamento dinanzi all’oppressione comunista all’Est, forse i veri mostri.

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Carlo Rambaldi mentre riceve uno dei 3 Premi Oscar

Notevole l’impegno per queste mostre, oltre che per le “Sublimi anatomie” con l’aula realizzata al centro della rotonda. Qui tutto si svolge al piano superiore con visite guidate e laboratori per le scuole e,  per Carlo Rambaldi, una programmazione cinematografica ricca di  25 film  dal 29 ottobre al 9 dicembre 2019 a cadenza quasi giornaliera a parte l’intervallo dal 10 al 20 novembre.

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Le stuatuette dei suoi 3 Premi Oscar

Un ricordo personale, il nostro  incontro con Rambaldi prima dell’escalation americana

I film, dei quali Rambaldi ha curato gli effetti speciali, sono stati realizzati dal 1962 al 1984, in un’escalation di successi scandita da 3 Premi Oscar.  Ma prima di parlare  della sua storia e  di quanto viene presentato nella mostra, vogliamo rievocare il nostro lontano incontro con lui. Avvenne a Cinecittà, in una specie di antro carico di oggetti e di strumenti, a parte in una nicchia c’era un grande plastico che riproduceva la penisola italiana immersa nel mare con modellati i profili monumentali delle città d’arte..

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Una delle prime creazioni per il “Pinocchio” di Comencini

Era quello l’oggetto della visita di chi scrive con il collega Peppino che era stato avvicinato dall’amico Gabriele cognato di Rambaldi per avere un aiuto nella preparazione del progetto collegato a quel plastico: la realizzazione di un centro divertimenti alla “Disneyland” ma italianissimo,  aveva già pensato al nome, “Minitalia”, oltre che all’impostazione e alla struttura, di lì il plastico.  Aveva idee molto chiare su questo centro, la “penisola”  percorribile a piedi e con veicoli appositi, i monumenti in corrispondenza delle città d’arte realizzati con un materiale speciale da lui escogitato, e tutto il resto. Occorreva fare, però, la valutazione economica basata sui costi di realizzazione e di esercizio e sulle previsioni di ricavi considerando i prevedibili afflussi, e per la realizzazione bisognava identificare l’area disponibile nei dintorni di Roma e trovare i finanziamenti.

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I “Guerrieri” pet il film di Roger Vadim

Non era poco, ma l’entusiasmo era tanto, come l’entusiasmo mostrato da Rambaldi nel mostrarci, oltre alla maschera di Polifemo realizzata per l’’Ulisse televisivo, il Pimocchio meccanico e soprattutto un robot semovente i cui movimenti erano imprevedibili perché determinati su base casuale; di questo particolare era orgoglioso, non capimmo perchè, lui lo considerava eccezionale.  Ci mettemmo subito al lavoro,  chi scrive per il Business Plan, in collaborazione con il collega Rosario esperto statistico per il quadro previsionale degli arrivi e delle presenze, mentre il collega Peppino che teneva i contatti, esperto in relazioni esterne, per trovare il comprensorio in cui realizzare il vasto insediamento – lo stivale percorribile con le acque dei mari  solcate da battelli con i visitatori – e soprattutto i finanziamenti necessari.

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Uun modello di “King Kong”

Il  progetto fu preparato, nel “Business Plan”  le  previsioni erano compatibili con la sostenibilità e redditività economica, furono trovate due possibili aree, una  verso  Anguillara sul lago di Bracciano, l’altra addirittura tra Roma e Ostia  nelle proprietà di un conte, se non ricordiamo male, si fecero i primi sondaggi per i finanziamenti. A quel punto con nostra sorpresa uscirono  le fotografie del plastico con le notizie sull’iniziativa allo studio in due pagine a colori della Domenica del Corriere, pensammo fosse su iniziativa di Rambaldi per un primo lancio, e forse fu un errore perché qualche tempo dopo ci fu un’altra notizia: un industriale produttore di tute, ci sembra di ricordare, stava per realizzare una “Minitalia”.

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Un braccio meccatronico di “King Kong”

In effetti – non sappiamo se da quest’industriale o da altri – la “Minitalia” è stata effettivamente realizzata vicino Rimini, ma  non da Rambaldi. Il quale, però, tornato dall’America dopo il  successo planetario di ET,  ha realizzato “Millennium”,  dedicato alla storia dell’umanità dalla  preistoria,  idealmente vicino a “Minitalia” perché basato anch’esso, pur su ben altro tema, sui soggetti realizzati con lo speciale materiale e sulla creazione intorno a questo, di unas sede di svago e divertimento.

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Il primo “alieno”

Perché abbiamo raccontato questa lontanissima vicenda personale? Perché ci sembra dimostri come venga da lontano lo spirito di iniziativa di Rambaldi, la sua ricerca di interessare il pubblico,  che ne ha segnato la inarrestabile escalation  cinematografica.

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L’interno meccatronico dell’alieno

L’intensa cinematografia di successo  del ”mago degli effetti speciali”

Erano i suoi primi passi all’epoca del nostro incontro per “Minitalia”, infatti aveva uno spazio  a Cinecittà,  aveva già lavorato nel 1962  a  “Ti- Kojo e il suo pescecane”  di Folco Quilici, e forse la poesia dell’incontro tra il pescatore e il pescecane  gli era rimasta così impressa da esprimerla a livelli indimenticabili con il gigantesco gorilla e il temibile alieno, tanto che King Kong, Alien ed  ET sono scolpiti nei ricordi di ognuno di noi per la poetica tenerezza delle loro espressioni intrise di una  struggente umanità in contrasto con il loro aspetto “alieno” che veniva magicamente annullato.

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Rambaldi dinanzi al grafico di “White Buffalo”
ne indica i meccanismi interni

In quegli anni,  nel   1965, ha lavorato per  “Giulietta degli spiriti” di Fellini,   “Marcia nuziale”  di Marco Ferreri e  “Terrore nello spazio”  di Marco Bova, di cui ha curato gli effetti speciali in “Diabolik” nel 1968; nella prima metà degli anni ’70 è con Sergio Collima per “La città violenta”  nel 1970,  con  Dario Argento per “Quattro mosche di velluto grigio” e  Lucio Fulci  per “Una lucertola con pelle di donna” , entrambi nel 1971,  con Fulci anche per “Non si sevizia un paperino”  del 1972, anno in cui lavora anche con Pier Paolo Pisolini  per “I racconti di Canterbury”.

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Un’altra sua creazione con l’interno meccatronico

Il 1973 è l’anno dalla sua  partecipazione al film “La grande abbuffata” che lo vede ancora con Marco Ferreri e a “Il mostro è in tavola. Barone Frankestein” con Paul Morissey e Antonio Margheriti, con i quali lavorerà per un altro film su personaggi horror, “Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete” nel 1974, anno nel quale torna anche con Pasolini per “Il fiore delle Mille  e una notte” e lavora con Sergio Garrone in “Le amanti del mostro” e “La mano che nutre la morte”. Con  Pupi Avati nel 1975 per “La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone” , e Dario Argento per “Profondo rosso” ,  fino al 1976  nell’ultima apparizione italiana di nuovo con Marco Ferreri per “L’ultima donna”.

Rambaldi con la sua celebre creatura, “ET”, da angelo custode

La magistrale realizzazione di effetti speciali nei film citati non poteva passare inosservata, si trasferisce a Hollywood  alla metà degli anni ’70, il  lancio  con “King Kong” di  John Guillermin nel  1976  con cui ebbe il primo Premio Oscar per  gli “effetti speciali” e la conferma con “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg e “Sfida a White Buffalo” di J. Kee Thompson nel  1977, finché con “Alien” di Ridley Scott  nel 1979 il secondo  Premio Oscar.  Dopo “Possession” di Andrzei  Zulawski, e “La mano” di Oliver Stone, entrambi del 1981, ecco  l’esplosione planetaria con la creazione di “ET. L’extraterrestre”, ancora di Steven Spielberg,  ma l’alieno è diverso da quello della fugace apparizione al termine degli  “Incontri ravvicinati”, qui è un personaggio centrale del film, anzi ne diviene il protagonista e il suo creatore merita il terzo Premio Oscar.  

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Modellini di “ET, l’extratererstre”

 Seguiranno   “Dune” di David Lynch e “Conan il distruttore” di Richard  Fleischer nel 1984, “Unico indizio. La luna piena” di Daniel Attias nel 1985, fino a “Kng Kong lives” ancora di Guillermin nel 1986. Nel 1988 gli ultimi due film, “I demoni della mente” di  Armand Mastroianni e “Furia primitiva” con la regia del figlio Vittorio Rambaldi, una bella conclusione in ambito familiare di una vita artistica così movimentata. Questo, infatti, è l’ultimo film della ricca programmazione  collaterale alla mostra.

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Un disegno di “ET” con i suoi meccanismi

L’ arte  e la poesia  nella meccatronica degli “effetti speciali”

Questa la gran parte dei 35 film del percorso  di Rambaldi – 20 anni  di  attività nel cinema con  “effetti speciali” tanto perfetti da sembrare veri – 25 dei quali nel ricco programma cinematografico  della mostra. Con i grandi successi culminati nei tre Premi Oscar che ricordiamo  ancora, tale è stata la loro risonanza: nel  1976  con King Kong, nel 1979 con Alien e nel 1982 con ET, seguiti da altri premi come lo speciale “David di Donatello” e il premio della Los Angeles Film Association, nel 1982, e “Mysrtfest” nel 1985.

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L’interno meccatronico di “ET”

I suoi successi sono derivati da una creatività e spirito di iniziativa sostenuti dal talento, che ne hanno fatto un innovatore nel campo degli “effetti speciali”, termine forse riduttivo alla luce del modo radicalmente diverso in cui ha svolto quella funzione apparentemente marginale nel cinema. Da un punto di vista tecnico ha introdotto la “meccatronica”, “meccanica ed elettronica unite negli “effetti speciali”, la “meccanica dei mostri”,  come la chiama il titolo dell’esposizione,  anche se ai “mostri”, da lui resi animati come degli automi, ha dato un’identità e un’umanità che li ha resi dei personaggi familiari divenuti beniamini del grande pubblico. C’è un’importante componente ingegneristica nella sua opera ma soprattutto un afflato poetico e anche artistico. Del resto, si è laureato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna  alla quale si iscrisse dopo aver conseguito un diploma da geometra, quindi formazione artistica dopo quella tecnica.

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Lo sguardo tenerisismo di “ET”

Abbiamo citato i suoi film dal 1962, ma il suo ingresso nel mondo del cinema risale al 1956.  nel film  “Sigfrido” di Giacomo Gentiluomo per il quale diede vita a un drago della lunghezza di 16 metri. Nel decennio successivo  le sue capacità negli effetti speciali si imposero, tanto che nel 1972  un magistrato gli affidò il compito di riprodurre in un manichino il corpo dell’anarchico Pinelli morto tragicamente nella caduta dalla finestra della questura di Milano per l’esperimento giudiziale. Forse alla base di questo incarico ci fu il suo intervento nel giudizio che era stato intentato contro il regista Fulci  imputato di maltrattamenti e crudeltà verso gli animali per la cruenta vivisezione raffigurata nel film del 1971 prima ricordato “Una lucertola con la pelle di donna” in cui lui aveva curato gli “effetti speciali”: portò le prove che i “cani”  apparsi  vivisezionati erano  fantocci meccanizzati realizzati così bene  da sembrare veri; e questa capacità dimostrata giudizialmente fu il presupposto per l’incarico del manichino di Pinelli.

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Makinariun, un disegno di “mostro

Ma il suo maggior merito non risiede tanto nell’aspetto tecnico, pur rilevante, quanto nella forza espressiva che ha saputo dare alle sue “creature” rendendole, come abbiamo già detto, figure amate dal pubblico andando molto al di là degli “effetti speciali” a lui richiesti.  E questa è cultura, questa è arte senza tempo, è anche poesia, in  una simbiosi feconda con la tecnica come portato dei tempi moderni.

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Un modello di “mostro”

Vediamo esposto il modello di “King Kong” e il gigantesco braccio meccanico con il quale sorreggeva Jessica Lange nella dolcissima scena dagli sguardi tenerissimi per tranquillizzare la giovane spaventata,  il primo modello di “alieno” con l’interno meccatronico, la fotografia  in cui lui indica le parti evidenziate per essere meccanizzate di“White Buffalo”,  alcune realizzazioni con i congegni meccatronici in vista, un  inestricabile groviglio di ingranaggi all’interno delle figure semoventi aperte per mostrare la complessità del  “motore” che le muoveva.

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Un modello per film

Torna  il pensiero al robottino semovente che a metà degli anni ’60 ci mostrò  muoversi  sul pavimento a Cinecittà, e ancora tutto doveva accadere. C’’è anche il timido ultraterrestre degli ”incontri ravvicinati del terzo tipo”.  Fino all’evocazione di “E. T., l’extraterrestre”  con gli occhi tenerissimi spalancati e la documentazione relativa sui progetti che mostrano le diverse facce ed espressioni, l’idea gli venne dal muso del suo gatto domestico, ma lo trasfigurò con il tocco dell’arte.   Ed è con questa immagine rimasta nel cuore di tutti che chiudiamo la rievocazione di Carlo Rambaldi, da “mago” a “poeta” degli “effetti speciali”.

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Modellini per film, di stuntmern

I continuatori, il gruppo Makinarium

La sua opera prosegue, in una continuità possibile perché precedeva i tempi, con il gruppo Makinarium, che si è affermato nel cinema di oggi , in cui si assiste al ritorno della meccatronica dopo l’ubriacatura digitale,  utilizzando tali tecniche in modo innovativo.   Si tratta di una “factory”, creata nel 2015, con creativi,  tecnici e artigiani che oltre alle tecnologie sperimentate, come la meccatronica di Rambaldi,  utilizza proprie tecniche  frutto di un’attività di ricerca sulla percezione visiva che ha consentito ad essa di acquisire una precisa identità nell’integrare  gli effetti fisici, meccanici ed elettronici con quelli digitali.

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Tecniche di evasione, “Sampietrini come “invito alla guerriglia”

Questo dal punto di vista tecnico, sotto il profilo artistico un punto di forza è l’approccio interdisciplinare dei creativi  appartenenti a diverse discipline, caratteristica incontrata anche nel grande gruppo leader nel campo dei fumetti, Pixar, che ha in comune con quello degli effetti speciali la creazione di esseri fantastici dalla forte presa sul pubblico. Hanno lavorato per Makinarium 200 professionisti, ha sede a Cinecittà e opera, oltre che nel cinema, nella televisione e nella moda, senza trascurare l’arte contemporanea.

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L ‘uomo con la bocca tappata dai giornali asserviti al regime

Nella  sezione introduttiva dell’esposizione, Makinarium, che l’ha curata, presenta proprie  realizzazioni, poi  si entra  nella mostra su Rambaldi con i “reperti” meccatronici  e documentali  che la società ha restaurato, dei quali abbiamo citato quelli maggiormente evocativi per noi.   In questo modo  la società impegnata nello stesso campo di Rambaldi ha dato un segno tangibile  della continuità con il suo  lascito tecnico ed artistico  qualificandosi ancora di più, e meritoriamente, come sua erede legittima.

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La giovane donna che si strappa il cerotto dalla bocca

“Tecniche d’evasione”  dai mostri dell’Est europeo

La mostra contemporanea sempre al piano superiore è radicalmente diversa, salvo l’assonanza tra la “meccanica dei mostri”  ai quali però Rambaldi riusciva a dare umanità e la “sopraffazione dei mostri” di un regime disumano nel sopprimere ogni libertà opprimendo i suoi cittadini. I quali hanno trovato il modo di esprimere la loro ribellione con le fotografie esposte nella mostra in cui vi è anche molta leggerezza e, anche qui, si sente il respiro dell’umanità così vilmente vilipesa.

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L’uomo nudo, inerme, travolto dall’’onda scura del potere

Le “tecniche di evasione” sono i sotterfugi ai quali ha fatto ricorso un gruppo di  artisti ungheresi  per reagire alla privazione della libertà  imposta dal regime comunista negli anni ‘60 e ’70 con una serie di strategie sovversive, quantomai pacifiche, attuate con immagini direttamente allusive o  di irrisione,  “per sfuggire ai controlli, per stordire la censura, eludere il potere, deriderlo, lasciarlo interdetto”.  Un spinta libertaria da cittadini insofferenti di  prevaricazioni ai loro diritti  primari alla quale si aggiunge soprattutto l’ulteriore spinta “per custodire e proteggere la propria fedeltà all’arte e al proprio sogno d’artista”.  A questo riguardo viene ricordato che l’arte, e quella contemporanea in particolare, spesso  “è stata, ed è tuttora, storia di clandestinità, di sotterfugio, di fuga, di elusione”. Sono parole della presentazione.

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Una scena irridente con la provocazione del nudo femminile

 Vediamo l’”invito alla guerriglia” dissimulato in 6 fotografie del terreno con sampietrini che vengono spostati in successione fino a raffigurare una stella.  Poi l’immagine dell’uomo, ripreso in primo piano con la bocca tappata da giornali appallottolati, è una denuncia quanto mai esplicità della stampa asservita al regime; ma in una sequenza di 12 fotografie una giovane donna si strappa il cerotto che le tappa la bocca, perchè nell’asfissiante propaganda di regime si comunica solo nel silenzio. Un’altra modalità di reazione è la scritta sui muri,   definiti “gradi di libertà”  con cui ci si sfoga nel modo più semplice e clandestino irridendo il potere che non può  controllare tale protesta popolare, è esposta una sequenza fotografica con  un giovane che compie questo gesto di ribellione. La sequenza ulteriore di 16 fotografie presenta un uomo nudo nel suo essere inerme e indifeso investito e travolto da un’onda scura, la violenza del potere.

Un’immagine poliziesca

C’è anche il “ritratto dell’artista”, con la strategia dell’insensatezza  e idiozia per smascherare l’ottusa rigidità del potere, vediamo fotografie eloquenti di questo nonsense libertario. E la realtà poliziesca, con l’agente simbolo di repressione di ogni libertà. Ma forse la forma più irridente, nella sua semplicità, è quella del giovane che si fa fotografare con l’immagine di Lenin,  ma poi ne copre provocatoriamente il viso sovrapponendogli il proprio, e con la falce e martello impugnati a muso duro fino al imbolo comunista che ha trovato segnato con la vernice nera su un muro di Firenze con lui a lato, un apersecuzione…

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Il giovane con il ritratto di Lenin, i loro volti a cvonfronto

E’ assolutamente geniale, per questo citiamo il nome dei due autori,  Katalin Ladik,  che ha scattato, Szemmbathy in posa nelle fotografie,  mentre le altre espressioni fotografiche dell’anelito alla libertà le  lasciamo nell’anonimato come simboli di tutti gli artisti che hanno sofferto  e operato nella clandestinità nella eversione soprattutto attraverso la  derisione pacifica.

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Il giovane provocatoriamente copre il volto di Lenin con il suo

Anche nella storia  di E.T:, per ricollegarci alla mostra su Carlo Rambaldi citando la sua creazione più geniale,  c’è l’irrisione del potere cieco e ottuso delle autorità locali  da parte  dei ragazzi che si identificano nel desiderio di libertà dell’extraterrestre. Tanti extraterrestri,  tanti ET., dunque, vediamo nel gruppo  degli artisti fotografi ungheresi, le loro “tecniche di evasione”  ci ricordano la cavalcata verso il cielo in bicicletta di E.T., come quella mezzo secolo prima di “Miracolo a Milano” sulle scope. E’  l’irrisione dei “mostri” del potere cieco e ottuso, come quello del comunismo dell’Est europeo.

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Il giovane impugna a muso duro la falce e martello comunista

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale, 194. Orario ore 10,00-20,00 per tutti i giorni di apertura con prolungamento alle 22,30 venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso euro 12,50, ridotto 10,00 (under 26 e over 6) ed euro 6 (7-16 anni e martedì-venerdì dalle ore 18), gratuito under 6 anni; condizioni particolari per speciali categorie e convenzioni. Brochure: “Sublimi anatomie, La meccanica dei mostri, Katy Couprie”, Palazzo delle Esposizioni, Public program, ottobre 2019, pp. 55, 2^ parte , “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a Machinarium” . Cfr. i nostri articoli, sulla mostra parallela “Sublimi anatomie” con “Katy Couprie” in questo sito 2 gennaio 2020; su Pasolini: in www.arteculturaoggi.com 27 ottobre 2015, 15, 27 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012, in fotografia.guidaconsumatore.com maggio 2011 (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 19 immagini sono su La meccanica dei mostri. Da Carlo Rmbldi e Makinarium”, le successive 10 su “Tecniche d’evasione”. Sulla prima mostra, in apertura, Carlo Rambaldi mentre riceve uno dei 3 Premi Oscar, seguito dalle stuatuette dei suoi 3 Premi Oscar; poi, una delle sue prime creazioni meccatroniche per il “Pinocchio” televisivo di Comencini, e i “Guerrieri” per il film di Roger Vadim; quindi. un modello di “King Kong” e un suo braccio meccatronico; inoltre, un modello di alieno e il suo interno meccatronico; ancora, Rambaldi dinanzi al grafico di “White Buffalo” ne indica i meccanismi interni e un’altra sua creazione con l’interno meccatronico; continua, Rambaldi con la sua celebre creatura, “E.T.”, da angelo custode…, e 4 immagini su “ET”, modellini e disegno, meccatronica e sguardo tenerissimo; cambia scena on 4 realizzazioni degli epigoni del gruppo “Makinarium”, disegno e modello di “mostro”, un modello per film e modellini per film, “stuntmen”. Seguono, sulla seconda mostra, Sampietrini che evocasno l'”invito alla guerriglia”, poi, l ‘uomo con la bocca tappata dai giornali asserviti al regime, e la sequenza con la giovane donna che si strappa il cerotto dalla bocca; quindi, la sequenza con un uomo nudo, inerme , travolto dall’’onda scura del potere, una scena irridente con la provocazione del nudo femminile e un’immagine poliziesca; inoltre, due immagini del giovane con il ritratto di Lenin, i loro volti a confronto, e dopo provocatoriamente copre il volto di Lenin con il suo, infine, altre due immagini del giovane, mentre impugna a muso duro la falce e martello comunista, e, in chiusura, al lato della falce e martello su un muro di Firenze.

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Il giovane a lato della falce e martello su un muro di Firenze

Sublimi anatomie, e Dizionario folle del corpo, scienza e arte al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La  mostra “Sublimi anatomie”  presenta al Palazzo Esposizioni, dal 20  ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 una serie di opere artistico-scientifiche sul corpo umano di cui l’anatomia ha rivelato gli aspetti nascosti, collegate al percorso culturale dal XIV sec. illustrato nei pannelli esplicativi.   La mostra è stata curata da  Andrea Carlino e Philippe Comar, Anna Luppi, Vincenzo Napolano e Laura Perrone. Per tutto il  periodo dell’esposizione una serie di conferenze e “performance” nell’aula anatomica” ricostruita nella rotonda centrale.  Collegata la mostra al piano  superiore “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”.  Sono in programma laboratori, corsi e incontri.

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Ecotomografia luminosa del corpo umano

Al Palazzo Esposizioni  è stata esplorata  “la matrice prima della vita” con la mostra “DNA” del 2017, poi si è proiettato “il futuro della nostra specie” con la mostra “Human” del    2018. Ora,  con  “Sublimi anatomie”,   si compie un ”viaggio tra passato e presente, tra scienza e arte nella contemplazione del corpo umano”, così la presentazione. Viene rievocato  lo stupore suscitato dalle scoperte delle parti del corpo, da quelle visibili a quelle più nascoste rivelate dall’anatomia. Il “Dizionario folle del corpo” di Katy Couprie correda e integra la ricognizione artistico-scientifica.

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Due tavole anatomiche a figura intera

Perché sublimi anatomie

“L’anatomia è l’inizio della Teologia, è il punto di accesso all’agnizione di Dio”, scrisse intorno al 1500 il teologo protestante Filippo Zelantone, e questo perché la conoscenza approfondita della macchina umana è  una prova delle meraviglie della creazione. Ma c’è anche la concezione laica, altrettanto significativa,  “conosci te stesso”, l’imperativo socratico, si trova come iscrizione in  molte tavole anatomiche, la mente  e l’anima sono uniti al corpo nella visione filosofica Anche nell’età moderna è restato vivo l’interesse al corpo umano, fonte di sempre nuove scoperte.

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La bellezza statuaria greca come riferimento ideale

La qualifica di “sublime” data all’anatomia, che troviamo nel titolo della mostra, ha origini storiche, anche se meno antiche,  risale al 1840 l’istituzione da parte di Pietro Leopoldo  all’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova  della cattedra di “Anatomia Sublime e delle Regioni” passata nove anni dopo a Filippo Pacini, professore da due anni all’Accademia Belle Arti di Firenze di “Anatomia pittorica”, qualifica espressiva dell’interesse dell’arte per il corpo anatomico. Un interesse questo che risale all’Accademia del disegno fondata da Giorgio Vasari, nel 1583, nella quale si faceva la dissezione dei corpi  per insegnare la relativa raffigurazione; del resto Leonardo  è stato un maestro al riguardo nei suoi manoscritti con i disegni particolareggiati di tante parti anatomiche.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, 14° sec.

Tornando al “sublime”,   è un concetto di origini antichissime, nasce con il “Trattato  del Sublime”, forse di Pseudo_Longino del I sec. d.. C.,  come superiore al “Bello” per la sua maggiore forza persuasiva; si riferiva al fascino dell’ascolto di un retore che “trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all’estasi “ e dà “un senso di smarrimento” prevalendo su ciò che è logico, mentre “conferendo al discorso un potere  e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore”, addirittura “il sublime è come un fulmine”.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 2, 14° sec.

In tempi meno lontani, il  movimento romantico, con Kant e Schopenauer  gli ha dato una posizione di rilievo nella filosofia e gli artisti non ne sono  rimasti insensibili; il “Sublime” viene contrapposto al “Bello”. Frequente l’attribuzione di connotati drammatici, non più estetici, addirittura  è ritenuto “l’orrendo che affascina”,  e in quanto tale  fonte di terrore e “della più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”, e certamente  le dissezioni anatomiche suscitavano queste reazioni e questi sentimenti estremi.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile, 1823

Inoltre il concetto di “Sublime”  viene posto in primo piano anche nella celebrazione della grandezza di Dio e della profondità dell’io, visto come forza persuasiva e come momento irresistibile; e a parte i riferimenti alla retorica oratoria sono sempre alla ribalta il corpo umano e l’anatomia che lo esplora.

Di qui il titolo della mostra e la presentazione in ciò che viene esposto  nelle gallerie a raggiera intorno alla rotonda centrale di quanto la scienza e l’arte hanno elaborato sulla base di ciò che l’anatomia ha fatto scoprire del corpo umano  esaminato nelle diverse condizioni, parti e situazioni.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, femminile, 1823

Ma non c’è soltanto questo nella mostra. Nella rotonda centrale è stata ricostruita una sorta di “aula anatomica” nella quale si svolgono nel periodo espositivo, a ritmo incalzante, lezioni di disegno, lezioni magistrali e lezioni di danza, performance e conferenze, nel clima creato dal contorno artistico-scientifico. Il tutto con i più qualificati esponenti italiani ed internazionali delle diverse discipline interessate.     

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Vetrine con sttaue ceroplastiche adagiate su materasso

Anatomisti e artisti uniti nel rivelare le “interiora corporis

L’inizio del XIV sec. segna l’avvio della pratica di dissezione del corpo umano superando gli ostacoli di natura religiosa; le “interiora corporis” sono fondamentali per conoscerlo,  ma nel periodo medioevale ciò avveniva senza immagini, per cui l’opera degli anatomisti era destinata ad essere dimenticata.  In seguito agli anatomisti si affiancarono gli artisti e, con il Rinascimento,  questi ultimi si interessarono notevolmente, come vediamo nei maggiori maestri, Leonardo e Michelangelo, perfino Raffaello e i Carracci. 

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Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.

Nei volumi di anatomia venivano inserite illustrazioni,  300 nel primo trattato “De umani corporis fabrica” del 1543 opera forse di  Calcar della bottega di Tiziano,  quindi nascevano dalla collaborazione tra anatomisti ed artisti fino alla metà del XIX sec. Mentre all’inizio venivano sottolineati gli aspetti macabri della dissezione, poi diventarono più accettabili  e le riproduzioni di immagini piane su atlanti scientifici toglievano ogni pathos alla raffigurazione.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alal seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”. 2^ metà 17° sec.

Vediamo nella  galleria espositiva il plastico dell’Aula di Anatomia di Bologna, poi delle  pagine di un Atlante di anatomia, “Anatomiae Universae Icones di Paolo Mascagni e Antonio  Serantoni, con la testa e le varie parti del corpo, e due figure intere in trasparenze anatomiche senza alcun effetto straniante.

Inoltre delle rappresentazioni molto diverse dell’intero corpo umano a grandezza naturale, una Ecotomografia   luminosa con l’evidenza dei  muscoli negli arti e degli organi interni  e, questa volta in rilievo, un ”Manichino intero d’uomo” in due diverse posizioni, con disegnato il sistema venoso sul colore rosato della carnagione, autore Louis Thomas  Auzoux del XIX sec.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grand epettorale destro”, 2^ metà 17° sec.

Non fu semplice, nelle prime fasi,  operare le riproduzioni anatomiche per la difficoltà di avere a disposizione un cadavere,  inoltre sorsero subito problemi di natura estetica per gli artisti a seguito del  dettato aristotelico secondo cui l’arte non deve essere una “mimesi” della natura che si limita a copiarla, ma deve idealizzarla e per nobilitarla apportare anche le correzioni, per questo si tendeva addirittura ad ispirarsi alla statuaria greca. Il cadavere, anche se “scarnificato” doveva avere una propria dignità nel XV e XVI sec., poi al  messaggio di ”memento mori” seguì una visione più inquieta della vita, con la coppia  eros-thanatos mentre era vivo il problema di conciliazione tra precisione scientifica e invenzione artistica.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, 2016

In questo contesto si collocano le riproduzioni in ceroplastica, che risalgono all’istituzione a Firenze nel 1775  del Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, poi intitolato “La Specola”,   con un’Officina di ceroplastica, in cui lavoravano specialisti ceroplasti  con medici anatomisti, come Pietro Mascagni e Felice Fontana. L’imperatore d’Austria Giuseppe II ne commissionò 1200 pezzi dando lavoro per cinque anni all’officina, anche Napoleone dopo una visita al Museo nel 1796 fece un cospicuo ordinativo. Il direttore del Museo nel 1808, Girolamo dei Bardi,  parla così negli Annali del Museo della ceroplastica: “E’ la Bell’Arte d’imitare in cera ogni sorta di anatomiche preparazioni dirette  a mostrare nel suo insieme  e nei suoi dettagli il meccanismo mirabile della macchina umana e delle sue funzioni”.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 2, 2016

Al riguardo, va considerato che tali opere  furono giudicate, nelle varie fasi storiche,  “imitazioni ingannevoli” della natura, perchè contrarie all’idea di arte idealizzatrice,  nonostante il successo che ebbero  nel  XVII sec. con migliaia di visitatori – erano nate all’inizio di tale secolo – e poi opere che mentre assicuravano la massima veridicità scientifica assurgevano in molti casi a una  qualità artistica anche elevata. 

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Diego Perrone, “Senza Titolo”, 2016

Oggi si ritiene che l’opera in ceroplastica  modellata sul corpo reale ne  recepisca le proprietà ponendosi non come copia ma come “doppio” con la sostituzione del corpo o di parte di esso; quindi non si tratta più di un semplice manichino di cera ma di un qualcosa di molto vicino al reale come negli “ex voto”. Così la presentazione: “Le statue anatomiche in cera in ogni epoca evocano sempre un profondo disagio dell’osservatore, in quanto immagini repliche dei corpi hanno il potere di instaurare un dialogo diretto, senza il filtro, di metafore o allegorie, col nostro vissuto”.

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Una scultura evocativa di torso umano

Una  sala della mostra è dedicata a vetrine contenenti ceroplastiche del Museo fiorentino prima citato, “La Specola”,  con quanto  di misterioso si è impresso in quelle figure umane di cera, “capaci, cioè – è sempre la presentazione – di diventare carne o simulacro di essa e d’imprigionare dentro di sé i propri fantasmi”.

“Interiora corporis”

Tornando all’esplorazione anatomica, viene osservato che il corpo umano “è stato per molti secoli come entità chiusa, dalle mirabili forme esteriori  ma abitato da interiora misteriose e inaccessibili”  E a questi aspetti intimi  quanto reconditi veniva associato “un potente apparato simbolico-mitologico, la cui decifrazione è complessa e talvolta sfuggente”.  Gli Atlanti anatomici di cui si è detto  cercavano di mettere ordine alla parte “informe, tutto ciò che del corpo dovrebbe restare segreto e nascosto, perché una volta svelato rischierebbe di declassare la mirabile fabrica umana a povera matrice corruttibile”.  

Dopo le “interiora corporis”, la parte superficiale, la pelle

Quello che viene definito “intus anatomico” viene studiato soprattutto dall’inizio del XVII sec., attribuisce al cuore  e all’apparato circolatorio la fonte della passione e della sensibilità; notevole interesse negli studi sul corpo femminile in particolare sull’apparato riproduttivo, non più in relazione all’uomo ma considerati in modo  diretto e autonomo.  Vediamo esposta una serie di statue  di terracotta di Giovan Battista Manfredini, con una donna incinta  e una donna cui sono state asportate la cute e altre parti del busto.

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Altra evidenza della parte superficiasle, la pelle

La Chiesa non ostacolava più gli studi   anatomici e le raffigurazioni degli artisti come “rivelazione della presenza divina modellata sulla forma umana”  espressa, quindi, non solo dall’esterno ma anche dalle parti interne. Ignazio di Lodola, nei suoi “Esercizi spirituali” invita a contemplare la ferita al costato di Cristo sulla Croce perché  da quall’apertura, come una bocca, si  vede all’interno il suo cuore fonte di vita eterna.

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L’architettura corporea come un’armatura

Si va anche oltre la dissezione anatomica con la visione del “corpo trasparente”, cioè vivente, i cui disegni diventano espressione scientifica oltre che artistica,  come avviene nei disegni di  Leonardo. Entrando nei dettagli viene sollevato il tema dell’Intelligenza sensibile”: parte dal cervello e  trasforma i suoi impulsi nervosi in azioni  attraverso “corpuscoli” che facendo contrarre i muscoli azionano gli arti, in un rapporto tra mente e  mano alla quale va il compito di tradurre il pensiero nel gesto che incide sulla realtà, come teorizzato da filosofi come Heidegger e Derida.  La concordanza tra linguaggio e gesto si traduce nel disegno con il ruolo di sintetizzare  il pensiero.

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Una statua del corpo umano nella sua interezza

Si passa alla parte più superficiale, la pelle, con la “percezione aptica”,  più penetrante della percezione visiva: non si può definire né di origine esterna né interna, comunque con il contatto corporeo consente di “vedere” la realtà in modo più diretto che con la vista.  Il corpo, si legge nella “Fenomenologia della conoscenza”  del filosofo Merle  du-Ponty, è strumento di conoscenza attraverso l’esperienza pratica con cui entra in contatto e trasferisce la percezione a livelli più profondi. “La mano che tocca è allo stesso tempo toccata, in un gesto che trasforma ciò che percepisce in ciò che è percepito e viceversa”.  Questi concetti restano importanti nell’attuale era digitale, dove i “filtri tecnologici” alterano la nostra percezione allontanandola dalla nostra soggettività  resa invece dalla percezione materiale sensibile del corpo.

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Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle”, Paris 1746

In questa logica  che valorizza la sapienza manuale si colloca il passaggio dall’evoluzione culturale legata al linguaggio  a un’evoluzione tecnica legata alla scienza, dall’automazione  novecentesca alla digitalizzazione attuale fino all’intelligenza artificiale con la crescente perdita di contatto con la realtà.   Questo ha portato a una “rilettura delle convenzioni artistiche, tecniche e culturali”,  in modo da “elevare il corpo sensibile  a mezzo puro e autentico, matrice del gesto minimo e primitivo”, portando di nuovo alla base della conoscenza più autentica la “relazione tra soggetto e soggetto,  interno ed esterno, uomo e natura”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1, 2016

Artisti impegnati in tale ricerca sono Giuseppe Pennone, un contemporaneo del quale vediamo esposte  delle opere scultoree della serie “Avvolgere la terra”, 2014,  in cui il corpo è visto come una forma primaria di scultura, consiste nel “fossilizzare la fluidità di un gesto, lasciare una traccia, solidificare l’immagine prodotta dai punti di contatto tra materia e mano”; e Diego Perrone con opere “Senza titolo”, 2016,  nelle quali, “grazie alle trasparenze che si vengono a formare, le sculture restituiscono la visione di un paesaggio  liminale che si situa tra interno ed esterno, tra pensiero ed epidermide, tra virtuale ed invisibile”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 2, 2016

Si pongono sul confine tra due visioni anche le sculture in bronzo di Luca Francesconi che vediamo esposte in mostra, riguardano le relazioni tra il mondo umano e quello agricolo. Sono intitolate: “I live because I digest – I no longer live, because I did not  cultivate – I am good ground”, 2016.

Ancora più recenti, del 2017, i dipinti  a olio su cartone “Fire from the Sun”, di Michael Borremans, esposti, con dei bambini che giocano, in un’atmosfera primordiale e inquietante,  tra pezzi di corpi adulti, un limite anche qui tra due mondi:  “nascondono, sotto le rassicuranti figure dell’infanzia, una condizione umana che viene rappresentata qui come determinata  e brutale”.

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Michael Borremans, “Fire from the Sun”, 2017

Sono limiti molto diversi, confini tra mondi che si toccano, nei quali si riflette  l’ansia di esplorare l’ignoto nell’arte come nella scienza e nello stesso tempo l’inquietudine contemporanea. Questo  viaggio che la mostra fa compiere all’interno del corpo umano, con le evidenze artistiche in cui si esprime il cammino compiuto, rende appieno questi motivi e questi sentimenti.   

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Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di
Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh”, 2009-10

Il Dizionario folle del corpo di Katy Couprie

Un collegamento ideale possiamo crearlo con l’esposizione al piano superiore  “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”,  una mostra-laboratorio  anch’essa collegata a visite, incontri, corsi, sul “vocabolario visivo che racconta il corpo  umano in tutti i suoi aspetti mescolando l’anatomia con la poesia, le azioni con le emozioni, i modi di dire con le citazioni letterarie”. Sono esposti disegni, incisioni e fotografie con varie tecniche  che, sono ancora parole della presentazione, “raccontano organi, muscoli, ossa, ma anche risate, lacrime e acrobazie per restituire al corpo la sua interezza e complessità, esteriore e interiore”.

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Dizionario folle del corpo, , “Un gran cuore con le sue ragioni”

E’ tutto quello che la mostra “Sublimi anatomie” ha raccontato  a sua volta con la suggestiva carrellata nell’esplorazione del corpo umano come risultato  della stretta collaborazione tra anatomisti e artisti nel dar vita alle espressioni visive  di vario genere prima commentate. Agli “eventi” nell'”aula anatomica” della sede espositiva, cui si è accenanto, si aggiungono le visite e i laboratori, i corsi e incontri per bambini, ragazzi e adulti sul “Dizionario folle del corpo”, in un impegno divulgativo di notevole spessore culturale.

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Dizionario folle del corpo, “Diversi tipi di cellule in costume da parata”

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale, 194. Orario ore 10,00-20,00 tutti i giorni di apertura con prolungamento alle 22,30 venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso euro 12,50, ridotto 10,00 (under 26 e over 6) ed euro 6 (7-16 anni e martedì-venerdì dalle ore 18), gratuito under 6 anni; condizioni particolari per speciali categorie e convenzioni. Brochure: “Sublimi anatomie, La meccanica dei mostri, Katy Couprie”, Palazzo delle Esposizioni, Public program, ottobre 2019, pp. 55, 1^ parte pp. 1-27, e 3^ parte pp. 40-43. Cfr. i nostri articoli, sulle mostre contemporanee “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a Maknarium” e “Tecniche d’evasione” , uscirà il prossimo 4 gennaio 2020; sulle mostre citate all’inizio, in www.arteculturaoggi.com, “Human” 17 maggio 2018, “DNA” 29 marzo 2017. Sugli artisti citati nel testo, in questo sito Leonardo 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, Tiziano 10-15 maggio 2013, Michelangelo (e Rafffaello) 12, 14, 16 febbraio 2013, Carracci (e Caravaggio) 5, 7, 9 febbraio 2913; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo (e, il primo, anche Michelangelo), “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto” 6 febbraio 2012, “Il ‘Musico’ di  Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio 2011, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio 2011, “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia”  6 luglio 2009, ”’Leonardo e l’infinito’, “trenta macchine funzionanti” 30 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Le immagini – tranne le ultime 3 tratte dal sito del Palaexpo – sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 25 immagini sono su Sublimi anatomie”, le 3 successive su “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”. Sulla prima mostra, in apertura, “Ecotomografia luminosa del corpo umano“; seguono, Due tavole anatomiche a figura intera e La bellezza statuaria greca come riferimento ideale; poi, Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, e idem n. 2, 14° sec.; quindi, Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile e idem femminile 1823; inoltre, Vetrine con statue ceroplastiche adagiate e Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.; ancora, Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alla seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”., e idem, “…raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grande pettorale destro”, 2^ metà 17° sec; continua, Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, e n. 2 entrambi 2016; prosegue, Diego Perrone, “Senza Titolo” 2016, e Una scultura evocativa di torso umano; poi, “Interiora corporis” e Dopo le “interiora corporis” la parte superficiale, la pelle; quindi, Altra evidenza della parte superficiale, la pelle e L’architettura corporea come un’armatura; inoltre, Una statua del corpo umano nella sua interezza; e Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle” 1746; ancora, Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1 e n. 2 entrambi 2016; continua, Michael Borremans, “Fire from the Sun” 2017, e Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh” 2009-10. Sulla seconda mostra, Dizionario folle del corpo, “Un gran cuore con le sue ragioni” , e “Diversi tipi di cellule in costume da parata” ; in chiusura, La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra.

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La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra