Fotografi e pittori, 1. La loro modernità nel libro di Marina Miraglia del 2012

di Romano Maria Levante

Copertina del libro di Marina Miraglia

E’ il secondo servizio sul rapporto tra fotografia e arte che ripubblichiamo ad oltre 7 anni dalla  prima uscita nel 2012 nella rivista “on line” fotografia.guidaconsumatore.it, non più raggiungibile. Viene dopo  il servizio sulla mostra alla Gnam “Arte in Italia dopo la fotografia”,  e si  basa sul libro di Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” “ pubblicato nel 2012, negli stessi mesi  della mostra. Questa nuova pubblicazione dei due servizi in 3 articoli ciascuno è stata originata dall’interesse mostrato al  tema da un artista, ne abbiamo  parlato nell’introduzione al precedente servizio,  riportiamo di seguito la nostra motivazione testualmente. “  L’artista  Massimo Omnis ha voluto augurare Buone Feste ai suoi   “followers” di Facebook  con  una sconfinata galleria di  immagini delle  sue molteplici opere soprattutto pittoriche, ma pure scultoree e non solo,  comprese   fotografie evocative, si  assiste anche al momento creativo fino alla fase espositiva; sono oltre 250 immagini, tutte da vedere e gustare nel loro intenso cromatismo e nella loro intrigante figurazione di forme e  contenuti . E’ una vera innovazione, una grande  mostra nel social network,  dall’eccezionale varietà compositiva e maestria  artistica. Nella mostra del 2014 a Roma abbiamo potuto vedere da vicino le sue opere  di allora, in testa la spettacolare installazione “Il V Stato”, e le abbiamo commentate  nel  sito www.arteculturaoggi.com con un articolo reperibile alla data del 14 aprile 2014; le immagini attuali  aggiornano la galleria di cinque anni fa  con nuove ardite  esplorazioni e sperimentazioni unite a  rassicuranti conferme. Per avere un’idea della forza creativa dell’artista basta rileggere le parole che ci ha rivolto su Facebook  il 24 dicembre scorso: “Non è facile tracciarsi una strada propria nel mondo dell’arte.  Io in tanti anni di arte a 360° ho cercato di creare bellezza ed emozioni. Non so se ci sia riuscito.  Continuo a credere che questa sia la strada giusta.  Non c’è giorno che io NON senta un qualcosa che mi spinge a creare… creare un qualcosa che non esiste ancora. Ecco, quando mi chiedono cos’è un artista, io rispondo sempre ‘ un artista  è colui che crea una cosa che non esiste ancora’”.  Nei giorni precedenti ci aveva scritto, sempre su Facebook, che  sarebbe stato interessante approfondire e rendere noto ai nostri  lettori  il rapporto tra fotografia e pittura; anche perché nella  sua mostra virtuale su Facebook in molte immagini le due arti sono abbinate,  viene fotografato  davanti a un suo quadro o mentre lo completa, o in altri momenti della creazione, in composizioni che spesso  le  vedono compresenti   Stimolati dalla sua osservazione e dal suo interesse abbiamo pensato di ripubblicare  i nostri  due servizi  in 3 articoli ciascuno, in cui   vengono sviscerati i rapporti tra le due arti fin dalle origini, con gli  artisti-fotografi pionieri.    E’ un nostro omaggio all’inizio del Nuovo Anno per ricambiare il  regalo natalizio che ha fatto a tutti noi l’artista Massimo Omnis con la mostra virtuale su Facebook,  donandoci  ritratti coinvolgenti che restano dentro e paesaggi  che suscitano emozioni, come la profondità del mare e le immagini che evoca con il viso femminile che ci ha riportati alla incantevole figura della ‘Leggenda del pianista sull’oceano,  il  film di Tornatore al quale siamo  particolarmente affezionati”.  Segue il 1° articolo del servizio sul libro di Marina Miraglia,  poi  in successione gli altri  due articoli con i quali si completa  la nostra ripubblicazione dei 6 articoli che restano pienamente attuali.

William Henry Fox Talbot, Dorset Inghilterra, 1800-1877

Fotografi e pittori, 1. La loro modernità nel libro di Marina Miraglia

fotografia.guidaconsumatore.it – Guide > Libri > Roma. La fotografia e la modernità in un libro di Marina Miraglia

Non è un libro come gli altri “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia. E’ stato presentato il 14 marzo 2012 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, da Carlo Sisi, presidente del Museo Marino Marini di Firenze e da Monica Maffioli, direttore scientifico Fratelli Alinari, Fondazione per la Storia della Fotografia, Firenze. Ha introdotto la soprintendente della Galleria Nazionale Maria Vittoria Marini Clarelli, che aveva curato di recente la grande mostra “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, nella stessa Gnam, di cui abbiamo già parlato.

La particolarità del libro non sta solo nei titoli di eccellenza dell’autrice, fondatrice e componente della “Società Italiana per gli Studi sulla Fotografia” e del Comitato scientifico che ha istituito il Museo di Fotografia Contemporanea di Villa Ghirlanda, oltre ad essere docente di Storia della Fotografia all’Università “La Sapienza” di Roma e direttore della scuola per Restauratore della fotografia di San Casciano dei Bagni. E’ particolare l’impostazione: un quadro teorico iniziale sui “generi” tra regola e creatività, un varco in cui si è inserita la fotografia fino all’abbattimento degli steccati tra i generi; poi un approfondimento speciale su paesaggio e impressionismo e 7 “ingrandimenti” su grandi fotografi e temi dell’800 le cui forme peculiari di fotografia hanno fatto progredire il genere nei rapporti con la pittura. Teoria e pratica, dunque, in una feconda staffetta.

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Julia Margaret Cameron, Calcutta, 1815-1879

La fotografia e il superamento della gerarchia tra i generi

Si inizia con la gerarchia tra i generi in base alla classificazione, che risale al 1669, di André Félibien des Avaux secondo i dettami della tradizione storico-artistica italiana: il più alto è la “pittura di storia” per la forza narrativa e la valenza simbolica degli eventi storici, mitologici o religiosi; poi viene il ritratto che della persona coglie fisionomia ed espressione, carattere e psicologia; scendendo si trova il paesaggio nel quale si ripropone uno squarcio naturalistico e un momento atmosferico particolare dato dalla realtà; al gradino più basso, la natura morta con la quale si rappresentano oggetti inanimati definendo solo composizione e distribuzione della luce. Nei generi più “bassi” c’è “un’implicita priorità delle capacità mimetiche su quelle estetiche e creative”.

Questa contrapposizione di valori, che resta dominante anche nel secolo successivo e in parte dell’800, premia la capacità dell’invenzione nei generi “alti” di “trascendere e idealizzare il reale”, mentre investe il realismo rappresentativo dei generi “bassi”, e lo fa “globalmente e senza distinzione, in un giudizio dispregiativo inappellabile” perché manca una visione critica in una “pura e semplice capacità manuale di copiare fedelmente, peggio ancora di scimmiottare malamente, il dato naturale dei referenti presi a modello, animati o inanimati che siano”.

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Domenico Bresolin, Padova, 1813-1900

E’ evidente che dal momento della sua invenzione, la fotografia si collocò nei valori più bassi tra i generi della pittura “il che inevitabilmente la travolge in quei giudizi di demerito e di sommo disprezzo che, prima del suo avvento, avevano così pesantemente gravato sui medesimi generi delle arti sorelle”; con il particolare peggiorativo che alla deprecata mera manualità della pittura realistica si sostituiva una ancora più deprecabile “meccanicità involontaria di un processo che automaticamente la escludeva da ogni possibilità interpretativa ed autoriale”. Aggiungiamo che per questo fu posta al servizio della pittura alla quale forniva la rappresentazione fedele della realtà su cui il pittore esercitava il proprio estro che acquistava creatività anche nei generi “bassi”.

Come la fotografia abbia superato questo grave “handicap” iniziale lo ha dimostrato la ricca esposizione della mostra citata all’inizio sull’”Arte in Italia dopo la fotografia”. Diamo solo qualche flash dell’accurata e colta ricostruzione che fa il libro di questo processo. Già alla metà dell’800 veniva sottolineato dalla trattatista fotografica “come anche la fotografia, malgrado la sua meccanicità, dia accesso non soltanto alla mimesi, ma anche all’individualismo estetico dei suoi prodotti, aprendo una dialettica pittura/fotografia di centrale portata storica per il divenire della pittura moderna”. Infatti anche la pittura “non esita ad adottare le modalità di trascrizione del reale tipici della fotografia e dei suoi valori congiunti di indice, icona e simbolo”, e lo fa “prima di rinunziare definitivamente alla rappresentazione”; ne viene sconvolta la gerarchia tra i generi i cui significati e posizioni cambieranno ripetutamente nel Novecento fino al definitivo superamento.

William Klein, New York, 1928

Già nel 1839 William Henry Fox Talbot , inventore di un mezzo fotografico, all’Accademia delle Scienze di Londra presentò la sua invenzione definendo la fotografia “il processo con cui oggetti naturali possono delineare sé stessi senza l’aiuto della matita dell’artista”. Nel 1858 Oscar Gustav Rejlander scriveva che “se lo scopo e la tensione dell’arte sono da individuare soprattutto nella mimesi naturalistica”, ne derivava che “la fotografia, con il suo realismo e la sua referenzialità fosse da considerare senz’altro più artistica della pittura”. E osservava come gli artifici tecnici non esistevano soltanto nella fotografia ma in tutti i media mentre anche questa pur nell’aderenza al reale richiedeva una visione soggettiva impegnando “capacità ideative compositive, nella scelta della luce e dell’inquadratura, nell’ideazione del soggetto e della sua efficacia rappresentativa, ossia nelle espressioni dei modelli, nella loro armonia e in quella dell’insieme”. Tutto questo comporta “doti concettuali e mentali non comuni per la loro elaborazione formale ai fini dell’espressione”.

Con il proprio simbolismo fotografico Julia Margaret Cameron rimise in discussione il “monopolio ideativo e formalizzante della pittura alta”, e in tal modo portò a “riconoscere l’autorialità del medium meccanico e, simmetricamente, a incamminarsi, con decisione, sulla strada del superamento dei generi”.

A questo punto  viene approfondito il rapporto tra generi e creatività, regole e invenzione; il che vuol dire tra la tradizione che segna i confini della cultura dell’epoca e l’innovazione con cui l’intelligenza personale riesce a cogliere i mutamenti in fieri. “L’ossimoro regole-creatività” viene “individuato e scientificamente composto soltanto dal pensiero scientifico del Novecento”, ma non possiamo neppure accennare a questa analisi che viene compiuta con dovizia di citazioni colte.

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Diane Arbus , New York, 1923-71

L’autorappresentazione della realtà nella fotografia nell’’800 

Tornando alla fotografia, i generi più ricorrenti nell’800 sono la ritrattistica che segnò “l’affermazione sociale del nuovo medium”; poi la veduta, il paesaggio, il panorama, quindi la documentazione dell’opera d’arte; seguono il nudo e le “accademie”, meno frequente la “natura morta” e il tema “di contro amatissimo, della natura vivente”; i “tableaux vivant” e l’illustrazione dei luoghi sede di eventi, bellici e di altra natura, genere che anticipa il “reportage”. Ciascuno di questi campi aveva diverse articolazioni interne, in base a soggetti, tecniche e destinatari. Esponente del “paesaggio pittorico” che guarda alla fotografia fu Domenico Bresolin, con la sua celebre “Casa diroccata”, che fece cambiare la pittura veneta sulla base delle esperienze fotografiche.

Alla mimesi veniva sostituita “l’autoriproduzione e l’autorappresentazione spontanea della realtà, implicita nei meccanismi chimici del processo” fotografico. Il tutto era favorito dall’affermarsi del positivismo anche nelle arti, sotto la spinta dell’iIluminismo settecentesco, con “il valore testimoniale dell’hic et nunc benjaminiano”; in tal modo la fotografia contrastava “la mimesi interpretativa di pittura e produzione calcografica”. Restava anche nell’ambito delle “regole della rappresentazione” basate sulla tradizione rinascimentale della prospettiva e oltre al carattere “indexicale” poteva assumere anche quello di icona e simbolo proprio della pittura.

A ciò aggiungeva una peculiarità, quella di consentire una “narrazione realistica con “tutti gli elementi, anche i più minuti del raffigurato”; una prerogativa, quella di dare corpo “all’istanza illuministica di un sapere più diffuso e meno classista favorendo la conoscenza di luoghi, persone e cose altrimenti destinati a rimanere del tutto ignoti, estranei e sconosciuti per le difficoltà e i costi dei viaggi”; una forza evocativa immediata per accostarsi alle persone care lontane come ai personaggi ripresi nella loro naturalezza “tali e quali, quando camminano, quando pensano, quando non fanno niente del tutto, come scriveva la “Gazzetta Piemontese il 27 luglio 1860; una forza riproduttiva delle opere d’arte che ne consentiva la più vasta diffusione e la comparazione.

Garry Winogrand, New York, 1928-74

Il ‘900, modernismo e postmodernismo nella fotografia

Dal livello “referenziale, iconico e simbolico” raggiunto nell’’800, la fotografia risponde alla sfida della modernità nel ‘900 “che fa soprattutto leva sul riconoscimento dei valori estetici interni alla struttura sintattica del mezzo, automaticamente svincolandolo dalla gabbia ristretta dei generi e dall’obbligo di attenersi ai meccanismi rappresentativi del cubo prospettico rinascimentale”. Non c’è più soltanto l’idea che l’essenza dell’arte è quella di “trasformare e trascendere il reale e di creare realtà iconiche e simboliche che nulla hanno in comune con il reale”; dagli anni ’50 del ‘900 viene concepita “come specchio dello smarrimento delle certezze di un tempo e come campo aperto alle nuove, indefinibili inquietudini dell’esistenzialismo”; dagli anni ’80 come espressione del Postmoderno, che porta ad una “strepitosa accelerazione delle trasformazioni e delle modalità d’uso dell’immagine” favorita dall’introduzione del digitale.

A Umberto Eco si deve un’anticipazione del Postmoderno allorché nel 1962, dopo aver descritto “un mondo in cui la discontinuità dei fenomeni ha nesso in crisi la possibilità di un’immagine unitaria e definita”, fornisce come risposta l’“opera aperta” che può darci l’immagine della discontinuità, non raccontandola ma presentandola, “un modo di vedere ciò che si vive”  nel campo dell’indeterminatezza. Ecco le sue parole in un testo pubblicato nel 2009: “Opera aperta come proposta di un ‘campo’ di possibilità interpretative, come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza, così che il fruitore sia indotto a una serie di ‘letture’ sempre variabili; struttura infine come ‘costellazione’ di elementi che si prestano a diverse relazioni reciproche”.

La fotografia lo aveva addirittura precorso nei fatti, alla metà degli anni ’50, passando “dall’immagine ‘chiusa’, ‘sicura di sé’ e formalmente conchiusa di Henri Cartier Bresson, al possibilismo infinito dell’informazione, svelato da autori come Klein, Frank e Arbus”. Ne fu palestra e palcoscenico la mostra del 1955 “The Family of Man”, curata da Steichen, con larga partecipazione dei maggiori fotografi – la “Magnum” al completo, in testa Cartier Bresson e Robert Capa – il cui assunto di una palingenesi universale dopo la tragedia della guerra non fu seguito dai fotografi presi dall’inquietudine esistenzialista, del tutto opposta rispetto all’“unità gioiosa e rassicurante” che per Steichen portava all’abbraccio tra classi sociali ed etnie diverse.

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Lee Friedlander, Aberdeen Usa, 1934

Ai tre fotografi citati, William Klein, Robert Frank, Diane Arbus, più Garry Winogrand e Lee Friedlander, ben si addicono i concetti di Eco e di Lyotard in “La condizione postmoderna” del 1979, che coniò tale termine, in cui “la caratteristica più peculiare del nostro contemporaneo viene riconnessa al venir meno delle ‘grandi narrazioni’ metafisiche elaborate dall’Illuminismo, dall’Idealismo e dal Marxismo”, e questo a causa della “perdita della fiducia e della certezza nei valori della tradizione”. L’effetto? “Quelle inquietudini che porteranno alla morte del ‘soggetto’, frammentato nella propria identità dalla percezione di una società spogliata di ogni storicità”, come ha scritto Jameson nel 2007.Va sottolineato che la duttilità del mezzo fotografico lo rende prezioso a tutti i livelli, di alta e bassa creatività, perché fornisce “una pluralità e un’infinita casistica di segni, di forme e di simboli che sembrano realizzare su scala mondiale e in tempo reale quel Museo immaginario che Malraux (2009) aveva ipotizzato già negli anni trenta del XX secolo. Pensando al museo tradizionale o immaginario che sia, è indubbio che esso si offra all’artista postmoderno come un contenitore”. Viene evocata anche la “serialità” delle opere di Andy Warhol, esplicita nei multipli, ma presente anche nelle nature morte di Giorgio Morandi e nei “Sacchi” di Burri. In questo “Museo immaginario” si può realizzare quella che Francesco Radino nel suo “Inside” del 1903 ha definito “cancellazione di generi”: il ridefinire una visione “dove gli oggetti possono vivere armoniosamente, gli uni accanto agli altri, in un unico mondo senza gerarchie”.

Così si chiude, in un ritorno all’assunto iniziale, il cerchio dell’analisi di Marina Miraglia che abbiamo cercato di rendere in “flash” estremamente riduttivi rispetto alla ricchezza dell’esposizione, un’analisi in profondità costellata di citazioni colte da noi appena sfiorata. Seguono 9 densi capitoli, 2 dedicati al paesaggio nell’800 e all’impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura; e 7 dedicati ciascuno a un grande fotografo dell’epoca. Faremo presto uno sforzo ancora più drastico di fornire per ciascuno di questi capitoli almeno dei sintetici fotogrammi descrittivi

Henry Cartier Bresson, Chantelup-en-Brie Francia, 1908-2004

Info

Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” , Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22,00. L’immagine di copertina è di Wilhelm von Gloeden, Caino, 1900 ca. Dal libro sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; su questa rivista “on line” prossimamente i due articoli sui temi indicati: paesaggio e impressionismo e  7 grandi fotografi dell’’800-primi ’90, in base al libro della Miraglia. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i due prossimi articoli usciranno in questo sito il 15 e 20 febbraio 2020. Cfr. inoltre i nostri 3 precedenti articoli su “Fotografia e Arte” , usciti in fotografia.guidaconsumatore.com nell’aprile 2012 ripubblicati, anch’essi in questo sito, il 26, 27, 28 dicembre 2019.

Foto

Le immagini, a parte quella di apertura, sono state aggiunte in sede di ripubblicazione, tratte da siti web di pubblico dominio precisando che l’inserimento è a mero titolo illustrativo senza alcun interesse di natura economica o pubblicitaria e si provvederà all’eliminazione su semplice richiesta dei titolari dei siti, che si ringraziano per l’opportunità offerta. I siti sono i seguenti, nell’ordine di successione delle relative immagini: 2. artsy.net, 3. subalpinafoto.it, 4. it.wilkipedia.org, 5. grandifotografi.com, 6. artslife.com, 7. artribune.com, 8. pinterest. it, 9. fotografarefacile.net, 10. lundici.it. Viene indicato il nome dell’autore dell’opera, dove è nato e il periodo in cui è vissuto, le immagini sono riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati. In apertura, la Copertina del libro di Marina Miraglia; seguono opere di William Henry Fox Talbot, Dorset, Inghilterra, 1800-1877, e Julia Margaret Cameron, Calcutta, 1815-1879; poi, opere di Domenico Bresolin, Padova, 1813-1900, e William Klein, New York, 1928; quindi, opere di Diane Arbus, New York, 1923-71, e Garry Winogrand , New York, 1928-74; inoltre, opere Lee Friedlander, Aberdeen Usa, 1934, e Henry Cartier Bresson, Chantelup-en-Brie Francia, 1908-2004; in chiusura, opera di Robert Capa, Budapest, 1913-54.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 18 aprile 2012 – E mail levante@guidaconsumatore.com

Robert Capa. Budapest, 1913-54

L’Enigma del reale, ritratti e nature morte alla Galleria Corsini

di Romano Maria Levante

La mostra “L’Enigma del reale”, aperta dal 24 ottobre 2019 al 2 febbraio 2020 alla Galleria Corsini  presenta, a cura di Paolo Nicita,  una serie di “Ritratti e nature morte dalla Collezione Poletti e  dalle Gallerie Nazionali Barberini Corsini”, in un itinerario che  si snoda all’interno del  Palazzo. Una variante espositiva  rispetto alla precedente mostra di Mapplethorpe  nella quale le opere del celebre fotografo erano disperse nella sterminata “quadreria” delle  singole sale; qui  Ritratti e Nature Morte sono raggruppati  in 5  ambienti  dedicati a questi dipinti, ma se ne attraversano altri 4, che danno alla mostra l’impronta di percorso evocativo nella storica residenza.

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Jusepe De Ribera, “Il filosofo contadino”, 1915-18

Ritratti, Nature morte di fiori e frutta ma non solo  di autori in varia misura caravaggeschi, prevalentemente dalla Collezione Poletti  con significative aggiunte – rispetto alla precedente mostra della Collezione Poletti  al Palazzo Reale di Milano –  di opere dalle collezioni delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica: un’esposizione  nella linea della direttrice Flaminia Gennari Sartori di valorizzare le collezioni delle Gallerie Nazionali attivando raffronti con altre raccolte o con opere singole frutto di una ricerca accurata.

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“Maestro della  Maddalena Briganti,Maddalena penitente”, prima metà 17° sec.

Il collezionismo è nel DNA di Palazzo Corsini con la sua quadreria settecentesca ancora oggi com’era in origine, quindi è stato presentato Mapplethorpe, anche grande collezionista oltre che artista-fotografo. Ora viene presentato  Poletti, con la peculiarità  di essere nostro contemporaneo, e non un collezionista d’epoca del tipo di  quelli che  sostenevano con i loro acquisti i pittori allora sconosciuti destinati a diventare famosi, come gli artisti della mostra  contemporanea a Palazzo Bonaparte. che celebra con gli “Impressionisti segreti” i collezionisti che ne raccoglievano le opere consentendo loro di sbarcare il lunario.

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Bartolomeo Manfredi, “Bacco e fauno”, 1620

Il  collezionista e artista Poletti

Geo Poletti, storico dell’arte e pittore egli stesso, ha realizzato la sua raccolta iniziando dal 1950, quando era venticinquenne,  sull’onda del rinnovamento nei musei e della nuova tendenza della critica a considerare le opere   per quello che sono indipendentemente dal contesto e da elementi esterni; quindi nel loro valore artistico, nella qualità e nell’unicità dell’intrinseca forza creativa.

La spinta iniziale è stato l’interesse per l’arte verso cui si orientò sin dai primi studi a Milano, dove era nato nel 1926, dopo i primi anni ’30 vissuti con padre e fratello  a  San Paolo del Brasile,  nei quali ebbe anche la passione per la musica, e in particolare la lirica, trasmessagli dalla madre, amica dei maestri Arturo Toscanini e Carlo Maria Giulini.

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Dall’interesse passò all’impegno diretto in campo artistico come pittore anche su sollecitazione soprattutto di Mario Sironi – conosciuto durante il  soggiorno, negli anni della guerra, con la famiglia a Bellagio, sul lago di Como – insieme a Umberto Boccioni, il campione del  futurismo e a Giorgio de Chirico, il creatore della metafisica; ma più che questi grandi artisti italiani che lo spinsero sulla via dell’arte, la sua pittura fu influenzata dal tormentato  Francis Bacon.    

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Nel 1962 espone a Milano in una personale alla Galleria “Il Milione” curata da Giovanni Testori, seguita  cinque anni dopo da una nuova mostra nella stessa galleria per la quale lo storico dell’arte Francesco Arcangeli diede una definizione quanto mai centrata, vedendo in lui “un appassionato conoscitore di molta arte del passato”,  ma riscontrando al contempo le caratteristiche di “uomo moderno”, due poli della sua attività di collezionista, oltre che pittore. Modernità su una base tradizionale non è un ossimoro ma un equilibrio virtuoso raggiunto da Poletti non senza un travaglio interiore: appassionandosi alla pittura antica si sentiva  attratto dal collezionismo mentre la propria pittura la considerava  uno sfogo personale non destinato all’esposizione al pubblico.

A questa  sua evoluzione contribuì il rapporto con il critico Roberto Longhi – cui regalò un dipinto  presente nella quadreria della sua Fondazione – e con altri critici, storici dell’arte e studiosi frequentatori della sua casa milanese in via Cernaia – da Giovanni Testori a Federico Zeri, da Mina Gregori a Giuliano Briganti – che portò a un approfondimento  dell’arte di Caravaggio e dei caravaggeschi con la pittura italiana dl ‘600; le nature morte, anche del ‘700, furono al centro della sua attenzione, e lo vediamo nelle opere della sua collezione esposte in questa mostra.

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I Ritratti, o meglio, “la realtà del corpo” e il suo enigma

L’itinerario della mostra all’interno di Palazzo Corsini  inizia con l’Anticamera e la Prima Galleria, per poi percorrere la Galleria del Cardinale in fondo alla quale, in un’”enclave”, troviamo il primo ritratto, “Il filosofo contadino”, 1915-18, una figura dal volto sorridente, seduta con mantello dimesso, dei libri sul tavolino e un foglio scritto tra le mani, autore Jusepe  De Ribera, il celebre “Spagnoletto”  stabilitosi a Napoli dalla nativa Spagna. Il filosofo è stato identificato in “Democrito”  della metà del V sec. a. C., proprio per il suo sorriso ironico, mentre Eraclito veniva rappresentato con espressione malinconica: il pensiero filosofico deterministico di  Democrito, secondo cui tutto avviene secondo necessità, lo portava a non preoccuparsi di ciò che era inevitabile, a differenza di Eraclito.  

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Il filosofo  sorride per la fragilità umana ed è ritratto come un contadino per esprimere l’essenza dell’umanità, la vera filosofia risiede nella genuinità senza orpelli. C’è dell’arte fiamminga ma anche l’impronta caravaggesca nella peculiare derivazione di De Ribera con l’effetto realistico di luci ed ombre.

Dapo la Galleria del Cardinale si attraversano  la Camera del Camino, la Camera dell’Alcova e il Gabinetto verde per trovarsi nella Camera Verde, anche in origine rivestita di tessuti di quel colore,  nella quale la mostra presenta “La realtà del corpo” identificata in 3 opere, due della Collezione Poletti ed una della collezione Gallerie Nazionali d’Arte Antica.

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Entriamo così nel cuore dell’esposizione dopo il preludio del “Filosofo Contadino” di De Ribera. con  la sorpresa di vedere una “Maddalena penitente” , prima meà del 17° sec., della Collezione Poletti dall’aspetto sensuale del tutto insolito: un corpo procace coperto solo da un drappo banco nella nudità del seno florido e delle gambe scoperte, seduta al suolo con la testa appoggiata alla mano destra, il gomito su un rialzo del terreno scuro e roccioso, il piccolo crocifisso alle sue spalle su uno sfondo nero; dalle indagini diagnostiche è risultato che la Maddalena in origine guardasse il Crocifisso, poi il viso è stato rivolto erso l’osservatore, in  un’immagine molto terrena; in primo piano un teschio e il “libro dei santi” che lei regge aperto con la mano sinistra.

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L’autore anonimo viene indicato come “Maestro della  Maddalena Briganti”, nome che identifica il mercante storico dell’arte fiorentino Aldo Briganti, padre di Giuliano Briganti, che ne fu il primo proprietario; portato a Roma nel 1966 Testori citò l’attribuzione tradizionale  all’artista seicentesco romagnolo  Guido Cagnacci,  ma lo attribuì a un artista francese; Poletti la acquistò nel 1992 all’asta a New York dal Paul Getty Museum dove l’opera era entrata dal 1969 registrata al pittore spagnolo Puga, da una scritta sul retro del dipinto, ora ricoperta, attribuzione contestata perché non accostabile allo stile di tale pittore; l’ultima attribuzione è quella di Vittorio Sgarbi  al pittore caravaggesco del ‘600  Giovanni Serodine.

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La preferenza dei curatori della mostra è verso  un pittore spagnolo vicino a Velasquez, per le forti pennellate e  il tono naturalistico dell’insieme,  ma restano aperti a nuove interpretazioni favorite dall’esposizione che consente ulteriori riflessioni e confronti.

Son esposte vicine, quindi messe a confronto, le altre due opere di questa sezione, “Bacco e fauno” , 1620, della Collezione Poletti, e Fauno con uva e flauto”    delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, entrambe riferibili al pittore mantovano Bartolomeo Manfredi, sempre del ‘600. Nel primo dipinto il fauno di cui non si vede la testa ma soltanto il braccio sinistro, tende la ciotola che ha in mano verso il volto di Bacco di cui spicca oltre al viso con le fronde nei capelli, il torace e il braccio destro, scolpito dalla luce che illumina il  braccio del fauno, in una composizione luci-ombre fortemente caravaggesca.

Analogo effetto nel secondo dipinto, pur nelle differenze compositive, la luce scolpisce l’anatomia di corpi muscolosi visti nella scompostezza che deriva dallo stato di ebbrezza e dal conseguente  abbandono, e li rende sgraziati ma con un forte realismo e un senso popolaresco.

Questo anche perché  il mito di Bacco  è collegato all’allegoria dell’Autunno con la vite  e il vino, e lo si vede nei due dipinti  dove non mancano tali elementi, in entrambi il flauto,  nel primo  anfora, grappolo d’uva e tralci di vite , nel secondo  fruttiera, uva e foglie verdi su fondo scuro. Sono “nature morte” inserite nella composizione  mitologica, e introducono alla sezione dedicata alle nature morte vere  e proprie.

Le Nature morte, la “Natura senza tempo”

Ci ricorda una mostra degli anni scorsi sulle “Nature morte”  della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, oltre ai dipinti floreali di Brueghel, a illustrazione di un genere molto praticato:  questa volta siamo concentrati nel ‘600-‘700   e gli artisti della Collezione Poletti sono caravaggeschi, un vero e proprio sigillo.

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La Collezione Poletti, oltre ai Ritratti, molto qualificati ma in numero ridotto, è dedicata prevalentemente alle “Nature morte” che sono esposte senza cornice come le aveva nella propria abitazione, una forma molto spartana scelta dal collezionista e qui rispettata;  mentre le “Nature morte”  delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica hanno le normali cornici lavorate ed ornamentali diverse l’una dall’altra. E’ significativa l’assenza di cornici, perché riflette il periodo in cui Poletti iniziò la sua collezione, gli anni ’50, nei quali si tendeva, come si è accennato, a dare risalto all’opera d’arte in sé e per sé, indipendentemente dal contesto.

Erano gli anni delle “Nature morte” di Giorgio Morandi, dove non c’erano fiori e frutti ma bottiglie e oggetti immersi nel mistero, delle grandi mostre sul tema a Parigi e a Napoli,  e delle ricerche di Roberto Longhi e Federico Zeri, ricordate dal curatore; nelle gallerie principesche  era uno dei generi prediletti.

Per questa mostra vi è stato un tale approfondimento  che si sono identificate le numerose varietà di fiori e frutti tanto che  vengono  fornite  le “Schede botaniche” di tali esemplari, a cura di Flavio Tarquini, dell’Orto botanico di Roma. Si va dalle varie specie di “Ibicus” e “Lilium” all’”Iris” e al “Narcisus”, dal “Fuxus” alla ”Tulipa”, dal “Sambucus” alla “Rosa”, dal “Nigella” alla “Covallaria”.

Entriamo nella “Sala blu” e sembra di immergersi in un orto botanico fresco, vivo e avvolgente. C’è una matrice comune nelle opere esposte, l’esplodere prima a Roma tra il 1590 e il 1630, poi in tutta l’Italia della pittura caravaggesca su fiori e frutta, gli autori di uguale  tendenza  spesso sono  ignoti.

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Citiamo soltanto alcune opere che colpiscono in modo particolare, il dipinto con due composizioni accostate, “Vasi di fiori”  a sinistra, con i fiori in  un vaso di vetro, frutti a destra su un piatto, compatti come bouquet, dal cromatismo soffusi e delicato; mentre in altro dipinto, fiori e frutti sono esposti in modo più arioso, invece della compattezza si cerca il respiro della natura, in un cromatismo più forte e  variegato. Le attribuzioni vanno da Orazio Gentileschi a Carlo Saraceni. Poi, a raffronto nel mare di “Nature morte” della Collezione Poletti,  l’inconsueta “Natura morta con tuberosa” delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, con i fiori nella luce caravaggesca su un fondo nero. Attribuzioni incerte, da Luca Forte a Filippo Napoletano, lungo l’asse Roma-Napoli in cui si sviluppava la pittura di natura morta nel 1620-40.

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Di notevole interesse le tre “Nature morte” riferibili allo stesso artista, anche se ignoto: “Natura morta con alzata di agrumi, carciofi, uva, colomba e fagiano”,  “Cesta di frutta, piccione e melograno”,  e “Coniglio con uva, pesche, vaso di fiori e uccelli”. Le ragioni dell’interesse sono la compresenza di animali, frutta e in uno dei tre anche fiori nella stessa composizione, con la mobilitazione della natura nelle sue espressioni vitali, l’effetto altrettanto vitale delle luci ed ombre che creano “il senso dell’attesa”, la perfezione naturalistica della raffigurazione.  Poletti le attribuiva a Simone del Tintore da Lucca,  Giuliano Briganti  nel 1960 esaltandone la bellezza le attribuì a Paolo Porpora, attivo a Roma sempre nel ‘600.

Non vi sono dubbi sull’attribuzione al genovese Bernardo Strozzi, di una serie di “nature morte” esposte, per lo più del 1630-35, le incertezze sono piuttosto  tra il caposcuola e la sua bottega, alcune concepite a Roma nella prima parte del ‘600.  Del caposcuola la “Cesta con zucchine , uva e prezzemolo, cavolo e vaso di fiori”,  dove è  “l’atmosfera di indefinita astrattezza , derivante dalla ‘Canestra’ caravaggesca, a dominare la composizione”, nota il curatore. Forse  con gli allievi “La brocca e alzata di peltro con mele, fichi e altra frutta”,  quando operava a Venezia dove l’intensità del lavoro richiedeva il lavoro della bottega  guidata dal capo scuola titolare. Ugualmente ispirata alla “Canestra” di Caravaggio il “Catino con fiori” con Ibis raffigurati all’insegna della leggerezza, aperti in modo arioso in una varietà cromatica con altri fiori.

Si dissente dall’attribuzione fatta da Poletti ad Annibale Carracci di altre “nature morte”, intime e raccolte, che non hanno la “monumentalità” del grande artista bolognese, pur se si condivide il riferimento all’ambiente emiliano nella seconda metà del ‘600, che prepara già la pittura settecentesca: si tratta di “Cucina con carne e pollame”  e di “Cucina con verdure, frutti, pesci e un vaso di garofani”, composizione quest’ultima di notevole leggerezza, quasi in dissolvenza.

Altre opere di forte impatto  sono la piccola “Natura morta con noci, nocciole, mandorle, fichi secchi e frutti” e  Piatto di pesche”, “Natura morta con uva, noci, castagne, patate e pettirossi”, quest’ultimo dello spagnolo Luis Meléndez, e “Natura morta con anatra, volatili, frattaglie, cavolo e testa di maiale”  del milanese Giacomo Cerutti,   quest’ultima in pieno ‘700, dopo le prime ora citate della seconda parte del ‘600  che seguono le precedenti citazioni relative alla prima parte del ‘600. Un percorso completo,  dunque, nel quale oltre a fiori e frutti irrompono altri elementi, come gli animali, sempre più vistosi.

La conclusione della sezione “Nature morte” è spettacolare, si tratta  di Evaristo Baschenis, artista definito da Roberto Longhi “un nostrano Vermeer sacrificatosi in provincia”, come ricorda il curatore,  che definisce così il suo capolavoro esposto, espressivo della “pittura di  realtà” che inizia in Lombardia: “La sua giovanile ‘Natura morta con cesta di mele e piatto di prugne, meloni  e pere’ del 1645-50, con la cesta carica di frutta che sporge dal bordo del tavolo, ancora in omaggio a Caravaggio, su di uno sfondo astratto e senza tempo, ha la potenza di una visione lucidissima  della realtà. Un pittore minore che racchiude il misterioso principio di ogni cosa”.  

La chiusura con il mistero del pescivendolo

Se con questo implicito “mistero” termina la sezione sulle “Nature morte”,  la mostra si chiude con quello esplicito che ruota intorno all’ultima opera, all’insegna appunto del Mistero del pescivendolo”,  esposta nella “Saletta blu” immediatamente dopo  la “Sala blu” della “Natura senza tempo” con le “nature morte”.

E’  una piccola “enclave” con tre opere apparentemente simili, una di fronte e due sulle pareti destra e sinistra. Sono tutte e tre di pittore napoletano non identificato, della metà del ‘600, provenienti rispettivamente dalla Collezione Poletti,  dalla raccolta delle  Gallerie Nazionali d’Arte Antica e dal Museo Nazionale di Varsavia, per la prima volta esposte insieme per un confronto stimolante.

Rappresentano un pescivendolo dall’espressione molto intensa mentre con un coltello sventra un pesce,  intorno una cesta, una bilancia. La nobiltà del suo volto lo ha fatto riferire a Masaniello, l’eroe della rivoluzione di Napoli i cui numerosi ritratti – di cui parla Bernardo de Dominici nelle sue “Vite” –  furono distrutti nella restaurazione, per cui si sarebbero salvati questi, divenuti simbolo, nei quali veniva raffigurato nelle spoglie del pescivendolo per non farlo identificare e quindi distruggere: ricostruzione ritenuta fantasiosa, ma affascinante che dà un valore storico e leggendario, oltre che artistico, ai tre dipinti gemelli.

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Non per spirito casalingo, ma per accertamento oggettivo, il curatore afferma che “il prototipo è certamente il dipinto delle Gallerie Nazionali, come emerge anche dalle indagini diagnostiche (Riflettografia IR, analisi della fluorescenza dei raggi X ed esame radiografico) che  hanno evidenziato la presenza di numerosi pentimenti”: non ci sarebbero stati in una copia. Inizialmente fu attribuito a Caravaggio, ma all’acquisto nel 1914 fu mutata l’attribuzione  al romagnolo Cagnacci della prima metà del ‘600, nel 1961 Roberto Longhi lo attribuì al pittore fiorentino Orazio Fidani,  stesso periodo, e così fu presentato alla mostra del 1964, poi negli anni ’80 fu riferito alla pittura napoletana, dal giovane Luca Giordano a Fracanzano

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E gli altri due dipinti “gemelli”?  Il “Pescivendolo” della Collezione Poletti proviene da Venezia e le indagini hanno mostrato  la sua derivazione da quello ora illustrato con le varianti dei  rossi e verdi più intensi e il disegno più netto, mentre i rosa della carne sono più chiari. Il terzo, prestato dal Museo Nazionale di Varsavia, cui pervenne nel 1969 da un’asta all’estero,  mostra differenze anche negli elementi della composizione, in particolare le monete in primo piano che non figurano negli altri due. Anche per questo ci fu l’attribuzione a Fidani, poi si è passati all’autore napoletano.

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Così  si conclude il “mistero del pescivendolo” e l’interessante mostra della Collezione Poletti: ”Ad infittire la questione delle tre versioni è la presenza in diverse collezioni private anche di alcuni pendant dei nostri dipinti raffiguranti una composizione con un Pescivendolo dal berretto roso che vende un pesce a una suora” . In quest’ultimo, l’atteggiamento è meno truculento che quando sventra il pesce, ma risulta ancora più misterioso l’accostamento alla suora, un’acquirente insolita nel mercato ittico forse scelta per l’estrema dissimulazione di Masaniello, che nessuno avrebbe accostato a una religiosa.

Con questo mistero nel mistero  si chiude una mostra stimolante pur se le “Nature morte” possono ritenersi un genere per certi versi scontato. Invece così non è stato e ci sembra di aver reso i tanti motivi di interesse uniti ad autentiche suggestioni fino agli intriganti enigmi finali che restano impressi nel visitatore.  

Due versioni del “Pescivendolo”, autore incerto

Info

Palazzo Corsini, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Via della Lungara, 10. Dal mercoledì al lunedì (martedì chiuso), ore 8,30-19, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12, ridotto euro 2 (giovani 18-26 anni), gratuito per scuole e insegnanti, studenti e docenti di architettura e lettere orientamento storico e artistico, Beni culturali, Accademie Belle Arti, Icom, con handicap accompagnati, guide e giornalisti. Biglietto valido 10 giorni per le due sedi Barberini e Corsini. www.barberinicorsini.org. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2019, su Mapplethorpe 3 giugno, de Chirico 22, 24, 26 novembre, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre; in www.arteculturaoggi.com, su Futuristi 7 marzo 2018, de Chirico, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20 giugno, 1° luglio 2013, Sironi 2 novembre 2015, 1,14, 29 dicembre 2014, Morandi 17, 25 maggio 2015, Brueghel 5 marzo 2013, Caravaggio e Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013′, Vermeer 14, 20, 27 novembre 2012; in www.cultura.inabruzzo.it, de Chirico 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009, Caravaggio, 8, 11 giugno, 23 febbraio 2010, Caravaggio e Bacon 21, 22, 23 gennaio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Corsini alla presentazione della mostra, si ringrazia la Direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Jusepe  De Ribera,“Il filosofo contadino”, 1915-18 ; seguono, Maestro della  Maddalena Briganti, “Maddalena penitente” prima metà 17° sec., e Bartolomeo Manfredi, “Bacco e Fauno”, ‘1620; poi 6 immagini con altri Ritratti dello stesso periodo; quindi, una serie di immagini di Nature morte, le prime 8 della Collezioni Poletti nell’assetto caratteristico senza cornici, le successive 11, di Poletti e Gallerie Nazionali, con le cornici; infine due versioni del “Pescivendolo” , di autore incerto e, in chiusra, l'”enclave” con le tre versioni del “Pescivendolo”.

L'”enclave” con le 3 versioni del “Pescivendolo”

Michelangelo a colori, raffronti e scoperte al Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

La mostra “Michelangelo a colori”, aperta a Palazzo Barberini dall’11 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020,  espone  un serie di  dipinti, accuratamente  selezionati, a raffronto con i disegni  di Michelangelo ai quali si sono ispirati, e anche tra loro. La mostra è curata da Francesca Parrilla e Massimo Pirondini, con il coordinamento scientifico e organizzativo di Yuri Primarosa  e si avvale della collaborazione del Museo Gonzaga di Novellino. Catalogo di De Luca Editori d’arte.

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“Annunciazione”, Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Un’ulteriore sorpresa delle Gallerie Nazionali di Arte Antica,  per molti si tratta anche di una scoperta.  La direttrice Flaminia Gennari Sartori  ci regala un’altra “chicca” negli originali  “cluster” espositivi   con i quali ha innovato positivamente rispetto  ai criteri tradizionali. E presenta così la sorpresa o comunque la dimostrazione pratica  portata visivamente davanti ai visitatori: “Giocando sulla doppia rappresentazione dei principali temi sacri trattati dal Buonarroti ripresi puntualmente da pittori diversi è possibile cogliere lo stretto legame esistente tra le opere esposte, messe per la prima volta a confronto tra loro, e i disegni del grande artista toscano, esposti in riproduzione”.

Michelangelo, “Annunciazione”

I confronti di Venusti, Orsi, Pino, tra loro e con Michelangelo

Il primo confronto diretto, anche per gli addetti ai lavori, è tra l’Annunciazione” di Venusti  della Galleria Corsini e lAnnunciazione”  di Lelio Orsi del Museo Gonzaga di Novellino, prestito ottenuto  per quella che viene definita “fruttuosa collaborazione”. Ambedue le opere richiamano il disegno dell’”Annunciazione” di Michelangelo appartenente alla Pierpont Morgan Library di New York,  ed  esposto in un confronto di grande interesse sul piano artistico,  storico e culturale.

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Marcello Venusti, “Annunciazione” 1555-60

Altro confronto molto significativo tra due Orazioni nell’orto”, di Venusti, anche questa volta  con riferimento all’omonimo disegno di Michelangelo che si trova agli Uffizi, anch’esso esposto.  Sempre  di Venusti, anche LaMadonna del Silenzio”  viene raffrontata  ugualmente al disegno di Michelangelo della Horley Gallery,  Weilbeck. Seguono  i momenti della Passione di Cristo successivi all’Orazione nell’orto.  Crocifissione”, “Deposizione”,  in un  film cristologico che si dipana dinanzi agli occhi del visitatore nel continuo confronto tra i disegni di Michelangelo e i dipinti di artisti che vi si sono ispirati, ancora Venusti con Marco Pino,  anche loro a confronto.

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Lelio Orsi, “Annunciazione”, 1555-60

Yuri Primarosa  rivela come tutto è  nato dall’offerta della direttrice del Museo Gonzaga di Novellino  di esporre  l’”Annunciazione”  di Lelio Orsi a Roma, alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica. Di lì, a cascata, l’idea di porla a raffronto con l’omonima opera di Venusti  esistente nella Galleria Corsini, e poiché sono entrambe ispirate al disegno di Michelangelo, al raffronto tra loro si è aggiunto quello con l’opera del grande Maestro.

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“La Madonna del silenzio” , Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Perché a cascata? La risposta è semplice, da questo spunto è nato il progetto scientifico prima che espositivo, di considerare ulteriori opere ispirate ai disegni di Michelangelo, sia di Venusti, sia di altri artisti. “Elementare, Watson”, si direbbe, ma di certo è eccezionale che questo avvenga per la prima volta per il pubblico dei visitatori. Va aggiunto che i confronti sono  illustrati con le nuove acquisizioni di natura  storica e critica, documentaria e anche diagnostica ottenute proprio in rapporto con la mostra e la sua preparazione. Si è andati ben oltre, quindi, la normale curatela.

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Marcello Venusti, “La Madonna del silenzio”, post 1563

E’ interessante, dalle vite e dal percorso artistico di Venusti e Orsi, ricercare il rapporto con Michelangelo, che è l’elemento centrale del progetto  espositivo e della sua realizzazione;  ed evidenziare le rispettive peculiarità che ne fanno meglio apprezzare  il confronto diretto.

Venusti e Michelangelo

Marcello Venusti,  nato inteono al 1512, per la tendenza alle riproduzioni michelangiolesche, è stato definito “copista”, ma in lui c’è anche l’influenza di Raffaello  nella dolcezza delle espressioni  e nella sensibilità cromatica, tanto che Pasquale Coddè nel 1837 lo definì “il Raffaello di Mantova”.

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“La preghiera nell’orto”, Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx

Arriva a Roma dove incontrerà Michelangelo dopo l’avvento  nel 1534 di papa Paolo  III della famiglia Farnese,  che promosse la rinascita delle arti dopo il “sacco di Roma” del 1527 che aveva inferto un grave colpo alla città rinascimentale di Clemente VII. Gli artisti che l’avevano lasciata per sfuggire alle violenze rientrano a Roma, tra loro gli eredi di Raffaello e Michelangelo subito impegnati nei cantieri di Castel Sant’Angelo e nella costruzione della nuova Basilica di San Pietro.

Venusti entrò nel gruppo di artisti  sotto la guida di Perin del Vaga coordinatore dei progetti papali che conobbe mentre Perin era impegnato a realizzare la “Spalliera” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, su  incarico di Paolo III. Lui stava riproducendo su un foglio di modeste dimensioni il grande affresco michelangiolesco rivelando un talento e un’attitudine per quel  particolare lavoro artistico che non sfuggì al coordinatore papale; era il 1541-42, come risulta dalle due lettere dell’ambasciatore mantovano Nino Sernini  rivolte al cardinale Gonzaga. 

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Michelangelo, “La preghiera nell’orto”

Nel  1549 dipinse la copia del “Giudizio Universale”, sempre in dimensioni ridottissime,  su incarico del cardinale Farnese che intendeva  conservare la memoria dell’opera di cui veniva chiesta l’eliminazione secondo i rigidi dettami della Controriforma che non tollerava l’esibizione di nudi e non solo; poi fu mantenuto l’originale del grande affresco, salvato ma “censurato”  nelle parti del corpo ritenute invereconde  con l’intervento di Daniele da Volterra, soprannominato “braghettone”.

Il dipinto lo riproduce com’era, ma Francesca Parrilla osserva: “Tuttavia, la versione venustiana mitiga la potenza della composizione michelangiolesca,, non solo per il piccolo formato, ma anche per la grazia  e la gentilezza dei volti della Madonna e di Cristo, nei quali prevale un’espressione di dolcezza in contrasto  con l’austerità delle fisionomie sistine”: è  l’impronta di Raffaello. Altre differenze, non di stile ma di contenuto, sono: l’aggiunta in alto, al centro, dell’immagine del Padre eterno in volo e dello Spirito santo in forma di colomba; e in basso, a sinistra, del volto di Michelangelo, un omaggio del “copista” all’autore del grande affresco.

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Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Ma quando ci fu l’incontro di Venusti con Michelangelo? L’accurata ricostruzione della Parrilla riporta quanto documentato nel 1959 da Johannes Widea che cita la corrispondenza del segretario vaticano Giovanni Francesco Brini, morto nel 1556, il quale lo definisce “mantovano dipintore deputato già da Paolo b[uona] m[emoria] à seguitar la Cappella nuova” con Michelangelo in età avanzata e  non in buona salute.  Tanto che sostituì Michelangelo come “perito estimatore” a Trinità dei Monti  degli affreschi di Daniele da Volterra quando al rifiuto del Maestro nel 1553 scattò la clausola che  poteva essere scelto chi gli era vicino, e i della Rovere lo scelsero come “suo allievo”.

Altri indizi si ricavano dalla lettera che nel  1557 Cornelia Colonnelli, vedova di Raffaello, scrisse a Michelangelo, nella quale si legge: “Io desidarei che per mezzo vostro messere Marcello ne facesse due, di quelli medesimi”, cioè dipinti ispirati ai disegni del Maestro che erano visibili soltanto ai suoi stretti collaboratori.  Addirittura la Parrilla afferma: “Nei suoi ultimi anni, il rapporto  del Buonarroti con la pittura sembra dunque  passare prevalentemente attraverso Venusti, che certamente dovette assistere il maestro nei lavori del cantiere paolino, incarico che il vecchio artista aveva accettato controvoglia, anche perché non era ancora conclusa quella che considerò la ‘tragedia’ della sua vita: il sepolcro di Giulio II”.

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Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Il  primogenito di Venusti,  come ha testimoniato il Baglione, “fu tenuto  al fonte battesimale dal Buonarroti e chiamato Michelangelo in suo onore”,  e alla morte del padre nel 1579   ereditò i suoi disegni  e gli strumenti professionali, del resto era pittore e fu presente a fianco del padre negli anni ’60 e ’70 del ‘500. Da Michelangelo maestro di Venusti siamo a Michelangelo figlio di Venusti, che da allievo di Michelangelo (Buonarroti) diviene maestro di Michelangelo (Venusti). Potenza del nome e dell’arte!

Orsi e Michelangelo

Lelio Orsi  nacque nel 1508, quattro anni prima di Venusti,  a Novellara, il feudo del quale l’imperatore aveva investito i conti Gonzaga: alla morte del conte Alessandro I  il dominio passò nelle mani della vedova Costanza, assistita dal cognato Giulio Cesare Gonzaga, ecclesiastico a Roma come “prelato domestico” del Papa con il quale, quindi, instituì proficui rapporti. Citando le complesse vicende successorie dei Gonzaga, Massimo Pirondini afferma: “Questi saranno per Lelio Orsi i committenti, i protettori, gli amici; per loro il pittore sarà il ‘genius loci’ artistico, l’abile diplomatico, il fidato consigliere di trame politiche e segreti personali, l’animatore dei festeggiamenti, dei grandi eventi, nonché della vita quotidiana della corte di Novellara”; la vicinanza con Mantova  lo porta a lavorare all’inizio in tale città, già nel 1930 a 22 anni è definito “maestro” in un documento d’epoca.

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Le due opere di Marcello Venusti, “La preghiera nell’orto” , 1565-70

Si trasferisce a Reggio Emilia intorno al 1535, lo prova la sua partecipazione a “un rusticano sabba” nel fregio  della sala nel cuore della della canonica di un castello in un paesino del reggiano; poi importanti commissioni, come le decorazioni del Palazzo dell’Arte e della Lana e della Torre dell’orologio nella piazza principale con l’affresco “Apollo sul carro del sole”, andato perduto, ma di cui si conservano i disegni al Museo del Louvre. Siamo all’inizio degli anni ’40 del 1500, e pur se la derivazione è soprattutto da Giulio Romano, si avverte  la conoscenza del “Giudizio Universale”, del quale circolavano  delle stampe: è questo il primo contatto indiretto trovato con Michelangelo.

Torna a Novellara nel 1546, la reggente contessa Costanza lo protegge dall’accusa di complicità in omicidio, che cadrà nel 1522, è impegnato in importanti lavori di trasformazione della Rocca in una sede rinascimentale:   si ricorda il “Camerino di Ganimede”  in cui agli influssi di Giulio Romano aggiunge, con varianti,  “l’idea, tutta romana e michelangiolesca, del giovane rapito  dall’aquila, tratto senza alcun dubbio da una qualche derivazione o copia  del celebre  e perduto disegno, con il ‘Ratto di Ganimede’,  donato nel 1533  dal Buonarroti a Tommaso de’ Cavalieri”.

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Cristo vivo sulla croce” , Michelangelo tra Marcello Venusti a sin, Marco Pino a dx

Finora non si hanno indizi di soggiorni romani,  ma con l’accresciuto ruolo di Alfonso Gonzaga anche  nella Curia vaticana,  si trovò ad assisterlo, accompagnandolo in viaggi come quello del 1553 a Venezia, e soprattutto assistendolo  a Roma per moderarne gli eccessi del suo “bel vivere”.  A Roma resterà stabile un anno, dal dicembre 1954, presso il conte Alfonso, forse impegnato anche nei lavori  di ristrutturazione del palazzo, di cui si ha notizia di un disegno di Lelio Orsi.

Contatti  con Michelangelo potrebbero essere avvenuti  attraverso Tommaso de’ Cavalieri, amico del Buonarroti  e consulente per le antichità  di Alessandro Farnese, “compagno di baldorie” del conte Alfonso, interessato ai reperti tanto da far effettuare  scavi nel giardino e nella propria vigna. Un dipinto di Orsi “La Leda e il cigno” si ispira visibilmente  a un rilievo romano del II sec. d. C.  A Roma non c’erano più Perin del Vaga e Giulio Romano, scomparsi da 7-8 anni, ma artisti della stessa generazione di Orsi, tra cui proprio Marcello Venusti.   “ma su tutti – osserva Pirondini – sovrastava la presenza, silenziosa e immanente, del grande vecchio, Michelangelo, che da neppure un lustro sveva portato a compimento gli affreschi della Cappella Paolina; per tutti nuovo terribile oggetto di imprescindibile meditazione”.   Orsi ne fu fortemente influenzato, anche attraverso Venusti che ebbe modo certamente di conoscere. Nella primavera del 1574 Orsi torna a Roma   ma sembra per risolvere questioni economiche dei Gonzaga e non per impegni artistici.  

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Michelangelo, “Cristo vivo sulla croce”

Rispetto al grande Buonarroti, viene visto da Pirondini nel dipinto “San Giorgio” a Napoli   un “michelangiolismo toccato da  brillanti lumeggiature”, e da Briganti, in tanti dipinti di piccole dimensioni destinati ad opere religiose per devozione privata, un “michelangiolismo in miniatura”.

Oltre ai pochi riferimenti michelangioleschi che ci interessano in questa sede  per introdurre l’opera in mostra derivata da un disegno del Buonarroti, aggiungiamo che Pirondini, citata la definizione di Longhi come “uno degli artisti più significativi della sua epoca”,  lo descrive “fra onnivore sperimentazioni, inquiete e mutevoli esperienze, imprevedibili e personalissime invenzioni,  il tutto filtrato  e narrato con quella strana ‘Natura ed espressione’, con quel particolare umore emiliano…” tradotto nell’iscrizione che volle  sulla sua tomba: “Laelio Urso in architectura magno in pictura maiori et in delineamentis optimo…”. 

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Marcello Venusti, “Cristo vivo sulla croce”, post 1550

L’Annunciazione e la Madonna del  Silenzio

L’”Annunciazione” di Marcello Venusti, 1550-55 e quella di Lelio Orsi, 1555-60 mostrano la chiara dipendenza  dal disegno michelangiolesco  della Perport Morgan Library di New York, esposto a confronto in riproduzione.  L’ “Annunciazione” di Venusti,  che si avvalse direttamente del disegno originale ottenuto dal cardinale Federico Cesi grazie a Tommaso de’ Cavalieri, è più vicina al disegno ispiratore  sia nelle figure della Madonna e dell’Angelo, praticamente sovrapponibili, sia nell’atmosfera soffusa senza i forti contrasti che invece appaiono  nel dipinto di Orsi, il cui Angelo che sembra balzare dalla finestra nella stanza – quindi è più un’irruzione che una magica apparizione – si differenzia nettamente anche come  aspetto e atteggiamento da quello di Michelangelo e di Venusti. praticamente collimanti.  

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Marco Pino, “Cristo vivo sulla croce” , 1570-80

Il dipinto di Orsi è tornato a Novellara, e di qui è venuto a Roma, dopo un’odissea di secoli. Da Modena a Roma nel 1618  per arredare la residenza  del cardinale Alessandro d’Este, ma già nel 1624 non figura più nella sua raccolta, forse perché donata a Maffeo Barberini divenuto papa nel 1623;  dopo 55 anni risulta appartenere al collezionista  padre filippino Sebastiano Resta il quale lo mette in vendita addirittura con un’autentica firmata da una serie di artisti  dell’epoca che lo attribuisce al Cotteggio, l’autentica figura ancora nel retro dell’opera; solo dopo la vendita,  a seguito di un viaggio in Emilia dove conosce direttamente le opere di Orsi e di Correggio, Resta si accorge dell’errore di  attribuzione.  Intanto il quadro ai primi del ‘700 è in Inghilterra nella collezione, che comprende altri quadri italiani,  di John Churchill,  duca di Marlboroogh, condottiero di epiche battaglie contro i francesi, ancora sotto il nome del Correggio.  Fu rivenduto mentre apparteneva alla raccolta del  7° duca della dinastia, John Winston Spencer Churchill,  nonno del celebre primo ministro inglese che porterà il suo paese alla riscossa nella 2^ guerra mondiale; forse alla metà dell’’800, dato che non figura  più nell’inventario della sua raccolta datato 1851 e tanto meno negli elenchi delle due tornate d’asta presso Christie’s del 1886 quando fu alienata parte della sua raccolta dopo la sua scomparsa. 

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Michelangelo, “Deposizione di Cristo”

L’opera sparisce per ben un secolo, finché riappare  nel 1950 nientemeno che a Roma, sul mercato antiquario, proveniente dall’Inghilterra e attribuita non più al Correggio ma a Venusti; Federico Zeri la attribuì a Orsi in uno scritto del 1952, L’odissea non è finita, l’opera viene acquistata dall’ambasciatore dell’Argentina presso la Santa Sede, Maximo Erchecopar.e trasferita a Buenos Aires, ma nel 1988 viene messa all’asta a Milano, aggiudicata a una galleria londinese, e poi ceduta nel 1991 al notaio italiano Carlo Veneri  che la riportò a Reggio Emilia; alla sua morte la famiglia  la vendette nel 2002 al comune di Novellara. In questo interminabile gioco dell’oca l’opera torna si torna alla casella iniziale dopo aver fatto il giro del mondo. Non foss’altro per questo, vederla a Palazzo Barberini a fianco a quella di Venusti suscita viva  emozione, è un evento ececzxionale.

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Marcello Venusti, “Deposizione di Cristo” , 1550-60

Della “Madonna del Silenzio” l’attribuzione a Marcello Venusti è ritenuta la più probabile, anche se in passato veniva citato “Prospero Bresicano e lo stesso Michelangelo o altri della sua scuola, per l’edizione  delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica proveniente dalla collezione Falconieri, mentre per quella del Museo di Lipsia la firma dell’artista Venusti dovrebbe togliere ogni dubbio. Fanno parte di una serie di  copie di piccolo formato ispirare al disegno di  Michelangelo dell’Harley Gallery  di Nottinghamshire, esposto in riproduzione, con il Bambino abbandonato sulle ginocchia della madre in un’anticipazione della Passione per il richiamo alla Pietà, mentre è come se con la sinistra togliesse un velo invisibile e con la destra  tiene un libro, il piccolo san Giovannino con il dito sulle labbra invita al silenzio e alla meditazione dinanzi al mistero della fede.

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Jacopino del Conte, “Deposizione di Cristo”, 1550-60

La Passione di Cristo

Nell’intero ciclo della “Passione” troviamo sempre Venusti, in interessanti raffronti con altri artisti dell’epoca oltre che con le riproduzioni esposte dei disegni ispiratori di Michelangelo.

Per “L’Orazione nell’orto” il raffronto è fra tre dipinti riferiti allo stesso  Marcello Venusti  tra il 1565 e il 1570, mentre il disegno ispiratore di Michelangelo, del Gabinetto degli Uffizi, è appena  abbozzato  e molto oscuro rispetto alla nitidezza cromatica  dei dipinti delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica e  della Fondazione Marignoli di Montecorona di Spoleto, e alla chiarezza adamantina  senza il profilo di Gerusalemme di sfondo del dipinto del Museo storico di Vienna, forse della bottega. E’ veramente stimolante cercare assonanze e differenze tra i dipinti dello stesso artista e il disegno di Michelangelo, questa volta appena delineato e fonte di ulteriore curiosità.

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Michelangelo, “Pietà”

La “Crocifissione” è il momento successivo, l’opera di Venusti, “Cristo crocifisso vivo, con la Madonna, san Giovanni e Maria Maddalena ai piedi della croce” è riferita a due disegni di Michelangelo, “Cristo vivo sulla croce” del British Museum di Londra, e “la Madonna, san Giovanni Evangelista” del Louvre parigino, i cui motivi ispiratori sono riuniti, con l’aggiunta di altre figure, nel dipinto del Venusti, molto cromatico ed espressivo. Va sottolineato che a Michelangelo va il merito di aver riscoperto, nel disegno per la marchesa Vittoria Colonna, sua sodale, l’immagine di Cristo sulla croce  senza altre presenze, visto nella sua nudità e nella sua solitudine,  cui sono seguite molte versioni.

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Marco Pjno, “Pietà”, 1570-75

Questo disegno  ha ispirato anche il “Cristo vivo sulla croce”, dall’identico titolo, attribuito a Marco Pino, 1770-80,   un Crocifisso essenziale, impressionante su fondo nero, mentre nella Crocifissione” dello stesso Pino,  della chiesa dei santi Severino e Sossio di Napoli, si affollano molte figure, pur se il richiamo michelangiolesco è ancora presente.

Dalla “Crocifissione” alla “Deposizione di Cristo”,  ancora di  Venusti,  1550-60, la torsione del busto di Cristo adagiato sul sepolcro da Giuseppe d’Arimatea e san Giovanni è  michelangiolesca, come lo  è la sproporzione delle braccia rispetto  al petto nella vista di scorcio; oltre che per questi caratteri richiama il disegno di Michelangelo dell’Oxford Ashmolean Museum – una composizione ben diversa, a differenza dei disegni precedenti sostanzialmente collimanti –  il viso urlante sulla destra.  Dello stesso  titolo l’opera di  Jacopino dal Conte, 1560-70, chiaramente ispirata nel corpo abbandonato e statuario del Cristo non al disegno ma alla “Pietà Bandini” di Firenze.

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Marcello Venusti, “Pietà”, 1570-79

Con due “Pietà” dipinte dal solito Venusti, 1570-79,  e da Marco Pino, 1550-75, si conclude la galleria cristologia, questa volta l’aderenza al disegno michelangiolesco  dell’Isabel Stewart Gardner Museum di Boston  è completa in entrambe le opere, mentre  un’ulteriore “Pietà” di Venusti in una chiesa di Palermo se ne distacca nella posizione delle braccia della Madonna e di Cristo  e nell’assenza dei due angeli che aiutano a sollevare il corpo. 

Un percorso istruttivo e stimolante

Non posiamo nascondere l’emozione, giunti al termine del percorso, breve ma intenso, per un itinerario che inizia con l’”Annunciazione” e termina nella “Pietà”, con i passaggi intermedi della Passione di Cristo, scandito da confronti suggestivi con i disegni michelangioleschi ispiratori e tra le opere di diversi artisti che ne sono derivate. Di più non si può chiedere all’approfondimento colto, fonte di scoperte che suscitano l’intimo coinvolgimento del visitatore,  partecipe di una riscoperta nella quale, attraverso le comparazioni, può trovare, oltre alla normale condivisione, elementi personali di valutazione e di giudizio.

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Marcello Venusti, “Giudizio Universale” , 1541
copia dell’affresco di Michelangelo

Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie.  www.barberinicorsini.org; per informazioni, omunicazione@barberinicorsini.org.  Catalogo: “Michelangelo a colori, Marcello Venusti, Lelio Orsi, Marco Pino, Jacopino del Conte”, a cura di Francesca Parrilla, con la collaborazione di Massimo Pirondini, De Luca Editori d’Arte, settembre 2019, pp.120, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli autori citati, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi. com, Tiziano 10-15 maggio 2013, Michelangelo (e Rafffaello) 12, 14, 16 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto” 6 febbraio 2012 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Delle immagini riportate, 13 sono state  riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, e 7 tratte dal Catalogo (le n. 2, 5, 16, 19-22), si ringrazia la Direzione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; alcune opere, prima di essere riportate come singole, sono riportate affiancate per un confronto diretto. In apertura, “Annunciazione”, affiancata quella di Michelangelo, a sin., e di Marcello Venusti a dx, singolie Marcello Venusti 1555-60, e Lelio Orsi 1555-60; poi, “La Madonna del silenzio”, affiancati Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx, singoli Michelangelo e Marcello Venusti post 1563; quindi, “La preghiera nell’orto”, affiancati Michelangelo, a sin., Marcello Venusti a dx, singoli Michelangelo, due di Marcello Venusti 1565-70 poi insieme a confronto diretto; inoltre, “Cristo vivo sulla croce” , affiancati Michelangelo al centro, Marcello Venusti a dx, Marco Pino, a sin., singoli Michelangelo, Marcello Venusti post 1550, Marco Pino 1570-80; ancora, “Deposizione di Cristo” , singoli Michelangelo, Marcello Venusti 1550-60, Jacopino del Conte 1550-60; continua, “Pietà”, singoli Michelangelo, Marco Pino 1570-75, Marcello Venusti 1570-79; infine, Marcello Venusti, “Giudizio Universale” 1541, copia da Michelangelo e, in chiusura, la Locandina della mostra.

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La Locandina della mostra

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Rambaldi, il mago degli effetti speciali, e Tecniche d’Evasione, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

In contemporanea con la  mostra “Sublimi anatomie” ,  dal 22  ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 al Palazzo Esposizioni, di Roma, al piano superiore,  la mostra “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a  Makinarium”  espone una serie di reperti e documentazione di prima mano sui maggiori successi cinematografici del mago degli effetti speciali insignito di 3 Premi Oscar, e presenta l’organizzazione che ha curato la mostra e si muove,  per così dire, nello stesso campo della meccatronica con gli ultimi aggiornamenti.   Sempre al piano superiore,   la mostra fotografica “Tecniche d’Evasione” con una serie di immagini che esprimono il disorientamento dinanzi all’oppressione comunista all’Est, forse i veri mostri.

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Carlo Rambaldi mentre riceve uno dei 3 Premi Oscar

Notevole l’impegno per queste mostre, oltre che per le “Sublimi anatomie” con l’aula realizzata al centro della rotonda. Qui tutto si svolge al piano superiore con visite guidate e laboratori per le scuole e,  per Carlo Rambaldi, una programmazione cinematografica ricca di  25 film  dal 29 ottobre al 9 dicembre 2019 a cadenza quasi giornaliera a parte l’intervallo dal 10 al 20 novembre.

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Le stuatuette dei suoi 3 Premi Oscar

Un ricordo personale, il nostro  incontro con Rambaldi prima dell’escalation americana

I film, dei quali Rambaldi ha curato gli effetti speciali, sono stati realizzati dal 1962 al 1984, in un’escalation di successi scandita da 3 Premi Oscar.  Ma prima di parlare  della sua storia e  di quanto viene presentato nella mostra, vogliamo rievocare il nostro lontano incontro con lui. Avvenne a Cinecittà, in una specie di antro carico di oggetti e di strumenti, a parte in una nicchia c’era un grande plastico che riproduceva la penisola italiana immersa nel mare con modellati i profili monumentali delle città d’arte..

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Una delle prime creazioni per il “Pinocchio” di Comencini

Era quello l’oggetto della visita di chi scrive con il collega Peppino che era stato avvicinato dall’amico Gabriele cognato di Rambaldi per avere un aiuto nella preparazione del progetto collegato a quel plastico: la realizzazione di un centro divertimenti alla “Disneyland” ma italianissimo,  aveva già pensato al nome, “Minitalia”, oltre che all’impostazione e alla struttura, di lì il plastico.  Aveva idee molto chiare su questo centro, la “penisola”  percorribile a piedi e con veicoli appositi, i monumenti in corrispondenza delle città d’arte realizzati con un materiale speciale da lui escogitato, e tutto il resto. Occorreva fare, però, la valutazione economica basata sui costi di realizzazione e di esercizio e sulle previsioni di ricavi considerando i prevedibili afflussi, e per la realizzazione bisognava identificare l’area disponibile nei dintorni di Roma e trovare i finanziamenti.

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I “Guerrieri” pet il film di Roger Vadim

Non era poco, ma l’entusiasmo era tanto, come l’entusiasmo mostrato da Rambaldi nel mostrarci, oltre alla maschera di Polifemo realizzata per l’’Ulisse televisivo, il Pimocchio meccanico e soprattutto un robot semovente i cui movimenti erano imprevedibili perché determinati su base casuale; di questo particolare era orgoglioso, non capimmo perchè, lui lo considerava eccezionale.  Ci mettemmo subito al lavoro,  chi scrive per il Business Plan, in collaborazione con il collega Rosario esperto statistico per il quadro previsionale degli arrivi e delle presenze, mentre il collega Peppino che teneva i contatti, esperto in relazioni esterne, per trovare il comprensorio in cui realizzare il vasto insediamento – lo stivale percorribile con le acque dei mari  solcate da battelli con i visitatori – e soprattutto i finanziamenti necessari.

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Uun modello di “King Kong”

Il  progetto fu preparato, nel “Business Plan”  le  previsioni erano compatibili con la sostenibilità e redditività economica, furono trovate due possibili aree, una  verso  Anguillara sul lago di Bracciano, l’altra addirittura tra Roma e Ostia  nelle proprietà di un conte, se non ricordiamo male, si fecero i primi sondaggi per i finanziamenti. A quel punto con nostra sorpresa uscirono  le fotografie del plastico con le notizie sull’iniziativa allo studio in due pagine a colori della Domenica del Corriere, pensammo fosse su iniziativa di Rambaldi per un primo lancio, e forse fu un errore perché qualche tempo dopo ci fu un’altra notizia: un industriale produttore di tute, ci sembra di ricordare, stava per realizzare una “Minitalia”.

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Un braccio meccatronico di “King Kong”

In effetti – non sappiamo se da quest’industriale o da altri – la “Minitalia” è stata effettivamente realizzata vicino Rimini, ma  non da Rambaldi. Il quale, però, tornato dall’America dopo il  successo planetario di ET,  ha realizzato “Millennium”,  dedicato alla storia dell’umanità dalla  preistoria,  idealmente vicino a “Minitalia” perché basato anch’esso, pur su ben altro tema, sui soggetti realizzati con lo speciale materiale e sulla creazione intorno a questo, di unas sede di svago e divertimento.

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Il primo “alieno”

Perché abbiamo raccontato questa lontanissima vicenda personale? Perché ci sembra dimostri come venga da lontano lo spirito di iniziativa di Rambaldi, la sua ricerca di interessare il pubblico,  che ne ha segnato la inarrestabile escalation  cinematografica.

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L’interno meccatronico dell’alieno

L’intensa cinematografia di successo  del ”mago degli effetti speciali”

Erano i suoi primi passi all’epoca del nostro incontro per “Minitalia”, infatti aveva uno spazio  a Cinecittà,  aveva già lavorato nel 1962  a  “Ti- Kojo e il suo pescecane”  di Folco Quilici, e forse la poesia dell’incontro tra il pescatore e il pescecane  gli era rimasta così impressa da esprimerla a livelli indimenticabili con il gigantesco gorilla e il temibile alieno, tanto che King Kong, Alien ed  ET sono scolpiti nei ricordi di ognuno di noi per la poetica tenerezza delle loro espressioni intrise di una  struggente umanità in contrasto con il loro aspetto “alieno” che veniva magicamente annullato.

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Rambaldi dinanzi al grafico di “White Buffalo”
ne indica i meccanismi interni

In quegli anni,  nel   1965, ha lavorato per  “Giulietta degli spiriti” di Fellini,   “Marcia nuziale”  di Marco Ferreri e  “Terrore nello spazio”  di Marco Bova, di cui ha curato gli effetti speciali in “Diabolik” nel 1968; nella prima metà degli anni ’70 è con Sergio Collima per “La città violenta”  nel 1970,  con  Dario Argento per “Quattro mosche di velluto grigio” e  Lucio Fulci  per “Una lucertola con pelle di donna” , entrambi nel 1971,  con Fulci anche per “Non si sevizia un paperino”  del 1972, anno in cui lavora anche con Pier Paolo Pisolini  per “I racconti di Canterbury”.

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Un’altra sua creazione con l’interno meccatronico

Il 1973 è l’anno dalla sua  partecipazione al film “La grande abbuffata” che lo vede ancora con Marco Ferreri e a “Il mostro è in tavola. Barone Frankestein” con Paul Morissey e Antonio Margheriti, con i quali lavorerà per un altro film su personaggi horror, “Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete” nel 1974, anno nel quale torna anche con Pasolini per “Il fiore delle Mille  e una notte” e lavora con Sergio Garrone in “Le amanti del mostro” e “La mano che nutre la morte”. Con  Pupi Avati nel 1975 per “La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone” , e Dario Argento per “Profondo rosso” ,  fino al 1976  nell’ultima apparizione italiana di nuovo con Marco Ferreri per “L’ultima donna”.

Rambaldi con la sua celebre creatura, “ET”, da angelo custode

La magistrale realizzazione di effetti speciali nei film citati non poteva passare inosservata, si trasferisce a Hollywood  alla metà degli anni ’70, il  lancio  con “King Kong” di  John Guillermin nel  1976  con cui ebbe il primo Premio Oscar per  gli “effetti speciali” e la conferma con “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg e “Sfida a White Buffalo” di J. Kee Thompson nel  1977, finché con “Alien” di Ridley Scott  nel 1979 il secondo  Premio Oscar.  Dopo “Possession” di Andrzei  Zulawski, e “La mano” di Oliver Stone, entrambi del 1981, ecco  l’esplosione planetaria con la creazione di “ET. L’extraterrestre”, ancora di Steven Spielberg,  ma l’alieno è diverso da quello della fugace apparizione al termine degli  “Incontri ravvicinati”, qui è un personaggio centrale del film, anzi ne diviene il protagonista e il suo creatore merita il terzo Premio Oscar.  

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Modellini di “ET, l’extratererstre”

 Seguiranno   “Dune” di David Lynch e “Conan il distruttore” di Richard  Fleischer nel 1984, “Unico indizio. La luna piena” di Daniel Attias nel 1985, fino a “Kng Kong lives” ancora di Guillermin nel 1986. Nel 1988 gli ultimi due film, “I demoni della mente” di  Armand Mastroianni e “Furia primitiva” con la regia del figlio Vittorio Rambaldi, una bella conclusione in ambito familiare di una vita artistica così movimentata. Questo, infatti, è l’ultimo film della ricca programmazione  collaterale alla mostra.

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Un disegno di “ET” con i suoi meccanismi

L’ arte  e la poesia  nella meccatronica degli “effetti speciali”

Questa la gran parte dei 35 film del percorso  di Rambaldi – 20 anni  di  attività nel cinema con  “effetti speciali” tanto perfetti da sembrare veri – 25 dei quali nel ricco programma cinematografico  della mostra. Con i grandi successi culminati nei tre Premi Oscar che ricordiamo  ancora, tale è stata la loro risonanza: nel  1976  con King Kong, nel 1979 con Alien e nel 1982 con ET, seguiti da altri premi come lo speciale “David di Donatello” e il premio della Los Angeles Film Association, nel 1982, e “Mysrtfest” nel 1985.

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L’interno meccatronico di “ET”

I suoi successi sono derivati da una creatività e spirito di iniziativa sostenuti dal talento, che ne hanno fatto un innovatore nel campo degli “effetti speciali”, termine forse riduttivo alla luce del modo radicalmente diverso in cui ha svolto quella funzione apparentemente marginale nel cinema. Da un punto di vista tecnico ha introdotto la “meccatronica”, “meccanica ed elettronica unite negli “effetti speciali”, la “meccanica dei mostri”,  come la chiama il titolo dell’esposizione,  anche se ai “mostri”, da lui resi animati come degli automi, ha dato un’identità e un’umanità che li ha resi dei personaggi familiari divenuti beniamini del grande pubblico. C’è un’importante componente ingegneristica nella sua opera ma soprattutto un afflato poetico e anche artistico. Del resto, si è laureato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna  alla quale si iscrisse dopo aver conseguito un diploma da geometra, quindi formazione artistica dopo quella tecnica.

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Lo sguardo tenerisismo di “ET”

Abbiamo citato i suoi film dal 1962, ma il suo ingresso nel mondo del cinema risale al 1956.  nel film  “Sigfrido” di Giacomo Gentiluomo per il quale diede vita a un drago della lunghezza di 16 metri. Nel decennio successivo  le sue capacità negli effetti speciali si imposero, tanto che nel 1972  un magistrato gli affidò il compito di riprodurre in un manichino il corpo dell’anarchico Pinelli morto tragicamente nella caduta dalla finestra della questura di Milano per l’esperimento giudiziale. Forse alla base di questo incarico ci fu il suo intervento nel giudizio che era stato intentato contro il regista Fulci  imputato di maltrattamenti e crudeltà verso gli animali per la cruenta vivisezione raffigurata nel film del 1971 prima ricordato “Una lucertola con la pelle di donna” in cui lui aveva curato gli “effetti speciali”: portò le prove che i “cani”  apparsi  vivisezionati erano  fantocci meccanizzati realizzati così bene  da sembrare veri; e questa capacità dimostrata giudizialmente fu il presupposto per l’incarico del manichino di Pinelli.

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Makinariun, un disegno di “mostro

Ma il suo maggior merito non risiede tanto nell’aspetto tecnico, pur rilevante, quanto nella forza espressiva che ha saputo dare alle sue “creature” rendendole, come abbiamo già detto, figure amate dal pubblico andando molto al di là degli “effetti speciali” a lui richiesti.  E questa è cultura, questa è arte senza tempo, è anche poesia, in  una simbiosi feconda con la tecnica come portato dei tempi moderni.

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Un modello di “mostro”

Vediamo esposto il modello di “King Kong” e il gigantesco braccio meccanico con il quale sorreggeva Jessica Lange nella dolcissima scena dagli sguardi tenerissimi per tranquillizzare la giovane spaventata,  il primo modello di “alieno” con l’interno meccatronico, la fotografia  in cui lui indica le parti evidenziate per essere meccanizzate di“White Buffalo”,  alcune realizzazioni con i congegni meccatronici in vista, un  inestricabile groviglio di ingranaggi all’interno delle figure semoventi aperte per mostrare la complessità del  “motore” che le muoveva.

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Un modello per film

Torna  il pensiero al robottino semovente che a metà degli anni ’60 ci mostrò  muoversi  sul pavimento a Cinecittà, e ancora tutto doveva accadere. C’’è anche il timido ultraterrestre degli ”incontri ravvicinati del terzo tipo”.  Fino all’evocazione di “E. T., l’extraterrestre”  con gli occhi tenerissimi spalancati e la documentazione relativa sui progetti che mostrano le diverse facce ed espressioni, l’idea gli venne dal muso del suo gatto domestico, ma lo trasfigurò con il tocco dell’arte.   Ed è con questa immagine rimasta nel cuore di tutti che chiudiamo la rievocazione di Carlo Rambaldi, da “mago” a “poeta” degli “effetti speciali”.

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Modellini per film, di stuntmern

I continuatori, il gruppo Makinarium

La sua opera prosegue, in una continuità possibile perché precedeva i tempi, con il gruppo Makinarium, che si è affermato nel cinema di oggi , in cui si assiste al ritorno della meccatronica dopo l’ubriacatura digitale,  utilizzando tali tecniche in modo innovativo.   Si tratta di una “factory”, creata nel 2015, con creativi,  tecnici e artigiani che oltre alle tecnologie sperimentate, come la meccatronica di Rambaldi,  utilizza proprie tecniche  frutto di un’attività di ricerca sulla percezione visiva che ha consentito ad essa di acquisire una precisa identità nell’integrare  gli effetti fisici, meccanici ed elettronici con quelli digitali.

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Tecniche di evasione, “Sampietrini come “invito alla guerriglia”

Questo dal punto di vista tecnico, sotto il profilo artistico un punto di forza è l’approccio interdisciplinare dei creativi  appartenenti a diverse discipline, caratteristica incontrata anche nel grande gruppo leader nel campo dei fumetti, Pixar, che ha in comune con quello degli effetti speciali la creazione di esseri fantastici dalla forte presa sul pubblico. Hanno lavorato per Makinarium 200 professionisti, ha sede a Cinecittà e opera, oltre che nel cinema, nella televisione e nella moda, senza trascurare l’arte contemporanea.

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L ‘uomo con la bocca tappata dai giornali asserviti al regime

Nella  sezione introduttiva dell’esposizione, Makinarium, che l’ha curata, presenta proprie  realizzazioni, poi  si entra  nella mostra su Rambaldi con i “reperti” meccatronici  e documentali  che la società ha restaurato, dei quali abbiamo citato quelli maggiormente evocativi per noi.   In questo modo  la società impegnata nello stesso campo di Rambaldi ha dato un segno tangibile  della continuità con il suo  lascito tecnico ed artistico  qualificandosi ancora di più, e meritoriamente, come sua erede legittima.

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La giovane donna che si strappa il cerotto dalla bocca

“Tecniche d’evasione”  dai mostri dell’Est europeo

La mostra contemporanea sempre al piano superiore è radicalmente diversa, salvo l’assonanza tra la “meccanica dei mostri”  ai quali però Rambaldi riusciva a dare umanità e la “sopraffazione dei mostri” di un regime disumano nel sopprimere ogni libertà opprimendo i suoi cittadini. I quali hanno trovato il modo di esprimere la loro ribellione con le fotografie esposte nella mostra in cui vi è anche molta leggerezza e, anche qui, si sente il respiro dell’umanità così vilmente vilipesa.

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L’uomo nudo, inerme, travolto dall’’onda scura del potere

Le “tecniche di evasione” sono i sotterfugi ai quali ha fatto ricorso un gruppo di  artisti ungheresi  per reagire alla privazione della libertà  imposta dal regime comunista negli anni ‘60 e ’70 con una serie di strategie sovversive, quantomai pacifiche, attuate con immagini direttamente allusive o  di irrisione,  “per sfuggire ai controlli, per stordire la censura, eludere il potere, deriderlo, lasciarlo interdetto”.  Un spinta libertaria da cittadini insofferenti di  prevaricazioni ai loro diritti  primari alla quale si aggiunge soprattutto l’ulteriore spinta “per custodire e proteggere la propria fedeltà all’arte e al proprio sogno d’artista”.  A questo riguardo viene ricordato che l’arte, e quella contemporanea in particolare, spesso  “è stata, ed è tuttora, storia di clandestinità, di sotterfugio, di fuga, di elusione”. Sono parole della presentazione.

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Una scena irridente con la provocazione del nudo femminile

 Vediamo l’”invito alla guerriglia” dissimulato in 6 fotografie del terreno con sampietrini che vengono spostati in successione fino a raffigurare una stella.  Poi l’immagine dell’uomo, ripreso in primo piano con la bocca tappata da giornali appallottolati, è una denuncia quanto mai esplicità della stampa asservita al regime; ma in una sequenza di 12 fotografie una giovane donna si strappa il cerotto che le tappa la bocca, perchè nell’asfissiante propaganda di regime si comunica solo nel silenzio. Un’altra modalità di reazione è la scritta sui muri,   definiti “gradi di libertà”  con cui ci si sfoga nel modo più semplice e clandestino irridendo il potere che non può  controllare tale protesta popolare, è esposta una sequenza fotografica con  un giovane che compie questo gesto di ribellione. La sequenza ulteriore di 16 fotografie presenta un uomo nudo nel suo essere inerme e indifeso investito e travolto da un’onda scura, la violenza del potere.

Un’immagine poliziesca

C’è anche il “ritratto dell’artista”, con la strategia dell’insensatezza  e idiozia per smascherare l’ottusa rigidità del potere, vediamo fotografie eloquenti di questo nonsense libertario. E la realtà poliziesca, con l’agente simbolo di repressione di ogni libertà. Ma forse la forma più irridente, nella sua semplicità, è quella del giovane che si fa fotografare con l’immagine di Lenin,  ma poi ne copre provocatoriamente il viso sovrapponendogli il proprio, e con la falce e martello impugnati a muso duro fino al imbolo comunista che ha trovato segnato con la vernice nera su un muro di Firenze con lui a lato, un apersecuzione…

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Il giovane con il ritratto di Lenin, i loro volti a cvonfronto

E’ assolutamente geniale, per questo citiamo il nome dei due autori,  Katalin Ladik,  che ha scattato, Szemmbathy in posa nelle fotografie,  mentre le altre espressioni fotografiche dell’anelito alla libertà le  lasciamo nell’anonimato come simboli di tutti gli artisti che hanno sofferto  e operato nella clandestinità nella eversione soprattutto attraverso la  derisione pacifica.

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Il giovane provocatoriamente copre il volto di Lenin con il suo

Anche nella storia  di E.T:, per ricollegarci alla mostra su Carlo Rambaldi citando la sua creazione più geniale,  c’è l’irrisione del potere cieco e ottuso delle autorità locali  da parte  dei ragazzi che si identificano nel desiderio di libertà dell’extraterrestre. Tanti extraterrestri,  tanti ET., dunque, vediamo nel gruppo  degli artisti fotografi ungheresi, le loro “tecniche di evasione”  ci ricordano la cavalcata verso il cielo in bicicletta di E.T., come quella mezzo secolo prima di “Miracolo a Milano” sulle scope. E’  l’irrisione dei “mostri” del potere cieco e ottuso, come quello del comunismo dell’Est europeo.

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Il giovane impugna a muso duro la falce e martello comunista

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale, 194. Orario ore 10,00-20,00 per tutti i giorni di apertura con prolungamento alle 22,30 venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso euro 12,50, ridotto 10,00 (under 26 e over 6) ed euro 6 (7-16 anni e martedì-venerdì dalle ore 18), gratuito under 6 anni; condizioni particolari per speciali categorie e convenzioni. Brochure: “Sublimi anatomie, La meccanica dei mostri, Katy Couprie”, Palazzo delle Esposizioni, Public program, ottobre 2019, pp. 55, 2^ parte , “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a Machinarium” . Cfr. i nostri articoli, sulla mostra parallela “Sublimi anatomie” con “Katy Couprie” in questo sito 2 gennaio 2020; su Pasolini: in www.arteculturaoggi.com 27 ottobre 2015, 15, 27 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012, in fotografia.guidaconsumatore.com maggio 2011 (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 19 immagini sono su La meccanica dei mostri. Da Carlo Rmbldi e Makinarium”, le successive 10 su “Tecniche d’evasione”. Sulla prima mostra, in apertura, Carlo Rambaldi mentre riceve uno dei 3 Premi Oscar, seguito dalle stuatuette dei suoi 3 Premi Oscar; poi, una delle sue prime creazioni meccatroniche per il “Pinocchio” televisivo di Comencini, e i “Guerrieri” per il film di Roger Vadim; quindi. un modello di “King Kong” e un suo braccio meccatronico; inoltre, un modello di alieno e il suo interno meccatronico; ancora, Rambaldi dinanzi al grafico di “White Buffalo” ne indica i meccanismi interni e un’altra sua creazione con l’interno meccatronico; continua, Rambaldi con la sua celebre creatura, “E.T.”, da angelo custode…, e 4 immagini su “ET”, modellini e disegno, meccatronica e sguardo tenerissimo; cambia scena on 4 realizzazioni degli epigoni del gruppo “Makinarium”, disegno e modello di “mostro”, un modello per film e modellini per film, “stuntmen”. Seguono, sulla seconda mostra, Sampietrini che evocasno l'”invito alla guerriglia”, poi, l ‘uomo con la bocca tappata dai giornali asserviti al regime, e la sequenza con la giovane donna che si strappa il cerotto dalla bocca; quindi, la sequenza con un uomo nudo, inerme , travolto dall’’onda scura del potere, una scena irridente con la provocazione del nudo femminile e un’immagine poliziesca; inoltre, due immagini del giovane con il ritratto di Lenin, i loro volti a confronto, e dopo provocatoriamente copre il volto di Lenin con il suo, infine, altre due immagini del giovane, mentre impugna a muso duro la falce e martello comunista, e, in chiusura, al lato della falce e martello su un muro di Firenze.

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Il giovane a lato della falce e martello su un muro di Firenze

Sublimi anatomie, e Dizionario folle del corpo, scienza e arte al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La  mostra “Sublimi anatomie”  presenta al Palazzo Esposizioni, dal 20  ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 una serie di opere artistico-scientifiche sul corpo umano di cui l’anatomia ha rivelato gli aspetti nascosti, collegate al percorso culturale dal XIV sec. illustrato nei pannelli esplicativi.   La mostra è stata curata da  Andrea Carlino e Philippe Comar, Anna Luppi, Vincenzo Napolano e Laura Perrone. Per tutto il  periodo dell’esposizione una serie di conferenze e “performance” nell’aula anatomica” ricostruita nella rotonda centrale.  Collegata la mostra al piano  superiore “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”.  Sono in programma laboratori, corsi e incontri.

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Ecotomografia luminosa del corpo umano

Al Palazzo Esposizioni  è stata esplorata  “la matrice prima della vita” con la mostra “DNA” del 2017, poi si è proiettato “il futuro della nostra specie” con la mostra “Human” del    2018. Ora,  con  “Sublimi anatomie”,   si compie un ”viaggio tra passato e presente, tra scienza e arte nella contemplazione del corpo umano”, così la presentazione. Viene rievocato  lo stupore suscitato dalle scoperte delle parti del corpo, da quelle visibili a quelle più nascoste rivelate dall’anatomia. Il “Dizionario folle del corpo” di Katy Couprie correda e integra la ricognizione artistico-scientifica.

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Due tavole anatomiche a figura intera

Perché sublimi anatomie

“L’anatomia è l’inizio della Teologia, è il punto di accesso all’agnizione di Dio”, scrisse intorno al 1500 il teologo protestante Filippo Zelantone, e questo perché la conoscenza approfondita della macchina umana è  una prova delle meraviglie della creazione. Ma c’è anche la concezione laica, altrettanto significativa,  “conosci te stesso”, l’imperativo socratico, si trova come iscrizione in  molte tavole anatomiche, la mente  e l’anima sono uniti al corpo nella visione filosofica Anche nell’età moderna è restato vivo l’interesse al corpo umano, fonte di sempre nuove scoperte.

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La bellezza statuaria greca come riferimento ideale

La qualifica di “sublime” data all’anatomia, che troviamo nel titolo della mostra, ha origini storiche, anche se meno antiche,  risale al 1840 l’istituzione da parte di Pietro Leopoldo  all’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova  della cattedra di “Anatomia Sublime e delle Regioni” passata nove anni dopo a Filippo Pacini, professore da due anni all’Accademia Belle Arti di Firenze di “Anatomia pittorica”, qualifica espressiva dell’interesse dell’arte per il corpo anatomico. Un interesse questo che risale all’Accademia del disegno fondata da Giorgio Vasari, nel 1583, nella quale si faceva la dissezione dei corpi  per insegnare la relativa raffigurazione; del resto Leonardo  è stato un maestro al riguardo nei suoi manoscritti con i disegni particolareggiati di tante parti anatomiche.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, 14° sec.

Tornando al “sublime”,   è un concetto di origini antichissime, nasce con il “Trattato  del Sublime”, forse di Pseudo_Longino del I sec. d.. C.,  come superiore al “Bello” per la sua maggiore forza persuasiva; si riferiva al fascino dell’ascolto di un retore che “trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all’estasi “ e dà “un senso di smarrimento” prevalendo su ciò che è logico, mentre “conferendo al discorso un potere  e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore”, addirittura “il sublime è come un fulmine”.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 2, 14° sec.

In tempi meno lontani, il  movimento romantico, con Kant e Schopenauer  gli ha dato una posizione di rilievo nella filosofia e gli artisti non ne sono  rimasti insensibili; il “Sublime” viene contrapposto al “Bello”. Frequente l’attribuzione di connotati drammatici, non più estetici, addirittura  è ritenuto “l’orrendo che affascina”,  e in quanto tale  fonte di terrore e “della più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”, e certamente  le dissezioni anatomiche suscitavano queste reazioni e questi sentimenti estremi.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile, 1823

Inoltre il concetto di “Sublime”  viene posto in primo piano anche nella celebrazione della grandezza di Dio e della profondità dell’io, visto come forza persuasiva e come momento irresistibile; e a parte i riferimenti alla retorica oratoria sono sempre alla ribalta il corpo umano e l’anatomia che lo esplora.

Di qui il titolo della mostra e la presentazione in ciò che viene esposto  nelle gallerie a raggiera intorno alla rotonda centrale di quanto la scienza e l’arte hanno elaborato sulla base di ciò che l’anatomia ha fatto scoprire del corpo umano  esaminato nelle diverse condizioni, parti e situazioni.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, femminile, 1823

Ma non c’è soltanto questo nella mostra. Nella rotonda centrale è stata ricostruita una sorta di “aula anatomica” nella quale si svolgono nel periodo espositivo, a ritmo incalzante, lezioni di disegno, lezioni magistrali e lezioni di danza, performance e conferenze, nel clima creato dal contorno artistico-scientifico. Il tutto con i più qualificati esponenti italiani ed internazionali delle diverse discipline interessate.     

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Vetrine con sttaue ceroplastiche adagiate su materasso

Anatomisti e artisti uniti nel rivelare le “interiora corporis

L’inizio del XIV sec. segna l’avvio della pratica di dissezione del corpo umano superando gli ostacoli di natura religiosa; le “interiora corporis” sono fondamentali per conoscerlo,  ma nel periodo medioevale ciò avveniva senza immagini, per cui l’opera degli anatomisti era destinata ad essere dimenticata.  In seguito agli anatomisti si affiancarono gli artisti e, con il Rinascimento,  questi ultimi si interessarono notevolmente, come vediamo nei maggiori maestri, Leonardo e Michelangelo, perfino Raffaello e i Carracci. 

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Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.

Nei volumi di anatomia venivano inserite illustrazioni,  300 nel primo trattato “De umani corporis fabrica” del 1543 opera forse di  Calcar della bottega di Tiziano,  quindi nascevano dalla collaborazione tra anatomisti ed artisti fino alla metà del XIX sec. Mentre all’inizio venivano sottolineati gli aspetti macabri della dissezione, poi diventarono più accettabili  e le riproduzioni di immagini piane su atlanti scientifici toglievano ogni pathos alla raffigurazione.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alal seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”. 2^ metà 17° sec.

Vediamo nella  galleria espositiva il plastico dell’Aula di Anatomia di Bologna, poi delle  pagine di un Atlante di anatomia, “Anatomiae Universae Icones di Paolo Mascagni e Antonio  Serantoni, con la testa e le varie parti del corpo, e due figure intere in trasparenze anatomiche senza alcun effetto straniante.

Inoltre delle rappresentazioni molto diverse dell’intero corpo umano a grandezza naturale, una Ecotomografia   luminosa con l’evidenza dei  muscoli negli arti e degli organi interni  e, questa volta in rilievo, un ”Manichino intero d’uomo” in due diverse posizioni, con disegnato il sistema venoso sul colore rosato della carnagione, autore Louis Thomas  Auzoux del XIX sec.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grand epettorale destro”, 2^ metà 17° sec.

Non fu semplice, nelle prime fasi,  operare le riproduzioni anatomiche per la difficoltà di avere a disposizione un cadavere,  inoltre sorsero subito problemi di natura estetica per gli artisti a seguito del  dettato aristotelico secondo cui l’arte non deve essere una “mimesi” della natura che si limita a copiarla, ma deve idealizzarla e per nobilitarla apportare anche le correzioni, per questo si tendeva addirittura ad ispirarsi alla statuaria greca. Il cadavere, anche se “scarnificato” doveva avere una propria dignità nel XV e XVI sec., poi al  messaggio di ”memento mori” seguì una visione più inquieta della vita, con la coppia  eros-thanatos mentre era vivo il problema di conciliazione tra precisione scientifica e invenzione artistica.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, 2016

In questo contesto si collocano le riproduzioni in ceroplastica, che risalgono all’istituzione a Firenze nel 1775  del Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, poi intitolato “La Specola”,   con un’Officina di ceroplastica, in cui lavoravano specialisti ceroplasti  con medici anatomisti, come Pietro Mascagni e Felice Fontana. L’imperatore d’Austria Giuseppe II ne commissionò 1200 pezzi dando lavoro per cinque anni all’officina, anche Napoleone dopo una visita al Museo nel 1796 fece un cospicuo ordinativo. Il direttore del Museo nel 1808, Girolamo dei Bardi,  parla così negli Annali del Museo della ceroplastica: “E’ la Bell’Arte d’imitare in cera ogni sorta di anatomiche preparazioni dirette  a mostrare nel suo insieme  e nei suoi dettagli il meccanismo mirabile della macchina umana e delle sue funzioni”.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 2, 2016

Al riguardo, va considerato che tali opere  furono giudicate, nelle varie fasi storiche,  “imitazioni ingannevoli” della natura, perchè contrarie all’idea di arte idealizzatrice,  nonostante il successo che ebbero  nel  XVII sec. con migliaia di visitatori – erano nate all’inizio di tale secolo – e poi opere che mentre assicuravano la massima veridicità scientifica assurgevano in molti casi a una  qualità artistica anche elevata. 

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Diego Perrone, “Senza Titolo”, 2016

Oggi si ritiene che l’opera in ceroplastica  modellata sul corpo reale ne  recepisca le proprietà ponendosi non come copia ma come “doppio” con la sostituzione del corpo o di parte di esso; quindi non si tratta più di un semplice manichino di cera ma di un qualcosa di molto vicino al reale come negli “ex voto”. Così la presentazione: “Le statue anatomiche in cera in ogni epoca evocano sempre un profondo disagio dell’osservatore, in quanto immagini repliche dei corpi hanno il potere di instaurare un dialogo diretto, senza il filtro, di metafore o allegorie, col nostro vissuto”.

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Una scultura evocativa di torso umano

Una  sala della mostra è dedicata a vetrine contenenti ceroplastiche del Museo fiorentino prima citato, “La Specola”,  con quanto  di misterioso si è impresso in quelle figure umane di cera, “capaci, cioè – è sempre la presentazione – di diventare carne o simulacro di essa e d’imprigionare dentro di sé i propri fantasmi”.

“Interiora corporis”

Tornando all’esplorazione anatomica, viene osservato che il corpo umano “è stato per molti secoli come entità chiusa, dalle mirabili forme esteriori  ma abitato da interiora misteriose e inaccessibili”  E a questi aspetti intimi  quanto reconditi veniva associato “un potente apparato simbolico-mitologico, la cui decifrazione è complessa e talvolta sfuggente”.  Gli Atlanti anatomici di cui si è detto  cercavano di mettere ordine alla parte “informe, tutto ciò che del corpo dovrebbe restare segreto e nascosto, perché una volta svelato rischierebbe di declassare la mirabile fabrica umana a povera matrice corruttibile”.  

Dopo le “interiora corporis”, la parte superficiale, la pelle

Quello che viene definito “intus anatomico” viene studiato soprattutto dall’inizio del XVII sec., attribuisce al cuore  e all’apparato circolatorio la fonte della passione e della sensibilità; notevole interesse negli studi sul corpo femminile in particolare sull’apparato riproduttivo, non più in relazione all’uomo ma considerati in modo  diretto e autonomo.  Vediamo esposta una serie di statue  di terracotta di Giovan Battista Manfredini, con una donna incinta  e una donna cui sono state asportate la cute e altre parti del busto.

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Altra evidenza della parte superficiasle, la pelle

La Chiesa non ostacolava più gli studi   anatomici e le raffigurazioni degli artisti come “rivelazione della presenza divina modellata sulla forma umana”  espressa, quindi, non solo dall’esterno ma anche dalle parti interne. Ignazio di Lodola, nei suoi “Esercizi spirituali” invita a contemplare la ferita al costato di Cristo sulla Croce perché  da quall’apertura, come una bocca, si  vede all’interno il suo cuore fonte di vita eterna.

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L’architettura corporea come un’armatura

Si va anche oltre la dissezione anatomica con la visione del “corpo trasparente”, cioè vivente, i cui disegni diventano espressione scientifica oltre che artistica,  come avviene nei disegni di  Leonardo. Entrando nei dettagli viene sollevato il tema dell’Intelligenza sensibile”: parte dal cervello e  trasforma i suoi impulsi nervosi in azioni  attraverso “corpuscoli” che facendo contrarre i muscoli azionano gli arti, in un rapporto tra mente e  mano alla quale va il compito di tradurre il pensiero nel gesto che incide sulla realtà, come teorizzato da filosofi come Heidegger e Derida.  La concordanza tra linguaggio e gesto si traduce nel disegno con il ruolo di sintetizzare  il pensiero.

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Una statua del corpo umano nella sua interezza

Si passa alla parte più superficiale, la pelle, con la “percezione aptica”,  più penetrante della percezione visiva: non si può definire né di origine esterna né interna, comunque con il contatto corporeo consente di “vedere” la realtà in modo più diretto che con la vista.  Il corpo, si legge nella “Fenomenologia della conoscenza”  del filosofo Merle  du-Ponty, è strumento di conoscenza attraverso l’esperienza pratica con cui entra in contatto e trasferisce la percezione a livelli più profondi. “La mano che tocca è allo stesso tempo toccata, in un gesto che trasforma ciò che percepisce in ciò che è percepito e viceversa”.  Questi concetti restano importanti nell’attuale era digitale, dove i “filtri tecnologici” alterano la nostra percezione allontanandola dalla nostra soggettività  resa invece dalla percezione materiale sensibile del corpo.

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Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle”, Paris 1746

In questa logica  che valorizza la sapienza manuale si colloca il passaggio dall’evoluzione culturale legata al linguaggio  a un’evoluzione tecnica legata alla scienza, dall’automazione  novecentesca alla digitalizzazione attuale fino all’intelligenza artificiale con la crescente perdita di contatto con la realtà.   Questo ha portato a una “rilettura delle convenzioni artistiche, tecniche e culturali”,  in modo da “elevare il corpo sensibile  a mezzo puro e autentico, matrice del gesto minimo e primitivo”, portando di nuovo alla base della conoscenza più autentica la “relazione tra soggetto e soggetto,  interno ed esterno, uomo e natura”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1, 2016

Artisti impegnati in tale ricerca sono Giuseppe Pennone, un contemporaneo del quale vediamo esposte  delle opere scultoree della serie “Avvolgere la terra”, 2014,  in cui il corpo è visto come una forma primaria di scultura, consiste nel “fossilizzare la fluidità di un gesto, lasciare una traccia, solidificare l’immagine prodotta dai punti di contatto tra materia e mano”; e Diego Perrone con opere “Senza titolo”, 2016,  nelle quali, “grazie alle trasparenze che si vengono a formare, le sculture restituiscono la visione di un paesaggio  liminale che si situa tra interno ed esterno, tra pensiero ed epidermide, tra virtuale ed invisibile”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 2, 2016

Si pongono sul confine tra due visioni anche le sculture in bronzo di Luca Francesconi che vediamo esposte in mostra, riguardano le relazioni tra il mondo umano e quello agricolo. Sono intitolate: “I live because I digest – I no longer live, because I did not  cultivate – I am good ground”, 2016.

Ancora più recenti, del 2017, i dipinti  a olio su cartone “Fire from the Sun”, di Michael Borremans, esposti, con dei bambini che giocano, in un’atmosfera primordiale e inquietante,  tra pezzi di corpi adulti, un limite anche qui tra due mondi:  “nascondono, sotto le rassicuranti figure dell’infanzia, una condizione umana che viene rappresentata qui come determinata  e brutale”.

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Michael Borremans, “Fire from the Sun”, 2017

Sono limiti molto diversi, confini tra mondi che si toccano, nei quali si riflette  l’ansia di esplorare l’ignoto nell’arte come nella scienza e nello stesso tempo l’inquietudine contemporanea. Questo  viaggio che la mostra fa compiere all’interno del corpo umano, con le evidenze artistiche in cui si esprime il cammino compiuto, rende appieno questi motivi e questi sentimenti.   

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Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di
Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh”, 2009-10

Il Dizionario folle del corpo di Katy Couprie

Un collegamento ideale possiamo crearlo con l’esposizione al piano superiore  “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”,  una mostra-laboratorio  anch’essa collegata a visite, incontri, corsi, sul “vocabolario visivo che racconta il corpo  umano in tutti i suoi aspetti mescolando l’anatomia con la poesia, le azioni con le emozioni, i modi di dire con le citazioni letterarie”. Sono esposti disegni, incisioni e fotografie con varie tecniche  che, sono ancora parole della presentazione, “raccontano organi, muscoli, ossa, ma anche risate, lacrime e acrobazie per restituire al corpo la sua interezza e complessità, esteriore e interiore”.

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Dizionario folle del corpo, , “Un gran cuore con le sue ragioni”

E’ tutto quello che la mostra “Sublimi anatomie” ha raccontato  a sua volta con la suggestiva carrellata nell’esplorazione del corpo umano come risultato  della stretta collaborazione tra anatomisti e artisti nel dar vita alle espressioni visive  di vario genere prima commentate. Agli “eventi” nell'”aula anatomica” della sede espositiva, cui si è accenanto, si aggiungono le visite e i laboratori, i corsi e incontri per bambini, ragazzi e adulti sul “Dizionario folle del corpo”, in un impegno divulgativo di notevole spessore culturale.

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Dizionario folle del corpo, “Diversi tipi di cellule in costume da parata”

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale, 194. Orario ore 10,00-20,00 tutti i giorni di apertura con prolungamento alle 22,30 venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso euro 12,50, ridotto 10,00 (under 26 e over 6) ed euro 6 (7-16 anni e martedì-venerdì dalle ore 18), gratuito under 6 anni; condizioni particolari per speciali categorie e convenzioni. Brochure: “Sublimi anatomie, La meccanica dei mostri, Katy Couprie”, Palazzo delle Esposizioni, Public program, ottobre 2019, pp. 55, 1^ parte pp. 1-27, e 3^ parte pp. 40-43. Cfr. i nostri articoli, sulle mostre contemporanee “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a Maknarium” e “Tecniche d’evasione” , uscirà il prossimo 4 gennaio 2020; sulle mostre citate all’inizio, in www.arteculturaoggi.com, “Human” 17 maggio 2018, “DNA” 29 marzo 2017. Sugli artisti citati nel testo, in questo sito Leonardo 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, Tiziano 10-15 maggio 2013, Michelangelo (e Rafffaello) 12, 14, 16 febbraio 2013, Carracci (e Caravaggio) 5, 7, 9 febbraio 2913; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo (e, il primo, anche Michelangelo), “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto” 6 febbraio 2012, “Il ‘Musico’ di  Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio 2011, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio 2011, “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia”  6 luglio 2009, ”’Leonardo e l’infinito’, “trenta macchine funzionanti” 30 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini – tranne le ultime 3 tratte dal sito del Palaexpo – sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 25 immagini sono su Sublimi anatomie”, le 3 successive su “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”. Sulla prima mostra, in apertura, “Ecotomografia luminosa del corpo umano“; seguono, Due tavole anatomiche a figura intera e La bellezza statuaria greca come riferimento ideale; poi, Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, e idem n. 2, 14° sec.; quindi, Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile e idem femminile 1823; inoltre, Vetrine con statue ceroplastiche adagiate e Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.; ancora, Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alla seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”., e idem, “…raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grande pettorale destro”, 2^ metà 17° sec; continua, Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, e n. 2 entrambi 2016; prosegue, Diego Perrone, “Senza Titolo” 2016, e Una scultura evocativa di torso umano; poi, “Interiora corporis” e Dopo le “interiora corporis” la parte superficiale, la pelle; quindi, Altra evidenza della parte superficiale, la pelle e L’architettura corporea come un’armatura; inoltre, Una statua del corpo umano nella sua interezza; e Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle” 1746; ancora, Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1 e n. 2 entrambi 2016; continua, Michael Borremans, “Fire from the Sun” 2017, e Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh” 2009-10. Sulla seconda mostra, Dizionario folle del corpo, “Un gran cuore con le sue ragioni” , e “Diversi tipi di cellule in costume da parata” ; in chiusura, La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra.

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La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra

Fumetti nei Musei, l’iniziativa del MiBACT in mostra all’Istituto della Grafica a Roma

i Romano Maria Levante

La 2^ edizione dei “Fumetti nei Musei” espone, nell’Istituto della Grafica a Roma, dal 12 dicembre 2019 al 16 febbraio 2020, 29 album con le storie disegnate da alcuni dei maggiori artisti creativi del genere, ambientate nei Musei italiani. L’iniziativa, ideata e promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, è stata realizzata con  Coconino Press – Fandango e il supporto di Ales S.p.A., la società “in house” del Ministero e del “Centro per i servizi educativi”, sempre del MiBACT.  Sono intervenuti il ministro Dario Franceschini con il Direttore generale Musei del ministero Antonio Lapis, il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher, la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, introdotti dal Capo Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi, presenti il presidente A. D. di Ales S. p.A. Mario De Simoni e i Direttori dei Musei. Nelle festività fino a Capodanno si sono avuti 3000 visitatori.

La Locandina della mostra

      L’iniziativa nella presentazione dei promotori.

Con i 29 nuovi album prodotti nell’attuazione del programma mediante la collaborazione attiva del MiBACT attraverso le sue strutture museali, la propria società di servizi qualificati e il Centro per i servizi educativi, il “corpus” fumettistico ambientato nei Musei raggiunge le 52 creazioni, dato che nella 1^ edizione sono stati già prodotti 22 album da altrettanti artisti e case editrici. Tale edizione, i cui risultati sono stati presentati nel febbraio dello scorso anno, è risultata vincitrice del premio Gran Guinigi per la migliore iniziativa editoriale 2018 del Lucca Comics & Games il cui direttore, Emanuele Vietina,  l’ha definita “un progetto unico nel suo genere”  imperniato su “una relazione fra artisti, istituzioni e imprenditori della cultura che ha dimostrato quanto la nona arte, il fumetto, possa contribuire alla conoscenza del patrimonio artistico e monumentale”.

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Gud, Parco Archeologico Appia Antica, Roma

L’importanza dell’iniziativa è testimoniata dall’impegno del ministro Dario Franceschini che, per una felice combinazione, ha presentato sia la prima che la seconda edizione, tra le quali c’è stato l’interregno del ministro Bonisoli.  E ne ha parlato in termini di svolta, collegandola alle altre iniziative di sostegno all’arte contemporanea – come  il premio di Italian Council per il quale è stato annunciato lo stanziamento di 1,3 milioni di euro – nella quale sono inclusi a pieno titolo i Fumetti. “L’Italia ha sempre eccelso nel settore della tutela -ha affermato Franceschini  divenendo un esempio in tutto il mondo. È arrivato il momento di aggiungere a questo investimento una grande attenzione alla contemporaneità, finora trascurata».

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Gud, Particolare

Inoltre ha sottolineato come l’iniziativa consente il coordinamento dei due momenti, entrambi fondamentali, uno di conservazione del patrimonio passato, l’altro di promozione dell’arte contemporanea: «Questo progetto, oltre a raccontare i musei con un nuovo linguaggio e lasciare libera la fantasia di alcuni tra i migliori fumettisti italiani, dimostra anche come investire sulla tutela e sul passato possa essere un’occasione per dare maggiore impulso alle industrie culturali e creative e ai giovani artisti. Un progetto innovativo al quale il Ministero tiene molto». Oltre a queste considerazioni generali il Ministro ha parlato in modo specifico della mostra e ha concluso rendendo omaggio agli artisti impegnati nella creazione dei Fumetti ispirati ai Musei leggendo tutti  i loro nomi al termine della presentazione. 

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Risuleo e Pronostico, Parco Archeologico di Ostia Antica, Ostia

Il Direttore generale dei Musei, Antonio Lampis, si è soffermato sulla collaborazione fornita nel fecondo incontro tra gli artisti del Fumetto e i Musei nei quali ambientare le loro storie, due mondi così diversi che si sono incontrati nel comune intento di raggiungere un elevato risultato culturale. Lampis è impegnato in un’opera di  profondo rinnovamento del sistema museale, ne  parlò il 17 ottobre 2018  al convegno di Civita sulla “Cultura come diritto di cittadinanza”. Sostenne che la cultura va considerata un diritto di tutte le persone che vivono nel territori, e va collegata  alla casa, alla scuola  e agli altri diritti;  pertanto  i Musei,  nei quali si esprime maggiormente l’accesso popolare alla cultura, vanno  ritenuti servizi pubblici essenziali.  A questa prospettiva si collega l’attuale  iniziativa che amplia notevolmente il raggio di diffusione tra i giovani attirandoli maggiormente nei Musei.

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Risuleo e Pronostico, Particolare

Il “Sistema unico dei Musei”, al quale tende il rinnovamento in atto, “flessibile, leggero e veloce”, introduce notevoli innovazioni nell’impostazione e gestione museale, tra le quali  ci sembra attinente al programma “Fumetti nei Musei”. La nuova  “narrazione museale” deve presentare le opere esposte in rapporto con  gli ambienti di provenienza nelle forme più appetibili anche per le giovani generazioni per far  conoscere il nostro  patrimonio culturale alle fasce rimaste escluse: linguaggio, allestimenti e contenuti vengono rinnovati per  questi obiettivi.

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Roberta Scomparsa, Parco Archeologico di Ercolano

Ebbene, il linguaggio dei Fumetti è particolarmente adatto ad avvicinare soprattutto i giovanissimi ai Musei rompendo quel diaframma che neppure gli appositi Laboratori  riescono a superare; e se i Musei entrano nei contenuti delle storie fantastiche che li affascinano la simbiosi è completa. E’ un risultato straordinario perché nell’immaginario collettivo “Fumetti nei Musei” è un ossimoro, due mondi  a distanza siderale: i Musei sono la quintessenza della serietà e della tradizione, il regno degli adulti, rivolto al passato, anche se si cerca di interessare i ragazzi con laboratori;  i Fumetti invece evocano la fantasia senza freni e l’anticonformismo, il regno dei giovani proiettato nel futuro. D’altra parte, la formula è stata già applicata in Francia per il Louvre e il Museo d’Orsay con la pubblicazione di volumi a fumetti, ma da noi ora è estesa alla vasta rete museale del nostro paese. 

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Roberta Scomparsa, Particolare

Il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher, a sua volta ha affermato: “I fumetti di questa collana sono liberi, coraggiosi, esagerati e prendono molto seriamente il loro ruolo di araldi di tutto ciò che di libero, coraggioso ed esagerato custodiscono le collezioni e i luoghi dei musei italiani”. Da qui sono nate le storie raccontate nei fumetti, che esaltano “l’eccellenza dell’ingegno, l’anticonformismo rivoluzionario delle avanguardie, gli uomini e le donne che hanno dedicato la vita alla custodia del patrimonio artistico italiano”; ma non c’è nulla di agiografico, si prende lo spunto anche da “episodi minimi, storie di incontri fortuiti con grandi opere, lo stupore di chi ancora non ha la cultura e che da oggi inizierà a pretenderla”. Questo sui contenuti delle storie narrate, sulla forma espressiva Ratigher cita “un campionario di stili diversissimi, fotografia dell’inebriante momento che il fumetto italiano sta attraversando”. E conclude con un invito intrigante: “Visitiamo i musei, leggiamo i fumetti e da oggi possiamo anche visitare i fumetti e leggere i musei”.

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Silvia Rocchi, Zona archeologica di Canne della Battaglia

Da oggi ma per proseguire,  non è un’iniziativa transitoria, si guarda già avanti: «Fumetti nei musei è un progetto in continua evoluzione che, potenzialmente, può raccogliere tutte le collezioni dei musei italiani e stiamo già pensando di coinvolgere anche altri musei, a partire dai sette diventati ora autonomi con la nuova organizzazione del Ministero», ha dichiarato  il Responsabile stampa e comunicazione del MiBACT, Mattia Morandi. «L’intenzione è non fermarsi qui, c’è un mondo inesplorato che la creatività dei fumettisti italiani può ancora raccontare con vivacità e simpatia».

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Miguel Angel Valdiva, Museo Archeologico Campi Flegrei, Baia

Dalle mostre romane sui fumetti alla mostra sui Fumetti nei Musei

Ai Fumetti sono state dedicate a Roma negli ultimi anni importanti mostre che hanno consentito di constatarne la penetrazione e la diffusione. Nel 2019  per l’Italia il Festival dei Fumetti al  Macro Mattatoio nel mese di maggio, per il quadro internazionale la rassegna “Romics” alla Fiera di Roma in  ottobre; tra ottobre 2017 e gennaio 2018 “Mangasia” al Palazzo delle Esposizioni aveva  consentito di immergersi nel contesto spettacolare e coinvolgente del fumetto asiatico, soprattutto giapponese, particolarmente fiorente sia sotto l’aspetto editoriale sia per i contenuti.

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Miguel Angel Valdiva, Particolare

In Giappone dal punto di vista editoriale vengono pubblicate serie per le  diverse fasce di età,  la rivista a fumetti più diffusa vende  quasi due  milioni di copie a settimana; oltre alle riviste,  dagli anni ’20 si pubblicano libretti per bambini e adulti diffusi nelle biblioteche circolanti, le vendite di fumetti “Manga”  raggiungono  3,5 miliardi di  dollari. I contenuti sono dei  generi più vari, dai sentimenti agli eroismi, dalle leggende  e tradizioni alle rievocazioni della storia patria; possiamo dire che il nostro “Fumetti nei Musei” rientra in questo loro spirito anche storicistico e celebrativo.

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Alessandro Sanna, Museo Archeologico Nazionale ‘G. Asproni’, Nuoro

Sotto il profilo artistico  i fumetti giapponesi sono stati  legati alle xilografie dell’ “ukiyoe”, per la parte disegnata su cui poi interveniva l’intagliatore e lo stampatore, basta citare i nomi di  Hiroshige, Hokusai ed Eisen  ai quali sono state dedicate due grandi mostre a Roma, ovviamente per la parte pittorica;  ma va ricordato che questi grandi artisti sono stati anche autori di Fumetti, anzi il termine “manga”, di origine cinese,  fu introdotto nel 1814 da Hokusai  per gli schizzi che gli “sfuggivano” cui venivano uniti dei testi, ne realizzò  migliaia, pubblicati in 15 volumi. Ricordiamo in anni meno recenti le mostre, sempre a Roma,  dei fumetti di Crepax con la sua Valentina e di Paz con il suo Pertini, inoltre quelle,  di tipo alquanto diverso, con le vignette  politiche di Mario Sironi e di Forattini. Una galleria artistica molto particolare.

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Emanuele Rosso, Museo Archeologico Nazionale di Aquileia

Ma torniamo alla mostra che passa in rassegna le storie disegnate,  ambientate nei nostri musei, esponendo per le 29 case editrici e  i rispettivi autori  pannelli recanti  la copertina dell’albo con delle pagine-campione  e presentando nel contempo l’albo pubblicato perché possa venire sfogliato e scorso rapidamente dai visitatori della mostra: 18 pagine della storia a fumetti più altre 6 pagine per notizie sul Museo e sulle opere d’arte protagoniste nonché uno spazio per una libera prova fumettistica del ragazzo. Gli album sono dati gratuitamente ai partecipanti ai Laboratori nei singoli musei, infatti parte del ricavato dalla vendita viene destinato a questa iniziativa promozionale di natura didattica.  Una cartello esplicativo  con l’icona della mostra completa l’illustrazione fornita.

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Federico Manzone Museo Archeologico Nazionale Metauros,
Gioia Tauro

Nelle due grandi  sale alla cui pareti sono esposte le 29 realizzazioni ci si sente presi da un abbraccio artistico e fantastico,  per la varietà, la qualità e la spettacolarità delle interpretazioni. Ne faremo una rapida carrellata preceduta dalle dichiarazioni sull’iniziativa,  valide tuttora, con cui  due  protagonisti assoluti,  Ratigher direttore della casa editrice , e  LRNZ supervisore e curatore grafico del progetto oltre che autore, salutarono la 1^  edizione, vincitrice poi del premio citato.

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Federico Rossi Edrighi, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma

Ratigher disse – lo ha citato Adriano Ercolani –  che “nella quasi totalità delle storie c’è una grande componente di mistero e magia. Esprimersi in maniera libera, senza didascalici intenti didattici, ha portato tutti gli autori a mostrare l’aspetto dell’istituzione museale che credo più inneschi le sensazioni di un bambino (coloro a cui è rivolto il progetto). Parlo del mistero fecondo in cui ci si inoltra durante le prime visite museali, l’entrata in un luogo che ci viene detto essere ‘importante””. Ed è la mancanza di conoscenza specifica da parte dei piccoli a trasformare le visite “in passeggiate magiche nell’eccellenza delle umane capacità, passeggiate dove non si impara nulla di specifico se non imparare a imparare”. Risultato: “I  Fumetti nei musei sono dei bellissimi detonatori di domande che portano i ragazzi a chiedersi quale sia il loro potenziale e come lo sviluppo delle loro capacità attraverso il gioco, la paura e la passione, possa migliorare la vita propria e degli altri”. E non è poco porsi tali interrogativi che contribuiscono a formare la coscienza civile.

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Federico Rossi Edrighi, Particolare

Il “mago LRNZ”, a sua volta aggiunse: “L’applicazione alle istituzioni pubbliche è la destinazione più alta per il graphic design, perché diventa la voce di tutti. E ci tengo particolarmente che la nostra voce sia una voce bella. Graphic design e fumetto rispondono per buona parte agli stessi quesiti e poter celebrare i luoghi italiani dell’arte visiva con questi due strumenti assieme, è stato un lusso sfrenato”, Detto in modo entusiasta da un creativo anticonformista è un altro fatto straordinario.

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Pietro Scarnera, Museo Nazionale Etrusco di Chiusi

Qui potrebbe terminare il nostro resoconto. Ma è ugualmente  straordinario che  dalle storie narrate,  anche se prive di intenti didattici, nascano  insegnamenti e  lezioni di vita, si “impara a imparare”. Una caratteristica non dichiarata dei fumetti d’epoca era stare dalla parte del bene contro il male, laddove  l’Uomo mascherato esprimeva la lotta contro la delinquenza nelle città, e così altri personaggi come Mandrake e Cino e Franco per tornare alle origini, ma sorprenderebbe  nel nostro tempo lanciato nella trasgressione. Perciò vogliamo evidenziare gli insegnamenti positivi che nascono delle storie di questa edizione, non ricercati né didattici,  ma insiti nelle vicende narrate.

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Ratigher, Museo Sannitico, Campobasso

Le nuove lezioni dell’edizione attuale dei Fumetti nei Musei

Cominciamo dai Parchi  Archeologici, nel Parco Archeologico dell’Appia Antica l’insegnamento  implicito nella storia disegnata da  Gud nasce da una caccia al tesoro che certamente avranno nascosto da qualche parte imperatori e papi, mercanti  viaggiatori, ne sono convinti tre ragazzi che si impegnano nella ricerca, così possono “Gli esploratori dell’Appia perduta” “, rivivono la storia antica nelle sue fasi avvincenti e misteriose, un vero insegnamento. Anche nel Parco Archeologico di Ostia Antica,  Risuleo e Pronostico con il loro “Passatempo” evocano i segreti e i misteri che è bello esplorare, c’è  la voce inattesa di una dea, più interessante delle ragazze che mancano, l’insegnamento è evidente, è bello riscoprire il passato e può serbare tante sorprese.

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Manfredi Ciminale, Museo della Civiltà, Roma

Dal  Parco di Ercolano  un altro messaggio, Roberta Scomparsa vi ambienta una storia proiettata nel 2079, una nuova catastrofe  provocata non dalla natura ma da una guerra distruttiva per il controllo delle fonti di energia: il primo insegnamento è contro la guerra, il secondo è l’importanza dell’amicizia che il piccolo sopravvissuto, “Salvo delle pietre” scopre incontrando nella città fantasma  altri due sopravvissuti mentre si era rinserrato in se stesso. Nell’Antiquarium e zona  archeologica di Canne della Battaglia, Silvia Rocchi rievoca la battaglia tra Roma e Cartagine non attraverso i condottieri ma i semplici combattenti, spesso ragazzi, entrando nei loro pensieri prima dello scontro, nelle loro speranze e paure, l’insegnamento è che la storia è fatta anche da loro, non solo dai grandi personaggi unici protagonisti. sono “Gli invincibili”.

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Manfredi Ciminale, Particolare

Passando ai Musei Archeologici, nel Museo Archeologico dei  Campi Flegrei di Baia la storiadi Miguel Angel Valdiva fa vedere che  basta chiudere gli occhi e tendere l’orecchio per sentire storie meravigliose di popoli e persone, sono portate dal “Vento” che dà il titolo al fumetto, un bell’insegnamento a raccogliersi in sé stessi  per poter ricevere tanti messaggi inebrianti:  “Il vento non sa leggere” si intitolava un vecchio film, ma  evidentemente sa parlare.

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Marco Corona, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, Roma

Dal Museo Archeologico Nazionale “G. Asproni” di Nuoro, Alessandro Sanna ci riporta  a  3800 anni fa con una scena carica di “suspence”, i guerrieri con le armi in pugno si fermano per ascoltare una sacerdotessa, è un imprevisto, sono i misteri imprevedibili della storia intitolata “Sisaia” un altro messaggio.  Guerra imminente  anche nella storia ambientata da Emanuele Rosso nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, l’imperatore Massimino assedia la città pronta a combattere, mentre il lottatore Aimo e la danzatrice, “Bassilla”, molto  amati dalle folle, sono impegnati a raggiungere la perfezione  nelle loro discipline. Non si può non sentire l’insegnamento che con  l’impegno nella ricerca dell’arte e della bellezza si può contrastare l’insano ricorso alla violenza e alla guerra.

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Marco Corona, Particolare

Nel Museo Archeologico Nazionale Metauros di Gioia Tauro,  Federico Manzone ambienta la storia fantasiosa delle divinità Ermes e Pan che frugano nel Museo per volere di Giove alla ricerca del vaso di Pandora,  il custode sospettoso saprà aiutarli? Il rapporto divino-umano e passato-presente è nella storia intitolata “Metauros”, chissà se c’è anche un insegnamento, considerando cosa contiene il vaso di Pandora!  Mentre nel  Museo Archeologico Nazionale di Matera, “Domenico Ridola”, la storia di Vitt Moretta intitolata “Puzzle” si svolge come con  la caccia al tesoro del ragazzo Totò tra cunicoli e massi, pipistrelli e ossa ci sembra insegni non solo che si può vivere un’avventura coinvolgente nel Museo ma anche che il passato può aiutare il presente come fa qualcuno  venuto da molto lontano nel tempo soccorrendo Totò.

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Taddei e Angelini, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Roma

Dai Musei su antiche civiltà vengono altri insegnamenti, sempre  impliciti e non didattici. Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma,  Federico Rossi Edrighi ambienta la storia di Michele, non interessato a vasi e reperti perché preoccupato per il  proprio futuro, finché non pensa a interrogare i sacerdoti etruschi, “Gli aruspici”. Avrà la risposta che attende, il passato può aiutare il presente, è un insegnamento anche questo. 

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Taddei e Angelini, Particolare

Il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, nella storia di Pietro Scarnera,   rivela un mondo di enigmi e  presenze misteriose,”Nel labirinto” c’è anche il tesoro e Micol dopo le Arpie  incontra la Sfinge, ha come amico un piccolo etrusco e una scimmietta materializzati nel Museo. Quanti insegnamenti evidenti, dall’amicizia al rapporto passato-presente, insieme alle scoperte che si fanno cercando di conoscere e capire! Nel Museo Sannitico di Campobasso, Ratihher rievoca  “L’eterno galoppo” degli antichi cavalieri, i Bulgari che si insediarono in Molise, si facevano seppellire con i loro fedeli destrieri: un insegnamento sulla fedeltà e sul rispetto e l’amore per gli animali, si parla dei cavalli, ma gli animali di compagnia odierni sono uniti  al nostro stesso destino. 

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Andrea Ferraris, Museo Preistorico dei Balzi Rossi, Ventimiglia

Dal Museo delle Civiltà di Roma la storia di Manfredi  Ciminale racconta di un esploratore che riceve una scatola misteriosa con  le storie  delle civiltà, la lezione è che occorre avere una mente curiosa, bisogna saper guardare  i reperti dell’antichità e saper ascoltare le loro voci, come dinanzi a una “Sciarada”. . Narrano storie affascinanti, come “La visita” al Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo a Roma, Bimbo Tito non voleva andarci tutto preso dai fumetti,  poi scoprirà un mondo di avventure e di fantasia tra le statue  greche e romane, lo racconta Marco Corona.    Nel Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, sempre a Roma, “Il tema di Ascanio” potrà venire svolto dall’alunno che nella visita ha perso di vita insegnanti e compagni perchè trova una guida che gli fa incontrare grandi personaggi del passato.

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Andrea Ferraris, Particolare

Andando più indietro nel tempo  con il Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia, Andrea Ferraris vi ambienta una storia attuale, “Un fuoco nella nottte”, Mamadou e la sua famiglia si nascondono in una grotta nella traversata clandestina di un confine, i graffiti  testimoniano una vicenda come la loro, la storia che si ripete anche dopo 45 mila anni è la lezione?  Passato remoto e presente anche  nel Museo Nazionale d’Abruzzo la storia di Spugna intitolata “Quattro chiacchiere” mobilita un Mammuth alto 4 metri per lanciare il messaggio che dopo una caduta, come il terremoto, bisogna rialzarsi  e andare avanti. Cambia tutto  nella Certosa e Museo di San Martino di Napoli, Pablo Cammello fa entrare nel presepio Pulcinella, il Monaciello”, per recuperare il pallone di un ragazzino e mettere ordine.

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Spugna, Museo Nazionale d’Abruzzo, L’Aquila

Dalla amatissima maschera napoletana al terribile Dragone Nero  nella storia “Boom samurai boom”, di Marco Galli , nel Museo d’Arte Orientale di Venezia, Adelgonda  in Giappone con il marito resta sola in un palazzo pieno di statue e armature di samurai, ma non la spaventa il dragone taglia-teste, sarà lui a doverla temere, l’insegnamento è che non bisogna avere paura, anche nelle situazioni più difficili. Nel Museo Storico e Parco del Castello di Miramare a Trieste,  Lise e Talami  una storia proiettata nel futuro, “Rosa ananas”, il castello viene occupato di nuovo da un’armata spaziale, ma il parco lussureggiante converte  il generale guerriero a dedicarsi ai fiori. Una versione attuale dell’indimenticato slogan “mettete i fiori nei vostri cannoni”?  Comunque un  insegnamento, forse non ricercato né voluto ma implicito, sulla pace  e insieme sulla bellezza della natura.

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Pablo Cammello, Certosa e Museo di San Martino, Napoli

Dai Musei a Luoghi storici e residenze nobiliari. Nel Mausoleo di Teodorico a Ravenna,  Giuseppe Palumbo parla di un bambino che aveva paura de fulmini e fu mandato ostaggio, poi divenne re e conquistò l’Italia, con molti segreti tra l’umano  e il divino, un insegnamento è che nulla è impossibile, ci sono “16 possibili usi di un Mausoleo”. Tra le residenze nobiliari nel  Palazzo Ducale di Gubbio,  Michele Petrucci  presenta una bambina, la duchessina Costanza,  con gioie e grandi dolori, la consola Martino, che solo lei può vedere  in segreto, la storia di “Costanza e Martino” ripropone l’insegnamento dell’importanza dell’amicizia e in più quello  dell’inevitabilità dei dolori della vita.

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Marco Galli, Museo d’Arte Orientale. Venezia

Nel  Complesso Monumentale della Pilotta di Parma,  Luca Negri ambienta una visita scolastica, la professoressa scompare, i ragazzi giocano a diventare adulti con diverse identità, quasi una “piece” teatrale, si può ricavare la lezione a sapersi organizzare dinanzi all’imprevisto, ne viene fuori una “Naumachia”. A Villa Adriana –  Villa d’Este di Tivoli, la storia di Eliana Albertini si svolge nei giardini tra statue e fontane,  la voce di una dea racconta vicende misteriose a Mattia e ai suoi amici, dai “Cambi di posto” torna l’insegnamento a saper ascoltare la voce che viene da lontano. Invece  a Villa della Regina di Torino,  Lorenzo Mò racconta  “La gita intergalattica di Titta & Plyn”, due alieni che prendono dei reperti dalla villa per portarli nel loro pianeta, ma sono dei pasticcioni e si fanno scoprire.

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Lise e Talami, Museo Storico e-Parco del Castello di Miramare, Trieste

E’ questo l’insegnamento, non fare pasticci? Una storia di 700 anni fa, “Acqua passata” , Altan la ambienta alCastello Scaligero di Sirmione, Elalberto uccide Arice che rifiuta  di cedergli e viene ucciso da Ebengardo, viene evocato e fa da guida con una sorpresa finale, noi non possiamo non pensare ai femminicidi che è giusto segnalare all’esecrazione di ragazzi. Nell’ultima residenza storica, la Rocca di Gradara, Mara Cerri  racconta le storie d’amore di Isotta, Lucrezia, Francesca, lontane ma anch’esse attuali, un insegnamento per le giovani ragazze, “Dietro di te” il titolo.

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Lise e Talami, Particolare

Le ultime due storie  sono ambientate in Palazzi romani sedi di istituzioni.  “Un lungo respiro” nell’Istituto Centrale per il Restauro,  Maria Chiara Di Giorgio fa approdare un satiro che viene dal passato, storici e scienziati  si prendono cura di lui e trova un amico: viene così insegnata l’importanza dell’ “ospedale” che restaura oltre quella dell’amicizia che non ha confini. La chiusura è nella sede della mostra, l’Istituto Centrale per la Grafica, Giacomo Nanni racconta come Clemente XII salvò una storica collezione dalla vendita, è una bella lezione per i ragazzi il tesoro delle stampe, disegni, incisioni con la grandezza di Roma nel tempo, e l’importanza di preservarlo anche usando la fantasia, di qui il titolo “L’immaginifico Signore”.

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Giuseppe Palumbo, Mausoleo di Teodorico, Ravenna

Le motivazioni degli autori delle storie a fumetti della 1^ edizione

Alla veloce carrellata sulle storie narrate per gli insegnamenti impliciti in esse, aggiungiamo qualche elemento sull’approccio degli autori  a storie con ambientazioni così diverse da quelle consuete dei fumetti, addirittura in luoghi austeri come le Aree archeologiche, i Musei e le Residenze storiche. Citiamo le motivazioni di alcuni degli autori dei Fumetti nei Musei della 1^ edizione, particolarmente significative essendo il contatto iniziale con il  mondo dell’antichità  anche  remota. Ci siamo basati sulle impressioni raccolte direttamente  da Adriano Ercolani.

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Giuseppe Palumbo, Particolare

Tuono Pettinato e  Neri & Scheggia, nella Galleria dell’Accademia di Firenze,  hanno voluto  raccontare le vicende umane dei protagonisti degli ambienti museali, personaggi e capolavori, facendoli scendere dal piedistallo e dalla cornice per renderli umani anche nelle loro debolezze;  e si è trattato addirittura di Michelangelo, e del David, idolatrato dai visitatori ma isolato rispetto agli altri personaggi minori del museo. Nello stesso  spirito,  nella Galleria Borghese di Roma, Martoz ha reso protagonista una scimmietta insignificante rispetto ai grandissimi Caravaggio e Raffaello.  Anche Andrea Settimo, nella  Galleria Nazionale dell’Umbria, ha voluto  rappresentare i grandi artisti come il Perugino quali persone reali non mitizzate,  violenti e peccatori, una sorpresa spesso inimmaginabile rispetto alle loro opere, ma  tale da avvicinarli a noi per poterci identificare in loro.

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Michele Petrucci, Palazzo Ducale di Gubbio

LRNZ,  dinanzi alla nuova  formula “Time Is Out of Joint” della  Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, ha voluto immergersi in una dimensione temporale in cui non si distingue più tra permanente e temporaneo,  passato e presente, in una dissoluzione del tempo. In un arco temporale dal 1911 al 2018 i “frammenti di un discorso amoroso”  di  Paolo Bacilieri, dall’Accademia di Brera,  l’autore rivive e fa rivivere momenti drammatici della Pinacoteca, come  i bombardamenti.

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Michele Petrucci, Particolare

Mentre  Marino Neri, dalle  Gallerie Estensi di Modena e Ferrara fa partire un messaggio di pace di una famiglia di topini, colpito dal tono bellicoso di statue e quadri ma controbilanciato dall’immagine dell’Amore che scaglia la sua freccia nel cuore. A Maicol&Mirco la  Reggia di Caserta   fa sentire che dopo  gli esseri umani e gli animali, “ora ci tocca assolutamente imparare a rispettare le cose. Che poi è il vero messaggio di ogni museo”.

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Luca Negri R.S.M., Complesso Monumentale della Pilotta, Parma

Hanchi, nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino non si è fatto vincere dall’ambiente austero e tradizionale, e non ha rinunciato a inserire l’incredibile nell’ordinario, allaga il museo, che  non è neppure  incredibile a stare all’acqua alta di Venezia e alla rovinosa alluvione di Firenze. Invece Lorena Canottiere, nella visita ai  Musei Reali di Torino ha avuto l’impressione “di camminare attraverso un’onda da tsunami senza avere il bisogno di proteggersi e rendendosi conto di poter respirare sott’acqua, anzi di aver bisogno di quel respiro lungo secoli. Trovare una storia da raccontare è stato facilissimo, più difficile è stato tornare alla realtà”.  Anche Lorenzo Ghetti, nel  Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli,  si è  trovato  in un  “mondo altro”, diverso da quello esterno,  altra atmosfera, con delle finestre sul  tempo  che possono collegare diverse realtà.  

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Luca Negri R.S.M., Particolare

La sorpresa di  Dr. Pira  è stata di  trovarsi  nel  Parco Archeologico di Paestum appena fuori dalla stazione, il tempo annullato, poi  l’antico reperto  che ritrae un tuffatore e il trampolino quando  non esisteva lo sport dei tuffi fa il resto: “Non lo so, a me è esploso il cervello, e il risultato è quel fumetto che ho fatto”.   Nessuna sorpresa, al contrario,  per Otto Gabos,  conosceva il Museo del Bargello di Firenze, ci è tornato già preparato,  ma ha scelto angolazioni inusuali  in modo da creare un gioco di specchi, una storia affascinante e misteriosa.

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Eliana Albertini, Villa Adriana – Villa d’Este, Tivoli

Uno specchio  alla nostra quotidianità  lo vede nel cielo Paolo Parisi,  dalle  Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, come  luogo ideale di narrazioni mitiche, le costellazioni dei pianeti “un museo immaginifico ‘a cielo aperto’ con tutte le opere della storia dell’umanità”.  Una inconsueta visione cosmica anche  dai Bronzi di Riace del Museo di Reggio Calabria, che fa dire a Vincenzo Filosa: “E’ stato come trovarsi di fronte a un bivio intergalattico da cui partono autostrade verso pianeti lontanissimi e sconosciuti. Nessuno di noi sa cosa può succedere quando la mente ‘libera’ di un ragazzo di otto anni, nove o dieci anni impatta contro un’opera tanto imponente e suggestiva“.

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Eliana Albertini, Particolare

Alice Socal, nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ammette la difficoltà di interessare un pubblico, per lei  inconsueto, di bambini: “Per me é stato un po’ un salto nel vuoto: sapere che anche solo un bambino trovi la mia storia divertente,  potrebbe essere il successo più grande della mia carriera di disegnatrice”.  Analogo impegno di Alessandro Tota, nella Galleria degli Uffizi di Firenze, che confida:”Quando leggo un libro ai miei figli cerco un libro che sia intelligente e faccia divertire, una cosa non esiste senza l’altra. Spero di essere riuscito nell’impresa”.

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Altan, Castello Scaligero di Sirmione

Squaz,  forse per superare questa difficoltà, del   Museo Archeologico Nazionale di Taranto  sceglie la figura olimpica dell’’Atleta di Taranto vincitore di quattro edizioni delle gare Panatenaiche,  piuttosto che gli ori degli orefici antichi, e vi collega il messaggio che l’’ottimismo della Volontà,  in questo caso del Cuore, prevale sul  pessimismo della Ragione. Stessa motivazione in Fabio Ramiro Rossin, che nel Palazzo Reale di  Genova, con la storia del principe malato ed immobilizzato nel palazzo  ma per la forza di volontà “viaggiò comunque, con la mente, grazie al suo coraggio, alla sua sensibilità, alla sua voglia di conoscere e custodire la bellezza del mondo”.

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Mara Cerri, Rocca di Gradara

Dal Palazzo Ducale di Mantova,  Sara Colaone è presa dalla differenza tra l’occasione,  che consiste nel contatto con un oggetto di mero  consumo, e l’esperienza che fa nascere  pensieri e relazioni, e collega ciò che si vede con  ciò che si sa:  la visita al palazzo viene sentita come esperienza,  non come occasione, vissuta  nel mistero della bellezza inserito nel grande quadro della conoscenza. Bianca Bagnarelli, dal Parco Archeologico di Pompei confida che la storia narrata nasce dalla propria visita a Pompei allorché,  perduto di vista il compagno, lo ha cercato a lungo tra case e cortili, anditi e corridoi, da proprie vicende anche minime possono nascere grandi idee.

Mariachiara Di Giorgio, Istituto Centrale per il Restauro, Roma

A Roberto Grossi, il  Parco Archeologico del Colosseo fa sentire, “Hic”,  la voce del tempo  che scorre inarrestabile tra fasi di grandezza e di decadenza, trasformazioni improvvise e interminabili staticità,   momenti  importanti perché irripetibili, ma anche  insignificanti perché brevissimi rispetto alla dimensione  millenaria del tempo.

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Giacomo Nanni, Istituto Centrale per la Grafica, Roma

Con il Colosseo che esprime in modo plastico questa dimensione chiudiamo il nostro “excursus”  che dalle storie dei Fumetti nel Musei della 2^ edizione ci ha riportato alle motivazioni degli autori della 1^ edizione. Ne emerge il contenuto di un’iniziativa di cui abbiamo sottolineato l’interesse e il valore nell’avvicinare i giovanissimi ai Musei, che custodiscono un immenso patrimonio culturale e storico  vitalizzato e portato alla ribalta dalle storie  fantastiche  e coinvolgenti raccontate.

Gli album della 1^ edizione della mostra in esposizione

Info

Palazzo della Grafica, Via della Stamperia 6, Roma. Dal lunedì al venerdì ore 9.00-19,00, sabato e domenica ore 9.00-14,00. Ingresso gratuito. Tel. 06.699801, fumettineimusei@beniculturali.it; due “brochure” illustrative. Per gli artisti citati, e le manifestazioni indicate, cfr. i nostri articoli in: www.arteculturaoggi.com, Musei nella cultura come diritto di cittadinanza  25 ottobre 2018, Hirosawa 14, 19 giugno, 5 luglio 2018, Hokusai 2, 8, 12 dicembre 2017,  Mangasia 1, 6 novembre 2017, Forattini 27 febbraio, 2 marzo 2018, Sironi 2 novembre 2015; fotografia.guidaconsumarore.it,  Crepax 1° luglio 2012; cultura.inabruzzo.it,  Paz  23 febbraio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo della Grafica alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  Riproducono i cartelli illustrativi delle singole storie ambientate nei rispettivi Musei cui è unito l’album realizzato, per metà circa oltre al Cartello illustrativo viene riportato il Particolare della pagina ingrandita; le immagini sono inserite nell’ordine di citazione nel testo. In apertura, la Locandina della mostra; seguono. Gud, Parco Archeologico Appia Antica Roma, e Particolare; poi, Risuleo e Pronostico, Parco Archeologico di Ostia Antica Ostia, e Particolare; quindi, Roberta Scomparsa, Parco Archeologico di Ercolano; inoltre, Silvia Rocchi, zona archeologica di Canne della Battaglia; ancora, Miguel Angel Valdiva, Museo Archeologico dei Campi Flegrei Baia, e Particolare; ancora, Alessandro Sanna, Museo Archeologico Nazionale ‘G. Asproni’ Nuoro, Emanuele Rosso, Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, e Federico Manzone Museo Archeologico Nazionale Metauros Gioia Tauro; continua, Federico Rossi Edrighi, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma, e Particolare; seguono, Pietro Scarnera, Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, e Ratigher, Museo Sannitico Campobasso; poi, Manfredi Ciminale, Museo della Civiltà Roma, e Particolare; quindi, Marco Corona, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo Roma, e Particolare; inoltre, Taddei e Angelini, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo Roma, e Particolare; ancora, Andrea Ferraris, Museo Preistorico dei Balzi Rossi Ventimiglia, e Particolare; continua, Spugna, Museo Nazionale d’Abruzzo L’Aquila, Pablo Cammello, Certosa e Museo di San Martino Napoli, e Marco Galli, Museo d’Arte Orientale Venezia; seguono, Lise e Talami, Museo Storico e Parco del Castello di Miramare Trieste, e Particolare; poi, Giuseppe Palumbo, Mausoleo di Teodorico Ravenna, e Particolare; quindi, Michele Petrucci, Palazzo Ducale di Gubbio, e Particolare; inoltre, Luca Negri R.S. M., Complesso Monumentale della Pilotta Parma, e Particolare; ancora, Eliana Albertini, Villa Adriana – Villa d’Este Tivoli, e Particolare; continua, Altan, Castello Scaligero di Sirmione, e Mara Cerri, Rocca di Gradara; infine, Mariachiara Di Giorgio, Istituto Centrale per il Restauro Roma e Giacomo Nanni, Istituto Centrale per la Grafica Roma; al termine, Gli album della 1^ edizione della mostra in esposizione e, in chiusura, la presentazione della mostra, al microfono il ministro Dario Franceschini, alla sua dx il Direttore generale per i Musei Antonio Lampis e la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, alla sua sin. il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher e il Capo dell’Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi.

La presentazione della mostra, al microfono il ministro Dario Franceschini, alla sua dx il Direttore generale per i Musei Antonio Lampis e la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, alla sua sin. il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher e il Capo dell’Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi.

Fotografia e arte, 3. Fotodinamismo e modernismo

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Fotografia con l’arte in mostra alla Gnam: fotodinamismo e modernismo

Dopo le opere degli esordi della fotografia del 1850 e quelle della fase successiva che culmina nel “pittorialismo” fino al 1920-30, di cui abbiamo dato conto in precedenza, la mostra “Arte in Italia dopo la fotografia” dal 21 dicembre 2011 al 4 marzo 2012 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  ha esposto le opere del fotodinamismo futurista e del modernismo che arriva al 1950, più le collezioni del cinquantennio fino al 2000: la rassegna di questa fase conclude la nostra visita.

Anton Giulio e Artura Bragaglia, 1914

Abbiamo ricordato Giacomo Balla nel periodo che arriva al “pittorialismo”, e si ritrova con 10 opere esposte nella sezione della mostra dedicata al “Fotodinamismo”che ne rappresenta un’evoluzione e si collega alla rottura futurista rispetto alle arti e in genere alle forme espressive del primo Novecento da cui non poteva non venire coinvolto anche il mezzo fotografico. Ciò avviene con la sua definitiva emancipazione dal supporto alla pittura che dà dignità artistica alla fotografia.

Balla negli studi sul volo delle rondini mostra attenzione alle fotografie di Marey sul volo di uccelli, e nel dipinto “Dinamismo di un cane a guinzagli” sembra influenzato dalle foto dei fratelli Bragaglia per i manifesti futuristi, esposte a Roma da Marinetti; anche Degas sembra ne fosse influenzato per le ballerine sospese a mezz’aria. Infatti ad Arturo e Anton Giulio Bragaglia si devono le ricerche fotografiche per il manifesto futurista e non solo: nel 1913 viene pubblicato il “Fotodinamismo futurista” di Bragaglia con 16 delle 30 tavole fotodinamiche create: dichiara di voler “realizzare una rivoluzione, per un progresso, nella fotografia, per elevarla veramente ad arte”, superando “la riproduzione fotografica del vero immobile o fermato in atteggiamento di istantanea”, nella sua “oscena e brutale realisticità statica”: per conferirgli “la espressione e la vibrazione della vita viva”.

Ghitta Carell, anni ’30

La spinta verso questa rivoluzione fu l’interesse del pensiero futurista per il movimento: la fotografia era in grado di renderlo mediante traiettorie e vibrazioni, scie luminose e lievitazioni che trascendevano la realtà ricercandone l’essenza mediante la destrutturazione e dematerializzazione conseguente al moto colto nel suo dinamismo esasperato. Questo proclamava il “foto dinamismo” futurista: non si trattava di costruire sequenze continue di tipo cinematografico con scatti a ripetizione, ma di fissare momenti estremi di inizio e fine del moto tra i quali gli intervalli esprimono il carattere inafferrabile della realtà dinamica inseguita dai futuristi; e questo con una lenta esposizione fotografica che crea scie e traiettorie deformando gli oggetti.

Nel movimento da un punto a un altro – sottolinea Rita Camerlingo – “il tempo, quarta dimensione, si traduce in spazio” e, nella filosofia di Henri Bergson, allontana dalla realtà per raggiungere l’essenza delle cose e “lasciare un ricordo”. l tre “Ritratti del pittore Francesco Trombadori” dei Bragaglia, esposti in mostra, rendono il fotodinamismo con le diverse teste in movimento vorticoso che coesistono sul tronco, delle quali solo quelle estreme sono ben visibili, la scia quasi nasconde e deforma le altre.

Italo Bertoglio, 1933

Il modernismo 

Molto diverso da queste avanguardie del tutto particolari, il “Modernismo” nella consapevolezza dell’autonomia estetica dell’opera fotografica vede su fronti opposti – scrive Maria Francesca Bonetti – “i sostenitori di una concezione ‘purista’ della fotografia, prevalentemente orientati verso la sperimentazione, con ricerche spesso spinte anche verso l’astrazione, e i fautori di una fotografia ‘artistica’ estetizzante e interpretativa, intesa piuttosto come ricerca formale libera e spregiudicata”; che usa tutte le tecniche di manipolazione e contaminazione con le altre arti “utili alla trasfigurazione e all’idealizzazione della realtà”. Per questo si muove “tra classicismo e astrazione”.

Sono anni, dal 1920 al 1950, in cui l’Italia si apre alle concezioni più avanzate in campo fotografico, come le astrazioni di Man Ray e il costruttivismo di Aleksander Rodcenko, il surrealismo di Blossfeldt e l’iperrealismo di Renger-Patzsch,per citare dei capofila, mediante le mostre internazionali e le esposizioni in varie città italiane, come fu nel 1931-32 dopo la pubblicazione del “Manifesto della Fotografia Futurista” a firma di Tato e Filippo Tommaso Marinetti. Non ci si limitava alle tematiche futuriste, il modernismo era presente nella concezione astratta e idealizzata.

Stefano Bricarelli, 1939

Ne abbiamo degli esempi nei ritratti esposti in mostra di Ghitta Carell, con Nobildonne e Donne esemplari, Gerarchi e Prelati, Imprenditori e Intellettuali, figure idealizzate al punto di ricercare una bellezza ideale trasformando con espedienti estetizzanti la realtà fisica fino alla mistificazione, interpretando in questo la mistica del fascismo pur se l’adesione al regime è molto dubbia essendo lei ebrea. Intenti realizzati con le luci morbide e chiare intorno al soggetto, come fa anche Arturo Ghergo, mentre Luxardo prediligei toni cupi e le forme plastiche con intensi chiaroscuri. Mario Bellavista, addirittura, teorizzò per il fotografo moderno “la missione di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica” del fascismo e indicò anche i temi attraverso cui realizzarla: temi futuristi nelle macchine e nelle navi, negli aerei e nei motori, temi di regime nei giovani sportivi e nella gente ispirata, come si è visto per il comunismo alla mostra “Realismi socialisti”.

Francesco Agosti, 1929;

Si andò oltre il Futurismo con il “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, costituito a Torino nel 1921 da Bertoglio e Bricarelli con altri, ne fece parte Agosti;si persegue – è ancora la Bonetti – “quella sintesi compositiva che, in contrapposizione alla precedente maniera descrittiva ed aneddotica, era stata individuata all’epoca come l’elemento essenziale di una fotografia ‘modernista’” fatta di “un’astrazione geometrica che risente comunque del rigore classico e del monumentalismo del movimento novecentista”. Di Italo Bertoglio e Stefano Bricarelli sono esposte 5 opere ciascuno: del primo notiamo “Il Decennale”, con la piccola sentinellasovrastata dall’imponente architettura littoria, “Colonne, Paris”, tra il 1933 e il 1937; del secondo, “Benito Mussolini nel suo studio”  e il celebre “Rampa elicoidale della Fiat al Lingotto”, fino al muso della “Nuova Horch aerodinamica”, 1939, fotografia che fissa l’immagine senza alcun effetto fotodinamico futurista. Di Francesco Agostinotiamo 10 opere, tra le quali “Vasi di Murano” e “Studio di fiori”, appena sfumati. A questi si accostano i sottili disegni di “Fiori”  di Giorgio Morandi, come a certe figure di ritrattistica gli  “Autoritratti” in pomposi costumi d’epoca di Giorgio de Chirico.

Giorgio de Chirico, 1934-35

Con Luigi Veronesi, il modernismo italiano entra nell’astrazione, alla fine degli anni ’20, in un’arte non figurativa: la fotografia indaga la realtà senza riprodurla, al contrario superando l’apparenza secondo il “principio di integrazione” che regola le relazioni tra gli oggetti; e utilizzando il fotogramma che viene impressionato direttamente senza macchina riconducendo agli elementi primari come luce e superficie sensibile con la prevalenza della forma elementare sul contenuto. Una forma fotografica che viene smaterializzata come nelle opere dell’astrattismo pittorico. Se ne vedono esempi, tra le sue opere esposte, 15 in evidenza, in “Fotogramma su lastra” e “Controtipo su pellicola”, siamo nel 1937; anche “Quadrifoglio”  è un fotogramma, è il 1950.

Tecnica analoga in due opere astratte di Franco Grignani,Fotogramma a luce inclinata” e “Interferenze dinamiche”. Surrealista, invece, l’opera di Carlo Mollino, “Ritratto con farfalla”, 1935, enigmatica figura femminile in un’atmosfera sospesa, un “doppio” con il confronto sogno- realtà.

Luigi Veronesi, 1937

L’ultimo artista che citiamo in questa rassegna del modernismo in mostra è Giuseppe Cavalli, vediamo in particolare 9 opere, alcune plurime, dal 1940 al 1950 ed oltre: è cultore della dimensione “puramente estetica” della fotografia al di là di “ogni tecnicismo, contenutismo, impellenza documentaria”, mossa solo dalla “intuizione fotografica”; peraltro, conosceva a fondo la tecnologia fotografica e le prassi operative basate sulla ripetizione dei soggetti, la costruzione compositiva con varianti e tagli e il mutare delle trasparenze. Si intitola appunto” Composizione”  una sua opera, molte altre sono “Senza titolo”: immagini serene, spesso evanescenti, di “forma pura”.

Si conclude il modernismo ma non la mostra, ci sono ancora le opere della Collezione, dal 1960 al 2000, ne scorriamo 40 di 25 autori contemporanei. Vediamo sfilare l’Arte povera, Pop, concettuale degli anni ’60, le sperimentazioni artistiche degli anni ’70, l’opera fotografica di Luigi Ghiri e Paolo Gioli, fino agli anni ’80, le opere a matrice fotografica degli anni ’90. Abbiamo detto 40 opere, ma molte sono plurime, ricordiamo per tutti “Le ore”, di Luigi Ontani, 1975, 24 gigantografie con la sua figura a colori forti, sono il rutilante divisorio centrale di una delle grandi sale della mostra.

Franco Grignani, 1954

Terminiamo citando i più vicini a noi,  per i quali basta ricordare i nomi, Mario Schifano  e Tano Festa, Giulio Paolini  e Michelangelo Pistoletto,  Pino Pascali  e  Giosetta Fioroni, Mario Cresci e Luca Maria Patella, Stefano Arientie Vanessa Bancroft, Sarah Ciriaci  e Davide Galliano, Luisa Lambri e Myriam Laplante, Eva Marisaldi e Cristiano Pintaldi.

C’è tutto nell’esposizione, la miniatura fotografica e anche pittorica, il kolossal di questa ed altre opere contemporanee. Ma soprattutto c’è la storia delle fotografia ripercorsa in un viaggio esaltante attraverso 500 opere.

Per dare un sigillo adeguato alla rassegna di 150 anni di fotografia nei rapporti con l’arte, ci sembra appropriato quanto scrisse Francesco Savinio nel 1907: ”Oltre ai servizi diretti che la fotografia rende ai pittori, essa ha impresso il proprio carattere nella ‘mente’ di tutte le arti”; Fino a dire: “Le arti vanno divise in prefotografiche e postfotografiche”.

E’ il miglior complimento che si poteva fare alla fotografia, a cui per una certa fase è stata negata la qualifica di arte, poi invece universalmente riconosciuta. Come era ed è naturale, anzi doveroso.

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Giorgio Morandi, 1943

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it.  Catalogo “Arte in Italia dopo la fotografia” 1850-2000″” a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Editore Electa, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questa rivista “on line”  il 25 febbraio, e il 1° marzo 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i primi due articoli sono usciti in questo sito il 26 dicembre, con un’introduzione sui motivi dell’iniziativa, e il 27 dicembre 2019. Sugli artisti citati nel testo, cfr. in www.arteculturaoggi.com i nostri articoli su de Chirico, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre 2019, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno, 1° luglio 2013; Balla e i Futuristi 7 marzo 2018, 27 gennaio e 24 novembre 2017, 19 febbraio 2015, 2 marzo 2014, 2 marzo e 1° dicembre 2013; Morandi 17, 28 maggio 2015; Patella 18 aprile 2015; Fioroni gennaio 2014,;istoletto 11 aprile 2013, D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013; e un fotografo non citato, De Antonis 29 dicembre 2016. In cultura.inabruzzo,it , de Chirico 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 22 dicembre 2009; Paolini 10 luglio 2010. In fotografia.guidaconsumatore, Ghergo 11  aprile 2012,;Rodcenko, 2 articoli 27 dicembre 2011; Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibilei gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati. In apertura, opera di Anton Giulio e Artura Bragaglia, 1914; seguono, opere di Ghitta Carell, anni ’30, e Italo Bertoglio, 1933; poi, di Stefano Bricarelli, 1939, e Francesco Agosti, 1929; quindi, di Giorgio de Chirico, 1934-35, e Luigi Veronesi, 1937; inoltre, di Franco Grignani, 1954, e Giorgio Morandi, 1943; in chiusura, opera di Luca Maria Patella, 1966-67.

fotografia.guidaconsumatore – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 11 aprile 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

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Luca Maria Patella, 1966-67

Fotografia e arte, 2. Da Michetti al pittorialismo

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Home > Mostre > Roma. Alla Gnam fotografia e arte: da Michetti al pittorialismo

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna la grande mostra “Arte in Italia dopo la fotografia”, aperta dal 21 dicembre 2011 al 4 marzo 2012, approfondisce i rapporti tra fotografia e arte, con l’evoluzione della prima verso forme artistiche mediante un’ampia esposizione di opere fotografiche raffrontate a quelle pittoriche. Dopo gli esordi di cui abbiamo già parlato, dal 1850, si sviluppa nella fine del secolo e nei primi due decenni del ‘900 approdando al “pittorialismo”.

Francesco Paolo Michetti, 1895-900

Arte in Italia dopo la fotografia

Agli esordi di metà dell’800 la fotografia aveva un ruolo di “sostegno” della pittura per la sua capacità di “mimesi” della realtà, sia pure con un processo meccanico e scientifico ma non creativo e artistico. Ne abbiamo citato esempi significativi fino al momento della svolta iniziata nel 1869.

Una vera svolta si ha poi con Francesco Paolo Michetti che dopo il 1880 si dedicò a un’attività fotografica ininterrotta non solo a supporto della sua pittura ma anche in modo autonomo. Si impegnò in vere e proprie campagne fotografiche sulle manifestazioni religiose e popolari abruzzesi, che catalogava in modo scientifico. La sua attenzione era calamitata dalla vita e dai costumi del popolo abruzzese che cercava di cogliere nei volti dei pellegrini esplorati con i suoi “reportage”. Il segno fotografico, nel taglio e nei colori, si trova nei suoi maggiori dipinti, a partire dal “Corpus Domini”  e “I morticelli”: dopo quest’ultimo D’Annunzio – che animava con Michetti e Barbella, Tosti e De Nino, il Cenacolo di Francavilla – notò nell’artista l’“allontanamento da tutto ciò che era pittura”, perché “un lavoro misterioso si compieva in lui”, la passione per la fotografia. Si era nel 1883, lo ricorda Stefania Frezzotti che compie un’analisi dell’influenza della fotografia sulle principali opere del pittore anche grande fotografo, su cui influivano anche i testi dannunziani.

Giuseppe Primoli, 1890

Circa 30 prove fotografiche di Michetti sono esposte in mostra, scene corali di Processioni e Benedizioni, Ritratti singoli in primo piano per “La Figlia di Jorio”, studi plurimi per le Pastorelle e le Modelle con pose ripetute, figure per i quadri ispirati alle loro forme, come Storpi e Serpenti.

Siamo negli ultimi anni del secolo, già dal 1888 Giuseppe Primoli, legato a Michetti da amicizia, aveva fondato a Roma l’Associazione degli Amatori della Fotografia, costituita da professionisti che consideravano la fotografia una “tecnica artistica”, secondo l’espressione di Zannier. Primoli era portato alle istantanee per cogliere l’attimo fuggente, il suo fu chiamato “fotogiornalismo”. Scattò fotografie a corredo delle opere dannunziane, Maria Hardouin di Gallese con il figlio Mario li vediamo a una finestra inghirlandata di casa Primoli. 20 le foto esposte: giornate all’Ippodromo e serate a Teatro, Processioni alla chiesa di san Teodoro e a Castel Gandolfo, Bambini a piazza San Pietro e Branco di capre a Piazzale Flaminio, il Pastore con pecore, l’Equilibrista, Salto a cavallo.

Giulio Aristide Sartorio, 1903

Era legato a D’Annunzio anche Giulio Artistide Sartorio, che dall’inizio del 1900 si dedicò stabilmente alla fotografia sull’esempio di Michetti e Primoli, dopo essersi iscritto dal 1893 all’Associazione sopra citata; nei primi anni ’90 utilizzava soprattutto foto di altri per le sue pitture, anche se continuava nella ripresa dal vero per meglio cogliere nel dipinto l’atmosfera del momento. Applicò alla fotografia ingrandimenti e riduzioni, e giunse ad utilizzare le diapositive fotografiche per gli affreschi proiettandole ingrandite sul muro sostituendole ai tradizionali cartoni; considerava la fotografia strumento di lavoro prezioso che non incideva sulla creazione artistica. Sono esposti 12 straordinari studi fotografici di figure umane in pose statuarie anche ardite come la Donna con bambino, la Moglie e i figli in più pose molto dinamiche, scultoree più che pittoriche.

Wilhelm von Gloeden, 1903

A questa fase appartiene Wilhelm von Gloeden, che fu influenzato da Michetti – il quale lo accolse al cencolo di  Francavilla e veniva considerato da lui un maestro – nell’impostazione fotografica; e sentì l’influsso di D’Annunzio, che ebbe modo di frequentare, nei contenuti più volti al simbolismo che al realismo michettiano. Dopo le foto paesaggistiche nella forte luce siciliana alla ricerca dell’Arcadia perduta, si dedica ai nudi efebici immersi nella natura come fauni. Colpiscono i Ritratti maschili, di Bambina e di Ragazzi con l’Etna sullo sfondo o con flauto: “Sono immagini suggestive di una atemporalità mitica – scrive la Frezzotti che analizza l’evoluzione della fotografia nel periodo – su cui si innestano facce vere di autentici popolani meridionali”. 13 le opere che vediamo esposte.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1889-99

Di straordinario interesse, anche per il valore della luce nelle riprese fotografiche, le 12 opere in esposizione di Giuseppe Pellizza da Volpedo: colpisce la luminosità nelle foto “La vasca di Rosano con figure maschili in primo piano e una figura di sfondo“” per i suggestivi riflessi sull’acqua; poi siamo attirati dagli studi preparatori del “Quarto Stato”, con le fotografie “La piazza di Volpedo in un giorno di fiera” e “Studio di folla con contadini in un giorno di mercato”, che confluiranno nel dipinto cult di cui sono esposti diversi bozzetti pittorici di grandi dimensioni.

Una bella sorpresa la presenza con 3 opere del futurista Giacomo Balla, la cui pittura è influenzata dalla luce e dall’inquadratura fotografica, lo vediamo nel “Ritratto all’aperto”. Di Medardo Rosso sono esposte 30 opere che rivelano il rapporto della fotografia con la scultura in un’interpretazione del tutto personale distaccata dalla realtà ma rivolta a sottolineare gli aspetti che interessano, come nella documentazione fotografica delle sue opere scultoree con la luce e il taglio giusti. Siamo al termine del primo decennio del 1900, le molteplici rappresentazioni della “Femme à la voilette” e di “Ecce puer”  esposte mostrano come applicasse i suoi principi secondo cui “la luce è una tonalità che si estende all’infinito”, è la “vera essenza della nostra esistenza”, e noi siamo “scherzi di luce”.

Giacomo Balla, 1902-03

Il pittorialismo

Ed ecco il “pittorialismo”, che si sovrappone alle tendenze fin qui citate, dato che inizia nel 1889 nei paesi anglosassoni con il libro di Peter Henry Emerson, e si diffonde in Italia come “fotografia pittorica”, definita non solo “naturalistica” ma anche “artistica” fino agli anni ’20 del ‘900 ed oltre. Fu un processo parallelo e indipendente della pittura e della fotografia nell’allontanarsi dalla realtà: la prima lo fece, in particolare, con il divisionismo che agiva sulla materia del colore, la seconda con procedimenti che eliminavano i dettagli troppo realistici e facevano leva sul chiaroscuro. Nasce la “post fotografia” favorita dai nuovi ritrovati tra cui la gomma bicromata e il carbone.

Guido Rey ne fu il capofila, e la mostra fotografica del 1902 a Torino con la sua partecipazione lanciò il pittorialismo italiano. Le 10 opere esposte di Rey, dal 1897 al 1904, presentano l’’atmosfera ricostruita “ per dar corpo iconico ai propri sogni – scrive Marina Miraglia – per affermare la propria identità… in un sostanziale allontanamento dal reale e nel rifugio finale in epoche remote”, Così in “Scena romana”,Interno fiammingo” e nella stupenda visione di “Lettera”.

Medardo Rosso, 1906

Per l’atmosfera, ci hanno colpito in modo particolare le 10 opere in mostra di Filippo Rocci, del 1910,soprattutto il “Raggio consolatore”  che piove dalle inferriate sulla figura accasciata, e la luce diffusa nel cielo di “Paesaggio”  mentre la campagna è in ombra. Luce che, prosegue la Miraglia, “spesso inventata in fase di stampa, filtrata e diafana si fa portatrice del suo sogno”. Suggestive le scene agresti “Sulle rive del Tevere”  e “Al pozzo”, fanno sentire la nostalgia di idilli arcadici perduti.

Ritroviamo nel pittorialismo Wilhelm von Gloeden , che abbiamo già incontrato, con i “Nudi maschili variamente atteggiati” e un “Nudo maschile con drappo”, ardita visione frontale, il drappo è dietro al corpo. Ma ora ci interessa soprattutto parlare dei Ritratti di Gustavo Bonaventura: dei 14 esposti alcuni puntano sull’immagine sfuocata con maestria, come quello di “Livio Boni con violino”, la “Fanciulla bruna”  ripresa di spalle, il volto di profilo, fino agli stupendi “Giovane donna dai capelli fulvi e corti” e “Uomo con cappello a falde tese e mantello”; siamo all’inizio degli anni ’10 del ‘900, di questo periodo è anche il suo “Autoritratto”. A metà decennio il “Ritratto di Giacomo Medici del Vascello”, sfuocato anch’esso, con la voluta di fumo che esce dalla sigaretta; agli anni ’20-’30 appartiene il ben diverso “Ritratto di Carla Lodato”, morbido e pastoso, di un’intensità struggente.

Guido Rey, 1897

Il pittorialismo è al culmine, agli anni ’30 appartengono i “Provini per il ritratto della Regina di Grecia” e “Sua Maestà la Regina di Grecia”  di Eva Barrett, che ricorreva molto al ritocco della post-fotografia. Ormai incalza sempre più il “Modernismo”, che ha preso avvio già dal 1920 collocando la fotografia tra il classicismo e l’astrazione. Ne parleremo prossimamente a conclusione della carrellata nei 150 anni della fotografia al confine con l’arte evocati da questa grande mostra.

Gustavo Bonaventura, anni ’10

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it Catalogo: “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Electa, 2011, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questa rivista “on line”  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà l’11 aprile 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, il primo articolo, con un’introduzione sui motivi dell’iniziativa, è uscito in questo sito il 26 dicembre, il terzo e ultimo uscirà il 28 dicembre 2019; sugli artisti citati, cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com su D’Annunzio il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, e su Balla e gli Impressionisti il 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015 e, in cultura.inabruzzo.it, il 27, 29 giugno 2010 (tale ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati nel testo. In apertura, opera di Francesco Paolo Michetti, 1895-900; seguono, opere di Giuseppe Primoli, 1890, e Giulio Aristide Sartorio, 1903; poi, opere di Wilhelm von Gloeden, 1903, e Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1889-99; quindi, opere di Giacomo Balla, 1902-3, e Medardo Rosso, 1906; inoltre, opere di Guido Rey, 1897, e Gustavo Bonaventura, anni ’10; in chiusura, opera di Eva Barrett, 1931.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 1° marzo 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Eva Barrett, 1931

Fotografia e arte, 1. Gli esordi nella mostra alla Gnam, 7 anni dopo

di Romano Maria Levante

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Guglielmo Ciardi, 1888

L’artista  Massimo Omnis ha voluto augurare Buone Feste ai suoi   “followers” di Facebook  con  una sconfinata  galleria di  immagini delle  sue molteplici opere soprattutto pittoriche, ma anche scultoree e non solo,  comprese   fotografie evocative, si  assiste anche al momento creativo fino alla fase espositiva; sono oltre 250 immagini, tutte da vedere e gustare nel loro intenso cromatismo e nella loro intrigante figurazione di forme e  contenuti . E’ una vera innovazione, una grande  mostra nel social network,  eccezionale per la varietà compositiva e la maestria  artistica. Nella mostra del 2014 a Roma abbiamo potuto vedere da vicino le sue opere  di allora, in testa la spettacolare installazione “Il V Stato”, e le abbiamo commentate  nel  sito www.arteculturaoggi.com con un articolo reperibile alla data del 14 aprile 2014; le immagini attuali  aggiornano la galleria di cinque anni fa  con nuove ardite  esplorazioni e sperimentazioni unite a  rassicuranti conferme.  Per avere un’idea della forza creativa dell’artista basta rileggere le parole che ci ha rivolto su Facebook  il 24 dicembre scorso: “Non è facile tracciarsi una strada propria nel mondo dell’arte.  Io in tanti anni di arte a 360° ho cercato di creare bellezza ed emozioni. Non so se ci sia riuscito.  Continuo a credere che questa sia la strada giusta.  Non c’è giorno che io NON senta un qualcosa che mi spinge a creare… creare un qualcosa che non esiste ancora. Ecco, quando mi chiedono cos’è un artista, io rispondo sempre ‘un artista  è colui che crea una cosa che non esiste ancora’”.  Nei giorni precedenti ci aveva scritto, sempre su Facebook, che  sarebbe stato interessante approfondire e rendere noto ai nostri  lettori  il rapporto tra fotografia e pittura; anche perché nella  sua mostra virtuale su Facebook in molte immagini le due arti sono abbinate,  viene fotografato  davanti a un suo quadro o mentre lo completa, o in altri momenti della creazione, in composizioni che spesso  le  vedono compresenti.  Stimolati dalla sua osservazione e dal suo interesse abbiamo pensato di ripubblicare  i nostri  due servizi in 3 articoli ciascuno, usciti nei primi mesi del 2012 in occasione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, “Arte in Italia dopo la fotografia”,  e della presentazione negli stessi mesi del libro di  Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” nella rivista “on line”  “fotografia.guidaconsumatore.it”,  il cui sito  non è più raggiungibile. Nei due servizi  vengono sviscerati i rapporti tra le due arti fin dalle origini, con gli  artisti-fotografi pionieri.    E’ un nostro omaggio all’inizio del Nuovo Anno per ricambiare il  regalo natalizio che ha fatto a tutti noi l’artista Massimo Omnis con la mostra virtuale su Facebook,  donandoci  ritratti coinvolgenti che restano dentro e paesaggi  che suscitano emozioni, come la profondità del mare e le immagini che evoca tra cui un viso femminile che ci ha riportati alla incantevole figura della “Leggenda del pianista sull’oceano”,  il  film di Tornatore al quale siamo  particolarmente affezionati.  Segue il 1° articolo del servizio sulla mostra del 2012, poi  in successione gli altri  2 articoli sulla mostra e ancora di seguito i 3 articoli sul libro di Marina Miraglia.

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Giacomo Favretto, 1883

Fotografia e arte, 1. Gli esordi nella mostra alla Gnam

fotografia.guidaconsumatore.it – Home > Mostre > Roma. Alla Gnam in mostra la fotografia con l’arte: gli esordi

“Arte in Italia dopo la fotografia”, la grande mostra che ha accompagnato la riapertura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna il 21 dicembre 2011 rimane aperta fino al 4 marzo 2012. In collaborazione con l’Istituto Nazionale per la Grafica, è curata, con il Catalogo Electa, da Maria Antonella Fusco e da Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria, a cui si deve la parte museale del nuovo ordinamento espositivo, e a Federico Lardera la parte architettonica e grafica. Aver scelto per la riapertura la mostra su fotografia e arte tra il 1850 e il 2000 ne sottolinea l’importanza: l’esordio si ferma prima del ‘900, con la fotografia utilizzata a sostegno della pittura.

Entriamo nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la facciata che si staglia imponente con la scalinata monumentale colpisce il visitatore che risale viale delle Belle Arti, dove si incontrano altri complessi monumentali, tra cui le famosa Valle Giulia. Il vasto atrio dà un altro benefico shock, il pavimento in specchi spezzati è un primo segno di modernità rispetto ai normali calpestii, poi c’è il salone centrale cosparso di testimonianze tra le più celebri dell’arte contemporanea.

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Bernardo Celentano, 1857

Nei tre grandi settori cronologici dal 1800 al 2000 sono comprese sale tematiche, dal mito alla storia, dalla realtà alla modernità, dal tempo allo spazio; c’è molto altro di permanente, nel nuovo allestimento museale, ma siamo qui per la mostra temporanea che copre significativamente un arco di tempo molto vicino a quello dei settori cronologici, dal 1850 al 2000. Si tratta della storia della fotografia nei rapporti con l’arte dagli albori nella metà dell’800 al livello avanzato raggiunto nel terzo millennio, una carrellata di 150 anni – come l’Unità d’Italia – con circa 500 opere esposte.

Gli esordi della fotografia

Siamo agli albori, la prima delle sette sezioni della mostra riguarda il periodo dal 1850 al 1900. E’ il periodo iniziale in cui la fotografia fu a sostegno della pittura e anche strumento di diffusione della conoscenza delle opere, nonché mezzo per documentare la produzione e farne dei repertori.

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Carlo Baldassarre Simelli, 1857

Alla fotografia si negava allora la qualità artistica, considerandola il risultato di meri procedimenti tecnici, a parte alcune figure come Pietro Estense Selvatico: professore di estetica divenne presidente dell’Accademia di Venezia e sin dal 1852 promosse l’impiego della fotografia nella formazione artistica accademica con il discorso “L’arte insegnata nelle Accademie secondo le norme scientifiche”, e lo ribadì nel 1859 nello scritto “Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte”, Suoi seguaci i pittori Guglielmo Ciardi, che raccolse fotografie di Simelli, e Giacomo Favretto, che “interiorizzò lo sguardo fotografico”, come ricorda Maria Francesca Bonetti.

Della fotografia, cui veniva negata la creatività, si apprezzava quello che Miraglia ha chiamato “potere di mimesi”. Per questo motivo se ne raccomandava l’impiego ai pittori in sostituzione delle copie che si facevano nelle Accademie; restando relegata alla funzione di modello quasi meccanico che doveva servire di ausilio alla creazione artistica riservata ai pittori.

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Giacomo Caneva, 1855

I primi impieghi della fotografia come supporto della pittura si ebbero a Napoli, e alla metà dell’800 divenne un sistema aggiuntivo rispetto al disegno dal vero e dall’antico, finendo per influenzarlo. Nel ritratto sostituiva le lunghe pose dal vero e veniva utilizzata anche per l’ambientazione di un personaggio in un luogo caratteristico e per i fondali architettonici dei dipinti.

Di tutto questo la mostra dà una copiosa documentazione con le fotografie prese a modello e le opere pittoriche derivate nell’epoca degli “Esordi” del nuovo mezzo. Tra i pionieri, per così dire, vi fu Bernardo Celentano, che in preparazione al dipinto” Studio per il Benvenuto Cellini a Castel Sant’Angelo”, oltre ad 80 disegni a matita, penna e acquarello, utilizzò i primi fogli fotografici su carta salata per studiare composizione, inquadratura e luce; vediamo esposti, oltre al dipinto finale, una fotografia preparatoria di Carlo Baldassarre Simelli dallo stesso titolo con il gruppo di amici nelle posizioni dei personaggi di Cellini, un modello dal vero fissato dall’obiettivo fotografico.

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Michele Cammarano, 1855

Medesimo procedimento nello “Studio per San Francesco Saverio predica ai giapponesi”, dello stesso Celentano, il modello fotografico è di un autore non identificato. Siamo nel 1857. Mentre per lo “Studio per il Consiglio dei dieci”, del 1860, sono suoi sia la foto preparatoria sia il dipinto finale. Nel 1859 Cammarano, dovendo fare un concorso il cui tema era un paesaggio roccioso con grotte, chiese delle fotografie a Celentano che si trovava a Roma, il quale gli promise una veduta aderente alle sue necessità, però ben diversa dal paesaggio romano ampio e basso e senza asperità.

Tornando al 1857,  vediamo “Bernardo Celentano nel Chiostro della basilica di San Giovanni in Laterano”  fotografato da Simelli, lo stesso “Chiostro” che appare già nel 1850 in una fotografia di Giacomo Caneva. Di quest’ultimo è esposta una vasta serie di fotografie della Campagna Romana e vedutedel Tevere,nonché Studi di donne in costume;ebbene, il dipintoStudio di donna a Montemario”di Vincenzo Cabianca, del 1862,segue il modello fotografico in ogni dettaglio. Sono i temi anche delle fotografie di Federico Faruffini, con “Studio di modella in costume”  e “Portatrice d’acqua”, siamo nel 1868-69, cui sono affiancati in mostra i dipinti di Contadine di Francesco Palizzi evidentemente ispirati ai modelli fotografici di giovani donne in abiti tradizionali.

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Vincenzo Cabianca, 1882

Utilizzò modelli fotografici Domenico Morelli nei suoi dipinti di soggetti orientalisti e religiosi, sia per i luoghi, come la Palestina, dove non era mai stato ma li conosceva dalle fotografie che si faceva inviare – una specie di Salgari “ante litteram” della pittura – sia per i soggetti, come il monaco nelle “Tentazioni di Sant’Antonio”, 1877, e gli arabi genuflessi in “La preghiera di Maometto”, 1885.

Tanto Morelli quanto Celentano e gli altri si servirono della fotografia per diffondere i loro dipinti, oltre che come modello per le riproduzioni dal vero. Abbiamo citato le foto di Faruffini, dobbiamo tornarci perché con lui inizia la svolta: era un pittore che passò alla fotografia nel 1868, sollecitato da Caneva, e pur dando ad essa un ruolo di mero supporto alla pittura di altri artisti, vi trasferì la visione pittorica nel taglio e nel chiaroscuro, andando anche oltre l’elevata qualità del Caneva. Costruiva le composizioni disponendo i soggetti in diverse condizioni di luce cambiando gli abiti per gli effetti coloristici, mettendo a frutto la sua esperienza di pittore in una continuità stilistica.

Federico Faruffini, 1868-69

I pittori paradossalmente non apprezzavano questo sconfinamento dalla fotografia all’arte e lui stesso se ne rendeva conto, tanto che nel 1868 scrisse in una lettera: “Taglio le fotografie troppo da pittore, e all’artista non rimane altro da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo troppo bene. Conclusione, non mi rimane che crepare. Sarà l’unica cosa che non avrò fatto male”, così ricorda Colasanti citato da Rita Camerlengo nel saggio sulla fase degli esordi. Faruffini si toglierà la vita nel dicembre del 1869, ma avrà fatto compiere un notevole passo in avanti alla fotografia, che con lui comincia ad emanciparsi dal mero ruolo di sostegno della pittura e a sviluppare in modo autonomo la propria creatività verso quelle forme di arte prima negate.

Fotografia e pittura tendono a non essere più associate nella mimesi del mondo reale pur se con strumenti e ruoli diversi: la prima in funzione ancillare, la seconda con la nobiltà artistica. Vanno alla ricerca di un nuovo linguaggio che le distacca tra loro e le allontana dalla mera riproduzione della realtà, che prima era il compito fondamentale. Una rivoluzione copernicana che la fotografia ha determinato anche nella pittura oltre che in se stessa, in presenza di una rapida evoluzione tecnica che ha creato nuovi problemi, anche sul fronte commerciale, ma aperto nuove prospettive. Ne parleremo presto continuando il nostro viaggio nella fotografia inquadrata nell’arte in Italia.

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Filippo Palizzi, 1864

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www. gnam.beniculturali.it. Catalogo: “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Electa, 2011, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questa rivista “on line”  il 1° marzo e l’11 aprile 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i due prossimi articoli usciranno in questo sito il 15 e 20 febbraio 2020.; questo servizio si ricollega a quello sulla mostra del 2012 alla Gnam, “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000” ripubblicato in questo sito il 26, 27, 28 dicembre 2019. In merito agli artisti citati, su Palizzi cfr. i nostri articoli in cultura.inabruzzo.it per la mostra “Gente dì Abruzzo”, 10, 12 gennaio 2011 (sito non raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati nel testo. In apertura, opera di Guglielmo Ciardi, 1888; seguono, opere di Giacomo Favretto, 1883, e Bernardo Celentano, 1857; poi, di Carlo Baldassarre Simelli, 1857, e Giacomo Caneva, 1855; quindi, di Michele Cammarano, 1855, e Vincenzo Cabianca, 1882; inoltre, di Federico Faruffini, 1868-69, e Filippo Palizzi, 1864; in chiusura, opera di Domenico Morelli, 1877.

fotografia.guidaconsumatore.it -Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 25 febbraio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Domenico Morelli, 1877

Cagli, 3. Disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi e costumi, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude, dopo l’inquadramento critico e la galleria dei dipinti, la nostra narrazione della mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”,  aperta  dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2010, un’esposizione  di 200 opere che agli 80 dipinti già commentati unisce 100 disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi, scenografie e costumi teatrali, espressioni  della sua arte poliedrica cui è dedicata questa rassegna finale. La Fondazione Terzo Pilastro Internazionale ha promosso la mostra, ideata dal suo presidente,  Emmanuele F. M. Emanuele,  l’organizzazione è di Poema S.p.A. con il supporto di Comediarting, è curata da Bruno Corà, insieme al catalogo della Silvana Editoriale, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

Costume per Apollo”, 1969

In precedenza, nel ripercorrere le diverse fasi con le marcate  innovazioni stilistiche della pittura di Cagli  abbiamo  citato la sua continua presenza nel mondo artistico con partecipazione a concorsi e rassegne e un’intensa attività espositiva  in Italia e iniziative anche all’estero. Soprattutto negli anni ’50 e ’60  non solo quasi ogni anno ci sono state sue presenze in mostre personali e collettive, ma questo è avvenuto  spesso in gran parte dei mesi nei singoli anni, a Roma per lunghi periodi mostre annuali e ripetute nel corso dei mesi. Cagli era sempre presente, e questo è proseguito anche negli anni successivi, a Roma fino al 1999, poi un vuoto finalmente colmato con questa mostra. Che ha anche il merito di dare un’idea completa della sua arte perchè sono presenti i diversi generi artistici da lui coltivati, quale manifestazione, con l’arte pittorica, della sua multiforme versatilità espressiva che, come per Picasso e de Chirico, arriva fino al teatro.

Disegni e grafiche, dal mito alla cronaca

L’importanza che dava al disegno non riguarda soltanto il lato artistico, ma anche il contenuto, tanto che nell’ultima fase della vita ebbe a dire “disegnare vuol dire appunto capire e giudicare” e usò la grafica per le opere ispirate a quanto premeva in lui sul piano civile, sociale e umano. Detto questo, un aspetto delle opere grafiche che va rimarcato è la tecnica usata in alcune serie, il “disegno a olio su carta”: dopo aver appoggiato il foglio della composizione su un altro foglio preparato con olio,  impregnava  soltanto il tracciato che segnava con una punta o, negli ultimi disegni, premendo sul foglio per l’ombreggiatura. E’ una tecnica che ricorda il procedimento calcografico a cera e l’incisione, con cui ha in comune la circostanza che non poteva vedere il risultato fino a quando non rovesciava il foglio,  elemento significativo perchè “mette in evidenza l’esigenza di creare un distacco, quasi una ‘mediazione’ alla sua esuberante creatività”.

“Orfeo incanta le belve”, 1938

Sono parole di Antonella Renzitti  la quale approfondisce l’aspetto tecnico, anche in relazione ad opere  che vengono considerate –  come si è fatto in precedenza  – tra i dipinti ma utilizzano la carta tanto da essere definite “Carte”,  con delle  interessanti peculiarità.  Cita “Oregon” e “Scacciapensieri” del 1950, “Bagatto” e “Arlecchino come bagatto” del 1952 e 1956, realizzati “impregnando di colore delle strutture primarie e e imprimendole poi sulla carta intelata secondo una precisa volontà compositiva  fatta anche di sovrapposizioni di materia cromatica”. Esecuzione senza pennello nella pittura veramente anticipatrice.

Questa precisazione per evidenziare come la poliedricità e l’eclettismo di Cagli oltre che nella cifra stilistica sia presente anche nella parte prettamente tecnica e nei contenuti. In particolare, l’arte grafica è  stata da lui praticata largamente come congeniale alle sue esigenze creative di spirito libero, insofferente delle convenzioni, e attento osservatore della realtà. “Il disegno e la grafica infatti – osserva la Renzitti – gli hanno consentito  di  sperimentare liberamente modalità espressive inconsuete, soprattutto perché attraverso il disegno è riuscito a far emergere il lato più intimo della sua sensibilità artistica”; con le opere su carta “ha comunicato la sua partecipazione alle sofferenze e alle aspirazioni dell’umanità”.  Ma  non solo questo, la sua ricerca del mito nel senso classico che abbiamo visto emergere dai dipinti, la troviamo nei disegni della prima fase, soprattutto degli anni ’30, con dei ritorni anche quando seguiva impulsi provenienti dalla realtà.

Elogio della pazzia”, 1964

Lo vediamo in una serie di disegni  del periodo iniziale, 1932-33, per lo più su temi mitologici e dell’antichità,  come “La maga Circe” e  il trittico “Morte di Icaro”- “L’uomo in cielo”- “Il volo degli uccelli”, “Viaggio a Paestum” e “II ex tempore”, “Allegoria” e “L’uomo e il leone”, “Maratoneti” e Dannati”,   il segno è sottile, le figure sono ben delineate, è il primo approccio con il mito che per lui è una fonte primaria di ispirazione.

Ma già nel 1933, con “Penelope”,  il segno diventa più marcato, poi  dal 1934 subentra un tratteggio che crea chiaroscuri e figure abbozzate, in “Falconieri”  e ”Gladiatori”, seguiti negli anni successivi da “Il pittore e la modella” e “La chiromante” nel 1935, “Davide con la testa di Golia” , composizione con molte figure e ombreggiature, e Orfeo incanta le belve” nel 1938, preparatorio dell’affresco, non conservato,  creato per la rotonda della Biennale di Venezia secondo l’immagine che ne dà Ovidio, canto ammaliante ma triste destino, qui presentimento della guerra. Intanto Cagli lascia l’Italia per sfuggire alla persecuzione degli ebrei per la Francia, presto andrà negli Stati Uniti.  Nel 1939 abbiamo  “Pellegrino”, forse autobiografico, senza segno né tratteggio, un’ombreggiatura leggera sul rosa con un nudo seduto a terra e il diversissimo “La morte di maggio”, due figure umane contrapposte con una scritta leonardesca.   

Del 1940 su temi mitici due “Davide  e Golia”, nel primo il segno è sottile con ombreggiature, nel secondo  il tratteggio marcato dà a Davide un vigore michelangiolesco; vigore che, questa volta con il segno sottile, riscontriamo nei corpi chini dei  “Pellegrini” e “Neofiti”. E’ anche l’anno della serie “Allegorie”, né tratteggio né segno sottile, ma linea più marcata e nervosa: così in “Allegoria del trionfo” e “Allegoria della semina”, “Allegoria veneziana” e “Allegoria del pesce che vola”, “Allegoria del  massimo tronco” e “Allegoria della fontana sbagliata”, composizioni movimentate, nelle ultime tre ritroviamo il vigore michelangiolesco.  

“Capobanda” con “Gente a Partinico”, 1975

L’inquietudine pervade tre opere successive, “Manovre e memorie” 1941,   con tante  figure appena delineate per lo più a terra disperse su un paesaggio lunare,”Solo per cello” 1942,  dove il tratteggio crea un’immagine scomposta  da incubo,  anche in “Trinacria”  la figura è scomposta.  Nel 1944 l’incubo si materializza nella guerra  e Cagli, arruolatosi nell’esercito americano nel 1941, come abbiamo ricordato, partecipa da combattente allo sbarco in Normandia e poi alla battaglia delle Ardenne. Ce n’è  un’eco, forse ancora di tono autobiografico, in “L’attesa” , con una mamma ansiosa seduta alla finestra, mentre ritorna il soldato appoggiato a un bastone, e “Allegoria”  in cui è delineata nervosamente con segno sottile una lotta armata, una figura è a terra.

E’ allegorica perché ci sono armi da guerrieri antichi come simbolo della guerra cui ha partecipato.  Ma  nessun simbolo bensì cruda realtà nella serie “Buchenwald”, sul campo di sterminio da lui visitato come militare nel 1945 trovandosi nella vicina Lipsia al termine della campagna d’Europa. Ritrae nello stesso anno l’orrore dei cadaveri distesi a terra, con il primo piano del viso stravolto dalla morte o il campo lungo dei corpi con le membra contorte e scheletriti, anche ammucchiati, mentre incombono i reticolati e le torri di controllo delle sentinelle.

“Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato”, 1975

Il contatto con le “sofferenze e le aspirazioni dell’umanità” di cui parla la Renzitti gli fa manifestare in queste visioni tragiche la straordinaria forza espressiva di un dramma sconvolgente.  La ritroviamo nella serie di 18 disegni a olio “La pietra di Barbato”, del 1967,  il masso di Portella delle Ginestre dal quale i sindacalisti  arringavano i lavoratori accorsi nel pianoro  per celebrare con le famiglie la festa del lavoro  del 1° maggio  1947 quando il fuoco della banda Giuliano uccise 11 persone,  tra cui 2 bambini, fu un eccidio. Nelle 4 grafiche esposte vediamo ritratti i giovani che sventolano bandiere, altri cadono a terra, si è voluta annientare la vitalità per cancellare anche la speranza;  le aspirazioni si erano tramutate in sofferenze soltanto due anni dopo la fine del conflitto quando si cercava di risorgere dalle rovine con il lavoro, e averne reso il clima con tale intensità  mostra come fosse ancora sentito quel tragico evento pur essendo  trascorsi venti anni; nel retro dei fogli trascrisse i versi di Danilo Dolci,  e di Li Causi, il primo fautore della “non violenza”, messaggio pacifista contro la violenza belluina della strage. Completano il quadro ambientale “Capobanda” e “Gente a Partinico”  il primo con le figure proterve dei banditi, il secondo con i siciliani costretti a subire i soprusi nella paura e nell’omertà.  

Del  1976  la sua partecipazione a un altro dramma collettivo, non dimenticato dopo un quarto di secolo, l’alluvione del Polesine del 1951, in una serie di grafiche, ne vediamo 6, fortemente tratteggiate e ombreggiate a differenza delle precedenti. E’ “La rotta del Po” , immagini eloquenti dell’acqua che esonda con violenza, trascina via gli animali, con le persone rifugiate sui tetti e le barche che portano aiuto.

“La rotta del Po”, animali travolti con persone sui tetti, 1976

Nello stesso 1976 vengono tradotte in serigrafia le grafiche ben diverse nella forma visiva e nel contenuto, create nel 1964, “Elogio della pazzia”,  sono esposte le 16   tavole originarie, disegnate su carta riso con inchiostri colorati, a differenza delle grafiche fin qui commentate. Si tratta della sua interpretazione del pensiero di Erasmo da Rotterdam, il filosofo olandese che era contro ogni forma di intolleranza e dogmatismo e faceva appello alla follia  come fonte di sapienza.  Così la Renzitti: “I meandri della ragione sono rappresentati da Cagli con spazi labirintici, alcuni particolari sono resi con segni concentrici o elementi grafici ripetitivi, gli spazi dell’inconscio sono rappresentati da strutture intrecciate o da poligoni irregolari sovrapposti, stratificati. In alcuni casi riconosciamo nell’intreccio segnico i cosiddetti ‘nidi di rose’”. Riconosciamo Mosè con le tavole della legge, dei cardinali con alle spalle il Crocifisso, e anche il Papa; oltre agli intrecci segnici ci sono tratti paralleli incurvati che ricordano le isobare e le linee di livello altimetrico. Del 1976 anche “Il mio segno”,  un giovane dall’espressione vivace cammina con appoggiato alla spalla destra un ramo cui è attaccato un pesce, un altro pesce lo tiene appeso alla sua mano sinistra, il titolo è eloquente, era nato il 23 febbraio sotto la costellazione dei Pesci.

E’ figurativo, come lo sono “Ungaretti”, 1969, omaggio al grande poeta a lui tanto vicino – lo aveva accompagnato al treno nel suo espatrio a fine 1938 – e “Cecilia” 1962: Invece “Capitano di ventura” 1961, è un volto riconoscibile, delineato da tratteggi più o meno fitti, come quelli, nello stesso anno,  di “Composizione” ; e “Diogene” , che risale al 1949,  è una sorta di intelaiatura grafica in cui si riconosce la vaga forma della persona con la lanterna. Infine in “Girasoli”  l’elegante intreccio di linee  dà un senso al titolo, come avviene in “Labirinto”,   linee di livello addensate  in modo inestricabile. Sono entrambi del 1967,  ma questo non indica una rarefazione finale, dato che sia pure nel tratteggio incrociato e non in questa stessa leggerezza l’abbiamo trovata compresente già nel 1961.

“La rotta del Po”, soccorritori con due barche, 1976

Sculture e ceramiche

Il primo riferimento va fatto a “Diogene” 1968 che ha colpito l’immaginazione dell’artista al punto da raffigurarlo in pittura, disegno e scultura sempre con la stessa forma espressiva, un intrico di linee che dai segni molto marcati su fondo giallo del dipinto diventano intelaiatura vuota nel disegno tradotta in un reticolo metallico nella scultura, ed è facile capire il perché di questo interesse, Cagli è andato alla ricerca dell’uomo  con la lanterna della sua arte; non si differenzia molto nell’apparenza  esteriore La gabbia” 1969, in un collegamento temporale che invita a una interpretazione congiunta. Nei due anni si sono avuti la contestazione giovanile e l’autunno caldo, con la rivendicazione di trovare e instaurare nuovi rapporti civili e sociali espressa nelle tumultuose proteste degli studenti e dei lavoratori, pur senza la pazienza della ricerca di Diogene; e questo rompendo la gabbia oppressiva delle convenzioni e dello sfruttamento.

Ma a parte questi contenuti, indubbiamente profondi, ci interessa la peculiarità di un tipo di scultura fatto di fili di ferro  incastellati in una architettura compositiva evidenziata nei disegni, non basata sull’elemento materico, ma su quello dimensionale. Nel senso che viene evocata la “quarta dimensione” nell’ambito della  “geometria proiettiva” di Donchian,  che abbiamo già ricordato in precedenza avendo dato l’avvio a un ciclo pittorico dal quale il passaggio alla scultura è stato naturale: il pittore, infatti, operando su un piano bidimensionale può aspirare solo alla terza dimensione, per la quarta occorre il rilievo della scultura  che occupa lo spazio tridimensionale, una scultura aerea senza il peso della materia di tipo tradizionale.

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Diogene”, 1968

L’artista , osserva Marco Tonelli, con i suoi reticoli di fili di ferro – a differenza di Picasso e Calder che li hanno utilizzati anche loro –  “non vuole realizzare sculture nello  spazio, ma vuole rappresentare lo spazio, il che è ben diverso”Ed ecco come questo viene spiegato: “Per Cagli  la scultura dunque non riguarda la materia, la tecnica, i materiali, ma la sostanza di cui si compone lo spazio  in senso matematico-geometrico, di ‘quarta dimensione’ cioè, e se non possiamo ancora parlare di forze, di certo si tratta di struttura interna allo spazio stesso”. Avrebbe anticipato la recente teoria quantistica dei “campi granulari”  composti di particelle elementari e “quanti di gravità” che, secondo il fisico Carlo Rovelli, “non vivono immersi nello spazio; formano essi stessi lo spazio. Meglio, la spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni”.   

Il “Progetto del memoriale ‘la notte dei cristalli’” 1970, si basa su questi concetti, e abbiamo già ricordato in precedenza l’occasione in cui gli fu commissionato, la sua realizzazione e collocazione nel luogo fatidico a Gottinga: “Un elemento triangolare sviluppato  secondo una rigida progressione ascendente di calibratissime  proporzioni matematiche, culmine di un discorso sullo spazio iniziato ventiquattro anni prima  e sperimentato attraverso cicli di sculture filiformi, a nastro e a rilievo, che hanno avuto come contropartita disegnativa   iconografie cellulari e mutazioni modulari e cellulari”.

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“Pescatore”,1930

Ed è logico questo riferimento, avendo in mente che il Vasari diceva: “Scultura e pittura sono sorelle nate d’un padre  che è il disegno”,  mentre Tonelli ne precisa il significato  definendolo “una sorta di sostanza originaria, fondamentale e universale che preesiste all’architettura, alla pittura stessa e alla scultura: non un semplice abbozzo, schizzo o progetto, ma  qualcosa di ancor più originario. Il che  equivale a dire di conseguenza che la ricerca dello spazio  in Cagli non fosse solo questione di scultura, ma di un principio che è a livello di pensabilità e di attuazione della forma, di qualsiasi forma”.

Abbiamo visto le sculture filiformi nei reticoli dei già citati  “Diogene” e “La gabbia”; per le sculture a nastro, “A Ganesh” 1967 precede di tre anni il progetto del “memoriale”  appena descritto anticipandone  la forma piramidale e la forza ascensionale, data da strati di nastri sovrapposti;  laddove nel “memoriale” abbiamo  barre orizzontali che si incontrano in diverse nervature per comporre  un suggestivo poliedro a base triangolare evocativo e celebrativo del sacrificio di tante vittime nella tragica notte del 1938. Molto più indietro nel tempo “Cicute” 1955, una successione di simil bambù  di varia lunghezza uniti anch’essi con tendenza ascensionale.

Questa  coerente ed elaborata impostazione spaziale viene dopo la folgorazione americana delle “geometria proiettiva” di Donchian, mentre in precedenza e soprattutto nei primi anni le sue sculture sono figurative partendo dalla ceramica che è stata la sua iniziale attività formativa: entra nella fabbrica di ceramiche d’arte Rometti di Umbertide nel 1929 seguendo l’artista Dante Baldelli che aveva conosciuto nell’Accademia delle Belle Arti di Roma, e ne viene  nominato direttore artistico nel 1930. 

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Da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935

Sono esposte le prime opere, “Santone” e “Icaro”  del 1929, veramente totemici nel “nero fratta” lucido che qualificherà la ceramica Rometti. Subito passa a uno stile da “Art Déco”, come in “La dea Venere” , dello stesso anno, un delicato profilo bidimensionale nero con delicati contorni gialli, cui si possono assimilare nella forma compositiva i due piatti del 1930,  “Mietitrice” e “Pescatore”. Molto diversi“I quattro venti” , nella quadripartizione in una retinatura ocra, e “Il cielo”, un triangolo evocativo al culmine di un cono; mentre “Serena” 1931 è una testa dall’espressione severa in cui si sente l’eco della statuaria classica. Deve lasciare la fabbrica e l’attività che vi svolge nel 1933 perchè non tollera certe sostanze della produzione ceramica, comunque è già impegnato nella pittura cui ora può dedicarsi totalmente.

Arazzi e teatro, con scenografie e costumi

Gli Arazzi ci consentono di passare dai  generi artistici finora considerati – disegno e grafica, scultura e ceramica,   oltre alla pittura di cui abbiamo parlato in precedenza – alla attività per il Teatro che è stata particolarmente intensa. Vediamo gli arazzi come tramite perché, pur se riferiti alla pittura e al disegno, con le loro dimensioni assumono una spettacolarità di tipo teatrale; preparò oltre 50 appositi cartoni pittorici per l’arazzeria Scassa, la quale li tradusse in arazzi anche di grandi dimensioni, fino a 6 metri per 3, come “Apollo e Dafne” con un impegno nella tessitura di 500 ore per metro quadro. La felice collaborazione tra l’artista e l’arazzeria ebbe inizio con 16 arazzi per il salone delle feste della turbonave “Leonardo da Vinci”.

In  “Enigma del gallo” 1962, e “La ruota della fortuna” 1969, vediamo fedelmente tradotti nel grande tessuto i due dipinti omonimi del 1958 e 1959, mentre in “Tripudio” 1973 riconosciamo gli intrecci cromatici dei dipinti “Demoni”  e “Minotauro” del 1966-67,  pur nella diversa disposizione compositiva, non più strisce ma forme geometriche quadrate o circolari come in “Chiocciole”.

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“Enigma del gallo”, 1962

Tancredi”  1977  richiama nell’ambientazione naturale e nella composizione il dipinto di vent’anni prima, “Apollo e Dafne”, cui dedicò un arazzo apposito di grandi dimensioni, e come nella leggenda ovidiana tradotta in uno dei pochi figurativi degli anni ’50, l’eroe cavalleresco è immerso nella natura, questa volta tra ombre e sagome misteriose; ma non c’è questo solo rimando, per l’opera lirica “Tancredi”  curò scene e costumi  nel 1952,  unendo elementi figurativi ed elementi  astratti  su uno sfondo pastorale.

Entrati così nel campo delle  scenografie e dei costumi per il Teatro dell’artista, premettiamo che si è definito “pittore per il teatro e non scenografo”,  riaffermando il legame stretto con la sua arte pittorica, e lo abbiamo appena visto negli arazzi; inoltre,  soprattutto per i balletti, il legame con la musica per la quale aveva una vera predilezione.

Così Rita Olivieri interpreta questo legame: “Fra la pittura e il teatro vi è, dunque, un rapporto di reciprocità, di intense stimolanti sollecitazioni e di problematiche, talvolta, comuni; in questa relazione vivissima di dare e avere, la scena non è mai un’opera da cavalletto ingigantita a fondale, né le strutture sceniche possono considerarsi sculture trasferite in palcoscenico; bensì entrambe, pittura e scultura si reinventano nei vari contesti sia mutuando la poetica passata, e già completamente esplicitata, sia anticipando modalità espressive  inedite, che andranno anch’esse a costituire il linguaggio dell’artista”.

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“La ruota della fortuna”, 1969

Si è visto per Picasso e de Chirico, lo vediamo ora per Cagli il quale compie, nelle parole di Crispolti, un percorso, che lo impegna e lo appassiona, “di sperimentazioni visive e di fenomenologia figurale”, nella ricerca dei materiali e delle formule espressive, figurative e anche astratte, in grado di rappresentare la sintesi di scena e azione, parola e musica, luce e costumi.

Inizia negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra, collaborando alla “Ballet Society” fondata nel 1946 da alcuni promotori tra cui  il coreografo Balanchine,  con cui entra in uno stretto rapporto, rafforzato dalla propria passione per la musica; al riguardo collabora anche con il “Ballet Russe de Montecarlo”, vediamo esposti due bozzetti del 1946-47, “Cover design” e “Grand jeté”.  Seguono, nel 1948, quelli dei costumi  per “Il trionfo di Bacco e Arianna”,  in  “Bacco”  e “Arianna”  gli abiti sono succinti per far risaltare le fronde che incorniciano le teste, mentre è  molto colorato il bozzetto del costume di “Re Mida”,  e per “I Satiri”   e “Sileno”   annotazioni al margine che confermano il suo interesse per l’intero spettacolo teatrale. Negli anni ’50 e ’60 l’impegno nel teatro continua. Ricordiamo, oltre al già citato “Tancredi” del 1952 al Maggio musicale fiorentino,  “Bacco e Arianna” del 1957 al Teatro dell’Opera di Roma, “Il misantropo” del 1959  al Teatro Olimpico di Vicenza,  “Macbeth”  del 1960 al Teatro alla Scala di Milano; per  questo sommo teatro  nel  1962  realizza i  bozzetti per “Semiramide”, non andata in scena, e nel 1965-66 per “Le miniere di zolfo”, regista John Huston dopo la regia di Luigi Squarzina nel “Macbeth”.

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“Tancredi”, 1977

L’anno successivo, il 1967, prepara i bozzetti per fondali, quinte e costumi di “Jeux”  al Teatro dell’Opera di Roma; poi, nel 1968, per “Estri” rappresentato al Teatro Caio Melisso di Spoleto, nella scenografia una struttura metallica con un gigantesco “P greco”, nei lavori  per il teatro a seconda dei periodi applica le proprie tecniche artistiche del momento, qui la “quarta dimensione”  di “Diogene” e “La gabbia”, nelle altre  le “Carte”, con le “impronte dirette e indirette” e le “metamorfosi”. Con il 1969  il balletto drammatico “Marsia”, nel quale con pastelli cerosi a olio interpreta nei bozzetti dei costumi  il mito ovidiano sulla sfida musicale del suonatore di flauto alla divinità e la sua vendetta, vediamo il bozzetto del “Costume per Apollo” e “per Marsia”“per le ninfe” e “per gli Sciiti”, spettacolari nel loro  intenso rilievo cromatico.

Il 1970 segna il ritorno al Maggio musicale fiorentino con “Persephone”, di cui vediamo esposti un bozzetto del “Costume per Persephone”  e uno su “Eumolpo e Persephone” con raffinati motivi floreali;  vi resta nel 1971 con “Fantasia indiana”, che viene replicata alla Staatsoper di Vienna  nel 1972,  sono esposti i “Costumi per lo sposo” e “per la sposa”, “per gli 8 uomini della tribù” e “per il capotribù”,   ben diversi da quelli citati  finora, sono geometrici e richiamano  i motivi di “Demoni” e “Minotauro”.

Lo ritroviamo a Firenze nel 1974 con “Agnese di Hoenstaufen”, regista Franco Enriquez, direttore Riccardo Muti  il quale apprezzava la sua costante presenza alle prove, “discutendone dopo e aprendo talvolta orizzonti  che potevano gettare nuova luce sull’ intero risultato artistico”; il “Costume per Agnese” , “per Enrico VI” e “per il duca di Borgogna”  sono a loro volta l’opposto dei precedenti, ma nella classicità vediamo i cerchietti di “Buglione” e Pale”.

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“Grand jeté”,1947

Nel 1975, scene e costumi per il “Filotette” al Teatro comunale dell’Aquila,  regia di Glauco Mauri, rappresentata l’8 marzo e replicata al Teatro Argentina di Roma il 2 aprile: citiamo per la prima volta i giorni perché tra le due date, il 28 marzo, muore all’improvviso nella sua casa a Roma. In quell’inizio di anno di intensa attività teatrale aveva progettato scene e costumi per  la “Missa brevis” di Igor Stravinski, che verrà portata sulla scena il 29 ottobre. Divenne così una messa virtualmente alla sua memoria.

Vogliamo coronare la carrellata sull’opera di questo grande artista con le parole di Angelo Calabrese, il quale nel ricostruire il suo intenso rapporto con la poesia e i poeti, primo tra tutti Ungaretti, lo definisce così: “Genio  dell’arte del Novecento, proiettato in una storia dell’umanità totalmente altra. Corrado Cagli intuiva e ragionava in termini d’energia metamorfica e viaggiava verso l’ignoto, contemplandosi e interrogandosi su tutti i possibili sentieri da tentare verso gli spazi cosmici, sperimentando temporanee mete in successione, dove la sapienza degli uomini umani distilla  dalla scienza delle poesia”.  Per concludere: “Uomo di libertà, era convinto che il meglio a venire, poteva solo derivare da un atto coscienziale… dalla sapienza cum scientia coniuncta , cioè dall’arte, che è poesia, che ha vita dentro di noi e che crea doni  come testimonianze di conquiste sempre progressive, le quali sono comunque un passo verso l’incommensurabilità cosmica”. 

E’ un insegnamento di cui si ha molto bisogno per risollevarsi dalla crisi di valori dei nostri tempi.

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“Costume per Enrico VI”, 1974;

Info

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore. fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it, tel. 06.97625591. Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. I due primi  articoli sono usciti in questo sito il 5  e 7 dicembre 2019. Per gli artisti citati,  cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su  De Chirico, nel  2019 il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre, nel 2016 il 17, 21 dicembre, nel 2015 il 1° marzo, nel 2013 il 20, 26 giugno, 1° luglio; Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019; Guttuso, nel 2018 il 14, 26, 30 luglio, nel 2017 il 16 ottobre, nel 2016 il 27 settembre, 2, 4 ottobre, nel 2013 il 25, 30 gennaio; Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018, inoltre il 4 febbraio 2009 anche in cultura.inabruzzo.it (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono inserite, a parte l’apertura, nell’ordine in cui sono trattati i diversi generi nel testo, dove sono commentate, disegno e grafica, scultura e ceramica, arazzi e teatro. In apertura, “Costume per Apollo” 1969 ; seguono:  disegni e grafiche, “Orfeo incanta le belve” 1938, ed “Elogio della pazzia” 1964,  poi, “Capobanda” con “Gente a Partinico” e “Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato” , 1975,  quindi, “La rotta del Po” animali travolti con persone sui tetti, e “La rotta del Po” soccorritori su due barche, 1976; inoltre, scultura “Diogene” 1968, e ceramiche: “Pescatore” 1930; ancora, vetrina con, da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935;  e arazzi, “Enigma del gallo” 1962; continua, “La ruota della fortuna” 1969, e “Tancredi” 1977; infine, scene e costumi per il teatro, “Grand jeté” 1947, e “Costume per Enrico VI” 1974; in chiusura, “Tripudio, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.

“Tripudio”, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.