De Chirico, IV. 3. I giocattoli, l’enigma e gli artifici della pittura, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Si conclude la narrazione della  mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  – organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, e curata da Luca Massimo Barbero, insieme al ponderoso Catalogo Electa.-   nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970. Esposte  oltre 100 opere raggruppate in 8 sezioni tematiche, di cui abbiamo illustrato in precedenza le prime 5. E’ la volta delle ultime 3 sezioni, con le “stanze impossibili”, l’enigma dei gladiatori  e gli artifici della pittura, un finale tutto da scoprire di una mostra che ripercorre l’itinerario artistico del Maestro, mentre nel Catalogo Electa la ricostruzione di Barbero ha segnato un’altra pietra miliare insieme a quella di poco precedente di Benzi.

“Autoritratto nel parco”, 1959

Terminavamo la seconda parte della nostra narrazione preannunciando “le sorprese finali” di un percorso iniziato con la “mitologia familiare”,  proseguito con l’enigma metafisico nei misteri di Parigi, tradotto poi nell’innovativa metafisica “ferrarese” fino alla svolta classicista degli anni ’20 nei quali c’è stato anche un ritorno metafisico, con manichini e archeologi dalle linee arrotondate.

Ma gli anni ’20 ci danno ulteriori sorprese, quelle che ci piace chiamare “stanze impossibili” perché gli interni domestici sono popolati di alberi, templi e rocce; mentre nella serie dei “Mobili nella valle”, non rappresentata in mostra, avviene l’inverso, l’esterno  è popolato degli arredi domestici, in un intrigante rovesciamento di situazioni in ambedue le serie, di cui viene fornita un’interpretazione suggestiva.

Alberi, templi e cavalli  come giocattoli negli  interni domestici

La metafisica “ritornante” nella seconda metà degli anni ’20 si presenta dunque  senza il carico di sospensione e di ansia di quella delle origini, mentre le memorie autobiografiche tornano a permeare la visione dell’artista. Per questo  i “Mobili nella valle” sono ispirati da esperienze personali, il ricordo d’infanzia del terremoto allorché la sua famiglia fu costretta a traslocare portando i mobili in strada e, più in generale, i traslochi cui aveva assistito dei quali gli era rimasta impressa l’attesa dei protagonisti fissata nella sua memoria dai mobili posti nel luogo meno appropriato, l’esterno.

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“Tempio in una stanza”, 1926

Anche per la situazione speculare degli alberi, templi e rocce nel luogo ancora meno appropriato, la stanza, c’è una spiegazione, ma prima vogliamo descrivere le 3 opere realizzate in stretta successione  temporale, dal 1926 al 1928. In “Tempio in una stanza” , l’oggetto del titolo è posto su un promontorio roccioso confinante con un tappeto a strisce bianche  e blu che ricorda il mare, il “suo” mare, su un pavimento a piastrelle, della stanza si vede solo un parete di legno; “Ma chambre dans le midi”   invece mostra la stanza nella sua ampiezza, non più claustrofobica come la precedente, non solo il tappeto viola con linee bianche  su un vasto pavimento, anche lo scorcio del suo  letto disfatto e una porta alla destra, e al centro un gruppo di alberi dai tronchi altissimi, nonché due edifici, uno dalle pareti rosa con persiane verdi, l’altro dalla facciata gialla. Nel “Tempio greco”  un’altra variante, della stanza solo i contorni oltre al tempio, di dimensioni ridotte  rispetto alla prima opera citata, quasi una  cappellina, una colonna appoggiata alla parete, un corso d’acqua, un promontorio che  prosegue con costruzioni sulla cima.

La chiave interpretativa di  questo nuovo enigma l’ha data lo stesso de Chirico anni prima, profeticamente quando, nel 1920, sul “Classicismo pittorico” della svolta incipiente scrive: “Il tempio greco è a portata di mano, sembra che lo si possa pigliare  e portare via come un giocattolo posato sopra un tavolo”.

Così la 6^ Sezione della mostra è intitolata “La stanza dei giocattoli”, che non si limitano a quelli indicati. Vi sono anche i cavalli sin dall’inizio, è del 1926 “Cheveaux dans une chambre” due nobili destrieri rampanti scalpitano in un interno ristretto con un’ampia finestra su un cielo celeste dalle vaghe striature bianche; è un tema nietschiano, la pazzia del filosofo iniziò con l’abbraccio a un cavallo, e  rimandano al leggendario  Pegaso, sono simboli del lato dionisiaco da domare e richiamano quelli del fregio del Partenone, a lui molto familiari.  

Genealogie d’un réve”, 1927-28

Nello stesso anno  quei cavalli in una posizione statuaria simile, quasi teatrale e non certo realistica,  li rappresenta in “Chevaux  au bord de la mer”  sulla spiaggia con dei templi lontani su un promontorio; mentre, sempre nel 1926,  in “Le rive della Tessaglia” raffigura  plasticamente come il cavallo sia legato alle sue origini, la Tessaglia dov’è il paese natale Davos, con i volti senza occhi del cavallo bianco, in posa di riposo,  e del guerriero nudo al suo fianco;  per  Fagiolo dell’Arco ”Achille pascola il suo cavallo … tra schegge metafisiche, come il piedistallo il portico, il faro”.

In   Cavalli e rovine in riva al mare”, 1927, tornano i cavalli scalpitanti,  non più rampanti ma  quasi congelati in un biancore raggelante fra tronconi di colonne con un tempio in cima a un promontorio in lontananza.  Barbero osserva che “i due puledri stanno subendo un vero processo di gessificazione”, Sergio Solmi nel 1931 li ha definiti “bianchi cavalli pietrificati  in riva al mare sbiadito e riccioluto di spume d’una Grecia di fantasia”, e per Gadda nel 1938  “i bianchi cavalli… assistono con occhi stupefatti alla marina, dove non è che memoria, ancora memoria”.

 Jean Cocteau l’anno successivo aggiungerà elementi rivelatori alla chiave  interpretativa: “C’è niente di più realistico che dipingere la cosa immaginata nella stanza in cui la immaginiamo?” Non si può che concordare, si tratta evidentemente di una visione onirica e, se “i sogni son desideri”, come nella nota canzone, lo sono quelli  dell’artista che rivive le sensazioni dell’infanzia nella sua terra, con il suo mare, i suoi alberi e i suoi templi, i suoi cavalli. Il poeta aggiunge: “Quel che stupisce è che la fattura del dipinto  non mostra alcuna differenza fra   la stanza e l’immaginazione”, e cita espressamente “gli alberi che spuntano dal pavimento”.

“Chevaux dans une chambre” , 1926

Li abbiamo visti in “Ma chambre dans le midi”, li rivediamo in Généalogie  d’un réve”, 1927-28,  incorporati, con un edificio dietro di loro, nel torace di un tipico  manichino seduto, con le  lunghe braccia e le  gambe corte, ristretto nell’angolo di una stanza , la “sua” stanza,  il letto  a destra, tappeti,  piastrelle e parquet del pavimento, una porta. In “Naissanse d’un mannequin” de Chirico scriverà nel 1938-39: “E’ molto consolante che al posto di una clamide il pino sul suo tronco si erga a piramide . Egli porta sul suo tronco il suo destino subcosciente”. Si tratta, in questi interni, del pino marittimo della sua terra, ben diverso dagli alberi dalle chiome folte delle “Ville romane” di cinque anni prima, nel sogno ora opera il “subcosciente”.

Ma non basta, nei pirotecnici anni ’20 di nuovo de Chirico cambia tutto, lo vediamo in “Due figure mitologiche (Nus antiques, composizione mitologica)”  del 1927, l’anno dei diversissimi  alberi con i templi , e il  manichino in una stanza, e dei cavalli in riva al mare, più assonanti nelle loro rotondità con le massicce figure quasi compresse nell’interno molto ristretto. Ne dipinse 5, nel suo ritorno all’antico nella forma pittorica oltre che nella costante ispirazione,  sono stati avvicinati al neoclassicismo di Picasso, ma non è una derivazione, bensì hanno una matrice comune. “Sembrano due dee in un tempio claustrofobico – commenta Barbero – con un’unica via di fuga: la piccola finestra, piuttosto una fessura, dalla quale si scopre uno scampolo di cielo turchino”. E conclude: “De Chirico si sta avviando a quelle forzature che caratterizzeranno il ciclo dei Gladiatori, quegli eroi immensi ma dai corpi dinoccolati, quasi snodabili”.

Sono l’oggetto della 7^ Sezione, in cui si passa dai manichini alle figure  umane, del tutto nuove, i “ Gladiatori” e gli ineffabili soggetti che popolano i “Bagni misteriosi”.

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“Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)”, 1927

L’enigma nell’umano, dai “Gladiatori” ai “Bagni misteriosi”

Ci introduce ai “Gladiatori”, con cui si apre la 7^ Sezione, “Un viaggio nell’enigma” ,  la citazione che Barbero fa di Ebdòmero, il protagonista del romanzo di de Chirico del 1929, il quale,  proprio mentre l’artista li dipingeva nella casa del suo mercante  Rosenberg, li presenta così: “…In una sala vasta e alta di soffitto, ornata secondo la moda del 1880. Completamente vuota di mobili,  in un angolo due gladiatori dalle maschere di scafandro si esercitavano senza convinzione … Gladiatori! ‘Questa parola contiene un enigma’”. Nel 1939 Gadda li definirà “eroi [che] vorrebbero inveire contro gli antagonisti eroi, e schinieri, usberghi, scudi lance  e criniti cimieri passano pronti alla rissa”. De Chirico  nel 1920, sul “Ratto delle Sabine” di Poussin visto al Louvre aveva scritto che  “simili a statue,  s’incastrano e… malgrado il movimento della lotta, i corpi hanno quel divino senso di stabilità e immobilità senza il quale un’opera non giunge mai alla grande arte”. Per cui, quando li dipingerà anche lui, otto anni dopo, si atterrà a questo suo giudizio preventivo.

Vediamo intanto il dipinto più anomalo, sia perché non sono gladiatori ma aurighi – ma li anticipa fedelmente con i corpi nudi  non più manichini – sia per la sua forma molto allungata,   “Corsa di cavalli nella stanza (Corsa di quadrighe)”, 1928. Si dipana  la corsa con gli aurighi nudi  in posa statuaria, alla guida dei carri che si scontrano, anche in lotta tra loro, come in un fregio antico, in una serie di  scene successive, come fotogrammi; un  termine che non abbiamo usato a caso perché Fagiolo dell’Arco ne riconduce l’atmosfera, piuttosto che  all’epica del Ben Hur del 1880, alla spettacolarizzazione cinematografica e alla relativa promozione, affermando che “agiscono senza convinzione, sono degli attori pietrificati che smettono di credere davvero ai ruoli che interpretano”.

“”La scuola dei gladiatori: il combattimento“, 1928

Gli altri dipinti, tutti del 1928-29 –  a parte  “Throphée”, con le armi ridotte ad orpelli ornamentali, fu posseduto per qualche tempo da Picabia –  raffigurano  i guerrieri  veri  e propri, armati  come li ha descritti Gadda.  In  “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928,  sono soltanto due che si fronteggiano, uno con maschera, l’altro senza, dinanzi a una figura che sembra una statua con la testa a uovo, l’unico residuo metafisico; la stessa figura che si intravede anche in “Les gladiateurs” del 1929, con davanti il numero di gladiatori raddoppiato, altri si vedono dietro due finestre; vi sono anche i “Gladiatori in  riposo”, 1928-29, con le teste ricciolute e i corpi nudi scolpiti da forti ombreggiature. Dalle singole tenzoni, e dal  riposo dei guerrieri, alla battaglia, o se si vuole alla “rissa” evocata da Gadda: la vediamo in “La scuola dei gladiatori (Il combattimento)”, 1938, e in  “Combattimento (Gladiatori)”, 1928-29, in entrambi un groviglio inestricabile di corpi nudi, soprattutto in piedi ma anche a terra, che cercano di colpirsi, nel primo ci sono  dei cavalli stretti tra i combattenti.

Viene rievocato da Giovanni Casini, a proposito di  “De Chirico e il corpo maschile”, il suo interesse per “I lottatori” di Courbet – inserì la riproduzione dell’opera nella nota sull’artista pubblicata nei “Valori Plastici” nel 1925, prima che vi si cimentasse lui stesso – le cui opere definisce  “delle narrazioni, dei passaggi di un romanzo dove i personaggi non appaiono  nel loro aspetto corrente  (verismo) ma nel loro aspetto poetico e fantomatico (realismo)”.  Più che guerrieri antichi sono muscolosi lottatori contemporanei  di lotta greco-romana, mentre quelli di de Chirico hanno la carne  flaccida  e, pur riportando l’incarnato umano dopo i manichini ortopedici, non hanno nulla di eroico, il suo “gladiatore”  si avvicina piuttosto al “lottatore” di Honoré Daumier, per nulla statuario.   Casini li ricollega allo stretto rapporto di dc Chirico con il mercante  a lui vicino  Rosenberg, considerato “un esemplare dell’uomo moderno del dopoguerra: sportività, attività e fede nel macchinismo”, schermidore e pugile, per cui i “gladiatori” evocherebbero gli sportivi in allenamento e in gara,  a cui il protagonista autobiografico del suo romanzo, Ebdòmero, attribuisce “pose  piene di stile e di nobiltà”. Ed ecco come li descrive: ”A parte qualche scena di lotta più simile a un’ammucchiata  o a un blocco policromo e immobile che a un  effettivo combattimento, i gladiatori sembrano privi di volontà di agire”; e su de Chirico aggiunge che “opera nei suoi gladiatori un rovesciamento parodistico di un ideale di virilità e di corpo maschile che verso la fine degli anni venti e  soprattutto  negli anni trenta sarebbe stato strumentalizzato tragicamente dai regimi totalitari”.

“Gladiateurs au repos”, 1928-29

Per Barbero, “l’incarnato dei corpi ha un tono artificiale, le forme  allungate stirano  i  muscoli fino a fargli perdere ogni  connotato di virilità… l’ironia è talmente palpabile  in quella pittura molle…  che quegli uomini di gomma allontanano  ogni possibile visione neoclassica o, peggio ancora, retorica o reazionaria…” Poi, richiamando il dipinto di Renoir con i soldatini, conclude così: “Anche se i gladiatori  dechirichiani non sono infatti veri combattenti  e, dunque,  reali figure umane, l’artista  sta cominciando a volgere l’attenzione verso una nuova evoluzione che caratterizzerà proprio gli  anni trenta con un’attenta riflessione sulla pittura del maestro impressionista, già cominciata fin dal 1920”.

Vi sono stati i  nudi e le figure arrotondate alla Renoir, nella produzione del periodo, ma questa citazione introduce gli altri protagonisti della sezione, i “Bagni misteriosi”, l’ulteriore “invenzione” di de Chirico nella prima metà degli anni ’30, che racchiude in sé l’ennesimo enigma. Anche in questo caso, come per i  “Gladiatori”, troviamo una sua anticipazione quasi 15 anni prima, in uno scritto su Klinger del 1920,  dove parla dei ricordi di infanzia che gli davano “un gran senso di sgomento”, e cita al riguardo  “una scaletta di legno simile a quelle delle cabine  negli stabilimenti balneari, e di cui si vedono i primi gradini che scendono nell’acqua… mi sembrava dovessero scendere… fino nel cuore delle tenebre oceaniche”. L’occasione di esprimerlo nell’arte la ebbe quasi dieci anni dopo  nell’illustrare, con 66 litografie,  i “Calligrammi” dell’amico poeta Apollinaire, fu un primo assaggio;  troviamo i “Bagni misteriosi” nell’espressione più compiuta nelle 10 litografie create per illustrare l’opera di Jean Cocteau, “Mythologie”.

Les gladiateurs” , 1929

A parte il ricordo d’infanzia, l’idea, come lui stesso scrive, gli venne alla vista di una persona che camminava su un pavimento lucidissimo, tirato a cera, e sembrava  che potesse “affondare in quel pavimento, come in una piscina”.  Di qui l’illuminazione:  “Così immaginai delle strane piscine con uomini  immersi in quella specie di acqua-parquet, che stavano fermi, e si muovevano, ed a volte si fermavano per conversare con altri uomini che stavano fuori della piscina-pavimento”.  Ha detto tutto, basta aggiungere la differenza tra gli uomini fuori piscina, vestiti, che sembrano dominanti, e quelli nell’acqua, inermi, anche a questo riguardo era così che li vedeva quando si recava nelle piscine; e va considerato il significato  metafisico delle cabine, “ogni cabina contiene un fantasma” ebbe a scrivere. Mentre Calvesi fa risalire alla pittura egizia l’andamento a zig zag dell’acqua-parquet.

Il mistero è anche nei titoli. Questi per le litografie, tutte del 1934: “L’ospite misterioso” e “L’apparizione del cigno”, “La figura inspiegabile” e “Il bagnante solitario”, “Il centauro misterioso” e “L’idolo nei bagni misteriosi”,  “Sotto la cabina misteriosa” e “Nella piscina inquietante”, “Conversazione misteriosa” e  “Raduno inspiegabile”. E per i dipinti del 1935:  “La visita ai bagni misteriosi” – con le cabine “occhiute” e il confronto visivo uomini nudi-uomini vestiti – e “La barca dei bagni misteriosi”, surreale come quella di Ulisse-Ebdòmero. Del 936 “Bagni misteriosi a Manhattan”, con la cortina di grattacieli, a testimonianza del fortunato viaggio negli Stati Uniti, che accolsero i “Bagni misteriosi” con straordinario favore, mentre nella “Quadriennale di Roma” del 1935 erano stati accolti male dalla critica, del resto prevenuta.

“I Bagni misteriosi” , 1934-35

Ma non solo i “Bagni”, a New York  espone 26 opere in una mostra con Surrealisti e Dada al MoMA, inoltre  decora, con Picasso e Matisse, una sala alla Decorators Picture Gallery, e da solo una parete dell’istituto di bellezza di Helena Rubinstein, realizza un grande murale su soggetto mitologico per la sartoria Scheiners. E’ entusiasta della metropoli americana, vi trova un senso metafisico negli edifici, per l’architettura, con “l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei”, e  con  l’assenza di persiane “così spesso di notte gli appartamenti, le camere rischiarate sembrano, viste dalla strada, grandi vetrine di negozi e di bazars”. Vorrebbe fermarsi a lungo, ma  nel 1937 alla morte della madre  torna subito in Italia sul transatlantico Rex.

Nel 1973 realizza per la Triennale di Milano la fontana dei “Bagni misteriosi” per il giardino di Parco Sempione, in mostra è esposta la “maquette” , ci sono  un cigno e un pallone variopinti nella piscina-parquet con due cabine. E, innovazione nell’innovazione, un sole ardente  e un sole spento, che ci introducono nell’ultima sezione della mostra, in cui ritroveremo questo tema.

Gli “artifici della pittura”, le repliche e gli autoritratti, con  la gioiosa Neometafisica

E’ un tema, quello del sole acceso e spento con i fili elettrici, che  appartiene alla nuova stagione metafisica degli anni ’60 e ’70,  in chiusura della mostra, ci torneremo tra poco. Intanto, entrando nell’8^ e ultima Sezione,   “Gli artifici della pittura”, siamo ancora nell’anno dei “Bagni misteriosi” ma  con tutt’altra espressione pittorica, nella ben nota compresenza multiforme.

“Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” , 1935

Si tratta di composizioni classiciste del 1934, come “I dioscuri con rovine e architetture”, con le figure maschili in piedi nude che ricordano quelle in “Il saluto degli argonauti partenti” del 1920, alla svolta dopo la prima metafisica; e  “Bagnanti sopra una spiaggia”, con il nudo femminile alla Renoir mollemente disteso in primo piano e altri nudi in secondo piano. La peculiarità di queste opere è che ne richiamano molto da vicino altre, sia pure con numerose varianti:   la prima richiama “Castore e Polluce” del 1930,  simili ma non uguali le figure maschili, di cui una regge lo stesso drappo anche se cambia il braccio  e i cavalli di cui muta il colore; la seconda la ritroviamo replicata nel 1945 con il titolo “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggi)” , invece il drappo nell’opera precedente era celeste, e il paesaggio è una campagna con alberi dove prima c’era la spiaggia e il mare, i nudi di sfondo da 4 sono diventati 2, non è invecchiata la protagonista, la moglie Isa,  che ha fatto  dire a Vittorio Sgarbi: “Il nudo di Isabella entra di diritto tra i classici italiani, tra la Venere di Urbino e la Paolina Borghese di Antonio Canova. Gli dei, e le dee, sono tornati”. Invece non ci sono varianti  visibili tra “Vita silente” e “Natura morta con calco antico e cacciagione” , la prima del 1928 e la seconda del 1930 con un diverso titolo che sorprende dato che rifiutava di chiamare “natura morta”  fiori e frutti che per lui erano “vita silente”.  

Naturalmente,  non sono questi i dipinti che hanno posto il problema delle repliche e delle datazioni, ma le opere della cosiddetta “Neometafisica”, con le quali l’artista è tornato massicciamente sui temi del passato metafisico, però con tinte più calde e con una visione disincantata e serena che ha sostituito la sospensione ansiosa e spesso angosciosa, tanto che è stata chiamata, nella mostra di Campobasso del 2015,  “gioiosa Neometafisica”. Così la definisce  Barbero: ’De Chirico si libera totalmente del peso della stretta datazione e si reimpossessa lucidamente e in modo straordinario non del suo passato, ma della sua visionarietà. La neometafisica è un mondo nuovo che presenta  una delle facce del cristallo sfaccettato delle invenzioni dechirichiane ma in una chiave completamente libera, con una pittura, altrettanto scarna, forte di un disegno  nero, quasi de Chirico ritornasse  sognante alle grandi invenzioni metafisiche e ai suoi giochi più illuminati”.

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“La barca dei bagni misteriosi”, 1935

Si impegna in una “produzione serrata” tornando sui temi  che hanno avuto maggiore presa nel passato, “che reinterpreta liberamente in una sorta di d’aprés, e che ne escono ancora più lucidi, più brillanti e cristallini, appunto come un sogno fatto ad occhi aperti”, sogno e non più incubo. Sono esposte addirittura tre repliche di  “Le Muse inquietanti”, datate 1925,  1950 e fine anni ’50, praticamente identiche alla prima del giugno 1918, quella da lui duplicata allora per accontentare Breton che poi ne approfittò per attacchi forsennati  che tanto pesarono sulla critica, largamente fuorviata se non strumentalizzata, e sulla vita stessa del Maestro ingiustamente calunniato e perseguitato.

Molte polemiche su questo aspetto della multiforme genialità di de Chirico, che lo portava anche a provocazioni, fino a retrodatare talune opere o, di converso, a negare l’autenticità di altre per rivalsa su Breton e i suoi accoliti. Le  reiterazioni, del resto, rientrano  nel concetto di arte da lui espresso con queste parol:. “La mia idea è una mia idea, e l’anno in cui la rieseguo non importa”, oltre che nel suo concetto di tempo con l’“eterno ritorno”. Colpì talmente Andy Warhol, il capofila della Pop Art, che alle “Muse inquietanti” dedicò uno dei suoi celebri multipli, “Disquieting Muses (After de Chirico, Muse inquietanti)”, del 1982, anno in cui in una doppia pagina del catalogo della mostra “De Chirico, New York”  c’erano riprodotte diciotto versioni di tale opera, sembra una moltiplicazione da”apprendista stregone” . Warhol disse ad Achille Bonitoliva in occasione di  tale mostra: “Ho sempre ammirato de Chirico. Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte  e poi quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace molto quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo”.  Furono fotografati da Gianfranco Gorgoni insieme a New York, immagine  eloquente con Warhol allucinato e scomposto, de Chirico statuario e tranquillo, quasi il Maestro a fianco all’allievo che appare sconvolto da tale vicinanza.

“Vita silente”, 1928

Gli anni ’40  e ’50 sono anche quelli degli “Autoritratti”, nella proiezione teatrale – tale è anche lo spettacolare “Canal Grande a Venezia”, 1952 – che  lo ha accompagnato nel suo lungo itinerario artistico con le tende che spesso marcano la scena. In  questa forma espressiva molto personale esplode in modo anche provocatorio, tanto da suscitare molte critiche. Lo vediamo nell’”Autoritratto in costume da torero” nel 1941-42, “in costume nero” nel  1948, “nel parco” nel  1959,  pose  statuarie e vesti sgargianti in ambientazione di tipo teatrale, risponde alla stessa logica “Corazze con cavaliere” del 1940. Mentre l’”Autoritratto nudo”, 1943, è definito da Barbero “di una sfrontatezza senza precedenti… un’opera spregiudicata perché è, sì, Narciso, ma è anche istigazione ironica…” e dallo stesso de Chirico, “forse la pittura più completa che io abbia eseguito finora”, in origine tutto nudo, poi per l’esposizione aggiunse un asciugamano annodato, anche se seduto  non era inverecondo.  Luigi Ontani lo ha ripetuto con sé stesso due volte a distanza di 33 anni, la prima volta con un asciugamano analogo, la seconda in slip, e Giulio Paolini ne ha fatto l’approdo di un intrigante avvicinamento nella mostra del 2010, “L’enigma dell’ora”. Savinio ne parla così. “Il ritratto è una rivelazione. E’ la rivelazione del personaggio. E’ ‘lui’ in condizioni di iperlucidità. E’ ‘lui’ come egli stesso non riuscirà mai a vedersi nello specchio, come non riusciranno mai a vederlo familiari, i conoscenti, gli amici, coloro che lo incontrano per strada”.  Nel 1940-43 “Autoritratto”, un primissimo piano del volto con uno sfondo lontano, alcuni anni prima il celebre “Autoritratto nello studio di Parigi” del 1934, in piedi a figura intera con tavolozza e pennello davanti al cavalletto, con una testa di statua a terra che  lo guarda  in modo interrogativo, creando un enigma nel luogo meno misterioso, il suo atelier; lo presentò alla “Quadriennale” di Roma del 1935, con altri dipinti in tono dimesso che suscitarono molte critiche, erano gli anni della monumentalità di Sironi, nella mistica di regime. 

Il cavalletto lo ritroviamo tra squadre da disegno “ferraresi” in “Interno metafisico con sole spento”, 1971,  quarant’anni dopo averlo evocato nei “Calliogrames” per Apollinaire del 1930,  ispirandosi a un ventilatore Marelli; i due soli, dardeggiante e spento li vediamo anche in “Spettacolo misterioso” dello stesso anno.

E’ un “inno al sole”  in ambienti non claustrofobici, con ampie finestre sull’esterno, che segue di due anni il “Ritorno al castello” dove il cavaliere sul ponte levatoio – come quelli che combattono ammucchiati in “Battaglia sul ponte” –  è fatto di ombra, con una dentellatura che richiama quella del “sole spento”. Un altro  enigma dei tanti diffusi dell’artista?

“Interno metafisico con sole spento”, 1971,

Nell’anno intermedio, 1970, abbiamo “Orfeo, trovatore stanco” che chiude la mostra. “Il trovatore” è uno dei maggiori capolavori, con il manichino sempre in piedi nelle creazioni del 1917 e 1924, 1935 e 1948;  ora invece è seduto ai margini di una “Piazza d’Italia”, si appoggia alle squadre “ferraresi”, una sintesi della “sua” metafisica, e getta ai propri piedi la lira, lo strumento del mestiere che corrisponde a pennello e tavolozza del pittore.  Secondo Barbero, l’opera “conferma la  consueta ironia dechirichiana”, e noi notiamo una tenda sulla destra, quasi  abbia voluto lasciare il segnale che si tratta di una mera rappresentazione teatrale, non di un proprio stato d’animo di stanchezza; tanto meno di una resa.

Di dieci anni prima, del 1960,  il “Trovatore stanco”, disteso e non seduto come Orfeo, ma de Chirico  ha proseguito l’itinerario artistico, e anche nel 1970  non si ferma di certo:  nel 1971 oltre al citato’Interno metafisico con sole spento” ricordiamo “Spettacolo misterioso” e Termopili”, “Il meditatore” e “Il tempio del sole”,  fino a “Il grande gioco (Piazza d’Italia)”, nel 1973 “Muse della lirica”, “Il mistero di Manhattan” e “Gli arredatori veneziani”, nel 1974 “Mistero di una stanza di albergo a Venezia”, nel 1975 “Testa di animale misterioso”.   

E’ inesauribile, e  Barbero lo conferma concludendo con le seguenti parole: “I dipinti di questo ultimo periodo mostrano un’infaticabile volontà di de Chirico di giocare con le proprie invenzioni, di aggiornarle con le nuove fonti di cui si nutre: essi riuniscono, in un canto altissimo, tutta l’invenzione e il mistero di uno dei più grandi pittori del XX secolo”. 

Ci sembra possa essere la migliore conclusione del quarto petalo del nostro “quadrifoglio” dechirichiano,  a celebrazione del quarantennale della scomparsa del Maestro, nel quale la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha calato il “poker d’assi” in suo onore. Oltre al “Film” della sua vita e della sua opera di Fabio Benzi, le tre mostre di Genova, Torino e Milano con il nuovo “Film” di Luca Massimo Barbero: quello che era il “triangolo industriale” è diventato  così il “triangolo artistico” del grande Giorgio de Chirico. 

“Autoritratto nello studio di Parigi”, 1934

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Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: i 2 articoli precedenti sono usciti in questo sito il 22 e 24  novembre scorso, con questo articolo si conclude il  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, ,il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Matisse 23, 26 maggio 2015, Renoir e impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015, Warhol  15, 22 settembre 2014;  in cultura.inabruzzo.it, nel 2010, Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre, Renoir e impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009,  Picasso 4 febbraio (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le ultime 3  sezioni della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo tutte meno 6 (perché in doppia pagina), si ringrazia  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. Le 6 immagini non riprese dal Catalogo  sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta da pinterest.cl e la n. 5 da artribune.com, la n. 6 da phillips.com e la n. 7 da lavocedinewyork.com, la n. 11 da artnet.it e la n. 15 da artesky.it. Tutte le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Autoritratto nel parco” 1959; seguono, “Tempio in una stanza” 1926, e “Genealogie d’un réve” 1927-28; poi, “Chevaux dans une chambre” 1926, e “Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)” 1927; quindi, “”La scuola dei gladiatori: il combattimento” 1928,“Gladiateurs au repos” 1928-29 e “Les gladiateurs” 1929; inoltre, “I Bagni misteriosi” 1934-35, “Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” e “La barca dei bagni misteriosi”, 1935; ancora, “Vita silente” 1928, e “Interno metafisico con sole spento” 1971; infine, “Autoritratto nello studio di Parigi” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto” 1940-45.

“Autoritratto”, 1940-45

De Chirico, IV. 2. Ferrara, la svolta classicista e il “ritorno” metafisico, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Prosegue la narrazione della mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  –  nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 – con oltre 100 opere del  Maestro, organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, a cura di Luca Massimo Barbero che ha curato anche l’imponente Catalogo Electa.  Dopo aver illustrato le prime 2  sezioni, passiamo alle 3 successive, che riguardano l’evoluzione “ferrarese” della metafisica, seguita dalla svolta classicista del 1919 e dal ritorno metafisico negli anni ’20, tappe intermedie di un percorso ricco di sorprese.

Il pomeriggio soave”, 1916

Il passaggio da Parigi a Ferrara non è di poco conto, fu la guerra a determinarlo, con la risposta dei fratelli de Chirico al richiamo alle armi. Sembra che non fosse doverosa, come per Apollinaire che si arruolò, sebbene fosse francese, essendo nato a Roma, così per i de Chirico nati in Grecia, ma da italiani, quindi si sentivano tali e lo ritenevano, come l’artista ha scritto, “il  nostro dovere”. Rientra nella riaffermazione di identità di chi nelle molte peregrinazioni vuol sentirsi radicato in una terra.

 La metafisica “ferrarese”, tra biscotti e manichini

“Ferrara, l’officina delle meraviglie” – nell’invitante richiamo della 3^ Sezione della mostra – fu  creata  dagli Estensi in un territorio paludoso lungo assi ortogonali, de Chirico la definisce  “città quanto mai metafisica”, perché la trova “solitaria e di geometrica bellezza”, come le sue “Piazze d’Italia”  immerse nella solitudine con la geometria degli edifici, le arcate e le ombre.  Ma non sono gli aspetti urbanistici  peculiari e assonanti con la prima Metafisica,  a  caratterizzare la nuova metafisica, bensì caratteristiche altrettanto peculiari, ma più “interne”, si direbbe connaturate alla comunità locale. Nei negozietti soprattutto del quartiere ebraico – all’ebraismo de Chirico aveva rivolto molta attenzione  a livello teorico – le povere vetrine con la loro   “disposizione delle cose”  evocavano quelle “associazioni spaesanti e inattese degli oggetti” che abbiamo già visto nella fase immediatamente precedente.

Lo riscontriamo  in “”Il pomeriggio soave”, 1916, con i biscotti cosiddetti “crumiri” – che evocano alla rovescia le lotte dei lavoratori – ce ne sono  5 fissati su un riquadro blu dietro cui si apre una piazza ben diversa dalle  “Piazze d’Italia” perché senza reale prospettiva,  profondità  e dimensioni,  dai contorni scuri senza vere ombre che fanno sentire maggiormente  il senso di isolamento. Il biscotto come simbolo della “terribile solitudine delle cose” che rende misteriosa la vita, lo farà capire  scrivendo, nel  1919, “un biscotto, l’angolo formato da due pareti un disegno evocante un che della natura del mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa”. 

“Il saluto dell’amico lontano”, 1916

Nello stesso 1916 un solo biscotto “crumiro”, anche qui su fondo blu, con un pezzo della tipica “coppia” del pane ferrarese su fondo rosso, circondano, per così dire, il gigantesco “occhio” su fondo bianco nel “Saluto all’amico lontano” che viene identificato nell’amico mercante Paul Guillaume, al quale darà il mandato di vendita dei propri quadri dopo la rottura con Breton, che anche per questo fatto che lo danneggiava sul piano professionale ed economico diventerà un nemico ancora più irriducibile, ma su questo torneremo in seguito. Dopo aver spiegato l’enigma dei biscotti si cerca  una spiegazione all’enigma dell’occhio e la si trova nella concezione del Maestro  che, seguendo le credenze degli “antichissimi cretesi”,  gli attribuiva il potere di tenere lontane  le energie negative, in quanto “allo stadio primo”  ogni feto è “tutto un occhio. Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa”. E questo in una visione claustrofobica, senza neppure la falsa prospettiva di una piazza appena accennata, in cui  viene avvertita l’inquietudine della guerra. Anche se, a differenza di tanti volontari,  de Chirico non andò al fronte ma fu destinato a un  ufficio nelle retrovie, e per questo riuscì a non interrompere del tutto la pittura nemmeno in quel periodo.

Abbiamo anche dei disegni in cui  si nota come sia mutevole il senso claustrofobico dell’addensamento in una stanza ristretta. Mentre in  “La sposa fedele” al mezzo manichino di spalle si apre la prospettiva di un corridoio con in fondo una finestra da cui si vede un alto palazzo con molte finestre e due ciminiere  svettanti, in “L’apparizione”  tanto il manichino seduto con la testa a uovo canonica che la figura eretta  a lui apparsa sono compressi in uno spazio di cui si avverte la ristrettezza  pur nei contorni sfumati; sono entrambi del 1917. Nel  1918 “La casa del poeta” e Consolazioni metafisiche”  presentano un assemblaggio di elementi, come gli immancabili biscotti “crumiri”,   in spazi limitati  e senza l’umanità, sia pure metafisica, dei manichini; ma in entrambi il vano di una finestra apre la vista sugli edifici all’esterno.

“Interno metafisico con faro” , 1918

In questi disegni vi è sempre “un incastro di squadre”  da disegno – altra peculiarità della metafisica “ferrarese” –  delle quali il Maestro pochi anni dopo, nel 1919, all’atto di operare una prima svolta radicale, scrive che le vedeva “sempre spuntare come astri misteriosi dietro ogni mia raffigurazione pittorica”. Sono parte integrante della struttura portante del celebre “Trovatore” , opera del 1917 in cui il manichino acquisisce solidità e  forza espressiva, con una  nobiltà che ritroveremo in molte varianti, da ”Ettore ed Andromaca” al “Figliol prodigo” e così via.  Inoltre si libera delle ristrettezze claustrofobiche,  è in uno spazio aperto, anche se quasi addossato alle arcate nell’ombra,  come in  “Les Printeps de l’ingégneur”, ma alle spalle ha uno scorcio di “Piazza d’Italia”  con la costruzione   conica  sulla destra.   

Spazio aperto anche in “Interno metafisico con faro”, ancora del 1918,  dato dal “quadro nel quadro” con l’immagine di un mare tempestoso e di un cielo con grossi nembi ispirata ad una cartolina, è il faro di Genova, omaggio alla città natale della madre; l’oppressione claustrofobica si avverte nella chiusura definita “asfissiante” in una stanza, ciò che piacque molto ai dadaisti, il tutto tra incastellature lignee e squadre da disegno. Saranno queste le architetture compositive di tanti altri “Interni metafisici”, il “quadro nel quadro” ospiterà ville e officine di varia natura e dimensione, ed anche carte geografiche in particolare delle zone irredente, c’è sempre la guerra in atto e de Chirico ne segue le vicende da molto vicino. Anche i suoi interessi artistici sono quanto mai vivi, al punto che Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire appositamente a Ferrara per avvicinarsi a lui, affascinato dalla pittura metafisica di cui diventerà per breve tempo esponente, al punto che i detrattori di de Chirico strumentalmente tentarono di dargli un’inesistente primogenitura. Con loro De Pisis, oltre al fratello di Giorgio, che si farà chiamare Alberto Savinio.

“Malinconia ermetica”, 1918-19

In  “Malinconia ermetica”,  1918-19, una scena classica, la testa riccioluta di Mercurio abbacinante nel  bianco del  marmo sembra affacciarsi  dall’esterno, con dietro un ”cielo appiattito nel tono intenso di lavagna” – sono le parole usate da  Carrà in “Valori Plastici” –  in un interno con una scatola, un biscotto e un giocattolo, per una “natura morta”  di cui il dio potrebbe essere visto sia come componente sia come osservatore, perché guarda gli oggetti dall’esterno.

Chiude la sezione “”Ritratto dell’artista con la madre”, 1919, con il significato di emancipazione dalla “centauressa”, lui raffigurato alla Nietsche come nell’”Autoritratto” del 1911. Sono trascorsi otto anni, lei ha l’espressione decisa come l’altra era mansueta. Barbero commenta: “Riprendendo un proprio dipinto, de Chirico mette già in atto un atteggiamento che caratterizzerà la sua produzione futura, quando replica negli anni venti le nature morte, negli anni quaranta la moglie stesa su una spiaggia e, dagli anni sessanta, reitera questi stessi anni ferraresi, epurati però, dal peso dell’enigma”. Ecco come questo avviene: “Ancora una volta de Chirico ritorna a sé, alla sua famiglia, per elaborare un cambiamento di rotta, già nell’aria sul limitare degli anni ferraresi  e che trova la sua ufficialità nella personale romana del 1919 con la mostra alla casa d’Arte Bragaglia, aprendo una nuova stagione di vita e di pittura tra l’Italia e Parigi”.

“Ritratto dell’artista con la madre”, 1919

Gli anni ’20, la svolta classicista

Questo “cambiamento di rotta” , che riflette il  “ritorno all’ordine” del dopoguerra,  è evidenziato nelle opere della  4^ Sezione della mostra, “Gli anni venti”, e ha inizio con un dipinto di  stampo classicista,  nel contenuto e nella forma pittorica, che rivoluziona radicalmente la forma metafisica in direzione inattesa. Riportandoci a quel 1919 potremmo dire che nell’arte di de Chirico “c’è qualcosa di nuovo”, anzi molto di nuovo rispetto al recente passato, aggiungendo però “anzi d’antico”. Sia perché l’“illuminazione” l’ha avuta a Roma davanti a un dipinto di Tiziano – come quella metafisica la ebbe a Firenze in piazza Santa Croce davanti alla statua di Dante –  entrambe le volte in preda a un malessere fisico; sia, e soprattutto,  perché il “ritorno all’antico” fu totale, al punto di effettuare copie  e “d’aprés” dagli antichi Maestri direttamente   nelle Gallerie espositive, come “La vergine del tempo” e “Diana”, La donna gravida”  da Raffaello-,  e “Ritratto d’uomo” dal “Ritratto di gentiluomo” di Lorenzo Lotto. 

In questo contesto si inserisce “Il ritorno del figliol prodigo” del 1919, che apre la svolta  classicista  con le due figure che si abbracciano ispirate  a Carpaccio, della Metafisica restano soltanto piccoli scorci di edifici sullo sfondo;  ma il “ritorno”  su questo soggetto non è definitivo, nel 1922 un manichino metafisico abbraccerà una figura pietrificata nel bianco statuario. A parte quest’evoluzione, la svolta è anche nella tecnica pittorica, con il ritorno ai materiali antichi, per questo utilizza la tempera, il tutto teorizzato anche nei suoi scritti, oltre che messo in pratica  nella sua nuova linea artistica di stampo neoclassico.

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“La sala d’Apollo (Violon)”, 1920

Le prime due opere dell’inizio degli anni ’20  esposte in mostra  “La sala d’Apollo (Violon)”, 1920, e ”L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco”, 1922,  presentate  insieme a Parigi nel 1925, hanno molte analogie: in entrambe c’è una testa classica scolpita, Apollo nel primo,  Niobe nel secondo,  sono poste su un’ampia superficie, nel primo un interno non certo claustrofobico per la sua ampiezza e per le due finestre rettangolari che fanno vedere il cielo, nel secondo una distesa aperta fino all’orizzonte con una barca in secondo piano e un bel cielo azzurro. Inoltre, nel primo davanti alle due teste scolpite un grande violino con lo spartito, a destra e a sinistra delle statue, mentre nel secondo  dei grandi pesci e una aragosta rossa, in una serenità veramente “olimpica”.

Nell’accostamento di oggetti non abbiamo più – osserva Barbero –  il non sense dell’abbinamento  torso-banane dell’ “Incertezza del poeta”, né il senso attribuito è incerto come l’allusione erotica che  abbiamo ipotizzato. Per il primo basta ricordare che Apollo era il dio della musica, in più il richiamo familiare oltre che classico della vocazione del fratello,  la sala potrebbe essere un tempio, le statue tra cui quella di Athena fanno sentire la Grecia di origine; riguardo al secondo l’abbinamento mare e barca con i pesci in primo piano è del tutto conseguente, la vela greca è anch’essa un ritorno alle origini, si sente aleggiare il mito dell’Odissea.

“L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)”,1922

Del resto, è del 1912-22 Ulisse”, ripetuto con la variante di una tenda sulla sinistra nel 1924, ci sono delle assonanze con  “Odisseo sulla riva del mare” di Blocklin, 1869, nella figura barbuta e nella posizione seduta,  a parte le braccia collocate molto diversamente. E’ una figura primitiva, quasi primordiale,  che Sergio Solmi ha definito “corpo contorto e faunesco, addossato a un cupo lauro, da fiori ardenti”.  Un autoritratto ideale, che precede l’identificazione nel viaggio sulla barchetta di Ulisse-Ebdòmero nella propria camera,  molti anni più tardi? Di certo il Maestro scriverà, vent’anni dopo,  a proposito del nudo in pittura – e “Ulisse” è un nudo – “che l’uomo conosce meglio d’ ogni altra cosa  il proprio corpo; egli lo conosce così bene perché  è il suo corpo è quello che gli è più vicino e più caro”, si vedrà anche nel suo celebre “Autoritratto nudo” del 1943, oltre che in quelli così numerosi e spettacolari in costume teatrale.

A proposito di “Autoritratto”, quello del 1924-25  che si trova in questa sezione si differenzia radicalmente da quelli precedenti e da quelli successivi, per il busto raggelato quasi in una statua di sale, le mani innaturali, addirittura Barbero vede nella destra “vagamente la forma di un Prigione  in contorsione, mentre la sinistra sembra un guanto appoggiato su una tavola”; e sappiamo come i guanti abbiano un ruolo peculiare tra i tanti oggetti che popolano le sue visioni pittoriche, come nell”enigmatico “Chant d’amour”. E’ un ”Autoritratto”  importante perché con esso “si toglie il busto ortopedico” della metafisica, secondo Cocteau, tanto che Barbero lo definisce “un punto di approdo  rispetto  a un percorso di radicale stacco dalla metafisica iniziato in quel decisivo 1919”, spiegato così: “Esaurisce insomma il tema dello spazio metafisico ed entra nella grande pittura, folgorato dai maestri antichi, da quel  Ritorno al mestiere auspicato nella pagine di Valori Plastici fin dal 1919 con una profonda attenzione alla tecnica pittorica…”. Un svolta impegnativa, descritta così: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile. Ci vorrà tempo e fatica”, e in questo lavoro “i nostri pittori dovranno stare oltremodo attenti al perfezionamento dei mezzi: tele, colori, pennelli, oli, vernici, dovranno essere scelti tra quelli di migliore qualità”, cosa che fece lui stesso. 

Le altre opere della svolta classicista esposte sono due  composizioni su figure mitiche dell’antichità e  tre rappresentazioni di ville romane in cui l’elemento mitico e leggendario è sempre presente.

“Ulisse”, 1921-22

“Lucrezia”, 1922, e ”Oreste ed Elettra”, 1923, sono espressive del ritorno all’antico e al classico, nel contenuto e nella forma pittorica, con la  mitologia romana che si aggiunge  a quella greca, e non in modo reiterativo, bensì creativo, come “inventore dei temi eterni della pittura”. “La Lucrezia dechirichiana –  è ancora Barbero – è una scultura vivente, tutta  tornita intorno alla smorfia che ha impressa sul volto, al piccolo stiletto anodino, ai piedi quasi animali e ridicoli, e a quello sguardo vivo,  teatrale e annoiato che la rende interprete  di un dramma contemporaneo”, evoca “la crudezza eburnea macchiata di carne delle più secche eroine di Lucas Cranach”, viene paragonata anche a Niobe. Oreste ed Elettra  segue “modalità teatrali” nelle due figure in forte contrasto cromatico, con lei consolatrice solida come una statua, lui disperato nella sua nuda fragilità,  viene definito “quadro sintomatico ed esplosivo quanto carico di rimandi alle radici della pittura italiana”.

Ancora più espressive, in termini di  adesione al classicismo, le  Ville romane con le chiome folte degli alberi, l’opposto rispetto alla geometrica essenzialità delle”Piazze d’Italia”  con le linee precise  e le ombre nette, lo spazio spoglio e le minuscole figure umane nella sospensione metafisica; ora ammira, e lo scrive,  come avveniva per i pittori antichi, “la bellezza eccezionale degli alberi, specie dei lecci, delle querce e dei pini marittimi, l’aspetto suggestivo ed evocatore dei ruderi, dei resti d’una vita che fu, sparsi tra la natura”. Uno  scenario naturale  reso favoloso dai  cavalieri, con i loro destrieri, ancora nel segno del viaggio, questa volta via terra in chiave cavalleresca-medioevale e non via mare come in “Ulisse” e negli Argonauti.  

“Oreste ed Elettra”, 1923

Barbero cita il suo giudizio sulle interpretazioni della natura di Courbet, che “rivelano l’aspetto fantastico e lirico del mondo”, e  gli attribuisce “un lirismo elegiaco che ricorda  molto da vicino i brani paesistici di Poussin e Lorrain, e prima ancora dei Carracci”, in particolare Annibale Carracci nella  natura rigogliosa  c’è la presenza delle opere dell’uomo.  Ciò che domina è la maestosità degli alberi e  degli edifici: in “Villa romana” e in “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” , del 1913, le fronde rigogliose nascondono quasi totalmente l’architettura, che invece domina in “Ottobrata”, del 1914, dove –  sono parole del Maestro – “l’aspetto architettonico ha un senso romantico e avventuroso”-  Raffaele Carrieri la definirà molti anni dopo “pittura felice e tranquilla, ma che serba in sé un’inquietudine come nave giunta  al porto sereno d’un paese  solatio e ridente dopo aver vagato per mari tenebrosi o aver attraversato zone battute da venti contrari”; e, nello specifico, rileva che  “figure e  cose appaiono come lavate  e purificate e risplendenti d’una luce interna”, concludendo con questa definizione: “Fenomeno di bellezza metafisica che ha qualcosa di primaverile e di autunnale nel tempo stesso”.  Quasi un ossimoro parlare di “bellezza metafisica” per  un’opera classicista nel contenuto e nella forma pittorica, ma non lo è se si pone a mente alla “metafisica continua” di de Chirico, celebrata nella mostra di Genova, cui ci siamo sentiti di aggiungere  “classicità continua” per la compresenza delle due visioni ideali e artistiche.

Negli stessi anni ’20, il ritorno della Metafisica

Non solo elementi classici nelle opere metafisiche  ed elementi metafisici nelle opere classiciste, anche  compresenza, negli stessi anni ’20, delle due espressioni pittoriche così divergenti; come del resto in Picasso, tra cubismo e neoclassicismo. Nonostante la svolta del 1919,  la produzione metafisica non si è arrestata, nella concezione di Nietsche secondo cui  “il passato  e il presente sono sempre la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono … una struttura immobile  e di significato diversamente uguale”.

“La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)”, 1923

Anzi, dopo l’esplosione classicista troviamo sin dai primi anni ’20 ma soprattutto dalla metà in poi, una nuova ondata  metafisica, anche se limitata ai  manichini e in forme spesso  più morbide e arrotondate. Carrieri,  nel 1942, scrive: “Il manichino di de Chirico più che un vero  e proprio personaggio è un veicolo plastico. La sua struttura complessa ed elementare. E’ una macchina, ma è anche un essere soprannaturale, uno scheletro ragionato, una specie di androgino matematico composto di squadre, con una testa ovale senza lineamenti e con un profilo proiettato”. Dopo questa descrizione commenta: “Ha qualche cosa di solenne e di conturbante. Un’idea fissa. L’involucro di un eroe antico  o futuro non ancora identificato”.

Lo vediamo in “Il figliol prodigo”, 1922, in cui ricompaiono alcune arcate delle “piazze” ma con uno sfondo collinare quattrocentesco, il figlio è un classico manichino dalla struttura fragile rispetto al padre solido come una statua di marmo nel suo biancore. E in due versioni di  “Ettore ed Andromaca”, in quella del 1923 c’è minore metafisica, la figura di lei, con la veste che avvolge il corpo rotondo e statuario,  nasconde  in parte lui, manichino appena accennato armato di lancia; mentre la versione del 1924 ha tono teatrale, nell’abbraccio plateale tra lei, questa volta in un’ampia veste svolazzante, più classica che metafisica,  e lui, perfetto manichino geometrico, con dei cavalli di sfondo sulla sinistra,  le mura di Troia con una torre metafisica sulla destra.

Dall’evocazione dei personaggi più amati dell’Iliade  al loro creatore con “Homére”, che segna la boa del 1925, una sorta di statua votiva  spicca in un interno tenebroso,  seduto  con i libri nel torace – forse l’unico segno metafisico —  e  il corpo raggelato nella pietrificazione che abbiamo già notata  nell’”Autoritratto” del 1924-25.

“Ettore e Andromaca”, 1923

In questo periodo, tra il 1921 e il 1924, si logora il rapporto con Breton, il “guru” dei surrealisti che aveva inneggiato alla Metafisica di de Chirico come surrealista per eccellenza e aveva rilevato nel 1921 a un prezzo irrisorio – svolgeva anche attività di mercante – il gruppo di opere incompiute che Ungaretti, per conto dell’amico rientrato in Italia per il servizio militare, aveva depositato presso Paulhan. In seguito, le insistenti richieste di Breton di avere un quadro metafisico a un prezzo inferiore a quello richiestogli dai collezionisti che ne disponevano, indussero de Chirico a preparare per lui a un prezzo modico una copia di “Le Muse inquietanti” e dei “Pesci sacri”; non solo si fece autorizzare dal proprietario Castelfranco, ma dichiarò  che le copie “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”, cioè una nuova versione. Paradossalmente ciò segnò dopo poco tempo la fine del loro rapporto, forse perché Breton  temette di essere soppiantato, come esclusivista di de Chirico, dal  mercante Léonce Rosenberg che appena  presentatogli proprio da lui, gli aveva organizzato  una mostra  a Parigi nel maggio 1925, oltre che da Guillaume, come del resto avvenne.  L’accusa infamante di aver  falsificato “Le Muse inquietanti” – forse da Breton venduto come originale e sconfessato dall’esposizione in mostra proprio dell’originale – fu l’inizio della fine, lo scontro fu molto aspro, de Chirico certamente non porse l’altra guancia, Fabio Benzi ne ha documentato con cura tutte le fasi.

Torniamo all’arte, nella seconda parte del decennio – sempre più inserito a Parigi dove è tornato al termine del servizio militare – protagonisti sono ancora i manichini, ma in posizione seduta, sembrandogli quelli in piedi assimilabili alle marionette, in un assetto desunto dalle sculture dei santi nelle cattedrali medioevali per accrescerne l’autorevolezza. Così i “Manichini in riva al mare” , 1926, nel torace un addensarsi di scatole come ex voto, due figure separate su una passerella. In questi dipinti, ma ancor di più nei successivi, spiccano i caratteri da lui descritti nel 1938 in “La nascita del manichino”: “Le gambe molto corte coperte dalle pieghe dell’abito…   le braccia naturalmente s’allungano in proporzione al tronco”. 

“Homére”, 1925

Lo vediamo nel trittico “The philosopher”, 1927,soprattutto nella sezione centrale dove gli arti sono ben visibili, nel torace incorporati libri, maschere, pergamene e non solo; nelle due sezioni laterali, con analoghi accumuli di libri e altro nel torace, notiamo linee arrotondate a anche vaporose di  richiamo classico, il ritorno  metafisico deve fare i conti con la forte spinta classicista.  “L’archeologo”, dello stesso anno,  rafforza questa constatazione, addirittura Barbero lo definisce “un capolavoro di classicismo evocato sia dalla posa del manichino sia dalla presenza  delle rovine incastonate nel suo ventre”; e aggiunge che “de Chirico ne stravolge la posizione, lo adagia, facendogli prendere dunque le distanze  dalla legnosità della marionetta  per assumere l’aria pacata e imperturbabile dello sposo nel sarcofago etrusco”.

Invece nell’anno precedente, 1926, due opere con tutt’altro segno- In “Manichini guerrieri (due archeologi)” , non solo  non ricorrono le rotondità del “Philosopher” e dell’”Archeologo” dell’anno successivo, ma non c’è neppure la secchezza geometrica del manichino metafisico, sono due figure spettrali come percorse da una scarica elettrica in uno spazio claustrofobico, definito dal Maestro poco più di dieci anni dopo  “un fenomeno del più alto interesse metafisico”; nei loro corpi scomposti  è stato visto un collegamento con il cubismo di Braque,  non amato da de Chirico, a differenza di Picasso. 

Nello stesso 1926 ci sono anche gli  “Archeologi misteriosi”,  due forme speculari, una nera e l’altra bianca, che si contrappongono come fantasmi dall’effetto  inquietante, in un interno dai contorni evanescenti come l’orizzonte che si apre: “Le figure danno l’idea di sculture di pietra – ha scritto Ternovetz nel 1928 – esse sono come inchiodate alla terra, crescono dentro la terra…”.

E’ l’anno dei “trofei”, in primis il “Trofeo”  per antonomasia, di cui de Chiricosottolinea, per bocca di Ebdòomero,  “l’omogeneità e la monumentalità armonica formata da elementi disparati ed eterogenei” culminanti in “una cittadella, con i suoi cortili interni e i suoi giardini oblunghi e geometrici, che assumevano la forma severa di baluardi”; Barbero rileva che “scimmiottano le panoplie di trofei romani gli elementi impilati nel ‘Trofeo’” e osserva che “la prospettiva, quasi aerea, confonde la vista su una vallata popolata di colonne  e templi”.

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“The philosopher”, 1925

Anche “La notte di Pericle”. dello stesso 1916,  è assimilata a un trofeo, formato da una catasta di scatole con in cima un piccolo tempio, su uno sfondo nero,  mentre dell’eroe ateniese si vedono appena i contorni del corpo in una figurina evanescente  incorniciata sopra il cumulo. Forse perché nell’anno precedente, con “Pericle”, 1925, abbiamo la sua figura  con un elmo corinzio, l’aspetto statuario è attenuato dalla testa reclinata, quasi si sentisse abbattuto,  e  soprattutto da quella che Barbero definisce “una sorta di vestaglietta a fantasia variopinta che risalta ulteriormente nel contrasto con l’incarnato di pietra”.  In tal modo “de Chirico tiene viva quella nota dissacrante  e ironica che adotterà a breve anche per i propri autoritratti in costume”. In Facitori di trofei”, 1925-28, invece, le tre figure in piedi  che hanno costruito l’assemblaggio trionfale di scatole e oggetti non hanno “l’incarnato di pietra”, e dei  manichini c’è solo la testa a uovo, per il resto colori,  calore della carne e  forma umana  anticipano i successivi “gladiatori”, sono quasi degli infiltrati in una composizione ancora metafisica.

Come avviene per  l’ “Interno metafisico con testa di filosofo”, 1926, dove non vediamo né la verticalità dei trofei, e neppure il non sense della distribuzione “ferrarese”, anche perché non sono oggetti da vetrina ma colonne, vassoi,  quadri e scatole, fino a un tempietto,  per Barbero “l’impianto è fuori controllo e l’equilibrio compositivo tocca un picco d’instabilità”.  La testa di filosofo in primo piano, nonché i quadri addirittura riferibili a Max Erst e la sagoma nera ad Apollinaire, insieme con i reperti archeologici e il tempio che evocano la Grecia rimandano alla memoria  che, secondo Fossati, “è condizione dell’agire,  permea la volontà, le fornisce forza e direzione” e viene precisata così da Barbero: “Memoria di quei lontani templi greci che ne hanno popolato l’infanzia, un ricordo rinverdito dalla Magna Grecia, che con i suoi resti ha rappresentato una fonte costante e un rassicurante legame alle sue duplici radici”. 

Torna così la “mitologia familiare” da cui siamo partiti, ma il nostro viaggio nel mondo di de Chirico continua, prossimamente le scoperte finali.

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“Manichini in riva al mare”, 1925

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero. Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “ trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: l’articolo precedente è uscito in questo sito il 22  novembre scorso, il 3°  e  ultimo uscirà il 26 novembre, a conclusione del  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013;  in cultura.inabruzzo.it, Cranach 10, 11 gennaio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010,  Picasso 4 febbraio 2009  (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le 3  sezioni intermedie della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo, tutte tranne una  (perché in doppia pagina), si ringraziano  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta, e il titolare del sito dal quale è stata presa l’immagine n. 7, ilnotiziariodicortina.com, per la sua disponibilità “on line”, pronti a rimuoverla su semplice richiesta. Tutte  le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Il pomeriggio soave” 1916; seguono, “Il saluto dell’amico lontano” 1916, e “Interno metafisico con faro” 1918; poi, “Malinconia ermetica” 1918-19, e “Ritratto dell’artista con la madre” 1919; quindi, “La sala d’Apollo (Violon)” 1920, e “L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)” 1922; inoltre, “Ulisse” 1921-22, e “Oreste ed Elettra” 1923; ancora, “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” ed “Ettore e Andromaca”, 1923; continua, “Homére” e “The philosopher” , 1925; infine, “Manichini in riva al mare” e, in chiusura, “Archeologi misteriosi” , 1926.

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“Archeologi misteriosi”, 1926

De Chirico, IV. 1. Dalla Grecia a Parigi, nasce la Metafisica, al Palazzo Reale di Milano

 di Romano Maria Levante

La  mostra “De Chirico” espone al Palazzo Reale di Milano  –  nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 –  più di 100 opere provenienti da ben 59 musei e collezioni private, numero di prestatori che dà un’idea dell’imponente impegno organizzativo in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza,  e con l’appoggio di numerose gallerie d’arte  e studiosi, curatore Luca Massimo Barbero.  Otto sezioni tematiche raggruppano le opere in un itinerario riprodotto  nel ponderoso Catalogo Electa, a cura dello stesso  Barbero, arricchito  dalla sua accurata ricostruzione, con saggi specifici per ogni sezione, delle  diverse fasi  dell’”opera e della vita” del grande Maestro. come culmine della celebrazione del 2019.

Autoritratto”,1912-13

La  nostra” trilogia” de Chirico  si è dipanata nelle ricorrenze della scomparsa e della svolta,  attraverso la documentata  ricostruzione da parte di Fabio Benzi della “Vita e l’opera”  del  Maestro, seguita dalla mostra di Genova sulla “Metafisica continua” e dalla mostra di Torino sul “Ritorno al futuro” dell’arte contemporanea, con gli epigoni di de Chirico.

Il ciclo celebrativo sembrava concluso quando, alla fine dell’ultimo trimestre dell’anno,  il colpo di teatro, la mostra di Milano intitolata semplicemente “De Chirico”, il botto finale dei fuochi d’artificio artistici dechirichiani che hanno illuminato l’intero 2019.  Per cui alla trilogia si aggiunge un’ultima componente, il quarto petalo del “quadrifoglio”,  l’asso finale nel “poker d’assi” giocato dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, il cui presidente, Paolo Picozza,  la definisce  “esposizione ambiziosa” dove  “il presente e il passato coincidono nel racconto espositivo dell’opera e della vita di Giorgio de Chirico”.

L’”opera  e la vita”, dunque,   come “la vita e l’opera”  nella ricostruzione di Fabio  Benzi.  Qui è il curatore della mostra Luca Massimo  Barbero ad operare una ricostruzione parallela, nelle 8 sezioni della mostra, ciascuna introdotta nel sontuoso Catalogo da una sua dotta e documentata analisi, frutto di una ricerca altrettanto approfondita che rivela altri aspetti di un protagonista del ‘900 fonte di continue scoperte e sorprese sulla sua proteiforme espressione artistica.

Avevamo detto che de Chirico avrebbe definito  la  ricostruzione di Benzi  “Il film della mia vita” perché  l’itinerario esistenziale e artistico è accompagnato dalle illustrazioni con i dipinti che ne scandiscono i tanti momenti; ebbene, nella mostra è come se quel film venisse proiettato, con un diverso autore e regista ma con lo stesso protagonista  assoluto del XX secolo dove – sono parole di Barbero – “solo due grandi gladiatori si sono contesi l’invenzione di un nuovo mondo: la realtà smisurata di Pablo Picasso e l’universo inventato e demoniaco di Giorgio de Chirico”, nei modi diversi ma convergenti definiti così da Ester Coen: “Picasso smonta per riassemblare,  de Chirico assembla per smontare”, cioè, aggiunge Barbero, “de Chirico è in grado di trasporre in emblema, in immagine, tutta la recente tradizione”.  E questo trattandosi di “un antesignano e un anticipatore”: parte da Giotto e crea le premesse per il surrealismo, mentre la sua pittura è “popolata  di archeologi, manichini, cavalli al galoppo su spiagge di gesso e interni colmi di oggetti. Il mondo di de Chirico è abitato da gladiatori, impegnati in combattimenti farsa, dai corpi deformati come gomma fusa, colli ipertrofici, giochi tra animali preistorici e abitanti di Marte che si aggomitolano e s’imbrogliano l’uno l’altro”.

“Les plaisirs du poète”, 1912

Una visione cinematografica della  galleria di opere, questa di Barbero, che apre il “Film della mia opera”, direbbe il maestro, dopo la definizione del  libro di Benzi  “Il Film della mia vita”.  Vita  e opera, del resto,  strettamente connesse, di cui Barbero ci dà una nuova, intrigante visione.

Partiamo dalle immagini delle opere esposte nelle 8 sezioni per risalire alla vita,  seguendo l’approfondimento di Barbero, come siamo partiti dalla vita per commentare le opere seguendo la ricostruzione di Benzi nella prima parte della trilogia.  Iniziamo  dalle prime 2  Sezioni, per far seguire poi una visione d’insieme delle altre 6 sezioni, con una carrellata di un’opera a sezione, per delineare le successive tappe di un itinerario tanto movimentato nell’arte e nella vita.

Tra la mitologia e l’autobiografia,  fino all’illuminazione  metafisica

Le prime due opere della 1^  sezione“La nascita di una mitologia familiare”, sono  la “Lotta di centauri”,  e il  “Centauro morente”, del 1909,  espressive dell’avvio del  suo itinerario artistico ed esistenziale,  tra Monaco dove,  dopo la morte del padre,  era approdato insieme alla madre e al fratello ma poi rimase solo, e Milano, dove i suoi due familiari si trasferirono perché in Italia c’erano migliori prospettive nel campo musicale nel quale cercava di affermarsi il fratello. Fu una fase con un forte influsso tedesco, che inizia già in Grecia dove nel suo apprendimento  accademico fu fortemente influenzato da docenti formatisi in Germania, nelle Accademie d’Arte. 

A Monaco trovò una nuova patria, legata al passato in senso classico ma radicata nel presente in senso romantico.  Poté approfondire, nella loro terra, il pensiero filosofico di Nietsche e Schopenauer,  la Germania era anche la  nazione  in cui  nel 1892 c’era stata  la “Secessione” nell’arte, imperava il simbolismo al quale Blocklin, cui si ispirò visibilmente, aveva dato un’ impronta, non più letteraria, ma riferita alla mitologia rivissuta in chiave contemporanea con una intensa  drammaticità espressa  nel linguaggio pittorico oltre che nel contenuto. Anche Klinger fu un suo ispiratore, specie per i due dipinti citati, scossi da  una violenza ancestrale:  lo scontro belluino nel primo, tra figure protese in una fisicità esasperata,  il corpo quasi dissolto  nel secondo sulla terra dove giace riverso in uno scenario che oggi definiremmo lunare nella sua asprezza e solitudine, c’è anche il riflesso autobiografico della morte del padre, ed è quasi un’anticipazione del terzo dipinto.  

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L’enigma di una giornata” , 1914

Quindi non vanno visti soltanto in chiave artistica, bensì anche in chiave personale. La lotta dei centauri richiama quella mitica tra loro e i guerrieri lapiti nella Tessaglia, la terra del suo luogo natale,  Davos, il centauro morente ricorda il padre,  per cui, osserva Barbero, “il tema mitologico sviluppa dunque anche una dimensione psichica  che rende ogni dipinto un tassello della variegata vicenda biografica dell’artista”.  Al  mondo “olimpico” della  patria di origine si sovrappone l’ideale romantico della terra di adozione, e non c’è cesura tra le due visioni, derivando anche la seconda dalla terra di Grecia culla della civiltà.

Il mondo primigenio, in una chiara trasposizione autobiografica, è in chiara evidenza nella terza opera, dello stesso 1909, La partenza degli Argonauti”, dipinta all’arrivo a Milano.  Dal cupo dramma dei centauri, ambientato negli stessi luoghi con il monte Polio a lui familiare, con il centauro morente, evocativo della grave perdita sofferta,  a un’immagine che ne è quasi la conseguenza. La partenza ormai indifferibile dei fratelli, impersonati negli Argonauti – venendo meno i motivi della permanenza in Grecia rispetto ai richiami di altre terre per il loro futuro – “cela un’apparente quiete, incarna il senso del tempo dechirichiano, che è idillio e al contempo presagio del principio di una grande avventura”. E’ quella di Giasone alla conquista del vello d’oro, cui si  richiama quella  dei fratelli de Chirico, “esploratori pronti per nuove partenze”,  nelle parole di  Giorgio  del 1918. “Il viaggio degli eroi verso l’ignoto diventava la metafora  dell’avventura intellettuale dei due fratelli per terre straniere”, commenta Barbero. E ricorda la figura di  Medea,  protettrice di Giasone, interpretata dalla Callas nel celebre  film di Pasolini, in cui il “presagio della tragedia, nel cinema come nella pittura dechirichiana, è dato  da una dimensione meta-antica”.

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L’enigma del cavallo”, 1914, particolare

Non solo nella tragedia, anche nei temi familiari torna la dimensione meta-antica, come nel “Ritratto del fratello Andrea”, 1909-10, l’intera figura è vista di profilo davanti a una finestra in atteggiamento teatrale, mentre sullo sfondo  si intravede un piccolo centauro, quasi un “memento”. Il legame con il fratello è stato forte, soprattutto nella prima parte della vita con le comuni peregrinazioni nei trasferimenti da una città all’altra, da una nazione all’altra, e anche nell’arte con le anticipazioni del fratello nei suoi scritti di temi e motivi da lui sviluppati nelle sue opere. Si raffigurerà  con lui nel 1924 in “Autoritratto con il fratello Andrea ‘I due Dioscuri’)”.  

L’”Autoritratto  (‘Et quid amabo nisi quod aenigma est’?)”, del 1911 , ci fa entrare ancora di più nella sua compenetrazione con il mondo tedesco, questa volta nel versante filosofico di Nietsche, la testa di profilo  appoggiata alla mano come in una celebre immagine del filosofo,  il profilo è dalla parte opposta, con la scritta sull’enigma che accentua l’identificazione. “Il dipinto – per Barbero – segna l’evidente superamento di una dimensione simbolica per un primo passo verso l’eterno enigma della metafisica, muovendo però dalla grande stagione della pittura rinascimentale”. Nello stesso anno Ritratto della madre”, “a sancire la granitica presenza della centauressa anche in questi anni parigini”, che sono solo agli inizi, ma già entra in  contatto con il poeta Apollinaire che avrà su di lui grande influenza,  aggiungendosi a quella tedesca, da Nietsche a Shopenauer. 

Mentre in un altro “Autoritratto”, del 1912-13, è di profilo come Nietsche, ma senza appoggiare la teta alla mano, forse perché il richiamo non serve più, al margine posteriore si staglia visibile per metà una  grande torre  conica da “Piazza d’Italia”: entriamo così  nella dimensione metafisica.

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Le matinée angoissante”, 1912

E’ Torino, “la città che gli si apre come un teatro”,  a impressionarlo fortemente, nella sosta di due giorni che vi fece nel 1911 in viaggio da Milano a Parigi, visitando l’Esposizione per il cinquantenario dell’Unità d’Italia; pur nel clima patriottico della celebrazione si fa fotografare sotto la statua di Nietsche che, come ebbe a scrivere, “fu il primo a sentire l’infinita poesia che si sprigiona  da questa città tranquilla ed ordinata, costruita su una pianura adorna di dolci colline, di parchi romantici, di castelli e di palazzi solenni… E’ stato Nietsche che per primo indovinò l’enigma di quelle vie dritte, affiancate da case rette da portici”.

 Questo  mistero irrompe nei dipinti del 1912,  “Les plaisirs du poete”,. e  “La matinèe angoissante”, e del 1914, “L’enigma di una giornata” e  “L’enigma del cavallo”, è l’esplosione  della pittura metafisica con le  “Piazze d’Italia” , dopo la “rivelazione” nella Piazza di Santa Croce a Firenze davanti alla statua di Dante evocata in “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” dell’ottobre-novembre 1910, non presente in mostra. Nelle opere esposte ci sono tutte o in parte e in vario modo le ombre nette e  le arcate profonde, le minuscole figure umane disperse nel deserto assolato, il treno sbuffante;  al centro  una figura statuaria o  una fontana: c’è la sua Metafisica.

Apollinare scriverà nel 1913 quella che sembra una descrizione fedele dei quadri creati  l’anno precedente: “Sono stazioni ornate da un orologio,  delle torri, delle statue, delle grandi piazze deserte; all’orizzonte passano dei treni ferroviari”. L’artista ha voluto rendere “il senso profondo delle cose, che Briganti nel 1979  identifica “nel fantasma letterario della malinconia e della meditazione, in nostalgiche scenografie di sfuggenti  spazi deserti, nel vuoto di favole e mitologie senza tempo, nell’assenza di vita e nel silenzio, nel fascino immaginato di un clima sentimentale che non ha riscontro nella realtà ma solo nella memoria”.

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La surprise”, 1912

Gli “enigmi” della metafisica, tra malinconia e ansia dell’ignoto     

A “Parigi la concretizzazione dei misteri”, il titolo della 2^ Sezione è misterioso esso stesso, trattandosi di un ossimoro, i misteri sono per loro stessa natura astratti e imperscrutabili, ma proprio per questo rende alla perfezione l’ “enigma” della metafisica, l’immaginario calato nella realtà.

La malinconia evocata da Briganti si trova negli scritti poetici di de Chirico, quando parla di “pensate d’amore e di malinconia/ la mia anima si trascina / come una gatta ferita/… Bellezza delle  alte ciminiere rosse./ Fumo solido./ Un treno fischia. Il muro”; e pervade le sue opere di quegli anni. Alta ciminiera rossa,  fumo, treno che fischia e muro in “La surprise”, 1913, con in più mezza statua e un cannone,  che evoca ricordi familiari essendo l’unica arma citata dal padre anche perché era a difesa  delle città sul mare dalle invasioni,  e insieme memorie di una storia partecipata, la guerra greco-turca;  due minuscole figure umane dalle lunghe ombre rendono la solitudine e l’abbandono, in una composizione di taglio verticale.

E’ una  malinconia velata di nostalgia:  giunge a Parigi il 14 luglio 1911, nel giorno della grande festa nazionale dei francesi, dopo la Grecia, la Germania e l’Italia, che hanno lasciato un segno dentro di lui, e anche se ha conosciuto attraverso Soffici  la pittura di “Rousseau” il Doganiere, è un mondo nuovo nel quale è deciso a inserirsi esponendo i suoi quadri e frequentando gli ambienti artistici. Non si lascia influenzare – come invece avviene per la gran parte degli artisti approdati in Francia – né dai grandi del momento né dalle avanguardie, e questo viene apprezzato da Apollinaire che nel 1913 scrive di lui: “Non viene né da Matisse né da Picasso, e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova che merita di essere segnalata”.  

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“L’incertezza del poeta”, 1913

Frequenta  la sua casa e riceve in anteprima per una lettura privilegiata le sue  poesie, tra cui il poema simbolico e autobiografico “Le poete assassinè” nel quale l’autore  è impersonato nel protagonista, “il divinatore del tempo”, e ispira nel 1914 il “Portrait de Guillaume Apollinaire” in cui de Chirico lo raffigura  con un bersaglio sulla tempia,  punto in cui poi fu  ferito in guerra;  non fu premonizione, l’immagine era nel poema,  Apollinaire la definì “opera singolare e profonda”.  Alla sua morte, nel 1818, de Chirico scrisse di lui: “…un uomo macerato nel bagno caldo della malinconia universale. Di malinconie ne conosceva più di una; anzitutto quella del senzapatria”, da lui esule condivisa,  con “le spirali della sua cronica malinconia di poeta dal destino triste”.  

Allontaniamo la malinconia con l’arte, sottolineando come sia originale il posto della scultura nei  dipinti di de Chirico. La  scultura nella pittura  in diverse modalità compositive, a partire dalla statua monumentale, è utilizzata in termini  quanto mai innovativi, sebbene possa sembrare un residuo passatista, e proprio per questo è più intrigante. Cristina Beltrami   osserva che, dopo la prima fase di  “mitologia familiare”, “negli anni di elaborazione della pittura metafisica il monumento diviene l’elemento imprescindibile  che connota le sue piazze assolate come italiane, e tocca dunque la nodale questione dell’appartenenza nazionale”. E aggiunge: “La scultura diviene poi il dispositivo visivo che crea i cortocircuiti logici degli anni ferraresi e muta in una presenza ironica, enigmatica certo, ma soprattutto beffarda, a partire dagli anni venti; momento in cui egli stesso si ritrae in un processo di pietrificazione”.

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“Le printemps de l’ingénieur”, 1914

Tornando alle opere,  c’è  una torre conica bianca, come quella visibile  a metà nell’“Autoritratto” prima  citato invece della ciminiera rossa, ma sono presenti gli altri elementi con una fuga di arcate nell’ombra,  in  “Ariadne”, 1913. La malinconia si incarna nella statua di  Arianna addormentata, distesa al centro con la testa reclinata e il braccio che la circonda, intorpidita dal dolore  per l’abbandono da parte di Teseo che aveva aiutato a uscire dal labirinto,  dopo l’uccisione del Minotauro: “Sonno e sogno – ha scritto Paolo Fossati –  sono condizioni di malinconia, di nostalgia per una inafferrabilità…”.  Arianna torna spesso nelle “Piazze d’Italia”,  anche in atteggiamenti meno remissivi, del resto fu risvegliata da Bacco, e la coppia Bacco e Arianna è entrata nella leggenda superando l’abbandono di Teseo,  ancora il mito, dunque, sull’onda dei versi immortali di Ovidio.

Scenario analogo, arcate sulla destra, muro nello sfondo con il treno sbuffante e in più una vela bianca, in “L’incertezza del poeta”, sempre del 1913, ma alla malinconia di Arianna abbandonata si sostituisce l’enigma  del busto di statua femminile mutila di testa ed arti affiancata da banane, si distinguono tre caschi e una banana isolata.  Barbero si  richiama alla “disposizione delle cose” –  altro motivo saliente della sua poetica artistica – che “grazie alle associazioni spaesanti e inattese degli oggetti, tocca le corde  della psiche più profonda e rivela quel demone celato dietro l’apparenza delle cose sulla quale si reggerà l’impalcatura, visiva e teorica, della metafisica”. Lo stesso de Chirico, in uno scritto tra il 1911 e il 1913, aiuta a capire ciò che in apparenza è incomprensibile: “Sentimento africano. L’arco è là da sempre. Ombra da destra, a sinistra… Una vela; naviglio dolce dai fianchi così teneri. Treno che passa: enigma. Felicità del banano; voluttà di frutti maturi, dorati,  dolci”.

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L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”,1915

In aggiunta a questa precisa  descrizione, aiuta ad interpretare questo e altri dipinti sulla stessa linea compositiva quanto scriverà nel 1943  nel “Discorso sul Meccanismo del pensiero”: “Le immagini che passano nella nostra mente prendono la forma di immagini visive, tattili, uditive, olfattive e del senso del sapore… Cerchiamo ora di analizzare le immagini esistenti nel nostro spirito e raffiguranti dei concetti, dei sentimenti o delle idee metafisiche. La visualità cerebrale è molto più sviluppata delle visualità dei nostri occhi. La fantasia ci aiuta a creare queste immagini, o visioni, che a volte sono strane e poco assomigliano alla realtà. Sono immagini che piuttosto somigliano a un sogno e la loro chiarezza e la loro precisione variano come nei sogni”. Forse la “voluttà di frutti maturi, dorati e dolci”, come le banane, si associa a un sogno erotico, il busto femminile, sia pure statuario, ci ricorda un’antica vignetta della nostra adolescenza, con un analogo busto femminile mutilo e la scritta allusiva “parto ma ti lascio la parte  migliore di me”.

L’anno successivo, in “Le  printeps de l’ingénieur”, 2014, le arcate nell’ombra,  bene in vista nei due dipinti del 2013 appena citati, pur se in primo piano e non sulla destra ma frontali, quasi “una quinta occlusiva”,  scompaiono nel “senso nascosto delle cose” evocato da Fagiolo dell’Arco; perché irrompe il “quadro nel quadro” –  che diventerà abituale in questo periodo – con un’immagine  luminosa, definita “presenza fantasmica”, che evoca “una Grecia perduta, una primavera della vita e dell’esistenza incarnata da una dea, quando l’ingegnere – il padre – era ancora presente”.  Resta la “mitologia familiare” al centro, fatta di leggende ancestrali e di memorie personali, ma in questo caso si aggiunge un senso claustrofobico, per il momento scacciato dalla luce della dea, ma che torneerà in modo sempre più pressante.

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“Il Trovatore” ,1917

Barbero lo definisce “un dipinto rivelatore, grazie al quale si comprende la regia che sottenderà le prospettive metafisiche ferraresi, con un punto di vista infinitamente più prossimo all’osservatore”. E  ne descrive  gli elementi innovativi: “Non c’è più l’allungamento e lo spaesamento creato dall’ombra, l’inquietudine data dallo spazio aperto e silenzioso, ma sarà una contrazione di oggetti nello spazio concluso, dei contenitori che lasciano al massimo intuire una porzione di esterno ma senza alcun riferimento naturalistico”. Con questo risultato: “Tutto è inquietante presenza fantasmatica  dalla quale i surrealisti attingeranno  a piene mani”, con la particolarità  che mentre “la metafisica è distaccata dalla vita, il surrealismo invece resta ancorato all’idea del sogno”, e in tal modo, secondo Fossati, “compie un passo indietro, torna a pasticciare fra arte  e vita, a confondere modi e fini, mezzi e significati”.

Passa ancora un anno, ed ecco il dipinto che ebbe il potere di  “folgorare” i surrealisti, “L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”, 1915, mentre per de Chirico è l’ultima apertura all’esterno  prima dell’incombente chiusura claustrofobica, e che apertura! La finestra degli “Autoritratti” e del “Ritratto della madre”,  puro sfondo monocromatico, si accende del cielo azzurro con le nuvolette bianche orizzontali, mentre un edificio bianco a sinistra illumina maggiormente la scena. Questo, però, accentua ancora di più la ristrettezza dell’interno in cui ci sono una lavagna nera e un manichino diverso dai celebri “Trovatore”  e simili, con una fenditura della testa a uovo nella parte della bocca che ritroviamo nel disegno dello stesso 2015 “Il poeta  e il filosofo” e dell’anno successivo, “Il filosofo e il poeta” del 2016.  L’“inquietudine”, resa visivamente da questo contrasto,  sembra riferirsi all’”amico” al quale nel  1914 aveva dedicato il “Ritratto di Guillaume Apollinaire” e agli altri che sentiva vicini, arruolati e mandati al fronte; per “l’astronomo” l’apprensione che anche Ebdòmero – il personaggio altamente simbolico del suo romanzo del 1929 – proverà nel guardare la profondità del cielo, che attraverso la grande finestra entra con forza nel quadro.

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“Ottobrata”, 1924

La “Grande guerra” irrompe poco dopo  nella vita di de Chirico, che lascia Parigi alla fine del 1915  per arruolarsi a Ferrara dove, destinato a un ufficio e non al fronte,  troverà ispirazione per una nuova Metafisica, nella quale la “disposizione degli oggetti” e il senso claustrofobico degli interni chiusi e ristretti si aggiungerà a motivi contingenti, ispirati dal luogo e dai riferimenti alle rivendicazioni territoriali.  Parleremo prossimamente della metafisica “ferrarese”, oggetto della 3^ Sezione della mostra, cui ne seguiranno altre 5, ora diamo una visione a volo d’uccello delle altre 6 Sezioni con un’opera-campione per ciascuna, per fornire un quadro preliminare d’insieme dell’itinerario artistico che intendiamo ripercorrere.

In sei  opere presentiamo le prossime sei  tappe dell’itinerario artistico

La 3^ tappa sarà dunque “Ferrara, l’officina delle meraviglie”,  lo colpisce quella città “metafisica” con i negozietti soprattutto nel quartiere ebraico, che esponevano pane dalla forma speciale,  biscotti anch’essi di tipo particolare e tanti oggetti. Nasce così la metafisica “ferrarese” in cui, oltre a quanto ora indicato,  nelle composizioni si trovano anche squadre da disegno  e listelli, fino  a rappresentare strutture a sostegno del soggetto della composizione; entrano in scena i manichini, e i “quadri nel quadro”,  che raffigurano officine, ville, carte geografiche  evocative delle rivendicazioni territoriali, con incastellature lignee. Come “campione” di questo momento artistico presentiamo “Il Trovatore”  del 1917, non esprime i contenuti “ferraresi”, ma è una vera pietra miliare replicata più volte, spesso con varianti nei decenni successivi.

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“L’archeologo”, 1927

 Dopo Ferrara,  nella 4^ tappa,  gli “Anni venti”, con la svolta classicista  delle Ville romane  e non solo, dopo i manichini tornano le figure umane in carne e ossa,  come “Ulisse “ e “Lucrezia,  e l’artista si immerge nella rivisitazione dei Maestri antichi, anche con copie e “d’aprés”, utilizzando persino la tecnica d’epoca a tempera per una completa identificazione; anche nelle “nature morte” compaiono busti classici nei quali continua a esprimersi la nostalgia per la sua terra natale, culla della classicità. Il “campione” che presentiamo di questa fase è “Ottobrata”  del 1924.

“La metafisica come ‘ritornante’” , è la 5^ tappa  di un percorso, umano e artistico, in cui c’è “l’eterno ritorno”  di un’ispirazione che non è mai svanita e accompagna la svolta classicista negli stessi anni, del resto anche in Picasso c’era una compresenza di cubismo e classicismo nello stesso periodo.  Imperversano i manichini nelle varie personificazioni,  dal “Figliol prodigo” ad “Ettore ed Andromaca” fino agli “Archeologi” e ai  “Filosofi” con l’invenzione del torace imbottito di ruderi o libri, in una compenetrazione materica a simboleggiare quella intellettiva es esistenziale. Come “campione” abbiamo “”L’archeologo” del 1927, disteso mollemente con le colonne incorporate.

Nella 6^ tappa, “Le stanze dei giocattoli”, le altre “invenzioni”  del “Tempio in una stanza” con anche  rocce e  alberi all’interno,  speculare rispetto ai “Mobili nella valle” o nella spiaggia,  composizioni che appaiono stravaganti ma alle quali ci sono spiegazioni chiare e rivelatrici. Siamo sempre negli anni ’20,  c’è la compresenza nella stesso periodo dei cavalli rampanti e anche di figure umane  con rotondità renoiriane, di certo è un decennio di straordinaria fecondità creativa. Abbiamo scelto come “campione”  “Ma chambre  dans le midi” del 1927, quanto mai eloquente.

Ma chambre  dans le midi”, 1927

“Un viaggio nell’enigma” è la 7^ tappa, anche se l’enigma ci accompagna nell’intero itinerario dechirichiano: però lui stesso, nei suoi copiosi scritti, fornisce elementi ai quali  l’approfondimento critico di Benzi, nel suo “De Chirico. La vita  e l’opera”, e di Barbero, nei propri saggi illustrativi nel Catalogo  della mostra definibili “De Chirico. L’opera e la vita”  aggiungono chiare chiavi interpretative. In questa penultima tappa del viaggio incontriamo nuovi protagonisti enigmatici, i”Gladiatori” e i “Bagni misteriosi”, il nostro “campione” è proprio l’opera “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928, tutto è di nuoco cambiato e siamo  ancora negli anni ’20!

L’8^ e  ultima tappa, “Gli artifici della pittura”  ci porta alla “vexata quaestio” delle repliche delle opere metafisiche della prima ora, viene data una spiegazione legata alle sue concezioni dell’”eterno ritorno”, va alla ribalta  la  “Neometafisica”  con toni brillanti e un’atmosfera “gioiosa” al posto della sospensione ansiosa della prima Metafisica. Inoltre, nell’immancabile compresenza di temi e di stili, la teatralizzazione degli “Autoritratti in costume” e non solo. L’ultimo ”campione” sono “Le Muse inquietanti”, che diede inizio a duplicazioni e repliche, dalla prima del  1919 per Breton, alle  tante riproposizioni, quella che presentiamo è della fine degli anni ’50.

Nell’accingerci a compiere queste tappe nelle sei sezioni che seguono le prime due già commentate, rivolgiamo ai lettori il saluto con cui  Barbero conclude la  sua presentazione della mostra: “Benvenuti dunque nel palazzo incantato immaginato da de Chirico”.  Il curatore si riferisce alla definizione data da  Maurizio Calvesi nel 1992, dieci anni dopo la grande mostra di de Chirico a New York: “L’artista che meglio di ogni altro ha compreso e impersonato la condizione culturale del nostro secolo, portiere di notte di uno splendido palazzo i cui inquilini si sono ritirati a dormire”. Siamo già entrati in questo palazzo, vi  troveremo  ancora tante  intriganti sorprese. 

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Gladiateurs (Gladiatori)” , 1928

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Questa  narrazione della mostra di Milano è la  quarta parte della rievocazione di  de Chirico nel quarantennale della scomparsa, dopo la trilogia costituita dal  libro di Fabio Benzi sulla “Vita  e l’opera” e dalle mostre di Genova sul “Volto della metafisica” e di  Torino sul “Ritorno al futuro” degli epigoni; a questo primo articolo sulla mostra di Milano ne seguiranno 2 che usciranno il 24 e il 26 novembre 2019  e concluderanno la celebrazione. Per le parti precedenti i nostri articoli sono usciti, sempre in questo sito, tutti nel settembre 2019 alle seguenti date: per la terza parte della trilogia, sulla mostra di Torino,  il 25,  27,  29;  per la seconda parte, sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22; per la prima parte della trilogia, sulla ricerca di Fabio Benzi, il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, sempre  nel settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, “I Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019,   Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2016, Matisse 23 maggio 2015, Secessione 21 gennaio 2015, Pasolini 27 maggio, 15 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it, nel 2010: Teatro del sogno 7 novembre e 1° dicembre, Paolini 10 luglio, Impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009, Picasso 4 febbraio; fotografia.guidaconsumatore, Pasolini maggio 2011 (gli ultimi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono state riprese dal Catalogo, tutte meno 4 (perché in doppia pagina), si ringrazia  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. Le 4 immagini non riprese dal Catalogo  sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta dal sito qkg.images.co.uk, la n. 3 da taorminainforma.it, la n. 12 da arte.it, la n. 13 da pinterest.cl. Le prime 9 immagini sono per le due sezioni iniziali della mostra, commentate nel presente articolo; le altre 6 immagini per ciascuna delle sei sezioni successive, commentate nei prossimi due rticoli.  Tutte immagini diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Autoritratto” 1912-13; seguono, “Les plaisirs du poète” 1912, e “L’enigma di una giornata” 1914; poi, “L’enigma del cavallo” 1914, particolare, e Le matinée angoissante” 1912; quindi, “La surprise” e “L’incertezza del poeta” , 1913; inoltre, “Le printemps de l’ingénieur” 1914, e L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”, 1915; ancora, – da qui le 6 immagini “campione” delle sei sezioni restanti – “Il Trovatore” 1917, e “Ottobrata” 1924; continua, “L’archeologo” e “Ma chambre  dans le midi” , 1927; infine, “Gladiateurs (Gladiatori)” 1928 e, in chiusura, “Le Muse inquietanti” fine anni ’50.

Le Muse inquietanti”, fine anni ’50

Giardini, dall’ “Appuntamento” alle “Armonie” e “Meraviglie” di due mostre d’arte a Roma

di Romano Maria Levante

Giardini, “Appuntamento” in 200 Parchi e Giardini in un’eccezionale apertura al pubblico l’1 e 2 giugno 2019, e due mostre d’arte a Roma, promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con i Servizi museali di Zètema Progetto Cultura:  “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello”, al Museo Pietro Canonica di Villa Borghese, 60 acquerelli di 7 artisti dal 10 maggio al 20 giugno 2019,  a cura di Stefania Severi;  “Il Giardino delle Meraviglie”, alla Casina delle Civette,  50 dipinti con cornici artistiche di Garth Speight  dal12 ottobre 2019 al 19 gennaio 2020, a cura di Maria Grazia Massafra e Stefano Nissirio, Catalogo Edizioni Athena Parthenos.

“Verdi armonie” n. 1

Un’esplosione di interesse per i giardini con l’”Appuntamento” e con  le due mostre successive, a sottolineare il valore non solo paesaggistico ma anche culturale di quest’eccellenza del nostro paese, in cui vi è anche  l’opera dell’uomo, cui si aggiunge l’arte ispirata dalla natura floreale e arborea. I due primi eventi si sono svolti nel mese di giugno, l’ultimo si svolge dal 12  ottobre 2019 al 19 gennaio 2020.

L’ “Appuntamento” con 200 Giardini e Parchi d’Italia

E’ stata una manifestazione  promossa dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia (APGI) , che l’ha ideata, e patrocinata dal Ministero per i beni e le Attività Culturali (MiBAC) , con il sostegno della società “in house” Ales S.p.A,, e dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASVIS). L’hanno  presentata, nella sede del Ministero, Giovanni Panebianco, Segretario generale del MiBAC,  Mario De Simoni, Presidente e A.D. di Ales S.p.A., Ludovico Ortona e Alberta Campitelli, Presidente e Vicepresidente APGI, con l’intervento di esponenti dell’ASVIS, del FAI dell’Associazione Dimore Storiche Italiane e di due Parchi, di Capodimonte e Montepulciano.

“Verdi armonie” n. 2

L’iniziativa, alla seconda edizione,  ha registrato un aumento del 60% delle adesioni estese a quasi tutte le regioni, quindi è stato generale l’invito al pubblico a scoprire la ricchezza dei nostri giardini e parchi, sul piano storico e artistico, oltre che botanico e naturalistico. Un’offerta allettante,  dato che per la gran parte non sono aperti al pubblico. Dei 200 aderenti citiamo alcuni siti UNESCO,  Villa d’Este e la Reggia di Caserta, i giardini delle Ville Medicee; poi gli Orti botanici, da Palermo e Catania a Torino, da Roma e Genova ai giardini botanici alpini. Giardini di eccellenza in Dimore storiche private, da Villa Tiepolo Passi in Veneto a Villa Reale  di Marlia in Lucchesia, da Villa Imperiale nelle Marche, al giardino della Minerva a Salerno, fino al giardino Portoghesi a Calcata con la visita guidata dallo stesso architetto Paolo Portoghesi.

A latere, iniziative sul tema della sostenibilità ambientale, con lezioni e conversazioni, dato che le visite si sono svolte nella Settimana Europea dello Sviluppo Sostenibile, dal 30 maggio al 5 giugno 2019, e hanno fatto  parte del programma del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASVIS,  intervenuta alla presentazione. I giardini, del resto, sono il luogo ideale per sensibilizzare  sull’ambiente e la sostenibilità, trattandosi di piccoli ecosistemi che fungono da “sensori” dei mutamenti ambientali.

“Verdi armonie” n. 3

Non solo tutto questo, alle visite guidate si sono aggiunte moltissime attività speciali, dai momenti musicali, come il concerto d’archi al castello Galli della Loggia in Piemonte, ai “percorsi sensoriali”, come quello a Villa Carlotta sul Lago di Como, alle visite serali straordinarie, come quella con “lucciolata” nella Villa Annoni a Cuggiono e nella Casa del Bosco, e quella  notturna all’Orto Pellegrini Ansaldo delle Alpi Apuane per scoprire le orchidee spontanee. E laboratori, degustazioni e yoga, fino alla novità del “contest” fotografico “Il Giardino racconta: immagini di un universo verde”,  hashtag “#appuntmentoingirdino”, aperto su Instagram, a chi ha voluto  raccontare per immagini le due giornate, con al centro i giardini e la gente coinvolta nelle manifestazioni.

I “Giardini di Roma all’acquerello”  di 7 artisti al  Museo Canonica

Dall’”Appuntamento” alla mostra “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello” il passo è breve, dalla visita diretta alla visione attraverso l’interpretazione artistica. La mostra  è stata ideata e realizzata dalla Cooperativa Sociale Apriti Sesamo secondo l’intento della curatrice Stefania Severi di creare un giardino fantasioso in un luogo molto particolare e prestigiosoo, il Museo Pietro Canonica all’interno di Villa Borghese, di cui un tempo era il “gallinaro”, prima di essere ceduto all’artista per il suo museo. E’ come far entrare l’esterno all’interno, de Chirico dipingeva  gli alberi all’interno delle stanze, in questo museo tra le grandi sculture che riempiono le sale sono state create delle “enclave” di acquerelli  che portano il verde della natura tra i marmi dello scultore.

E’ indescrivibile la sensazione che si prova per questo accostamento tra l’imponenza delle grandi sculture monumentali e la leggerezza degli acquerelli, con i piccoli bassorilievi e le sculture di minori dimensioni ad accostare e  collegare idealmente due mondi agli antipodi. L’occasione è imperdibile per visitare, nel passare da una “enclave” di acquerelli all’altra,  anche  il Museo Pietro Canonica, veramente spettacolare, fino al suo atelier con gli strumenti e le opere “in fieri”.

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“Verdi armonie n. 4

Per le “Verdi Armonie” dei Giardini di Roma, i  7  artisti espositori  hanno usato l’acquerello nella tradizione del “Grand Tour”, come i  visitatori  di oltralpe che adottavano questa  tecnica per i piccoli quadri-ricordo in cui fissavano le loro impressioni, il pensiero va a Goethe che nel suo viaggio in Italia ne realizzò molti. La Severi la definisce “una tecnica ‘fresca’, ricca di trasparenze e per questo particolarmente adatta a cogliere le peculiarità dei giardini, le trasparenze delle acque delle fontane, la vibrazione riverberante tra cielo e fronde”.  Ed è proprio questa “vibrazione” che accomuna le opere esposte, pur nelle evidenti differenze nello stile e nel contenuto.

“Verdi armonie” n. 5

Le “vibrazioni” dei giardini che si sentono  nelle “enclave” di acquerelli riguardano  Villa Borghese e Villa Sciarra, Villa Doria Panphili e Villa Carpegna, tutte  ville romane, il polmone verde della Capitale, patrimonio naturale di grande valore. Villa Borghese è la maggiore ispiratrice degli artisti espositori, e questo accresce l’interesse per i suoi conoscitori,  perché sono  portati a  riconoscere gli angoli raffigurati, per poi individuarli in una passeggiata alla scoperta del motivo ispiratore. “Sarà una vera  e propria ‘caccia al tesoro’ — è sempre la Severi – perché le architetture, le statue, le fontane  e il verde di Villa Borghese, così come degli altri giardini di Roma, costituiscono un ‘unicum’ di grande fascino e bellezza”. Tutto questo viene rappresentato e fatto rivivere, non solo la vegetazione, ma anche gli insediamenti monumentali, negli scorci presentati  dagli artisti con una  notevole varietà di scelta. E non si pensi a riproduzioni meramente figurative di tipo fotografico, tutt’altro: gli scorci sono spesso arditi, in una trasfigurazione della realtà pur nella fedeltà all’ispirazione, sorprendente quanto intrigante. Sono visioni per lo più sfumate, come si addice all’acquerello, raggruppate in multipli nei quali risalta l’armonia cromatica e compositiva, sono tutte delle mirabili, coinvolgenti “Verdi armonie”.

I 7 artisti sono romani,  come Raffaele Arringoli e Sergio Mattioli,  Emanuela Chiavoni, Fausta d’Ubaldo; altri dal Nord  trasferiti   a Roma,  Gabriella  Morbin da Vicenza, Luisa Saraceni da Padova, Silvano Tacus da Bolzano. Tutti appassionati della pittura ad  acquerello e impegnati direttamente, Arringoli e la Saraceni ne sono  diventati docenti, la D’Ubaldo è stata allieva del Maestro Pedro Cano, Macchioli autodidatta  attirato dalle trasparenze di questa forma pittorica, la Morbin da “industrial designer” ad insegnante e artista, Tacus progettista di Musei.

“Verdi armonie” n. 6

Diverse interpretazioni di un tema comune: per il parco dove ha sede il Museo Canonica, tra le opere intitolate  “Villa Borghese”  citiamo  il piccolo acquerello 20 x 20 con il sottotitolo  “Viale Canonica”, il bianco dei plinti con sopra i vasi spicca sul verde scuro dello sfondo, come per l’acquerello sottotitolato  “Fontana dei cavalli” di Silvano Tacus, 51 x 32, mentre Sergio Macchioli con “Merridiana” , 39 x 51, ci dà un primo piano dello spaccato a metà di una trabeazione e  Luisa Saraceni, con “Villa Borghese”, 35 x 25, senza sottotitoli  presenta una statua imponente e insieme coinvolgente, con l’alto fusto di un albero a fare da contraltare naturale all’opera dell’uomo.

Citiamo degli altri tre artisti espositori due opere intitolate “Villa Pamphilij”, Emanuela Chiavoni sottotitola “Il vuoto”, 30 x 72, un suggestivo “negativo”di due grandi alberi, che diventano i fantasmi di sé stessi, e Gabriella Morbin, senza sottotitolo, con il suo “Villa Panphilij” 57 x 115, abbina allo scorcio sfumato di un edificio due alberi uniti, con un effetto suggestivo. Di Raffaele Annigoni, il viale dove si trova il museo.

“Verdi armonie” n. 7

Per “Villa Celimontana” , con il sottotitolo L’obelisco”, 37 x 56, Fausta D’Ubaldo presenta il monolite svettante su uno sfondo di alberi stilizzati, in un contrasto di forme e di luci-ombre.

E’ solo un’opera per ognuno degli artisti che ne espone una serie, un campione che intanto  fa conoscere la loro personale visione della villa prescelta. Loro stessi, fatto straordinario e meritorio,  si sono avvicendati nei mesi di maggio e giugno come docenti nei “corsi di acquerello per adulti”,  che si sono svolti nei luoghi di Villa Borghese scelti di volta per i partecipanti,  20 per volta, cui veniva chiesto di prenotarsi allo 060608 e presentarsi con scatola di colori e fogli per acquerello, pennelli e matita con il supporto per dipingere all’aperto, più contenitore e bottiglia per l’acqua. Visita alla mostra e poi all’opera gli acquerellisti in erba… è il caso di dire. Il tutto completamente gratuito, è stata un‘occasione eccezionale e imperdibile.

“Verdi armonie” n. 8

“Il Giardino delle Meraviglie”  di Garth Speigh, alla Casina delle Civette

Dai giardini romani interpretati dai 7 acquarellisti italiani alla visione della natura nella sua essenza pittoresca e suggestiva, nella mostra organizzata dall’Associazione Culturale Athena Parthemos con il patrocinio dell’Ambasciata del Canada, fiori, boschi e uccelli interpretati dall’artista canadese Garth Speigh, in modo molto personale.

Non riproduce la realtà, ma la trasfigura innestando sulla visione ispirata dalla natura del suo verde paese gli stimoli ricevuti dalla vista dei mosaici e delle vetrate, delle ceramiche  e dei tessuti, delle pale d’altare e delle dorature  nei suoi viaggi in Europa e soprattutto in Italia “alla ricerca  della ‘sua’ bellezza”, commenta la curatrice Stefania Severi,   “quasi un viaggiatore del Grand Tour”. E aggiunge: “Guardiamo dunque le opere di questo artista per ritrovare in esse una concezione di natura bella ed eternamente presente che non subisce i colpi né del tempo storico né del tempo naturale, ma che è lì per noi, per farsi ammirare come, parafrasando D’Annunzio, favola bella che ieri illuse ed oggi continua a illudere”.

Garth Speight, Ninfee”, 2008

E’ lo stesso senso di eternità dell’ideatore e, ai suoi tempi, abitante della Casina delle Civette, Giovanni Torlonia, un accostamento che risulta evidente guardando, osserva la Severi,  “la vetrata degli ospiti della Casina per ritrovare gli stessi fiori e gli stessi uccelli dipinti dall’artista e, raffrontando dipinti e vetrate, constatare l’identità del blu”. Vediamo tre opere che ha creato in occasione della mostra, ispirandosi a questo luogo speciale, in un certo senso fatato. Nella prima, “Villa Torlonia. Casina delle Civette”, l’accostamento è diretto tra l’albero con il tronco diviso in due, svettante in alto nel superare in altezza la cuspide della Casina, e il  suo caratteristico corpo sporgente  con le sei grandi finestre, quasi una  sfida tra l’opera dell’uomo e quella della natura. 

Mentre  è un’immagine di fiaba in “Casina delle Civette”  l’edificio con le sue finestre e i suoi  tetti  con le guglie e trabeazioni, che appare come in una magia dietro una cortina di bambù, in una straordinaria compenetrazione nella natura. C’è anche “Il boschetto di bambù di Villa Torlonia”, quasi evanescente come in un ritorno onirico, con “Bambù”,  un primo piano, quasi un “blow up”. Nello “Scorcio di Villa Torlonia”, dalla cortina di bambù si passa alla cortina alberata che copre con il folto delle chiome i piani superiori, tra i bagliori rossi mescolati alle fronde  nell’incendio di un tramonto altamente spettacolare.  

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Garth Speight, “Scorcio di Villa Torlonia”, 2019

Siamo nel 2019, queste visioni d’incanto testimoniano l’ispirazione quanto mai intensa e la creatività dell’artista  nel nuovo viaggio in Italia. In “Magia del  Palatino di notte”   si intravedono i contorni monumentali dietro una fila  di alberi stilizzati  che lasciano ampi spazi al blu cobalto del cielo notturno, è del 2007, precede le magie di Villa Torlonia di 12 anni, creando un’atmosfera altrettanto suggestiva. L’altro curatore, Cesare Nissirio, afferma che l’artista “da sempre abituato ai paesaggi verdi delle sue terre di origine, il Canada  e la Scozia”, è riuscito a “materializzare lo spirito della Casina delle Civette”,  con  “la mirabile sintesi delle due anime, la sua e quella  romana di Villa Torlonia. La luce romana e quella nordica si affrontano con risultati eclatanti”.

E, più in generale, si può convenire con la Severi che “osservando i suoi dipinti emerge con evidenza che la sua pittura riflette tutte quelle forme di bellezza che, trasfigurando l’elemento naturale, si pongono alla ricerca della perfezione sottesa”, in una visione “meno naturale  e più simbolica” rispetto al  “naturalismo idealizzante” del mondo classico.

Garth Speight, “Iris bianchi”, 2011 (sopra) con
“Fiori selvatici con farfalla”, 2018 (sotto)

C’è di più, “l’artista non propone solo i dipinti – osserva Nissirio – ma anche ciò che li  racchiude, le cornici che lui crea ad hoc  per ogni quadro del quale divengono un tutt’uno”. E sulle cornici Maria Grazia Massafra  ci regala il consueto approfondimento colto, cominciando col definirle “soglie per accedere alla dimensione dell’immaginario”.   E lo spiega citando Josè Ortega y Gasset dalla “Meditazione sulla cornice”: “L’opera d’arte è un’isola immaginaria che fluttua, circondata dalla realtà da ogni parte”. Un’isola, quindi, che  deve essere difesa da ogni sconfinamento. Perciò “la cornice può essere considerata una sorta di finestra, che media il passaggio dal mondo ideale del dipinto a quello reale dell’ambiente che lo circonda”, e in quanto tale ”essa racchiude in sé lo spazio ideale creato dall’artista nel dipinto, separando l’universo statico della pittura da quello reale in continuo movimento”, che quindi non deve invadere il primo. “E’ una sorta di finestra multiforme dalla quale lo spettatore guarda la natura o il mondo soprannaturale creato dall’artista”.

In tal modo le cornici fanno concentrare l’attenzione sulla creazione dell’artista, e dovendo essere coerente  con la raffigurazione al suo interno, la sensibilità e la cura certosina di Garth Speigh per il suo lavoro lo porta a realizzarle  appositamente e personalmente per ciascuna opera sull’onda della  medesima spinta ispiratrice. Con questo intento, sottolineato dalla Massafra: “Le sue cornici, oltre a racchiudere, proteggere e adornare l’immagine raffigurata, svolgono principalmente la funzione di ‘passaggio’ dalla realtà della Natura che ci circonda al mondo immaginario dell’artista, contaminato da sentimenti, emozioni, percezioni”.  Ed ecco il risultato: “Il ‘corpo estetico’, attraverso la cornice, viene isolato e circoscritto in modo che l’irreale dell’artista venga separato dalla realtà.  Il quadro acquista bellezza e suggestione proprio perché viene isolato dal mondo esterno; esso diviene una apertura di ‘irrealtà’ che magicamente, attraverso la cornice, entra  in comunicazione con lo spettatore”.

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Garth Speight “Iris blu”, 2011

Ma come sono queste cornici “uniche”?  Recano intagliati elementi stilizzati in carattere con il dipinto che “decorano”, per lo più in stile “liberty” che meglio si addice alle composizioni floreali, spesso impreziosite dalle foglie d’oro e d’argento  i cui riflessi attirano l’’osservatore;  un “confine” che separa dall’esterno, e nel contempo una calamita che concentra l’attenzione sulla composizione. Lo sguardo è tutto preso dal dipinto, racchiuso in un recinto ornamentale prezioso, la bellezza figurativa viene esaltata ancora di più. Una visione opposta a quella del collezionista Poletti – la cui raccolta è in mostra quasi in contemporanea nelle Gallerie Nazionali d’Arte Antica a Palazzo Corsini” – collezionista che esponeva nella propria quadreria le “nature morte” addirittura senza cornici, come scelta motivata dal desiderio di non sviare lo sguardo dal mare di fiori, frutta e quant’altro spesso su fondo nero che lo fa risaltare.

Di Garth Speight vediamo esposte una diecina di composizioni floreali e altrettante con rappresentati i tronchi d’alto fusto dei boschi, spesso molto fitti e sottili,  piante acquatiche  e uccelli, oltre  alle visioni di Villa Torlonia che abbiamo già commentato.

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Garth Speight, “Iris”, 2018

Cominciamo dai fiori, carnosi come gli “Iris bianchi”, e sfolgoranti come “Iris blu”, entrambi 2011, risplendenti sul fondo dorato come “Iris” 2018, veri fuochi d’artificio come  i “Fiori di Agapanthus”,  2019, esplosivi come i “Fiori di fantasia”, 2018, delicati  come i Fiori di campo”   e i  “Fiori di notte” 2019, questi ultimi anche in una versione intensa con le sole corolle,  misteriosi come i “Fiori selvatici”, nelle versioni con o senza farfalla, 2018; i “Gerani d’inverno”, del 1989, sono gli apripista di straordinaria intensità, con la loro immagine discreta e raccolta.

Nissirio descrive così questa “botanica onirica”  che trasfigura la realtà in un magico artificio: “Foglie stilizzate, longilinee, serpeggiano fra i ‘suoi’ fiori, alcuni veri, ‘rubati’ alla natura, altri, frutto della sua sbrigliata fantasia, costituiscono la maggior parte delle sue creature fantastiche, inventate, ideate, provocatorie, illusorie. Foglie ampie, dilatate, fluttuanti nell’aria o nell’acqua, scompigliano la superficie dei suoi quadri, apparendo come sfondo ad animali idealizzati”, come per i fiori selvatici  e la farfalla.

Le foglie fluttuanti nell’acqua  sono nelle spettacolari composizioni delle due “Ninfee” del 2007,  che la Severi cita a riprova del fatto che “l’idea di eternità serpeggia tra i fiori di Garth”, a differenza di Monet, “che coglie l’attimo di quel riflesso di luce in quell’ora su quella superficie vibrante dello stagno”, un “tempo brevissimo”, mentre “fermo e immoto è lo stagno di Garth in una concezione di tempo infinito e assoluto”.

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Garth Speight, “Fiori di fantasia“, 2018

Poi i boschi, c’è il “Bosco di betulle”  quasi in dissolvenza nella litografia del   2005, visto al tramonto nel dipinto del 2018, l’infittirsi dei tronchi evoca la celebre carrellata del vecchio film russo “Quando volano le cicogne” . Eppoi, “Bosco in primavera”, e “Bosco autunnale” , anch’essi del 2018 in tinte delicate, il primo sul verde incipiente, il secondo sulla ruggine appena accennata delle foglie caduche, seguiti da “Alberi su pendice rocciosa” 2019, quasi in dissolvenza ma con i tronchi ben in evidenza, mentre “Sui grandi laghi canadesi” 2017, il verde intenso delle foglie prevale sui radi fusti dei tronchi. in un terreno cosparso di massi. Nel “Bosco rosso” 2009, invece, i tronchi sono senza vere foglie, ridotte  ai grossi punti gialli in cui si sono trasformati  i grumi di foglie verde-giallo del “Bosco dellle Vestali” 2005, sconfinando nell’astrazione. D’altra parte, come rileva Nissirio, “la sua arte non è riproduzione, ma interpretazione, è un prodotto della mente, della memoria, della sua sbrigliata creatività”.  

E  gli animali?  Vediamo “Uccello” , “Uccelli acquatici” e “Uccelli in uno stagno”, del 2017, “Coppia di uccelli” 2018, stemmi araldici incastonati nel verde nella loro fissità  esternatrice come l’acqua dello stagno.

Ciò che si imprime maggiormente nella memoria del visitatore è il verde brillante delle sue “Ninfee” in gara di intensità con il blu del “lago immoto”;  mentre il giallo dei fiori e dei boschi con gli altri cromatismi delicati fino al rosa antico, il “cipria” e il celeste  definito da Nassirio  “carezzevole”, con il trittico coloristico verde-blu-bianco degli splendidi uccelli, restano come sfondo altrettanto indimenticabile.

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Garth Speight, “Bosco delle Vestali “, 2005

Info

“Appuntamento in giardino”, presentazione alla “Sala Spadolini” del MiBAC, via del Collegio Romano, 27, Roma. Mostra “Verdi Armonie . I giardini di Roma all’acquerello”, Museo Pietro Canonica, viale Pietro Canonica (piazza di Siena) 2, Villa Borghese, Roma, mese di maggio, martedì-domenica ore 10,00-16,00, mese di giugno ore 13,00-19,00, ingresso e corsi gratuiti. Mostra “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”,   Casina delle Civette, Musei di Villa Torlonia, via Nomentana, 70, Roma, da martedì a domenica ore 9,00-19,00, lunedì chiuso, la biglietteria chiude 45’ prima, ingresso euro 6, ridotto 5, per i residenti in Roma un euro in meno, Catalogo “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”, Edizioni Athena Parthenos, ottobre 2019, pp. 50, formato 21,5 x 21,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: su De Chirico, in questo sito: 2019, settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13. 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29;  in www.arteculturaoggi.com: 2016, 17 e 21 dicembre, 2015, 1° marzo,  2013, 20, 26 giugno e 1° luglio; in  “cultura.inabruzzo.it:  2010,  ‘8, 10, 11 luglio, 2009,  27 agosto, 23 settembre,  22 dicembre; a stampa in “Metafisica” e “Metaphysical Art”  n. 11-13 del 2013. Su Monet e gli impressionisti,  in www.arteculturaoggi.com, 2016, 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio; in cultura.inabruzzo.it, 2010, 27, 29 giugno (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al museo Pietro Canonica e alla Casina delle Civette alla presentazione delle due mostre, si ringraziano le rispettive organizzazioni, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Dalla mostra “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello”, 8 immagini  corali delle opere degli artisti esposte tra le sculture imponenti di Pietro Canonica, che abbiamo definito “Verdi Armonie”: in apertura “Verdi Armonie” n. 1; seguono, “Verdi Armonie” n. 2″ e “Verdi Armonie” n. 3; poi, “Verdi Armonie” n. 4 e “Verdi Armonie” n. 5; quindi, “Verdi Armonie” n. 6, “Verdi Armonie ” n. 7 e “Verdi Armonie” n. 8; inoltre, dalla mostra “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”, 8 suoi dipinti con le cornici artistiche: “Ninfee” 2008, e “Scorcio di Villa Torlonia” 2019; ancora, Iris bianchi” 2011 (sopra) con “Fiori selvatici con farfalla” 2018 (sotto), e “Iris blu” 2011; continua, “Iris” e “Fiori di fantasia” 2018; infine, “Bosco delle Vestali “ 2005 e, in chiusura,Uccelli acquatici” 2017.

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Garth Speight, Uccelli acquatici“, 2017

Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre” pubblicato oggi nella data fatidica del 9 novembre, ripubblichiamo, sempre oggi in questo  sito, il presente  articolo uscito nel ventennale, il 12 gennaio 2010 , e il seguito, “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” , del 14 gennaio 2010, nonché l’altro nostro articolo del 9 novembre 2009, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro”. Questi 3 articoli furono pubblicati alle date indicate del 2009 e 2010 in “cultura.inabruzzo.it” (non più raggiungibile).

Germania, Ovest – 51° 34’43.04″ N – 10° 28’39.62″ E

cultura.inabruzzo.it, 12 gennaio 2010 – Postato in: Eventi

La mostra “La linea inesistente” espone a Roma, al Palazzo delle Esposizioni dal 12 dicembre al 24 gennaio 2010, 70 fotografie di Davide Monteleone, scattate lungo il confine di un tempo tra Est e Ovest dov’era calata la Cortina di ferro. Una divisione oggi scomparsa, ma quella linea virtuale al posto del filo spinato del tempo della guerra fredda che schierava i paesi dell’Est del Patto di Varsavia contro quelli dell’Ovest della Nato. ha suggerito a Monteleone foto comparative dell’Est e dell’Ovest, con la natura, gli insediamenti, la vita insomma: un modo per celebrare la pace dove c’era la minaccia delle guerra. La mostra è promossa dalla “Fondazione italianieuropei” con “Contrasto”, cui si deve anche il Catalogo.

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Italia, Ovest – 45° 39′ 1. 63″ N – 13° 46′ 2 84 E

Avevamo considerato con interesse la mostra, fotografica e non solo, sulla “linea inesistente” come seguito ideale di quella sul Muro di Berlino, organizzata dalla Provincia di Roma nel ventesimo anniversario della caduta di quel pezzo di “Cortina di ferro” all’interno della città. Era un’occasione per un approfondimento, connotato per noi irrinunciabile di una rivista culturale, anche se “on line”, anzi soprattutto perchè tale: il tempo non la consuma come fa con certa carta stampata e neppure lo spazio, è raggiungibile da ogni punto del “web” che non ha confini. Quindi persistenza ed accessibilità in ogni momento, come la memoria.

Le ragioni contingenti e quelle sottostanti di un evento epocale

Ma è stata proprio la memoria a spostare la nostra attenzione dall’approfondimento culturale alla partecipazione emotiva, dal desiderio di documentare all’ansia di rivivere. Di questo dobbiamo dare merito alla “Fondazione italianieuropei” che l’ha promossa e a “Contrasto” che l’ha organizzata. Per la prima c’è un merito speciale, con il sottoporsi a una sorta di “catarsi” immergendosi nella tragedia che è stata la divisione dell’Europa in due con metà di essa sotto il tallone della dittatura comunista – per alcuni “album di famiglia” – quando oltre alla perdita delle libertà civili sono svanite le prospettive di benessere e di sviluppo

Una “catarsi” alla quale partecipa meritoriamente anche l’Istituto Gramsci, depositario di una documentazione sterminata su quello che fu il comunismo visto dall’interno, “ex ore suo” si potrebbe dire. Citiamo ancora una volta questa espressione e qui vogliamo rivelarne l’origine, fa parte della nostra vicenda professionale: la trovavamo negli anni ’60 nelle rassegne stampa che faceva preparare l’Avv. Guiglia in Confindustria, dedicate alle notizie dirette dai paesi comunisti, dalle quali emergeva già l’abisso in cui quelle popolazioni venivano sprofondando sempre più.

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Italia, Est – Trieste

La nostra memoria è stata sollecitata subito dalla ricostruzione di Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, che parte dalle ragioni contingenti del dissolvimento del sistema sovietico, ponendo in rilievo le grandi personalità che hanno dato la spinta decisiva o non si sono opposte: “Animati da mentalità e obiettivi diversi, Lech Walesa, Giovanni Paolo II, Gorbaciov ci appaiono ancora oggi gli eroi e i protagonisti della rappresentazione, non diversamente da come apparvero ai contemporanei”. Per precisare: “Ciascuno di quei personaggi presentò un’innegabile statura carismatica e ciascuno di essi contribuì ad una soluzione pacifica, interpretando a suo modo aspirazioni e speranze che intersecavano la vecchia cortina di ferro”

Ma Pons non si ferma a questa constatazione, guarda alle ragioni sottostanti: “E tuttavia, il ruolo delle personalità non può bastare per capire la nostra storia. La profondità delle forze all’opera va cercata altrove. La crisi del comunismo aveva radici intrecciate nell’economia, nella società, nella cultura e nell’ambiente internazionale”.

Come mai è esplosa, anzi implosa nel momento storico vissuto venti anni fa? “La guerra fredda non era la stessa di trent’anni prima e non aveva più la centralità posseduta in passato, anzitutto per le generazioni più giovani. E lo stesso si può dire per il comunismo. Anche l’Europa era cambiata attraverso processi di integrazione e politiche di distensione che avevano consolidato il suo nucleo prospero e democratico, promuovendo nel contempo forme di collaborazione economica che erodevano silenziosamente i confini tra i due blocchi”.

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Ungheria, Ovest – 47° 6′ 51 85′ N – 16° 36′ 47. 95″ E

C’è un altro riconoscimento che ci piace sottolineare e del quale va pieno merito a Pons e alla Fondazione promotrice della mostra: “In un rapporto non sempre facile con le logiche della distensione, la questione dei diritti umani aveva assunto un peso e una centralità nella cultura europea, anzitutto grazie al coraggio dei dissidenti dell’Est, creando a sua volta un linguaggio volto a negare l’eredità della divisione del continente e a delegittimare i regimi comunisti”

Abbiamo voluto fare un’ampia citazione testuale perché meglio di così non si poteva spiegare una rivoluzione epocale, sulla quale torneremo più avanti precisandone ulteriormente i termini; e che documenteremo alla fine del viaggio riportando preziose testimonianze provenienti dal “National Security Archive” di Washington che fanno rivivere l’ ansia soprattutto dei governanti, dato che i popoli erano ebbri di entusiasmo da una parte all’altra della Cortina di ferro: il timore del bagno di sangue che ha sempre macchiato rivolgimenti simili, dalla Rivoluzione francese del 1789 al Risorgimento italiano del 1848, alla Rivoluzione russa del 1917, date anch’esse ricordate da Pons.

Le immagini di Monteleone dov’era la Cortina di ferro

Il viaggio del giovane, già esperto fotografo, è anche un viaggio nella propria fresca memoria, è nato nel 1974 a Potenza “in un mondo già diviso”, e ha utilizzato un Atlante del 1976 per tracciare “un percorso automobilistico il più vicino possibile alle frontiere che dividevano due mondi: l’Est e l’Ovest”. Il programma: “Ho il desiderio di attraversare l’Europa, da Trieste a Stettino, per percorrere quei confini un tempo invalicabili”. Riecheggia, nel suo programma, il suono della dichiarazione che fece Winston Churchill a Fulton, il 5 marzo 1946: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa Centrale ed Orientale”.

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Ungheria, Est – Gancspati

Ora le due città non sono più i terminali di una barriera, ma di un viaggio che, nelle parole di Andrea Péruzy, Segretario generale di Italianieuropei e di Roberto Koch, direttore di “Contrasto”, “è fatto di sguardi, annotazioni, evidenze, letture e studi, conferme e scoperte. Soprattutto, è fatto di tappe”. Le percorreremo anche noi sulla scorta delle immagini, con ogni tappa “segnata da un dittico, due scatti che guardano uno a Ovest e uno a Est, per scoprire come sono oggi i paesaggi ‘oltre’ e ‘al di qua’ della Cortina, chi abita quelle terre, quale innovazione o involuzione sociale possa essere avvenuta nei luoghi un tempo sorvegliati e inaccessibili”

Si è trattato per l’autore, e lo sarà anche per noi, di “un viaggio nello spazio, certo, ma anche nel tempo per cercare di ritrovare le tracce e i segni di un storia che a volte sembra essere stata cancellata troppo in fretta, come un intoppo della coscienza che è necessario rimuovere per procedere oltre”.

Ed è questo il maggior pregio dell’iniziativa – dire mostra ci sembra limitativo – perché, oltre al ben documentato Catalogo, resta nello spazio e nel tempo per chi compirà il viaggio con le immagini che evocano ricordi, sottraendosi alla rimozione che Italianieuropei meritoriamente respinge.

La prima parte inizia nel novembre 2008, il programma è semplice: “Circa un mese di viaggio fermandomi ogni 100 chilometri per guardare, idealmente, da questa linea immaginaria ormai scomparsa, una volta a Est e una a Ovest”. Il proposito: “Scrutare differenze, similitudini, cambiamenti; volgere lo sguardo verso i desideri e verso i nemici di un tempo”. Il risultato: “Due sole immagini per rappresentare i confini che cadono, le assurde divisioni, i paesaggi immutati”. Ogni dittico di immagini reca l’indicazione delle coordinate geografiche, latitudine e longitudine.

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Rep. Ceca, Ovest – 48° 46′ 25. 84″ N – 16° 53′ 10, 14″E

In effetti, la galleria fotografica offre campi lunghi e pochi primi piani, con un denominatore comune all’Est e all’Ovet, la desolazione e la solitudine: ed è bene che oggi sia così, non lo è stato ieri quando in queste terre di confine c’erano reticolati, barriere, sorveglianza armata.

Il viaggio inizia in Italia aTrieste, citata da Churchill come inizio della Cortina di ferro nella sua celebre allocuzione. due campi lunghi con il mare, i lampioni e le persone in lontananza, appare l’assurdità della separazione. Per il resto non c’è ricerca di effetti particolari, cioè simboli di costrizione negli scatti dell’Est rispetto a quelli dell’Ovest, tutto è immediato, spontaneo, anzi in qualche caso i simboli sono rovesciati.

Come nella due località di Gencsapati in Ungheria e Cizov nella Repubblica Ceca dove le immagini dell’Ovest sono reti e filo spinato, mentre all’Est una sfera sospesa in alto e tenuta da cavi come una mongolfiera nel primo, un bel tronco d’albero nella seconda. A Chely , sempre nella Repubblica Ceca, ad Est una strada oscura che sarebbe inquietante se non ci fosse un festone in alto con la scritta “Love story”, mentre a Ovest delle statue rassicuranti, questa volta religiose, Cristo, la Madonna e gli angeli. A Nuova Bystrice le finestre di due edifici gemelli, cambia solo il colore delle fasce di muro che dividono i vari piani.Così nelle immagini da Trstenik. Due scatti pittoreschi a Breclav, le T-shirt esposte a Ovest e le sfere allineate all’aperto a Est in una grande pallottoliere variopinto nel riposante ambiente montano.

In Slovenia, all’Ovest abbiamo una grande curva di una strada deserta sotto un cielo limaccioso, mentre a Est, a Strstenik, un’immagine fiabesca, la statua seducente di una ninfa tra nanetti e altre fontane e arredi da giardino, in un clima festoso.

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Repubblica Ceca, Est – Breclav

$e  proprio si vogliono ricercare dei simboli possiamo vederli nelle immagini dall’Austria: a Pamhagen una cabina a Est, ricordo delle postazioni poliziesche cui si contrappone una strada diritta a Ovest; e soprattutto a Jennersdorf il bosco cupo e ingiallito segno di oscurità e stagione finita rispetto al controluce dell’arbusto in fiore che si staglia nel cielo simbolo di crescita e di vita. A Retz un’immagine dell’Est con una donna seduta in una sconsolata solitudine, il viso incorniciato da un cappellino rosso sotto un cartello con un’effige di bionda vaporosa e la scritta “L’amour” di un improbabile “night club”, mentre per l’Ovest un panorama boscoso sotto un cielo nuvoloso che si schiarisce all’orizzonte.

Sono solo impressioni personali dalle immagini che riguardano l’Est non tedesco. La Germania è l’approdo dopo i 4.200 chilometri dell’ex Cortina di ferro. Anche qui ci colpiscono subito immagini alla rovescia: reti di sbarramento all’Ovest a Nordhalben e Eschwege, laddove a Est c’è un bosco ridente e una strada che sembra una pittura. Invece a Modlareuth reti di sbarramento da entrambe le parti.

Un rovesciamento dei ruoli senza barriere, tutt’altro, a Meiningen, dove il Mc Donald e la baita di montagna sono a Est mentre a Ovest troviamo la baracca, sia pure con deliziose tendine, e addirittura una Trabant, la bistrattata auto utilitaria dell’Est, su una specie di piedistallo di pietre ricoperte di frasche.

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Slovenia, Ovest – 46° 37′ 42. 72″ N – 15° 54′ 21 38″ E

Per il resto, omologazione assoluta che l’autore ha voluto sottolineare con gli scatti paralleli in molti casi uguali. Così a Schwiegershausen i tralicci in cemento a forma di A, a Weilrod un bosco di cui muta solo il colore del sottobosco, tornano le foglie secche a Est, erba verde a Ovest, a Tanger una strada tra gli alberi, con assoluta identità nella pavimentazione e nei tronchi che la delimitano

Finora non abbiamo parlato di figure umane, perché non ce ne sono, con due eccezioni. A Lubmin a Est un primo piano di signora impellicciata e sorridente, a Ovest un’immagine molto diversa di bagnanti in costume che escono dall’acqua; e l’altra figura umana già citata fotografata a Retz in Austria.

Sono veri ritratti quelli che spiccano in due cartelli, rispettivamente a Est e a Ovest, mezzi busti in divisa con tanto di berretto militare. Guardiamo dove ci troviamo: Checkpoint Charlie: siamo a Berlino, già queste immagini evocano un clima, stiamo per entrare nella Bernauer Strasse, dove iniziò la costruzione del Muro. Di qui le immagini diventano una vera galleria di volti e atmosfere.

Ma Monteleone si ferma, questa parte del suo viaggio è finita, darà un rapido sguardo, come questo al Checkpoint, poi ripartirà per tornare nell’imminenza del ventennale della caduta del Muro, nella città che è stata l’epicentro del grande rivolgimento nell’Europa orientale. Abbiamo modo così di riepilogare le vicende seguendo ancora la lucida ricostruzione del direttore dell’Istituto Gramsci.

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Slovenia, Est – Trstenik

Le vicende che hanno preceduto la caduta del Muro nello storico 1989

Volgendo lo sguardo all’indietro, venti anni non sono tanti neppure nella vita di una persona, figurarsi nel respiro della storia, ci si può sorprendere di aver vissuto un momento epocale quasi senza rendersene conto, pur se la partecipazione al tripudio è stata unanime e immediata.

Non ci si è resi conto del pericolo corso, dinanzi agli esiti sanguinosi di rivolgimenti anche meno profondi ed estesi di quello che ha sconvolto l’intera Europa orientale; e neppure si è valutato fino in fondo l’eccezionale significato che assume un rovesciamento così repentino, quando processi di questa natura si sviluppano progressivamente e, se precipitano, ripetiamo, ciò avviene nel sangue.

Il nuovo corso di Gorbaciov era promettente ma la sua cautela non gli aveva fatto rinnegare la “dottrina Breznev” della sovranità limitata dei paesi del blocco sovietico, che aveva soffocato in spietate repressioni i movimenti di liberazione in Polonia e Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 con la tragica Primavera di Praga, conclusa addirittura con esecuzioni capitali, sinistro monito per tutti; oltre che in Polonia nel 1981 e, trent’anni prima, nella Germania Est nel 1953.

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Austria, Ovest, 7° 41′ 6. 22″ N – 16° 54′ 44. 83 E

Quindi le stesse notizie sulle dissidenze sempre più attive in quei paesi, anche se aprivano alla speranza, non facevano prevedere nulla di cosi radicale e insieme rapido. Ma il 1989 è un anno diverso dagli altri, molteplici sono le tessere del mosaico, le componenti del domino della libertà.

L’accelerazione del processo viene dalla Polonia, non per altro vi è la forte influenza delle due personalità citate da Pons oltre a Gorbaciov: Lech Walesa e papa Karol Wojtila. Si inizia tra marzo e aprile con un inedito negoziato tra sindacato e governo, apparentemente innocuo ma è l’inizio della valanga: l’opposizione viene legalizzata e si presenta alle elezioni, le vince, capo del governo il suo Mazowieski, primo leader non comunista. Cautela e ancora cautela ci si aspettava, anche Dubcek con la Primavera di Praga ci aveva provato ed era finita male, chissà quanto tempo sarebbe trascorso per fare nuovi passi in avanti e tanto più per trasmettere i fermenti agli altri paesi dell’Est.

Ma il 1989 è un anno speciale, abbiamo detto. Ebbene, a settembre l’Ungheria apre i suoi confini con la Repubblica Federale Tedesca, cadono i reticolati e il filo spinato, in centinaia di migliaia cercano la libertà; manifestazioni spontanee si susseguono. A quel punto, scrive Pons, “l’ennesima crisi dell’Est europeo si trovò dinanzi a un bivio drammatico. Come era accaduto in passato, la soluzione passava necessariamente per Mosca. Ma questa volta il risultato venne rovesciato”.

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Austria, Est – Pamhagen

Non ci fu l’intervento diretto sovietico come in passato e neppure un sostegno indiretto ai regimi entrati in una crisi profonda anche per la spinta popolare che acquistava sempre più forza e consapevolezza. Cadute le frontiere ci fu anche la caduta del Muro preceduta di pochi giorni da un tentativo in extremis di concedere il “diritto di viaggio” all’estero senza particolari motivazioni.

Nessun intervento da nessuna parte, né a Est né a Ovest, “il cambiamento dall’alto e la spinta dal basso si combinarono in un circolo virtuoso”, sono parole di Pons, che prosegue: “In poche settimane, tutti i regimi comunisti implosero e gli europei orientali se ne liberarono in una successione di ‘rivoluzioni di velluto’ (la celebre formula fatta propria da Vaclav Havel) a Budapest, Praga, Sofia e, infine, nell’unico avvenimento cruento, a Bucarest”: con l’esecuzione, è il caso di ricordare, di Ceausescu e signora dopo un processo- lampo segreto senza alcuna garanzia.

In Cina, invece, erano proseguite le repressioni del passato, venivano soffocati nel sangue i movimenti studenteschi nella piazza di Tiananmen, ne resterà sempre il simbolo nella figura inerme con un sacchetto di plastica in mano che affronta impavido la colonna di carri armati riuscendo per un momento ad arrestarla; ascritta nell’olimpo dei grandi eroismi di tutti i tempi.

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Austria, Ovest – 48° 51′ 21.99′ N – 16° 2′ 7 55″ E

Si era in giugno sempre del 1989, il cattivo esempio non fu seguito in nessun paese dell’Est europeo: “Tiananmen, osserva il direttore dell’Istituto Gramsci, divenne un monito anziché un’opzione. L’idea di usare la forza venne certamente accarezzata da alcuni leader politici e militari nel blocco comunista e il rischio di un eccidio fu probabilmente sfiorato nella Germania Orientale. Ma lo scenario di un bagno di sangue non si ripeté, malgrado i tristi precedenti del passato, o proprio in ragione di essi. Il movimento non violento europeo e il suo impulso libertario non vennero arrestati. Così l’’89 portò alla riunificazione della Germania in meno di un anno. Così preparò il crollo dell’Unione Sovietica e la dissoluzione della sua compagine imperiale, anch’esso avvenuto pacificamente due anni dopo”.

Il sonno della ragione genera mostri

Per dimostrare che tutto questo era ben lungi dal doversi ritenere scontato bastano le parole di Erich Honecker, il capo della Repubblica democratica tedesca, pronunciate solennemente a Berlino nel gennaio dello stesso 1989: “Il Muro esisterà ancora fra cinquanta e anche fra cento anni , fino a quando le ragioni della sua esistenza non saranno venute meno”.

E’ un convincimento così radicato che persisterà, pur nelle mutate condizioni, davanti al tribunale di Berlino tre anni dopo. Da quasi un anno era stata approvata la legge che rendeva pubblici e visibili da parte dei perseguitati i documenti della Stasi, la spietata polizia segreta, e i verbali degli interrogatori, per cui la pentola era stata scoperchiata.

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Austria, Est – Retz

Eppure ecco un passaggio oltremodo significativo dell’autodifesa di Honecker: “Giunto alla fine della mia vita, ho la certezza che la Rdt non è stata costituita invano… Un numero sempre maggiore di persone dell’Est si renderà conto che le condizioni di vita nella Rdt li avevano deformati assai meno di quanto la gente dell’Ovest non sia deformata dal capitalismo e che nelle scuole i bambini della Rdt crescevano più spensierati, più felici, più istruiti, più liberi dei bambini delle strade della Repubblica federale. I malati si renderanno conto che nel sistema sanitario della Rdt, nonostante le arretratezze tecniche, erano dei pazienti e non oggetti commerciali del marketing di medici. Gli artisti comprenderanno che la censura, vera o presunta, della Rdt non poteva recare all’arte i danni prodotti dalla censura del mercato… Gli operai e i contadini si renderanno conto che la Rft è lo Stato degli imprenditori e che non a caso la Rdt si chiamava ‘Stato degli operai e dei contadini’… Molti capiranno che anche la libertà di scegliere tra Cdu, Spd, Fdt è solo una libertà apparente”.

L’abbiamo riportato integralmente perché, assemblando tutti i luoghi comuni anticapitalisti e occultando maldestramente gli orrori del suo regime, mostra come il sonno della ragione genera mostri. E ci prepara al seguito e alla conclusione del viaggio nella memoria: l’ingresso a Berlino nel ventennale della caduta del Muro. Ci faranno da guida le fotografie di Monteleone e i brani del suo Diario che lo fanno diventare un viaggio nell’anima: sua e, per quanto ci riguarda, anche nostra.

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Germania, Ovest – 50″ 34′ 41. 64″ N – 10″ 24′ 47. 38″ E

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Catalogo: Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, con un saggio di Silvio Pons e una selezione di documenti del National Security Archive di Washington D.C., Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 20 x 30,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 14 gennaio 2010. Cfr. anche il nostro articolo, sempre in questo sito, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro” 9 novembre 2009.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, in particolare l’Autore, per l’opportunità offerta; a parte l’apertura, sono inserite nell’ordine di citazione nel testo. In apertura, Germania, Ovest – 51° 34’43.04″ N – 10° 28’39.62″ E; seguono, Italia, Ovest – 45° 39′ 1. 63″ N – 13° 46′ 2 84 E, e Est – Trieste; poi, Ungheria, Ovest – 47° 6′ 51 85′ N – 16° 36′ 47. 95″ E, e Est – Gancspati; quindi, Repubblica Ceca, Ovest – 48° 46′ 25. 84″ N – 16° 53′ 10, 14″E, e Est – Breclav; inoltre, Slovenia, Ovest – 46° 37′ 42. 72″ N – 15° 54′ 21 38″ E, e Est – Trstenik; ancora,Austria, Ovest, 7° 41′ 6. 22″ N – 16° 54′ 44. 83 E, e Est – Pamhagen; continua, Austria, Ovest – 48° 51′ 21.99′ N – 16° 2′ 7 55″ E, e Est – Retz; infine, Germania, Ovest – 50″ 34′ 41. 64″ N – 10″ 24′ 47. 38″ E, e, in chiusura, Est – Meiningen.

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Germania, Est – Meiningen.

Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre” pubblicato oggi nella data del 9 novembre, ripubblichiamo sempre oggi in questo sito, il presente articolo uscito nel ventennale, il 9 novembre 2009, e gli altri due nostri articoli del 12 e 14 gennaio 2010, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni”, e “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” . Questi 3 articoli furono pubblicati in “cultura.inabruzzo.it (non più raggiungibile).

Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse” , Berlino-Berlin 06/1975

cultura.inabruzzo.it – 9 novembre 2009 – Postato in: Rubriche

La mostra “Il Muro di Berlino, The Berlin Wall, Die Berliner Mauer 1989-2009” espone a Roma, al Palazzo Incontro , dal 7 novembre 2009 al 6 gennaio 2010, 75 fotografie, la maggior parte in bianco e nero, sul Muro nelle varie fasi, costruzione, tentativi di superarlo e festoso abbattimento, con il colore che nella parte finale illumina la scena. La mostra, promossa dalla Provincia di Roma nell’ambito del progetto ABC Arte Bellezza Cultura e organizzata da Civita, è a cura di Reinhard Schultz, che ha curato anche il Catalogo trilingue italiano-inglese-tedesco edito da Galerie Bilderwilt.

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Will McBride, “Bernauer Strasse”, Berlino-Berlin 1961

Nel ventennale della caduta del Muro  di Berlino che ricorre il 9 novembre 2009, la mostra è stata promossa  dalla Provincia di Roma e organizzata  Palazzo Incontro, la propria sede espositiva  “per cercare di capire cosa ha rappresentato per la città”, ha detto Paolo Gentiloni delegato alla “Storia e memoria” nella provincia, mentre il presidente Nicola Zingaretti e il sottosegretario ai beni culturali Francesco Maria Giro ne hanno inquadrato il significato epocale.

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Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse” , Berlino-Berlin 08/19761

Il Muro di Berlino, dalla nascita alla caduta  

Per quasi tre decenni il Muro di Berlino è stato emblematico del confronto tra i due sistemi, quello comunista all’Est e quello democratico all’Ovest, dopo la divisione in due blocchi dell’Europa sancita dagli accordi di Yalta, e la divisione di Berlino in zone che riproducevano i due blocchi nella città. La parte Ovest, una “enclave” entro la Germania Est, con la sua libertà e il suo benessere non solo rappresentava un termine di confronto insostenibile per il regime comunista, ma diventava una calamita irresistibile che attirava un numero sempre maggiore di persone in un flusso crescente dall’Ovest all’Est.

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Gardi, “Leipziger Platz”, Berlino-Berlin 1964

Di qui la vergognosa chiusura con il Muro che divideva famiglie, amici e comunità e la sanguinosa repressione dei tentativi di superarlo in tutti i modi possibili, dal buttarsi dall’alto degli edifici confinanti – che produsse la muratura delle finestre – allo scavalcamento, dallo scavo di tunnel ai doppi fondi dei veicoli, fino alle mongolfiere, 130 sono state le vittime dei “vopos” posti in 300 torrette di vigilanza, e dotati anche di cani, la terra di nessuno creata con un raddoppio della barriera divenne una “striscia di sangue”.

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Abisag Tullmann, “Kreuzberg”, Berlino-Berlin 1977

Trascorrono 28 anni con questo incubo, finché l”avvento di Gorbaciov al vertice dell’Unione Sovietica creò nuove condizioni di distensione tra Est e Ovest dopo le asprezze della “guerra fredda” e segni di liberalizzazione e di apertura – all’insegna della “perestrojka” e della “gladnost” – colti prontamente dalle popolazioni dei paesi dell’Europa Orientale, in testa la Polonia di Solidarnos con il sostegno di papa Wojtila, e l’Ungheria, fino all’abbattimento delle recinzioni di filo spinato ai confini con Austria e Germania Ovest, che resero insostenibile la chiusura della Germania Est di cui il Muro di Berlino rappresentava l’aspetto più vistoso.

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Klaus Lehnartz, “‘Neukolln”, Berlino-Berlin 08/1981

Dopo manifestazioni popolari sempre più pressanti – le ultime a Danzica e a Lipsia con folle oceaniche che sfidarono  i divieti del regime – una circostanza occasionale rese l’apertura repentina e non graduale, come era nell’intento del nuovo vertice succeduto all’intransigente Honecker dimessosi 20 giorni prima; si intendeva facilitare i permessi per l’Ovest ma sottoponendoli comunque ad autorizzazioni preventive. Si è trattato dell’errore di comunicazione del portavoce delle autorità dell’Est nel rispondere alla precisa domanda di un giornalista italiano che l’apertura sarebbe stata immediata.

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Manfred Uhlenhut, “Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 11.11.1989

La conferenza stampa era trasmessa per televisione per dare conto della riunione decisiva cui il portavoce, peraltro, non aveva partecipato, quindi seguita da tutta la popolazione. Si scatenò all’istante la pressione della gente che si accalcava agli accessi e spingeva per passare, si cercava di creare aperture nel Muro e i giovani vi si arrampicavano per scavalcarlo,  mentre  le guardie di confine non osarono reprimere nel sangue un moto così spontaneo e unanime.  Così la caduta del Muro ancora solo simbolica divenne una festa di libertà.

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Dietmar Katz,”Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 17.11.1989

Per meglio comprendere l’eccezionalità e anche la gravità dell’evento basti pensare che fu seguito direttamente dai sommi vertici degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, i presidenti Bush e Gorbaciov, in contatto telefonico tra loro e con il capo del governo della Germania Ovest Kohl, il quale rassicurò il capo del Cremlino che non ci sarebbe stata alcuna destabilizzazione perchè il flusso inarrestabile da Berlino Est a Berlino Ovest non era uno svuotamento ma alla visita liberatrice seguiva il rientro nelle proprie abitazioni all’Est per la consapevolezza che l’apertura era definitiva. Dopo questa accelerazione, la ruota della storia continuò a girare velocemente, dopo pochissimi anni lo scioglimento dell’Unione Sovietica e in seguito la riunificazione della Germania. La festa di libertà dei tedeschi di Berlino assunse dimensioni continentali.

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Dietmkar Katz, “Potzdamer Platz”, Berlino-Berlin 17.11.1989

La galleria fotografica sul Muro di Berlino

Nel visitare la mostra ci si sente percorsi da un brivido, le immagini rendono il clima da incubo in cui sono vissuti i berlinesi, sono per la più in un bianco e nero fosco e oscuro, soltanto le ultime nel loro colore hanno le luci della festa per la liberazione dall’incubo, il Muro è caduto, metaforicamente prima che materialmente, la gente festeggia. Una mostra ammonitrice, un “memento” più che una celebrazione.

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Dietmar Katz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin, 10.11. 1989

La storia narrata dalle fotografie esposte inizia con la conferenza stampa del 15 giugno 1961 di Walter Ulbricht che dice al microfono: “Nessuno intende costruire un muro”. Prosegue due mesi dopo con la gente dell’ovest sorpresa che sale sulle sedie e protende due bimbi alzandoli con le braccia nella Bernauer Strasse perché guardino al di là mentre lo costruiscono; i lavori cominciarono il 13 agosto fino al completamento dei 43 chilometri della cortina di ferro calata nel corpo vivo della città.

Immagini sempre prese da ovest, come quelle del “Checkpoint Charlie” con la fanciulla bionda in abito bianco tra i “Military Police” alleati nello stesso mese, e del carro armato americano che vigila. Visioni da incubo le due foto a Kreuzberg nel 1962 con il filo spinato sul muro e nel 1977 con il muro rinforzato dal cemento armato e portato a metri 3,60: cambia il muro, non muta la solitudine resa dalla persona che si allontana nell’una, dall’auto sullo sfondo nell’altra, con i due rispettivi autori, Lehnartz e Tullmann, a trasmettere una desolazione di marca felliniana. Un filo di speranza nella foto del 1975, due bambini saliti sul muro nella Bernauer Strasse tra il filo spinato.

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Dietmar Katz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor
22.12. 1989″

Passano gli anni, siamo nel novembre 1989, ci si arrampica con o senza scale, per lo più sono immagini isolate in bianco e nero, tranne le due foto cult a colori con la gente sul muro in piedi e seduta in primo piano o avendo dietro la Porta di Brandeburgo; poi la folla che si ammassa trattenuta dai soldati. Corale è la fila alla Porta di Brandeburgo, in un bianco e nero che non ha nulla di festoso, sembra una coda per la tessera annonaria.

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Klaus Lenhart, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989

Le immagini ancora inquietanti della Stasi, la famigerata polizia segreta, un mese dopo la caduta del muro, sono lì a far tornare l’incubo. Immortalata la donna che infila la testa in un grande buco praticato nel muro per guardare al di là, quasi che nel gennaio del ’90 si fosse ancora increduli. C’è anche ben visibile la larga apertura praticata a picconate, una sorta di breccia di Porta Pia berlinese.

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Klaus Lehnartz, “Postdamr Platz, Berlino-Berlin, 12.11.1989″”

Perché “l’abbattimento ufficiale, ricorda Reinhard Schultz, curatore della mostra, fu iniziato il 13 giugno 1990 nella Bernauer Strasse”: la strada con i bimbi sollevati in alto per vedere, quella dove due bambini sono saliti sul muro, la strada dove sono rimaste le poche tracce del muro.

La visita di Reagan del novembre 1990 alla Porta di Brandeburgo ingabbiata da un’impalcatura evoca i lavori in corso della nuova Germania. Il bianco e nero resta, è la chiave della mostra: rivivere l’incubo per non dimenticare. Ritroviamo il colore nell’urna al centro della sala, con un frammento di muro colorato dai graffiti in rosa e celeste.  Per i ventotto anni di buio cupo questi colori delicati esprimono l’anelito di libertà.

Klaus Lehnartz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989

Info

Palazzo Incontro, via dei Prefetti, 22 Roma. Catalogo “”Il Muro di Berlino, The Berlin Wall, DieBerliner Mauer 1989-2009” , a cura di Reinhard Schultz, edito da Galerie Bilderwilt 1989, trilingue italiano-inglese-tedesco, pp. 80, formato 21 x 29. Cfr. i nostri due articoli che usciranno in questo sito prossimamente, nel gennaio 2010, sulla mostra fotografica programmata presso il Palazzo Esposizioni per dicembre-gennaio 2010, di Davide Monteleone il quale racconta per immagini il suo “viaggio della memoria” lungo “La linea inesistente” dell’ex Cortina di ferro, che culmina a Berlino, cui dedicheremo il secondo articolo.

Foto

Le immagini sono state riprese dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono inserite, a parte quella di apertura, in ordine cronologico, dal 1961 al 1989. In apertura, Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse, Berlino-Berlin” 06/1975″; seguono, Will McBride, “Bernauer Strasse,” Berlino-Berlin 1961, e Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse”, Berlino-Berlin 08/1961″; poi, Gardi, “Leipziger Platz” 1964, e Abisag Tullmann, “Kreuzberg”, Berlino-Berlin 1977; quindi, Klaus Lehnartz, “‘Neukolln”, Berlino-Berlin 08/1981″, e Manfred Uhlenhut, “Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 11.11.1989″; inoltre, Dietmar Katz,”Muro – Wall – Mauer, Berlino-Berlin 17.11.1989″ e “Potsdamer Platz” 17.11. 1989″ ; ancora, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor” , Berlino-Berlin, 10.11. 1989, e “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor” , Berlino-Berlin, 22.12. 1989, continua, Klaus Lenhart, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor, Berlino-Berlin 11/89, e “Potzdamer Platz” Berlino-Berlin 12.11.1989; infine, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989, e “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 12/1989 .

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Klaus Lenhartz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 12/1989″”

1 Commento

  1. Lorenzo

Postato novembre 9, 2009 alle 11:51 AM

Interessantissimo!
Per completare l’argomento invito a dare un’occhiata al mio blog, dove alla pagina “RDT (Germania Est)” c’è una ricca galleria di foto ad alta definizione, raffiguranti i confini berlinesi anche nel periodo “pre-muro” 1950-1961.
Saluti cordiali!

Berlino, Il Muro Infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre

di Romano Maria Levante

Nel trentennale della caduta del Muro di Berlino la mostra “Il Muro infranto, Berlino, 9 novembre 1909, di Anna Di Benedetto Pace”  espone dall’8 novembre 2019 al 15 gennaio 2020 alla Sala da Feltre – Open Art agli Orti di Trastevere in Roma, una serie di istantanee scattate dalla fotoreporter inviata nel novembre 1989 a Berlino.  La mostra è a cura di Sabrina Consolini. Nel  catalogo  di Gangemi Editore International le immagini sono accompagnate dalla cronaca viva di quei giorni dell’autrice dello storico “reportage”.

“I segni e le ombre”

L’evento e la testimone che lo ha fissato nelle immagini

Ci sono eventi, tragici o festosi, che segnano l’immaginario collettivo a livello planetario, a ognuno  capita di chiedersi, e spesso di ricordare, dov’era  quando ha ricevuto  la notizia dell’attentato a Kenendy o di quello alle Torri Gemelle, così per la caduta del Muro di Berlino. Esattamente trent’anni fa, il 9 novembre 1989, siamo rimasti avvinti  davanti al televisore, come tutti del resto, partecipi della gioia collettiva che bucava lo schermo, con  un popolo che si liberava da una  segregazione trentennale. Un anno dopo siamo andati a Berlino, c’era ancora aria di festa ma il momento magico era passato, del muro restavano poche tracce anche se venivano venduti frammenti con un’improbabile certificato di autentica in fotocopia.

Anna Di Benedetto, invece, si è trovata a Berlino e ha potuto  vivere direttamente i momenti topici di un simile evento. Infatti, da giovane giornalista, in quall’inizio di novembre,  era stata inviata dal settimanale “Il Sabato”, rilanciato alla grande da Paolo Liguori, a Berlino per un servizio su come la città viveva un momento di attesa per quello che si muoveva al di là del muro, dopo i primi segni di allentamento delle ferree misure restrittive evidenti nella svolta impressa da  Gorbaciov. Una giornalista fotoreporter, qualificata e intraprendente, nello stesso 1989 la sua partecipazione  a Torino Fotografia 1989,  tre anni prima a “Vetrina” nel Parterre di Firenze, all’estero alla Biennale dei giovani di Barcellona. Quindi la persona giusta, con l’entusiasmo giovanile e la professionalità giusta, nel posto giusto al momento giusto.

“Giostra di sentimenti”

Nel trentennale dell’evento presenta una selezione tra le 300 fotografie scattate, sono state scelte immagini quasi di quotidianità, con i volti raggianti di gioia della gente dell’est che incontrava quella dell’Ovest altrettanto felice del ricongiungimento tanto atteso. Oltre  a quelle, naturalmente, del  “Muro della vergogna” con i   giovani che lo aggrediscono con piccoli punteruoli, incapaci anche di scalfirlo per “souvenir”, ma in grado di esprimere tutta la rabbia repressa che si sfoga come può.

Da allora la fotografia di ricerca è stata la grande passione della Di  Benedetto,  sui quattro  elementi, acqua, fuoco, terra, aria, sulla luce e il buio, ma anche su  grandi campioni dello sport. Dopo quotidiani e riviste, entra in RAI , con rubriche  e reportage culturali, dalle opere d’arte dimenticate  ai restauri, dal  buio della  distruzione alla luce della  ricostruzione della “Fenice” di Venezia, dalla lirica nei grandi teatri all’architettura delle nostre città; nel Giubileo del 2000 esplora la storia e la cultura del  “cammino medioevale”, sua l’inchiesta premiata  su “I cantieri della Serenissima”e  quella di successo sulla figura di Caterina da Siena, sua la rubrica  “Angeli d’Europa”  nei luoghi di cultura europei con le loro storie.  Non mancano video,  cortometraggi e, naturalmente, interviste ai personaggi del mondo della cultura. Sono alcuni elementi tratti fior da fiore da una vita professionale nella cultura particolarmente intensa.

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“Il cuore oltre l’ostacolo”

Ma questo è stato “dopo”, nel 1989 la vediamo attiva e intraprendente, nella Berlino sospesa dall’incertezza, pronta a cogliere l’occasione che si sarebbe presentata di fissare sulla pellicola un momento epocale. E lo fa in un “reportage” che ci viene proposto come si trattasse di un’opera teatrale in 3 quadri: “Divisioni”,  “La Gabbia”, “Il cambiamento”.

Le immagini esposte ci fanno rivivere le emozioni che, pur da lontano, provammo tutti davanti al televisore. In prevalenza c’è il Muro, nella sua presenza incombente, i “graffiti” colorati dei writers  metropolitani hanno ingentilito l’immagine spettrale che resta nella realtà per i morti che ha provocato; ma anche immagini della gente comune, dell’Est e dell’Ovest. La galleria si apre con “I segni e le ombre”, rivelatrice del clima, poi la sequenza di fotografie nei 3 “quadri” della rappresentazione evocativa.

Il “reportage”, le Divisioni, la Gabbia, Il cambiamento

Le “Divisioni” suscitano la “Giostra dei sentimenti”, ansie e attese davanti a un muro che è un “tazebao”,  si legge “Doors not Walls” – ripensiamo a scritte attuali dello stesso tono – e anche in grandi caratteri “Kant”, chissà se è un richiamo al cielo stellato, che l’ oppressione non può  cancellare, e soprattutto alla legge morale che invece viene calpestata.  Due immagini sull’”Attesa” mostrano la gente che si accalca intorno al muro, le voci che si potrà passare si sono moltiplicate, si cerca una posizione di prima fila per essere tra i primi, i graffiti variopinti sembrano sottolineare la festa che si preannuncia. C’è qualcuno che non può più aspettare, “Il cuore oltre l’ostacolo” lo mostra  aggrappato alla sommità del muro, la scritta “El Salvador” fa pensare alla salvezza, più che alla nazione sudamericana. Ma ancora “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro alla Porta di Brandeburgo”, lo vediamo in piedi serio e compassato, restano i pericoli della reazione dei “Vopos”, ma per fortuna sono increduli e in qualche caso fraternizzano, non aggressivi.

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“L’attesa”

Tanto che, mentre “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”. E’ forse l’immagine più straordinaria dell’intero servizio,  rende perfettamente la  costrizione dell’Est dove anche un buco viene sorvegliato, rispetto all’Ovest, la testa bionda della ragazza contrasta mirabilmente con l’occhiuta presenza oltre il Muro. Ed ecco “Il varco”, il Muro è ripreso da lontano, si vede la gente che si accalca per passare dall’altra parte.

Le 10 immagini che documentano “La Gabbia” mostrano  le due facce della realtà. Una faccia la vediamo nella “Tenacia” dei giovani che scalfiscono impotenti il muro con i loro scalpelli, e nei “Frammenti di memoria”, sempre con i graffiti variopinti,  che si cerca di prendere come “souvenir” quando ormai non vi sono più dubbi sul lieto fine; non solo giovani tedeschi, anche una figura con una giacca a vento rossa e un cappello a bombetta da peruviano; “Al di là del muro” si attende,  è vicino il momento di rivedere i propri cari e amici segregati nell’Est della città.

Dell’altra faccia della realtà, vediamo  il volto e la figura degli agenti, con le loro divise e i loro berretti che non incutono più timore, sono ormai inoffensivi, in “Contrapposizioni. La libertà controllata” e “Confine” la gente discute con loro. Ma non si possono dimenticare i “vopos” assassini: lo testimonia “L’ultima croce per Chris”,  la vediamo  fissata a una rete vicino al muro nel ricordo del ragazzo ucciso nel tentativo di superarlo per raggiungere Berlino Ovest, il 6 febbraio, nove mesi prima della caduta del Muro; ripensiamo al proiettile che in “All’Ovest niente di nuovo”, fulmina il giovane sulla trincea  a guerra ormai finita, proviamo la stessa stretta al cuore che ci suscitò allora  quell’immagine di morte così ingiusta  e beffarda.

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“Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”

Nel terzo “quadro” dell’opera teatrale che viene presentata per immagini, “Il cambiamento”, vediamo i due “vopos” presi dal “Dubbio”, hanno il colbacco, vicino ad una rete, il terreno coperto di neve, l’immagine di una “Fuga” sulla neve è enigmatica, come lo sono le “Vestigia contrastanti”, il Muro in primo piano  e le colonne della Porta di Brandemburgo di sfondo sfuocate, ancora i “Cuori ribelli” e la “New generation” , giovani che scalano il muro o lo  scalfiscono con punteruoli,  c’è ancora “Il freddo della storia” nei volti   di alcuni, ma le minestre calde e il vin brulé  dell’“Accoglienza e solidarietà” della gente dell’Ovest riscaldano i  fratelli dell’Est; le immagini sono eloquenti, non c’è più il Muro, la comunità si è subito ricostituita, anche se non mancano le discussioni, si cominciano a confrontare le rispettive esistenze, così diverse.

I “Colori del futuro” e il “Sogno d’Occidente”   offrono immagini  espressive dei miraggi  che si aprono,  la rutilante auto sportiva rossa dov’erano le utilitarie Trabant a due tempi come una motocicletta, rumorose e inquinanti, l’ampolla con all’interno qualcosa cui solo la fantasia può dare un contenuto, i colori e il futuro compongono una miscela inebriante.  Ma si finisce con il Muro, “Uno squarcio verso la zona franca”,  nome ingannevole perché al contrario era  chiamata più propriamente “striscia della morte”, lì i “vopos” facevano le loro vittime. E l’alta fessura “Per guardare oltre”, che fa scoprire  l’antenna televisiva alta 360 metri, con cui l’Est sfidava l’Ovest, ma il sole riflettendosi sulla sfera posta alla sommità creava per un effetto ottico l’immagine di una croce, beneaugurante come segno divino, che le autorità cercarono di eliminare senza riuscirci.

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Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”

Con questa notazione termina il diario per immagini della Di Benedetto Pace, mentre l’ultima visione del Muro,  in primissimo piano,  sebbene sia imponente, quasi ingigantito, non fa più paura, i graffiti sono in parte scorticati dai tentativi di aprire dei varchi o rendere “souvenir”, è “L’arte strappata”. Per poco tempo il Muro diventerà un reperto, poi verrà tolta  ogni traccia, la vista anche  di pochi tratti inizialmente lasciati come “memento”  era fonte di ricordi angosciosi, con la loro scomparsa la liberazione si è compiuta. Comunque, “La città ritrovata” si presenta subito nel suo ritorno alla normalità di prima del Muro.

I ricordi di quei momenti dell’amica  giornalista 

Tutto questo è stato colto dall’autrice del “reportage”, di cui abbiamo citato i titoli, con gli altri motivi  contenuti nelle ulteriori immagini del suo archivio; ci si chiede qual è stato il criterio della scelta, dato che la maggior parte delle immagini sono “normali”, nessun effetto speciale di arte fotografica. Per lo più vediamo la quotidianità di una giornata pur straordinaria, l’evento ricondotto a una dimensione domestica. Ma per scattare tante fotografie nel torpore dell’attesa  prima, nella concitazione dell’evento poi,  c’è voluta molta energia, con la fotoreporter  in punti di osservazione spesso acrobatici, oppure nei passaggi tra Est e Ovest quando ancora le notizie rimbalzavano incerte e mutevoli, fino alla sospirata conferma data per comunicato stampa, .ma poi tradottasi in un’ondata popolare irrefrenabile, come una valanga umana.

Così rievoca quei momenti Maria Gabriella Susanna, giornalista anche lei che ha condiviso quei momenti a Berlino con la Di Benedetto Pace: “Bisognava fotografare tutto e tutti in un solo momento. Cogliere gli stati d’animo, gli abbracci e l’energia dei colpi di scalpello per salvare le scritte, i murales da immortalare  come iconografie di un secolo. Ognuno portava a casa un frammento di quei graffiti con poesie, disegni pop, dichiarazioni d’amore e anche parole oscene contro il potere, che avevano costituito  un dialogo muto tra i tedeschi di Est e Ovest, ma anche una denuncia  fantasiosa sullo ‘Schandmaue’ (Il Muro della Vergogna)” come lo definirono i berlinesi. Morirono così i contrasti: tutto sembrava dissolversi in una notte di grida, di pianti, di entusiasmi sotto la Porta di Brandemburg”.

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“Tenacia”

E sulle immagini afferma: “Sono foto da pellicola studiate scatto dopo scatto, senza l’opportunità delle tecniche correttive di oggi. Un click, e l’istante è quello, immodificabile, con tutto il suo fascino e la sua intensità”, qui risiede la magia della fotografia istantanea. “Svela lo stato dei sentimenti, ma anche le probabili incomprensioni, le differenze somatiche e gli atteggiamenti di un popolo uguale costretto da una separazione fisica e materiale a sentirsi diverso”. E in molte immagini la gente dell’Est si mescola a quella dell’Ovest che la accoglie con i conforti del caso.

I ricordi dell’autrice del “reportage”

Sentiamo, dal racconto della protagonista, i particolari di quel “reportage” straordinario.  Abbiamo detto che scattò 300 fotografie, sembrano troppo poche rispetto alla grandezza dell’evento, almeno con i criteri di oggi. Ma aveva una scorta limitata di rullini Kodachrome per la sua Nikon, e doveva contenersi per non rimanere senza nei momenti topici. Dalla parte dell’Est e dell’Ovest  è “un fiume in piena inarrestabile”, dice la giornalista, che si riversava dopo i primi momenti di incredulità. “Ricordo il forte brusio gioioso della folla e anche il rumore fragoroso delle prime Trabi o Trabant che iniziarono a uscire dal varco suonando il clacson. Mi resi conto di vivere la storia”.  

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“Frammenti di memoria”

Era giunta in treno due giorni prima, con l’amica giornalista Susanna, ospite a Berlino Ovest di due amici che poi, due giorni dopo la caduta del muro, le portarono in giro per la città con l’auto scoperta, in modo che, in piedi sul sedile, lei potesse fotografare  ciò che avveniva lungo il loro percorso;. Ovviamente si muoveva anche a piedi, nessun disagio pur quando si metteva in posizioni acrobatiche, come nessuna fatica nel portare la pesante attrezzatura, l’attenzione era tutta su ciò che avveniva per le strade: “I Berlinesi dell’Ovest, già nelle prime ore della notte del 9 novembre, avevano organizzato spontaneamente punti di ristoro. Provvedevano a donare, nel freddo pungente di quei giorni, zuppe calde e vin brulè”, lo abbiamo visto nelle immagini. “I Berlinesi  dell’Est erano sopraffatti dalla gioia e increduli per quello che stava accadendo. Si spostavano freneticamente nella città ritrovata, come se tutto potesse svanire all’improvviso, da un momento all’altro. Ma nulla svanì”.

Poi l’ attenzione si sposta verso il Muro: “Ricordo che la folla rendeva difficile avvicinarsi al Muro. Ognuno voleva portarsene  via un pezzo, e così martelli, scalpelli, e qualsiasi utensile utile allo scopo, fecero il loro ingresso nelle mani di chiunque. Tutti volevano partecipare alla distruzione di quel simbolo di divisione. . Tutti volevano portarsi via la testimonianza di quel momento storico. I  nostri amici continuavano a ripetere:.’We Were There!’, ‘Noi c’eravamo’”.

Per questo  abbiamo riportato testualmente alcuni ricordi dell’autrice del “reportage”, lei c’era  e ha la fortuna di dire: “L’esperienza di quei giorni  mi rimarrà per sempre nella mente ma soprattutto nel cuore”.

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“Il dubbio”

Una storia epocale, dalla palla di neve del Muro alla valanga liberatoria

E’ stata una pagina di storia, nel grande libro della “guerra fredda”  che ha portato alla contrapposizione dei due blocchi, Unione Sovietica e paesi del Patto di Varsavia all’Est, e l’Occidente  con l’Europa e gli Stati Uniti d’America all’Ovest,  la Germania divisa in due con gli accordi di Yalta,  poi la cortina di ferro calata sull’Europa, come disse Churchill, “da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico” con settemila chilometri di barriere invalicabili. La  città di Berlino anch’essa divisa in zone amministrate dalle potenze vincitrici, in sostanza in due parti assegnate ai due blocchi contrapposti.

Per circa quindici anni la situazione tenne, i passaggi tra le due parti della città per i motivi più diversi erano normali, finché la libertà e il benessere dell’Ovest fecero sì che 2 milioni di persone non rientrarono nella zona Est.  Finché nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 nel confine tra le due zone fu posta una  barriera di 135 chilometri di filo spinato, poi  finestre al confine murate,  edifici abbattuti, separazioni innaturali tra parti contigue.

Il filo spinato circondava l’intera città, poi fu sostituito dal Muro, come le cinte murarie delle carceri,  tale era diventata Berlino Ovest. Per la divisione con Berlino Est  il  muro era di 42 chilometri.  prima  eretto da muratori con mattoni, blocchetti e cemento armato, in seguito rafforzato con grossi prefabbricati alti 4 metri  e pesanti 3 tonnellate ciascuno; dieci anni dopo il raddoppio, doppia barriera con frapposta una “terra di nessuno” che divenne, come abbiamo già ricordato, la “striscia della morte”  per le tante vittime dei berlinesi fulminati dai  “vopos”  che vigilavano dalle 300 torri di controllo e pattugliavano con cani addestrati.  Per i passaggi autorizzati c’erano soltanto 8 posti di controllo, il più noto il “Checkpoint Charlie” che immetteva nel settore americano.

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“Cuori ribelli”

Dalla “prigione” che era diventato Berlino Est,  i tentativi di fuga oltre il Muro erano continui. Le finestre al confine furono murate per impedire che si gettassero dall’alto per entrare nell’altra parte con sprezzo del pericolo; l’anelito della libertà non solo faceva sfidare la morte, ma moltiplicava l’inventiva, dai tunnel sotterranei alle teleferiche fino ai palloni aerostatici, non parliamo delle automobili  con doppio fondo e dei tanti stratagemmi. E non mancavano i temerari che cercavano di superare il Muro calandosi dall’altra parte e divenendo bersaglio dei “vopos”, le vittime furono  130, ma ben  5000 riuscirono a fuggire nei 28 anni di permanenza del Muro.

L’avvento di Gorbaciov al vertice dell’Unione Sovietica segnò la fine del regime accentratore e oppressivo verso gli altri paesi dell’Est, la “perestrojka e la “glasnost”  incoraggiarono  movimenti libertari in Cecoslovacchia e Ungheria, non più soffocati come era stato all’epoca dei “fatti d’Ungheria” e della “primavera di Praga”; la gente  non solo protestava pubblicamente rivendicando libertà e democrazia, ma fuggiva attraversando frontiere dove non poteva esserci nessun muro, finché caddero anche i fili spinati. Dall’Ungheria e Cecoslovacchia si cominciava  a passare in Austria e nella Repubblica Federale Tedesca.

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New Generation”

In questa situazione che evolveva rapidamente verso una sempre maggiore liberta di movimento senza più opposizioni armate la Germania Est, nonostante l’oppressivo apparato poliziesco  della STASI, incontrava difficoltà crescenti nel cercare di resistere alle pressioni popolari che si esprimevano con una serie di manifestazioni di protesta, dato che non c’era più la mano armata del regime sovietico a sostenerla.

Un mese prima della caduta del Muro ci fu a Dresda una manifestazione popolare con 20.000 partecipanti, e anche a Lipsia con un numero maggiore, si parlò di 100.000, nonostante il regime avesse ammonito che non l’avrebbe tollerata. Ma, come ha ripetuto un testimone, se fossero stati pochi li avrebbero fermati, erano troppi anche per i 5.000 agenti armati.

Il dittatore Eric Honecker – di cui  è esposta in mostra l’immagine del celebre bacio in bocca a Breznev  – si dimise il 18 ottobre 1989  dopo 18 anni di potere ininterrotto. Tre settimane dopo, nella giornata del 9 novembre in una riunione del nuovo vertice fu stabilita  una maggiore apertura verso l’Occidente. Riguardava una liberalizzazione dei permessi tra Berlino Est e Berlino Ovest,  da motivare e richiedere con il passaporto, documento peraltro dato con il contagocce, sarebbero stati larghi nelle concessioni.

Qui scatta la ricostruzione di come fu possibile  che nella stessa giornata in cui si prendevano decisioni all’insegna di una certa gradualità la situazione precipitò, prendendo di sorpresa le autorità. Tre sono i personaggi-protagonisti nei quali è  racchiusa la storia di quella giornata memorabile, oltre alla gente.

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“L’arte strappata”

Il primo protagonista è il portavoce del governo dell’Est, che in una conferenza stampa comunicò le decisioni della riunione alla quale non aveva partecipato, quindi non aveva notizie dirette; si tenne nel vago pur prospettando la liberalizzazione degli accessi. Il secondo protagonista è un giornalista italiano, corrispondente dell’Ansa, che chiese precisazioni su tempi e modi, il portavoce – dopo aver posposto la risposta a quella data a compiacenti giornalisti tedesco- orientali – non potè sottrarsi e si lasciò sfuggire che avevano effetto immediato senza limitazioni; per il giornalista dell’Ansa fu tutt’uno correre a telefonare alla sua Agenzia che il Muro era caduto, ma i berlinesi  non dovettero attendere i giornali dell’indomani perché la conferenza stampa era trasmessa per televisione, così da entrambe le parti del Muro una folla oceanica accorreva senza alcun freno. Il terzo protagonista è il capo delle guardie del confine tra l’Est  e l’Ovest, all’accorrere della massa umana non si sentì di ordinare ai suoi uomini di fermarla con le armi, capì e sentì che non poteva farlo, sarebbe stata una carneficina.  Mentre il giornalista italiano ebbe una medaglia e fu elogiato da Kohl, per i due tedeschi la soddisfazione di aver scritto una pagina di storia: il portavoce per aver anticipato ciò che sarebbe stato solo graduale, il comunicato ufficiale previsto per l’alba  del 10 novembre avrebbe indicato le modalità di una apertura progressiva e controllata, non di liberalizzazione totale e immediata; il responsabile delle guardie di confine che disse “ho vissuto la miglior e peggiore notte della mia vita” per avere evitato  il  bagno di sangue che non avrebbe fermato ciò che era inarrestabile.

Lungo il Muro non ci furono momenti drammatici,  il clima di festa coinvolse anche le guardie, tutto avvenne in un modo impensabile in tali circostanze, perchè quando i mutamenti epocali precipitano ciò comporta disordini e violenze, rivolte e repressioni, nulla di questo avvenne.

I grandi della terra,  i presidenti, l’americano Bush e  il sovietico Gorbaciov si tennero in stretto contatto tra loro e con il capo del governo della Germania Ovest Kohl per controllare la situazione. Anche se centinaia di migliaia di persone  erano passate da una parte all’altra della città, la maggior parte di loro  erano rientrate nella propria  zona: la “breccia” non era temporanea ma definitiva, quindi non serviva fuggire. 

Un‘ultima immagine del Muro

Kohl  lo comunicò in un telefonata a Gorbaciov in quei giorni drammatici, per rassicurarlo che non era in corso un esodo sconvolgente, concludendo così: “Non molto tempo fa le ho detto che non vogliamo una destabilizzazione della situazione nella DDR. Sono sempre di quell’idea”. E Gorbaciov: “I cambiamenti si verificano addirittura più in fretta di quanto potessimo immaginare solo poco tempo fa… Tuttavia, per mantenere la stabilità, è importante per tutti agire responsabilmente. Tutto sommato, io credo che stiamo migliorando i fondamenti di una comprensione reciproca. Ci stiamo avvicinando gli uni agli altri. E’un fatto molto importante… Io penso, signor Cancelliere, che stiamo vivendo una svolta storica verso nuove relazioni, verso un mondo nuovo”.

E possiamo così celebrare questo trentennale, un lungo intervallo di tempo nel quale gli avvenimenti epocali si sono moltiplicati. La fine dell’Unione Sovietica con la libertà riconquistata dai paesi dell’Est che ne facevano parte, al punto che alcuni tra i più importanti come  Polonia e Ungheria sono entrati  nell’Unione Europea; la riunificazione della Germania con il ritorno della capitale a Berlino, dopo aver avuto due capitali, Bonn per la parte Ovest e Pankov per la parte Est; nella riunificazione fu riconosciuta la parità tra due monete molto lontane tra loro.

Sono soltanto dei flash di eventi straordinari di dimensione continentale e mondiale. Ma tutto nasce da quella serata del 9 ottobre 1989, la palla di neve trasformatasi in valanga liberatrice e benefica.

Come non ringraziare Anna Di Benedetto Pace per averci fatto rivivere quei momenti?  Perché lei “c’era”,  “She  Was There”  direbbero  i suoi amici che l’hanno ospitata allora;  per quanto ci riguarda, anche se eravamo a casa incollati al televisore, attraverso le sue immagini e le sue parole  ci sentiamo di dire con la mente ed il cuore: “We Were There”, anche noi c’eravamo.  

Il bacio”, tra Breznev e Honecker

Info

Sala da Feltre-Open ART, via Benedetto Musolino, 7 (Orti di Trastevere). Dal lunedì al giovedì ore 9-13, 14-17, venerdì chiusura ore 16, ingresso gratuito; festivi e prefestivi per appuntamento, tel. 06.585205274. Catalogo: Anna Di Benedetto Pace, “Il Muro infranto. Berlino 9 novembre 1989”, Gangemi Editore International, ottobre 2019, pp. 48, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo relative alla mostra, quelle sui colloqui telefonici Kohl-Gorbaciov sono tratte dal catalogo della mostra del 2009 Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 22 x 30,5. Oltre al presente articolo sulla mostra in atto, abbiamo ripubblicato, sempre in data di oggi, tre nostri articoli usciti su due mostre tenutesi a Roma nel novembre 2009: per la prima mostra, di cui al catalogo appena citato, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni ” e “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” ; per la seconda mostra, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale al Palazzo Incontro“. I tre articoli furono pubblicati in cultura.inabruzzo,it (ora non più raggiungibile), il 12 e 14 gennaio 2010 per la prima mostra, il 9 novembre 2009 per la seconda. In tal modo, nel giorno del trentennale della caduta del Muro, celebriamo l’evento con la recensione sulla mostra attuale, e anche con le nostre recensioni sulle due mostre del 2009 celebrative del ventennale.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Sala Feltre – Open Art all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’autrice delle fotografie, per l’opportunità offerta. Sono inserite nell’ordine della citazione nel testo, con le didascalie date dall’autrice. In apertura, “I segni e le ombre”; seguono, “Giostra di sentimenti”, e “Il cuore oltre l’ostacolo”; poi, “L’attesa” e “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”; quindi, “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”, e “Tenacia”; inoltre, “Frammenti di memoria” , e “Il dubbio”; ancora, “Cuori ribelli” e “New Generation”; continua, “L’arte strappata” ‘e Un’ultima immagine del Muro; infine, “Il “acio” , tra Breznev e Honecker e, in chiusura, Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute.

Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute

Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, nella Sala da Feltre” del 9 novembre, ripubblichiamo, sempre oggi in questo  sito, il presente  articolo uscito nel ventennale, il 14 gennaio 2010 , e il precedente, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” del 12 gennaio, nonché l’altro nostro articolo del 9 novembre 2009, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro”. Questi 3 articoli furono pubblicati in “cultura.inabruzzo.it” (non più raggiungibile). Le immagini su Berlino inserite non riguardano la mostra, ma la caduta del Muro,, tratte da siti web attuali, ce ne scusiamo con Davide Monteleone per aver ceduto, in questa ripubblicazione, all’odierna enfasi celebrativa.

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cultura.inabruzzo.it – 14 gennaio 2010 – Postato in: Eventi

Si conclude la visita alla mostra “La linea inesistente”, con 70 fotografie di Davide Monteleone lungo l’ex Cortina di ferro, Il viaggio del giovane reporter raggiunge il suo culmine a Berlino, nel ventennale della caduta del Muro, alla riscoperta delle atmosfere di un’epoca e di un evento cruciale per la vita e la coscienza d’Europa nella mostra di Roma aperta fino al 24 gennaio al Palazzo Incontro, promossa da “Italianieuropei” con “Contrasto”.

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Il viaggio nella memoria

Il reportage dalla “linea inesistente” diventa un viaggio nella memoria che il giovane Monteleone vuole recuperare quando dice: “Ricostruisco nella mia mente una storia che non ho vissuto, a cui non ho partecipato. Avrei voluto accarezzare il muro dal lato di Kreuzberg, superandolo sottoterra con il metrò, vedere i lugubri bagliori delle stazioni, avvicinarmi curioso a una porta di Brandeburgo deserta. Avrei voluto arrampicarmi su quel muro, spingere insieme alla folla, essere testimone di quel momento storico”. Con questo nel cuore lo accolgono le ali aperte del grande angelo liberatore.

Forse vorrebbe esserne stato protagonista e non solo testimone, se si rammarica di non aver “partecipato”, di non aver potuto “spingere insieme alla folla”; è chiara la volontà di “arrampicarsi” sul Muro magari quando era ancora sorvegliato dai “vopos”, e ricordiamo l’immagine dei ragazzini ripresi dal fotografo rischiosamente affacciati nel pieno della sua efficienza alla mostra di Palazzo Incontro, sempre a Roma; nei “lugubri bagliori delle stazioni” si sente tutto il regime di polizia.

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Così il diario di viaggio diviene un diario dell’anima, dopo aver attraversato “campagne piatte, cieli grigi, enormi spazi vuoti, il terreno ideale per due mondi che un tempo si fronteggiavano”. A Berlino, il centro dell’Europa, si sono sfidati e confrontati, c’è stato un vincitore e uno sconfitto. Ma il giovane reporter non può sentire tutto questo lungo la “linea inesistente” e giunto dove se ne sente ancora l’esistenza, è il dicembre 2008, si accontenta per il momento delle immagini del Checkpoint Charlie, l’ingresso di un tempo verso la libertà. Per il viaggio nell’inferno di ieri ci tornerà un anno dopo, a un mese dal ventesimo anniversario della caduta del Muro, il giorno dei 60 anni dalla proclamazione della Repubblica democratica tedesca nel settore sovietico della città.

Le immagini si fanno intense, ha frapposto spazio e tempo ai “chilometri di terra piatta e vuota”, prima di entrare nelle viscere di “Berlino, il centro dell’Europa. Straziata dalla Seconda guerra mondiale, divisa dagli accordi di Yalta, di Potsdam, separata dal Muro. Isola nel cuore della vecchia Germania Est, divisione nella divisione”. Aggiungiamo un ricordo personale, della nostra visita a Berlino l’anno dopo la caduta del Muro ci è rimasta negli occhi l’immagine del campanile crivellato di colpi lasciato per “memento” a fianco di quello modernissimo, e della collina che domina la città formata dalle immense macerie di una metropoli totalmente distrutta. Poi la monumentalità austera e inquietante della zona Est della città.

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La galleria di immagini di Berlino

Siamo al 5 ottobre 2009, la galleria di immagini inizia con un volto sofferente, seguono due poliziotti sulla porta di Brandeburgo, animali in una fosca oscurità, quindi l’arteria larga novanta metri per le parate militari, una Via dell’Impero socialista. Subito dopo dei fiori, una ragazza a un tavolino d’angolo nella penombra di un caffé, il volto intenso in primissimo piano, l’immagine di un enorme edificio che schiaccia la piccola figura nel grande cortile immerso nell’oscurità. Poi un’immagine ancora più oscura, “quel troncone di Muro rimasto in piedi a ricordare la limitazione della libertà su Bernauer Strasse mi appare minaccioso, materico, silenzioso e inavvicinabile”.

Lo era allora perché chi si avvicinava per superarlo poteva perdere la vita. Ce lo ricorda Monteleone, non è più il reporter, è un giovane ansioso di ricostruire la storia che non ha vissuto: 136 morti accertati nel tentativo di oltrepassarlo, impresa disperata con oltre 300 torrette di osservazione dove i Vopos armati vigilavano senza pietà; più di cento chilometri il muro eretto tra il 1961 e il 1975.

Dal Muro al camposanto il passo era breve se non si stava attenti, lo è anche oggi per motivi logistici, al termine di Bernauer Strasse c’è il cimitero di Invalidenfriedhof sul canale Spandauer in mezzo al quale passava la linea di confine tra i settori alleati e quello sovietico: la linea oggi inesistente, ma ieri tragicamente presente, una barriera invalicabile tagliava il corpo vivo della città.

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Sono già passati quattro giorni dall’arrivo a Berlino, l’ansia di ricostruire le vicende di allora porta all’aeroporto in disuso di Temphelof, non è possibile visitarlo; si ripiega sul Museo della Tecnica dove c’è un esemplare dei velivoli, dalla sagoma panciuta, utilizzati per il ponte aereo su Berlino dopo che il 24 giugno 1948 i sovietici avevano chiuso gli accessi ai settori occidentali della città interrompendo i collegamenti stradali e ferroviari che passavano nel territorio sotto il loro controllo. Furono interrotti anche i collegamenti elettrici, Berlino Ovest rimase senza viveri, medicinali ed energia. Si sfiorò una nuova guerra mondiale ma la risposta fu pacifica, per oltre 460 giorni, fino al 30 settembre 1949, 1400 voli ogni 24 ore trasportarono giornalmente 13 mila tonnellate di viveri e medicinali, carbone e macchinari: in totale 280 mila voli, 2 milioni 300 mila tonnellate, metà delle quali fatte di carbone per il riscaldamento e la produzione di elettricità. Un esempio di come si può evitare la guerra se si mobilitano tutte le risorse in una battaglia sul piano civile e non militare.

L’immagine che troviamo a questo punto è nera, angosciosa, inquietante, richiama quelle del “Terzo uomo”, là era Vienna, qui Berlino, ma l’atmosfera ci sembra la stessa. Ed è evidente, stiamo per entrare nel cupo mondo della Stasi, l’onnipotente polizia segreta, il Ministero per la sicurezza di Stato. Oltre 90 mila dipendenti, 20 mila informatori, uno ogni 63 abitanti, mentre il famigerato Kgb staliniano ne aveva uno ogni 6000, quasi cento volte meno della Germania Est; Erik Mielke, che ne è stato al vertice dal 1955 alla dissoluzione, diceva che “ognuno è un potenziale rischio per lo Stato” e per questa ossessione paranoica aveva messo su un sistema altrettanto paranoico.

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Monteleone ripercorre attonito questo itinerario allucinante nel suo diario e nelle sue immagini. Che iniziano con un innocuo corridoio dal tappeto rosso dove si aprono insospettabili porte, ci sono anche dei quadri alle pareti. Ma ecco le “interna corporis” rese da scatti semplici ed essenziali: le stanze per gli interrogatori e le celle, le seggiole con la lampada da puntare negli occhi e i tavolinetti, fino ai telefoni per le intercettazioni.

Il diario dell’anima di Monteleone

Leggiamo le parole del diario dell’anima di Monteleone: “I corridoi degli interrogatori sono impressionanti. Ci sono più stanze per interrogare che stanze per detenere. Le sedie, quelle degli interrogatori, non hanno bracciali, sono scomode, isolate, lontane dalla scrivania, quelle dell’’inquisitore’, invece, comode, ampie, basse. Telecamere, sistemi di spionaggio, pedinamenti, controlli assoluti”.

Il giovane con il suo viaggio ha varcato la porta dell’inferno, ascoltiamolo ancora: “Lo sforzo incredibile messo nel controllo della popolazione, della limitazione della libertà individuale, dell’umiliazione personale, della tortura e dei ricatti mi ha sconvolto. I rapporti dei pedinamenti sono tanto assurdi quanto ripugnanti, incredibili”. Ne dà le cifre, quasi incredulo: 112 chilometri i “file” degli archivi messi in fila, 18 milioni le pagine di rapporti, oltre a fotografie, video e registrazioni: furono “salvati” dalla popolazione che occupò la sede il 4 dicembre 1989 temendo che le autorità ancora al potere volessero distruggerli per cancellare le prove di tale barbarie. Sono stati resi pubblici e visibili agli interessati due anni dopo la caduta del Muro, il 29 dicembre 1991.

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Sembra di rivedere “Le vite degli altri”, il film cult che di recente ci ha fatto penetrare in quel mondo d’incubo, ma qui si tratta di toccare con mano la realtà, e il giovane resta fortemente impressionato dalla “spersonalizzazione delle persone” che veniva operata. Le sue fotografie ora non indugiano più sugli strumenti di questa oppressione poliziesca, ce ne fanno sentire l’atmosfera, il peso, l’incubo con degli squarci: il grande palazzo con alcune finestre illuminate, quasi che vi si perpetrassero ancora gli interrogatori, due esterni con alberi, uno con una sbarra di delimitazione, l’altro con molta gente in attesa. Tutti al buio, come al buio sono gli scatti alle persone. Su fondo scuro incombe il viso indagatore con la spessa montatura degli occhiali, il grande inquisitore.

Dopo un’immagine degna di “se questo è un uomo” di Primo Levi, e un’altra enigmatica di un giovane quasi in posa segnaletica, la galleria di interni tutti oscuri: la graziosa giovinetta dagli occhi smarriti e dallo sguardo accorato seduta con la testa appoggiata alla mano destra, i due primi piani all’interno di un’auto fino alla tenerezza della coppia, dove lei si stringe al giovane con trasporto. Tra queste un’altra immagine fosca, c’è quasi somiglianza con Orson Welles del “Terzo uomo”.

Ed ecco il diario di Monteleone raggiungere toni di forte intensità, quasi un “diapason” emotivo che dà alle sue parole il valore di una testimonianza diretta, dove non c’è più nulla di professionale o di costruito, è lo sfogo di un’umanità ferita: “Cammino per la strada e ripenso al numero impressionante degli agenti, degli informatori e dei perseguitati. Se fossi alla metà degli anni Ottanta, la probabilità che il mio sguardo incroci quello di una persona appartenente a una di queste tre categorie, escludendo i bambini, è praticamente assoluta”. Non è solo un’impressione momentanea: “L’ossessione che ho provato nei corridoi di Hohenschonhausen mi fa osservare i passanti, il loro abbigliamento, i tratti somatici, i movimenti. Sono tutti per qualche minuto inconsapevoli protagonisti della mia storia senza tempo che attribuisce all’uno o all’altro il ruolo della spia, del burocrate, del traditore della patria, del perseguitato”.

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Siamo al nono giorno a Berlino, il viaggio non può concludersi nell’inferno della Stasi, Monteleone torna al luogo simbolo della città: “Dal giorno dell’erezione del Muro la quadriglia sulla porta di Brandeburgo guarda a Est. A vent’anni dalla sua caduta continua guardare nella stessa direzione”. L’immagine panoramica di un teatro vuoto con le poltrone allineate in platea e il sipario rosso chiuso illustra le parole finali: “Uno spettacolo si è concluso per lasciarne cominciare un altro”. E si è concluso bene, nel momento della verità ci furono comportamenti responsabili da parte di tutti. Sono eloquenti i documenti del National Security Archive di Washington, che la mostra ha avuto l’ulteriore merito di rendere pubblici, e di riportare a futura memoria nel Catalogo.

I documenti rivelatori dell’Archivio segreto: prima della caduta del Muro

Si tratta del diario di Anatolij Cernaev sulla visita di Gorbaciov di cui era autorevole consigliere, nella Repubblica democratica tedesca il 5 ottobre 1989 per il quarantennale del regime: “In realtà non ha piacere di andarci. Mi ha chiamato due volte, mi ha detto di aver ripulito alla lettera il suo discorso, ben sapendo che lo esamineranno al microscopio… non c’è nemmeno una parola di sostegno di Honecker… ma sosterrà la repubblica e la rivoluzione”. Il popolo lo attendeva come un liberatore, dopo le aperture verso un inizio di democrazia della “perestroika” e della “gladnost”.

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Il consigliere segnala che erano scesi in piazza più di 20.000 manifestanti  a Dresda, di più a Lipsia, un treno di profughi in transito era stato quasi preso d’assalto; avverte che in Ungheria e in Polonia il regime è al collasso: “In poche parole, è in corso un completo disfacimento del socialismo come fattore dello sviluppo mondiale. Forse è inevitabile e anche un bene. Perché è un fatto di umanità che si unisce sulla base del buon senso”. Prosegue riferendosi a Gorbaciov: “E tutto è stato avviato da un tipo normale di Stavropol. Forse ha ragione la Thatcher, quando lo ammira perché pensa che ‘in fondo al cuore’ egli abbia previsto l’auto-liquidazione di una società estranea alla natura umana e all’ordine naturale delle cose”. Fino alla considerazione storica: “E’ un’altra faccenda… se alla Russia siano stati necessari il 1917… e una volta di più (!) i nostri grandi sacrifici perché l’umanità potesse giungere a questa conclusione”

Dalla registrazione del colloquio tra Gorbaciov e alcuni membri dell’ufficio politico del Comitato centrale del Partito socialista unificato tedesco il 7 ottobre 1989 si ha conferma di questo atteggiamento. Dice Gorbaciov: “Il popolo rivendica una nuova atmosfera sociale, più ossigeno nella società, soprattutto perché parliamo di un regime socialista… Per usare una metafora, il popolo non vuole solo pane, ma desidera anche potersi divertire. Se considerate questo fatto in senso generale, stiamo parlando della necessità di creare non solo un’atmosfera materiale, ma anche socio-spirituale per lo sviluppo della società”. Quante parole per evitarne di pronunciarne una che si chiama libertà! Ma il senso è lo stesso, e non lascia speranze agli interlocutori tedeschi sui propri intendimenti: “Dalla nostra esperienza, da quella della Polonia e dell’Ungheria, abbiamo visto che se il partito fa finta che non stia accadendo nulla, se non reagisce alle richieste della realtà, è condannato. Siamo preoccupati per la sorte delle forze sane in Ungheria e in Polonia, ma non è facile aiutarle. Hanno rinunciato alle proprie posizioni. E l’hanno fatto perché non sono riuscite a dare risposte tempestive alle domande della realtà, così gli eventi hanno preso una piega dolorosa”. Lasciate ogni speranza, sembra dire, di un bis dei fatti d’Ungheria e della primavera di Praga quando l’intervento militare di Mosca schiacciò i movimenti popolari che anelavano alla libertà.

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Le ansiose consultazioni nei due giorni dopo la caduta del Muro

Scrive Cernaev, il consigliere di Gorbaciov, nel Diario il 10 novembre 1989: “Il Muro di Berlino è crollato. Tutta questa fase della storia del sistema socialista è finita. Dopo il partito polacco e quello ungherese oggi è toccato a Honecker. Oggi abbiamo sentito messaggi sul ‘pensionamento’ di Deng Xiaoping e di Todor Zhivkov. Solo i nostri ‘ottimi amici’ Castro, Ceausescu e Kim Il Sung sono ancora in giro, tutta gente che ci detesta cordialmente. Ma il fatto principale è la DDR, il Muro di Berlino. Perché non riguarda solo il ‘socialismo’, ma lo squilibrio delle forze nel mondo. E’ la fine di Yalta… dell’eredità stalinista e la ‘sconfitta della Germania hitleriana’. Ecco che cosa ha fatto Gorbaciov. E si è rivelato in realtà un grande leader. Ha sentito da che parte andava la storia e ha contribuito a farle trovare una strada naturale”.

I timori del bagno di sangue che aveva funestato i grandi rivolgimenti storici serpeggiavano nelle capitali occidentali, come traspare dalle parole con cui il cancelliere tedesco occidentale Helmut Kohl tranquillizza il presidente americano George Bush telefonandogli il 10 novembre 1989, il giorno dopo la caduta del Muro: “Sono appena rientrato da Berlino. E’ come assistere a un’enorme fiera. C’è un’atmosfera festosa. Le frontiere sono completamente aperte. In certi punti stanno letteralmente tirando giù il Muro e aprendo nuovi varchi. Al Checkpoint Charlie passano migliaia di persone in un senso e nell’altro. Ci sono tanti giovani che vengono a fare una visita e si gustano il nostro modo aperto di vivere. Secondo me stasera torneranno a casa. Pur con una certa cautela, io le direi che, a quanto pare, l’apertura non ha provocato uno spettacolare aumento dell’afflusso di rifugiati”; cioè quell’esodo, sia ricordato per inciso, che preoccupava il governo cecoslovacco come risulta dal documento inviato alle proprie ambasciate nel quale, il 19 ottobre 1989, venti giorni prima dell’evento, si segnalava un esodo in corso, soprattutto di giovani e di personale qualificato, dopo l’eliminazione delle recinzioni di confine tra Ungheria e Austria, ritenuto un gravissimo pericolo per l’intera economia della Germania Orientale.

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Kohl così continua parlando della manifestazione organizzata dai suoi “amici politici” con 120-200.000 partecipanti:”Lo spirito nel complesso era improntato all’ottimismo e all’amicizia. Quando ho ringraziato gli americani per il ruolo che hanno avuto, ci sono stati molti applausi. Senza gli Stati Uniti, questa giornata non sarebbe stata possibile. Lo dica alla sua gente. Le persone della  che hanno partecipato alle proteste e alle manifestazioni erano sincere, non aggressive. Questo ha impressionato molto. Non ci sono stati conflitti, anche se a Berlino Est, a Lipsia e a Dresda sono scesi in piazza in centinaia di migliaia. Spero che continuino a rimanere calmi e pacifici. Ecco in sintesi quello che le posso riferire”.

L’indomani, 11 novembre, Kohl chiamerà Gorbaciov, cercherà di tranquillizzare anche lui e ne risulterà tranquillizzato lui stesso. Dopo avergli detto che le “centinaia di migliaia di persone” che avevano attraversato il confine della Repubblica democratica tedesca lo avevano fatto solo per visitare la Repubblica federale senza alcuna intenzione di restarvi stabilmente precisa: “Vogliamo che nella  la gente resti a casa propria e non cerchiamo certo di far spostare tutta la popolazione della  nella Germania federale… Il numero di coloro che desiderano stabilirsi stabilmente nella Germania Ovest è molto più limitato rispetto a quello che potrebbe preoccuparci”. E non si riferisce alla capacità di accoglienza, ha già detto che “quest’anno si sono trasferite dalla DDR alla BRD 230.000 persone e tutte sono state accolte e sistemate”. Non è plurale maiestatis, si riferisce alla preoccupazione comune con Gorbaciov: “Non molto tempo fa le ho detto che non vogliamo una destabilizzazione della situazione nella Ddr. Sono sempre di quell’idea”.

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La risposta di Gorbaciov è un esempio di saggezza da vero statista illuminato, disinnesca una situazione incandescente; “I cambiamenti si verificano più in fretta di quanto potessimo immaginare solo poco tempo fa. Certo, i cambiamenti possono prendere forme diverse in paesi diversi ed essere più profondi. Tuttavia, per mantenere la stabilità, è importante per tutti agire responsabilmente. Tutto sommato, io credo che stiano migliorando i fondamenti di una comprensione reciproca. Ci stiamo avvicinando gli uni agli altri. E’ un fatto molto importante… Io penso, signor Cancelliere, che stiamo vivendo una svolta storica verso nuove relazioni, verso un mondo nuovo”. Ma ecco i rischi e gli avvertimenti: “E non dobbiamo permetterci di danneggiare questa svolta con azioni maldestre o, peggio ancora, di spingere le cose in una direzione imprevedibile, verso il caos, forzando gli eventi. Non sarebbe auspicabile, da nessun punto di vista”, neppure occidentale, lascia capire. E qui la parte politicamente impegnativa, il vero sigillo del non intervento, anzi della pacificazione: “Per questa ragione prendo molto seriamente le parole che ci siamo dette oggi in questa conversazione, e spero che lei usi la sua autorità, il suo peso politico e la sua influenza perché anche altri si tengano nei limiti adatti al momento attuale e alle esigenze dei nostri tempi”.

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Gli “altri” evidentemente sono gli Stati Uniti, che in passato lo avevano sollecitato direttamente: “Mister Gorbaciov, apra questa porta, mister Gorbaciov, abbatta questo Muro!” l’appello lanciato da Ronald Reagan a Berlino due anni e mezzo prima, nel giugno 1987. In una continua e stretta vicinanza ai berlinesi, dal ponte aereo del 1948 al famoso discorso alla folla oceanica accorsa alla porta di Brandeburgo per accogliere trionfalmente John Fitzerald Kennedy, con parole entrate nella storia:“Tutti gli uomini liberi, ovunque si trovino, sono cittadini di Berlino. Come uomo libero, quindi, mi sento di dire: Ich bin ein Berliner”.

Ricordare queste parole è la migliore conclusione del viaggio nell’anima di Davide Monteleone che è stato un viaggio nell’anima anche per noi e potrà esserlo per tutti gli spiriti amanti della libertà.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Catalogo: Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, con un saggio di Silvio Pons e una selezione di documenti del National Security Archive di Washington D.C., Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 20 x 30,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 12 gennaio 2010. Cfr. anche il nostro articolo “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro” 9 novembre 2009, sempre in questo sito.

Foto

le immagini, come anticipato in premessa, non sono quelle del viaggio di Monteleone, esposte in mostra, ma sono sulla caduta nel Muro di Berlino che abbiamo voluto inserire in questa ripubblicazione celebrativa del trentennale che avviene il giorno dell’evento, 9 novembre 2019, trent’anni dopo il 9 novembre 1989. Si ringraziano i titolari dei siti web, pronti ad eliminare su loro richiesta le immagini di cui non fosse gradita la pubblicazione, che non ha finalità commerciali, pubblicitarie, o economiche di qualsiasi tipo. Sono inserite in modo da rendere l'”escalation” della conquista del Muro, tratte dai siti seguenti, indicati nella successione delle immagini: 1. raggiungere.net, 2. travelfanpage.it, 3. corriere.it, 4. ansa.it, 5. firenze.repubblica.it, 6. ecodibergamo.it, 7. ilfriuli.it, 8. corrieredi rieti.it, 9. corriere.it, 10. donnamoderna.it. 11. ecodibergamo.it, 12. culturaoscialart.it, 13. ravenna.it, 14. ravennatoday.it, 15. raiplayradio.it.

Anghelopoulos, “Ex-Change”, la sfida dell’uomo moderno, alla Banca Generali di Roma

di Romano Maria Levante

 La mostra “A. T. Anghelopoulos. Ex-Change”  espone nella sede della Banca Generali di Roma dal 7 ottobre al 12 novembre una serie di opere  con i cicli pittorici di un artista il quale guarda la realtà con occhi penetranti, cerca di non farsi ingannare dalle apparenze e fissa con la pittura le frammentazioni, fratture e ostacoli che si frappongono quando si vuole esplorare in profondità la vita dell’uomo nella società contemporanea. Si inserisce nella Settimana di arte contemporanea “Rome Art Week” inaugurata alla Casina Valadier con la mostra site-specific “Inner Life” di Anghelopoulos e Micaela Legnaioli. Sia la mostra alla Casina Valadier che questa alla Banca Generali sono a cura di Sabrina Consolini intervenuta sull’artista anche nella precedente mostra del 2015 al Vittoriano. Catalogo di Campitano Editore Service.

Anghelopoulos all’inaugurazione della mostra
dinanzi a una sua opera della serie “Passages”

E’ una “location”  inconsueta quella della mostra, sottolineata dal “private banker” della banca ospitante che l’ha voluta, Andrea Petrangeli,  con queste significative parole: “Considerato il luogo dell’evento, il centro direzionale di un’importante istituzione bancaria, ambiente che più di altri incarna gli archetipi delle moderne società – mercato, profitto, successo economico – quel titolo suona come una provocazione, un incauto incitamento alla diserzione”. Lo interpreta quale mutamento del punto di osservazione, per avere “un diverso sguardo sul mondo, quindi inevitabilmente sulla condizione umana”. Come “osservatore semplice” – cita le parole di Anghelopoulos –  e non di semplice osservatore, “scavalcando le convenzioni, i giochi di ruolo, il pensiero di massa”. Ne dà conferma la curatrice Sabrina Consolini affermando – prima delle considerazioni sulla cifra artistica espressa nei diversi cicli pittorici – che “Anghelopoulos, uomo e artista lontano da mode e tendenze traccia un percorso nel quale la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva restituendo pura intimità all’esperienza sensoriale”.

Passages” , 2015

Dalla fotografia alla pittura che trascende il reale

Con queste presentazioni intriganti si avverte ncora di più la sfida posta da ogni artista contemporaneo che si allontana dal figurativo per l’astrazione indefinita. Il primo problema è quello dell’interpretazione delle opere, per la quale non basta l’osservazione  da  visitatore attento, ma vanno ricercati indizi e orientamenti nella biografia dell’artista e occorre documentarsi su sue  esternazioni che aiutino a decifrare  ciò che  appare incomprensibile; a volte pure all’artista, diremmo, almeno quando l’opera è “Untitled”, ed è anche il nostro caso per alcune delle opere esposte. “L’ “osservatore semplice” è già un indizio, ma non basta.

E’ un artista affermato, molte mostre personali e collettive in Italia – dove vive a Roma – e all’estero, apprezzato anche dalla critica straniera, la definizione di “artista di alto livello” é della curatrice italo-francese con attività internazionale Dominique Stella. La biografia registra che  frequentava dei corsi  di pittura sin nell’infanzia, a dieci anni, e nel contempo  prendeva lezioni di chitarra classica, trattandosi di una famiglia di musicofili, è stato  un lettore accanito di classici e di poesie, con predilezione per Montale, ha studiato psichiatria e neurologia; si è appassionato anche alla fotografia, fino ad aprire un laboratorio semi-professionale. In questa molteplicità di interessi Laura Colonnelli vede una “nostalgia del Rinascimento, quando un artista era anche scienziato, letterato, filosofo, musicista”. 

“Passages”, 2015

Nella pittura inizia con il figurativo, nello studio di Gigino Falconi, lo attira anche Monet, ma l’arte contemporanea diventa un richiamo irresistibile, predilige Dalì e Rothko, Magritte e Schifano, per questo vi si dedica dopo una sorta di duplice “autoritratto”  da fotografo imbarazzato perché mentre vuole riprendere ciò che lo circonda vede che sono maschere decomposte  (“Me shooting”, 2009);  o gli si frappone un ostacolo che cerca di superare sporgendosi attraverso un varco (“The Camera Man”, 2010).

Chissà se l’”autoritratto” confuso e tormentato non sia la confessione di aver scoperto che è inutile riprendere la realtà con la fotocamera, perché sfugge e non è quella che appare! La nostra interpretazione si basa sul carattere dell’artista, impegnato a indagare e ricercare, esplorare e perimentare, per cui ci sembra logico pensare che abbia voluto  esternare con quegli “autoritratti” rivelatori il passaggio  del Rubicone non solo dalla fotografia alla pittura ma dal figurativo all’astratto.

Una conferma si trova nelle sue parole, una “interpretazione autentica” della propria vocazione pittorica: “L’arte non deve copiare la realtà ma tornare ad amare l’uomo, provocarne l’intelligenza, portare l’osservatore in una dimensione che trascenda il reale, nella quale proprio l’uomo sia al centro di tutto, di ogni pensiero, di ogni progetto, di ogni fine”.

“Untitled”, 2017

 L’assonanza con l’affermazione di Roberto Longhi secondo cui “l’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa” porta Gianfranco Ferroni  ad affermare che “Anghelopoulos traccia un percorso dove la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva, restituendo un senso intimistico all’esperienza dell’apprendimento”; mentre Silvana Lazzarino vede  in lui “il desiderio di riscoprire nuove possibilità per lasciare che le emozioni individuali possano sfiorarsi”.

Sono tutte interpretazioni in linea con quella della curatrice, che non debbono far pensare a un disimpegno dai temi collettivi, tutt’altro,  perché per meglio approfondirli occorre scrollarsi di dosso le convenzioni della società massificata nella libera visione individuale e personale. Ne dà chiara conferma la  Consolini, dopo aver parlato di “lettura personale” e “pura intimità”:  “Insofferente verso i ritmi, i miti e i riti della contemporaneità, Anghelopoulos è convinto che l’arte debba veicolare valori universali  e parlare della condizione umana nel presente”.

Point of View” , 2016

Come parla della condizione umana dell’uomo contemporaneo lo spiega Federico Castelli Gallinara: “Al centro della sua ricerca pittorica l’uomo e la sua difficoltà e impossibilità di contatti realmente solidali e profondi con i suoi simili, il rapporto tra conoscenza e mondo interiore, tra tensione intellettuale e emozioni, la sua ricerca di verità nascoste sotto la superficie delle cose”. Ripensiamo alla lunga ricerca di Ennio Calabria sul “tempo dell’essere” nella rivoluzione permanente del progresso, espressa in opere pittoriche radicalmente diverse da quelle di Anghelopoulos ma mosse da una analoga esigenza interiore.

L’ “osservatore semplice” che guarda “oltre”

Dunque una visione della vita dell’uomo e della realtà libera dalle sollecitazioni interessate  della società massificata, al di là delle apparenze fuorvianti. Ma cosa vede con gli occhi dell’“osservatore semplice” ? E come lo esprime nella sua trasposizione, anzi trasfigurazione, il nostro artista?

Aver sottolineato il carattere prettamente “individuale” e “personale” di questa sua visione non basta per decifrarne le forme espressive, all’apparenza incomprensibili, anzi le rende ancora più criptiche in quanto proprio per questo non decodificabili  a livello collettivo.

“Point of View”, 2018

Claudio Strinati, nella presentazione alla mostra del 2015,  fornisce qualcosa di più di una chiave di lettura, il codice per aprire, come una “password”, immagini come crittogrammi. Per lo storico e critico dell’arte, in  Anghelopoulos c’è un “disimpegno”  non solo del Dio – come intitola una sua serie che vedremo –  ma in termini più generali, in un concezione dell’arte antitetica all’”arte impegnata” anche in termini politici, si pensi all’opposto in Guttuso.  Il disimpegno “è quel luogo dell’arte posto al confine tra un territorio e l’altro, il territorio dell’evidenza e della forza espressiva e quello del mistero e della sparizione”.

A questo punto il critico sarebbe lui stesso indecifrabile se non precisasse: “Sparizione non solo e non tanto dell’oggetto rappresentato, ma della volontà espressiva stessa dell’artista”.  In una sorta di “non esserci”, di “sottrarsi”, inconcepibile se non fosse motivato dalla volontà  di sparire per vedere meglio  immergendosi, diciamo noi, da sottomarino che alza il periscopio a 360°. Ciò corrisponde – torniamo a Strinati – “all’’ingresso in una dimensione analoga a quella che in matematica si rintraccia nei numeri ‘negativi’, nel ‘meno uno’ e così via”.

“Trama (Weave)”, 2016

E’ una dimensione che allontana dalla visione esistenziale della  vita quotidiana, con le sue false apparenze e fa entrare in mondi invisibili ma esistenti come quelli esplorati dalla  scienza alla ricerca di risposte sulla nascita della vita e sui meccanismi  che regolano l’Universo. Al riguardo  il critico cita la meccanica quantistica, con l’”antimateria” e i “buschi neri” fino al “neutrino”, con l’annullamento di tempo e spazio, elementi invisibili ma veri che pongono tanti interrogativi: “Sono quesiti innumerevoli e traumatici tendenti tutti a farci pensare che esista un altrove che è la vera realtà e quello che percepiamo sia apparenza al di là della quale c’è, appunto, l’‘oltre’; l’arte di Anghelopoulos sembra mossa da tale istanza”.  Quindi a questo “oltre”, oggetto dell’attenzione della scienza, si rivolge anche la ricerca che definiremmo leonardesca,  del nostro artista, e lì dobbiamo trovare il segreto della sua forma espressiva, perché vi risiedono gli equilibri invisibili ma decisivi nel macrocosmo dell’universo con i corpi celesti, come nel microcosmo dell’atomo di cui è  composta la nostra materia.

Le opere con la visione della condizione umana da parte dell’artista

Guardiamo le sue opere con queste chiavi di lettura, la visione “individuale” e “personale” dell’artista  libero dalle sensazioni ingannevoli offerte dalla realtà, e il suo “guardare oltre” penetrando al di là di ogni evidenza sensoriale per scavare in profondità.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio” , 2014

Abbiamo cercato di esplorare i suoi intenti, ma come decodificare le sue realizzazioni? Aiutano in questo le parole di Castelli Gallinara: “Nasce così una pittura potentemente materica, spessa e colorata, textures che rimandano a dimensioni al contempo cosmiche e e neuronali, finestre su un mondo complesso dove si intrecciano mistero, rivelazione, malcerte promesse e barlumi di speranze, in una struggente attesa di cambiamento”.

Nella prima serie della galleria espositiva, i  2 “Passages”, del 2015, definiti dalla curatrice “sfumati”,  vediamo una superficie pittorica con quello che la Colonnelli chiama “il dilagare dell’oro”, per ”le ampie campiture di colore, che piano piano virano verso l’oro assoluto, quello di Giotto, dei trecentisti, delle icone bizantine”; c’è l’oro anche nei due “Untitled”, del 2016-17, con diverse tonalità e  gradazioni.

Più avanti, i 3 “Point of View”   sono “enigmatici”, tre simil-istogrammi bianchi calati dall’alto, immersi in un fondale d’oro,  nell’opera del 2016, mentre nelle 2 opere del 2018 sono immersi  in un fondo nero con dei riflessi chiari sotto agli istogrammi, rispettivamente due e tre; come se nei due anni trascorsi i “punti di vista”  fossero passati dalla luce al buio.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio“, 2015 m

 Nulla da aggiungere alla definizione di “filigrane meditative” data dalla curatrice perTrama (Weave)”.  2016, se non che sono anch’esse intessute d’oro.

Per interpretare le altre serie torniamo agli intenti dell’artista come espressi nella traduzione pittorica secondo la  visione della  Consolini: ”In questo percorso alle radici dell’esistenza, in questa riflessione sul senso della vita si materializzano davanti allo spettatore spiragli, portali, varchi, occasioni per una riflessione, inviti ad alzare lo sguardo, e perché no a compiere un passo nella misteriosa e luminosa direzione offerta, oltre i confini claustrofobici dell’ovvio, del quotidiano, lontano dalle sabbie mobili del consumo  e ben oltre la superficie delle cose, una irresistibile induzione al fatidico passo oltre i confini del proprio perimetro vitale, oltre la superficie delle cose, un’istigazione alla rivolta”. Ci tornano in mente le parole ’incitamento alla diserzione” dell’esponente della Banca  che ospita la mostra, consapevole di come vi sia particolarmente esposto chi, per sua stessa affermazione, “più di altri incarna gli archetipi delle moderne società,  mercato, profitto, successo economico“.  Ma nessun timore, ricordiamo che quella di Anghelopoulos non è un’“arte impegnata” sul piano politico.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2013

La Consolini nel 2015 aveva già indicato come si manifestano questi “confini claustrofobici” negli addensamenti materici di alcune opere che generano nell’osservatore “la sensazione di una mancanza di visuale o di una visuale insufficiente, soffocata. E’ come se con  queste opere egli volesse ricordarci che l’esistenza di ciascuno  è circoscritta da un invisibile diaframma, una pellicola che lo protegge dal mondo esterno”.  Lo protegge ma nello stesso tempo lo imprigiona, per cui “quello che l’uomo riesce a concedersi è inevitabilmente un’occhiata  furtiva, uno sguardo limitato  a ciò che sta intorno, uno sguardo costretto a farsi largo  tra le fitte trame difensive di un vero e proprio bozzolo”; attraverso quelli che lei stessa oggi chiama “spiragli, varchi, portali per una riflessione”.

Vediamo questi addensamenti materici claustrofobici e soffocanti nelle due opere esposte dal titolo “God Engagement”,  2014-15, è i l”disimpegno del Dio”  perché anche la divinità si arrende dinanzi ai muri dell’esistenza, il piano pittorico sembra una superficie lunare, una variazione della “Superficie fratturata bianca”, 2012, dell’esposizione precedente., dove anche il trittico “Sulle orme di Dante”, 2015,  presentava il Paradiso dorato schiacciato tra  un Purgatorio dalla superficie “fratturata” come nel “God Engagement”  e da un Inferno  in cui nella  barriera invalicabile spunta una piccola lucertola, l’unico elemento figurativo, ispirato a quella di bronzo fusa dal Bernini alla base del baldacchino dell’altare della Basilica di San Pietro.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2015

Così l’ha definita Anghelopoulos: “E’ simbolo di rinascita, perché cambia pelle. L’ho adottata come sentinella dell’anima, simbolo di veglia attenta tra occhi offuscati e menti obnubiliate”; e ha concluso: “Se esiste un inferno questo è sulla terra, di essa e dei suoi abitanti dovremmo occuparci prima di tutto”. Altra prova che il suo apparente  “disimpegno”  è per meglio “impegnarsi” in una visione che penetra “oltre”, come dimostra la sua  lucertolina simbolica ed evocativa. Ricordiamo, per averli commentati,  l’”Inferno” nei disegni di Rodin e nei dipinti di Roberta Comi, le tre cantiche nei dipinti di Gianni Ttesta,  raffigurazioni di una realtà immaginata nel figurativo, qui siamo nell’astrazione assoluta e imperscrutabile.

Il simbolo di rinascita dall’inferno “sulla terra” è  dunque presente, ma  sembrerebbe velleitario, se stiamo alla serie “Deep Sky (Cielo Denso)”, 3 opere dal 2013 al 2015, quasi sovrapponibili con minime varianti nella bianca rugosità che lascia trapelare minimi spiragli di azzurro, piccole fessure sulla coltre bianca soffocante che copre il cielo come la cenere dell’eruzione copriva  Pompei. Con una quarta opera,  intitolata significativamente “Inner Sky (Cielo interiore)”, del 2015, però, si ribaltano le proporzioni: il bianco è soltanto nei modesti spazi prima dedicati agli spiragli di azzurro, il “cielo interiore” è  azzurro e blu intenso; mentre l’opera con lo stesso titolo del 2012 era in celeste chiaro, la citiamo per il significato che può avere questa maggiore intensità nel senso di una penetrazione più profonda. Vi troviamo  un invito a leggere  dentro di sé per trovare la chiarezza che ci nega il mondo esterno, anche quando eleviamo lo sguardo verso il cielo:  che non è il “cielo stellato” di Kant, il quale peraltro vedeva “dentro di noi” la legge morale, quasi una proiezione interna del firmamento.  Anghelopoulos ha reso visivamente questa visione.

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“Inner Sky (Cielo Interiore)”, 2015

Ma non è tutto, Strinati ha scritto: “Le sue superfici vengono percepite come graffiate, soffocanti per certi versi, e viene da paragonarle a crateri lunari, visioni satellitari, filamenti celesti, viaggi in mezzo a cieli densi di nuvole pesanti e tempestose”. “ cita Klee e Rothko, aggiungendo: “Ma sempre si avverte l’eco, sulle sue superfici. di bagliori che si stanno spegnendo, di visioni in cui non si riesce a scorgere più nulla, di una specie di ritorno al futuro…”. 

Lo abbiamo visto con l’oro che risplende pur nella desolazione, e negli spiragli di azzurro nel cielo coperto di “cenere” che diventano firmamento interiore con poche macchie residue. Ora lo vediamo nella “Serie Turner – Senza titolo”, 3 opere del 2018 ispirate al grande artista dalle straordinarie visioni naturali, con i suoi cieli nelle più diverse meteorologie serene o tempestose. Con un contorno dorato  si passa dal rosso-arancio a due azzurri con diverse striature bianche che sono proprio i “filamenti celesti” evocati da Strinati che, insieme ai “bagliori”, pur se “si stanno spegnendo”, rappresentano comunque un’apertura, qualcosa di altamente positivo e di salvifico. E’ un finale in bellezza che apre il cuore alla speranza.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

La “Bella Principessa”, metafora del mistero della vita interiore

La figura umana è assente in questa esplorazione che diremmo cosmica, ma l’artista non l’ha dimenticata. E, a parte i due “Autoritratti” citati – che non sono tali nell’accezione tradizionale, perchè esprimono il disorientamento che lo ha portato dalla fotografia alla pittura con gli intenti e la visione  sottesi  – non possiamo non ricordare l’opera esposta nella mostra del 2015 “Vita interiore-Inner life”, del 2014,  espressa nel volto della “Bella Principessa”, ritratto attribuito a Leonardo, in cui Anghelopoulos colloca un vistoso ingranaggio, che parte dalla parte destra del viso e prosegue nella spalla. Un intervento leonardesco, possiamo dire, considerando che il grande genio del Rinascimento abbinava nei suoi “codici” disegni di ingranaggi e di parti del corpo umano ugualmente oggetto della sua inesausta ricerca.

Il nostro artista ha spiegato così quella che potrebbe sembrare una profanazione del delicatissimo volto e della figura femminile: “Ho voluto raffigurare il  suo lato nascosto, il lato sottratto per sempre agli sguardi del mondo e per ciò stesso metafora del mistero che circonda la vita interiore del soggetto ritratto”.  Il mistero che “ella, come ciascuno di noi porta con sé”,  è spiegato così dalla Colonnelli: “La creatura in cui carne  e anima sono un tutt’uno a riflettere l’immagine divina, è ormai un mezzo robot…. l’uomo non è più la magnifica creatura celebrata da Leonardo e dai pensatori suoi contemporanei, ma una macchina vivente totalmente manipolabile. E sempre più misera e inaccessibile appare la sua vita interiore”. Per la Consolini “l’inaccessibile emivolto, ora svelato, assurge a metafora del mistero che circonda la vita interiore… un magma di desideri, paure, pulsioni, lati oscuri. Il complesso ingranaggio innestato sul suo profilo… è parte di quel mistero svelato,  è una proiezione degli insondabili  ingranaggi interiori, è vita interiore”. 

Anche se quest’opera sulla “Vita interiore” non è presente nella mostra attuale, è esposta  la già citata “Inner Sky (Cielo Interiore)” il cui azzurro, divenuto ancora più intenso di un’opera precedente, ha scacciato la cenere soffocante del “Deep Sky” , una metafora dell’”Ex-Change”, come “occasione di ricontrattare le regole d’ingaggio con la realtà”. Sono parole della curatrice Consolini che così conclude la sua presentazione: “Cosa sono queste opere se non l’occasione per l’impossibile di realizzarsi, per l’imprevedibile di diventare realtà, l’opportunità – che solo l’arte fornisce– di ‘sognare contro il mondo e strutturare mondi che sono altri’, citazione quest’ultima di Steiner che ci riporta  all’assunto iniziale.

E’ compito dell’ artista, un “osservatore semplice” che come Bertoldo possa dire: “Il re è nudo”.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

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Banca Generali, Roma, Via Leonida Bissolati 76, dal lunedì al venerdì, ore 9,00-17,00, ingesso gratuito.  Catalogo “A. T. Anghelopoulos. Ex. Change”, Campisano Editore Service, ottobre 2019, pp. 34,  bilingue italiano-inglese, formato 20 x 20;  per la mostra del 2015 al Vittoriano,  catalogo “Tra materia e anima, tra memoria e tempo. A. T. Anghelopoulos, Andrea Pinchi”,  a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, novembre 2015,  pp. 112, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28.  Dai due cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sugli artisti e i temi citati: in questo sito, su Leonardo 2, 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, per la mostra precedente, “Anghelopoulos e Pinchi, astratto  e concreto al Vittoriano”  16 novembre 2015, Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018, Guttuso,  14, 26, 30  luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, 25 e 30 gennaio 2013;  Klee  1° e 5 gennaio 2013,  Dalì  28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012,  Rothko, nella Collezione del Guggenheim  22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012; Monet e gli impressionisti 12, 18, 27 gennaio 2015, 11 maggio 2014; per le visioni dell’Inferno,  Rodin,  Roberta Comi  20 febbraio 2013, per le tre cantiche Gianni Testa  14 settembre 2014; per le visioni cosmiche “Meteoriti”5 ottobre 2014, per i “numeri negativi” e simili,””Numeri” 23, 26 aprile 2015; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo, 6 febbraio 2012, 23 febbraio 2011, 11 gennaio 2010, 6 luglio e 30 settembre 2009, Monet e gli impressionisti 27 e 29 giugno 2010; guidaconsumatore.fotografia, Schifano 15 novembre 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini, riportate nell’ordine in cui sono citate nel testo, sono tratte dal Catalogo dell’attuale mostra, tranne quella di apertura fornita cortesemente dalla curatrice, e quella di chiusura tratta dal Catalogo della mostra del 2015, si ringraziano Sabrina Consolini, i due Editori,  con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Anghelopoulos,  per l’opportunità offerta. In apertura, Anghelopoulos all’inaugurazione dinanzi a una sua opera della serie “Passages” ; seguono, 2 opere intitolate “Passages” entrambe 2015, e “Untitled” 2017; poi, 2 opere intitolate “Point of View” 2016 e 2018, e “Trama (Weave)” “2016; inoltre 2 opere intitolate “God disengagement – Disimpegno del Dio” 2014 e 2015; ancora, 2 opere intitolate “Dense Sky (Cielo Denso)” 2013 e 2015, e “Inner Sky (Cielo Interiore)” 2015; infine, 2 opere intitolate “Serie Turner – Senza titolo” entrambe 2018; in chiusura, “Vita Interiore – Inner Life” 2014.

“Vita Interiore – Inner Life”, 2014

Roma. Al Quirino la poesia di Emanuele diventa teatro

di Romano Maria Levante

Riceviamo ora da Comin & Partners: “Caro collega, si è svolto ieri sera, 21 ottobre, al Teatro Quirino di Roma il reading dedicato alle poesie del Prof. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma. Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, insignito di recente del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. In calce e in allegato la nota stampa e alcune immagini. Grazie per l’attenzione e un cordiale saluto, Comin & Partners.” Peccato non aver ricevuto l’invito alla serata, la nota stampa fornisce le notizie essenziali, ma non può rendere l’atmosfera e la magia delle poesie di Emanuele recitate da Geppy Gleijeses, Marisa Lurito e Andrea Giordana. Tre grandi attori, il primo dei quali protagonista del precedente recital nove anni prima, il 20 ottobre 2010. Con lui c’erano Marianella Bargilli e un’altra coppia di grandi attori, Paola Gassman e Ugo Pagliai. Di quella serata riportiamo la nostra cronaca pubblicata allora; della serata di ieri riportiamo il comunicato di Comin & Partners e le immagini che inseriamo in un mix del testo della serata di allora con le fotografie della serata di ieri e con in più fotografie del poeta Emanuele nella serata del Premio Montale e nelle maratone poetiche dei “Ritratti di poesia” nelle quali consegna i premi per la Poesia internazionale e la Poesia nazionale.

Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019

“22 ottobre 2019. Le poesie di Emmanuele Emanuele al Teatro Quirino di Roma – Reading di poesie del Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma, ieri sera al Teatro Quirino di Roma. Di fronte ad una sala gremita per l’occasione, i tre attori Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, il quale oltre ad essere avvocato, docente universitario, economista, filantropo e mecenate, è anche scrittore e poeta di successo, essendo stato recentemente insignito, tra gli altri riconoscimenti letterari ricevuti nel corso della sua carriera, del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. Il reading è stato impreziosito dalle suggestive immagini di sfondo del video-artist Gianluca Rame, su musiche di Ludovico Einaudi. Momenti di sincera commozione in sala quando il Prof. Emanuele, dopo i ringraziamenti di rito, ha chiesto all’amico Gleijeses di leggere due inediti, tratti dall’ultima sua raccolta ‘Il sole dentro’ che ancora dev’essere data alle stampe. Cocktail a seguire nel foyer del teatro, fino a tarda sera”. Questo ieri, ed ora il precedente spettacolo, 20 ottobre 2010.

Come eravamo, le poesie di Emanuele al Quirino nove anni fa

Al Teatro Quirino di Roma la sera del 20 ottobre 2010 uno spettacolo fuori dal comune, la poesia divenuta teatro ed emozione con le letture poetiche dei versi di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, che non ha bisogno di presentazione per chi si appassiona all’economia e alla finanza e per chi ama l’arte: è il “dominus” delle Scuderie del Quirinale e del Palazzo delle Esposizioni, della Fondazione Roma e di altre istituzioni culturali per non parlare di quelle economiche e finanziarie, ed anche delle iniziative in campo sociale con il Terzo settore.

Una serata speciale in un Quirino affollato e partecipe, un vero teatro realizzato attraverso la poesia. Non una delle consuete letture poetiche, ma qualcosa di diverso, anzi molto di più. Sarà stato il palcoscenico, al posto delle normali sale utilizzate per tali occasioni, sarà stato il buio della platea e l’occhio di bue sul lettore di turno, saranno stati gli attori di grido che si sono succeduti alla ribalta a dare la marcia in più alla serata. Ma questi ingredienti scenici erano il contorno, pur se prelibato, del piatto forte: la poesia di Emanuele resa ancora più viva da immagini che scorrevano sullo schermo.

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Uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019

Non un semplice sfondo, ma un vero controcanto con le emozioni visive a corredo delle parole e relativa musica. Un abbinamento che non era mai capitato di vedere con toni e stimoli così suggestivi, in grado non solo di rendere i luoghi e gli ambienti, ma anche di interpretare l’animo del poeta. Di volta in volta sferzato dal vento o abbagliato dalle luci, nel rincorrersi tra montagne che il vento aveva scavato creando immagini antropomorfe o tra le acque impetuose, le sabbie e i vulcani, i declivi e gli abissi. Che erano poi le discese e le risalite, le cadute e i voli del canto poetico.

E’ stata una fortuna assistere a questo spettacolo, con l’ulteriore fortuna di poterlo vivere a fianco di Giuliana Lojodice, e nell’attesa rievocare con lei il mitico sceneggiato “Una tragedia americana”, il suo personaggio di Roberta, antagonista di Sondra, la sfavillante Virna Lisi verso la quale l’attrice ha parole di ammirazione; e poi gli “Oscar del teatro” di cui è stata protagonista – chissà se ci saranno ancora dopo la triste sorte dell’ETI! – e tanti momenti della grande carriera di una interprete e di una coppia straordinaria, Giuliana e Aroldo, compresi i suoi recenti lavori con un regista bravo ed esigente come Sepe; fino allo spettacolo del 22 novembre prossimo all’Eliseo, unico non solo perché si esaurisce in una sola serata ma per la sua forte valenza scenica e artistica.

Scende, dunque, il buio in platea, davanti a due leggii posti agli estremi del palcoscenico, si avvicendano gli attori, e che attori! Paola Gassman e Ugo Pagliai, Geppy Gleijeses e Marianella Bargilli, due coppie molto affiatate, una staffetta di generazioni. Diversi stili interpretativi, che hanno segnato cambi di tonalità e di espressione, quasi a voler marcare i diversi momenti attraversati dal poeta e l’onda di sentimenti che ne scaturiva: il tono pacato e sommesso, tutto interiore di Ugo Pagliai e gli acuti appassionati di Paola Gassman, il vigore e l’intensità interpretativa di Geppy Gleijeses e la leggiadra freschezza vocale e scenica di Marianella Bargilli.

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ll recital delle poesie di Emanuele:, Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana

Ogni poesia segnava la fine di un quadro, l’attore tornava dietro le quinte ed entrava in scena il successivo dal lato opposto del palcoscenico; nessun contatto, non era come la staffetta di tipo calcistico dei “Tre tenori”. Una “ronde” incessante di cui si può intuire il ritmo tenendo conto della brevità delle poesie di Emanuele, essenziali nello scolpire le immagini con poche icastiche parole.

Se quelle di Calder, esposte lo scorso anno nel “suo” Palazzo delle Esposizioni”, erano “sculture d’aria”, le immagini create dalla poesia di Emanuele erano di volta in volta sculture di vento e di sabbia, di mare e di cielo, in definitiva sentimenti scolpiti nella natura e dalla natura che li plasmava. Come ciò potesse avvenire lo si vedeva dalle immagini proiettate, una filmografia dei moti dell’animo. Quando Gleijeses alla fine presenterà, per l’applauso del pubblico, Paolo Calafiore autore del filmato – oltre a Ludovico Einaudi per le musiche e altri operatori – Emanuele dirà: “E’ l’Africa come la ricordo io, l’altopiano è riportato com’era e com’è nelle mie poesie”.

E’ in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani

Ma lo spettacolo non era terminato, entrava in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani, allorché dinanzi alla platea ora illuminata si sono seduti sul palco intorno a lei i quattro interpreti e il poeta Emanuele, che ha dovuto superare la ritrosia a presentarsi in una veste che per pudore non si sente di aggiungere alle altre che indossa con autorevolezza in posizioni di vertice – l’imprenditore e il finanziere, l’intellettuale e lo scrittore, l’operatore culturale e il creatore di grandi eventi artistici – al punto di non aver voluto rilasciare un’intervista sulla poesia: “Io sono tante cose insieme – dice lui stesso – considerarmi anche poeta sarebbe troppo”. Ma non può negarlo, lo considera tale la poetessa per antonomasia, che con fervore giovanile fa una vera e propria orazione celebrativa.

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Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele

“Il poeta è tutto – dice nel delinearne la figura – mentre le altre attività sono parziali e settoriali, il poeta ha la visione d’insieme”. “Emanuele o Emmanuele – prosegue giocando sulla emme raddoppiata nel nome, come ha fatto Lino Angiuli nell’introduzione scritta alla sua silloge – è imprenditore, banchiere, operatore e tanto altro, lui vorrebbe essere soltanto poeta”. Perché ne conosce il valore e il significato, anche se ne ha il pudore: “Quando la gente sente che qualcuno in aggiunta alle proprie attività è anche poeta – continua la Spaziani – fa un sorrisetto come se fosse marginale, un giochetto tipo le parole incrociate se non una stranezza”. La poesia, invece, è un fatto serio: “E’ un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli”.

Ma è anche molto di più: “Se faccio un sogno e poi ne nascono dei versi, quei versi sono il sogno che ha sognato con me. Attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi.”. E, riferendosi alle poesie di Emanuele, aggiunge: “Io ho sognato con lui l’Africa, i suoi deserti e i suoi cactus, la Maremma purtroppo dimenticata e i suoi segreti, i misteri e le favole, Cortina e una storia d’amore”.

Emanuele non è qui il freddo imprenditore, è commosso, ben altro dell’uomo di pietra, non lo è con la sua poesia; ne ha assorbito la sobrietà e il pudore, pur se apre il suo animo ma sempre trattenendosi. Aggiunge solo i ringraziamenti alla poetessa e ai tanti amici che hanno voluto essergli vicini, con un tocco di classe quando evoca la città natale da cui è stato lontano per cinquant’anni, una lontananza voluta per non vederla diversa da come l’aveva vissuta nella fanciullezza; e qui il nostro pensiero corre a “Nuovo Cinema Paradiso” anche se forse non c’è stato un vecchio saggio a dirgli di restarne lontano. C’è voluta l’occasione di un convegno sull’identità mediterranea per riportarlo a Palermo dove ha rivisto quel mondo e si è immedesimato nella poesia che ricorda la “Città”, la ritiene il culmine dei suoi sentimenti: li rappresenta e lo rappresenta fedelmente.

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Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele

Gleijeses la leggerà da par suo in conclusione, dopo aver fatto un’acuta considerazione: “Come una donna bellissima paga lo scotto di non essere ritenuta intelligente, così un grande imprenditore e uomo di finanza può subire il pregiudizio di non essere ritenuto poeta”. Non è il caso di Emanuele, il riconoscimento gli viene da tante parti, qui riconfermato palesemente dalla Spaziani e dai grandi attori che hanno scelto di fare lo spettacolo solo perché le poesie di Emanuele sono grandi poesie.

Le prime tappe del lungo cammino

La serata termina con il saluto degli amici a Emanuele sempre più commosso; ma non può finire la nostra cronaca senza trasmettere ai lettori qualche favilla degli sprazzi di luce poetica che hanno illuminato la platea del Teatro Quirino. Lo facciamo scegliendo, fra le sue tre agili raccolte di poesie esposte, quella dal titolo eloquente “Un lungo cammino”, non è una silloge episodica ma una vera sequenza di cinquant’anni di ricordi e di emozioni; in una serata nella quale il tono teatrale faceva dimenticare la presentazione libraria abbiamo voluto ricordarla chiedendo la dedica di prammatica.

Ed eccoci ora a sfogliare l’aureo libretto cercando di estrarne e legare parole che riescano a renderne il filo conduttore, il ritmo e l’armonia, la modulazione dei toni e la profondità dei contenuti. La prima poesia che troviamo è quella citata in cui l’autore si riconosce maggiormente, “Città”, è nella sezione dedicata alla terra, anni 1956-58: c’è già un primo percorso di vita nel quale si rispecchia anche quello successivo. Appaiono i segni arcani delle strade più buie dell’infanzia, che si ripetono più tardi nel tempo dell’ansia, tra le occhiaie vuote di vuoti destini e slarghi di rara bellezza. Negli anni del dopo interviene il rimpianto, restano gli squarci di luce improvvisi su vecchi portali, il colore rabbioso dei muri, la polvere opaca, e gente incupita dall’antico dolore di chi vive nel bello e ne muore. E sempre in questo periodo, indietro di mezzo secolo, a San Martino c’è il caldo meriggio che annulla i sogni, negli angoli oscuri in fondo all’anima ansima il petto di grandi speranze che il tempo corrode. L’età dell’infanzia suscita i ricordi più dell’attesa degli anni a venire, quando un viso d’opale diffonde una luce e canti trasmettono parole d’incenso. Dalla terra prorompe la rabbia del Sud, l’antico rancore per quel che non fu, per quel che non è, le vane speranze di vite diverse e diverso futuro; in un mare che è ostile seppure ricco di antiche leggende.

Dalla terra sono ispirati i canti dell’Aspra, degli stessi anni, il poeta apre il cuore in una natura dove all’ostilità della terra si contrappone la lusinga del mare. Il mare tra le case in rovina, s’inseguono i venti di terra. Per ore – confida – guardavo le onde, pensavo al futuro di là da quel mare; poi la partenza, andai e persi il ricordo, rivedo di là altro mare, soffermo lo sguardo sull’onde e sento la stessa ansia di sempre: conosce lo stesso pensiero la mente, andare, partire. Lo spirito di Ulisse, forse, il mezzo secolo successivo di Emanuele mostra il suo lungo viaggio con Itaca nel cuore.

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Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l’11 aprile 2019

Il porto è un luogo metafisico con la luna che emerge da dietro le vele e sembra fermarsi immota nel vecchio scenario sbiadito dove la notte che avanza rianima i moli, mentre il mare immobile attende. E sui volti di grande tristezza si legge con l’ansia il gelo di esistere. Un sentimento personale e collettivo, se un canto si leva con le nenie di popoli dispersi da sempre sul mare che unisce le coste. In un mare simile il poeta non resta in superficie a meditare, vi penetra nel fondo. Scendevo nel buio dell’acqua profonda – esclama – nel cono di luce che spegne i raggi e le stelle. Fluttuavo, portato dall’onde leggere nel sacro respiro del mare: padrone di me nel silenzio capivo che come sul mare la vita, incurante, mi avrebbe portato.

L’estate di Pioppo ci dà immagini crepuscolari. E’ sera, mia madre suonava nel portico di vecchi fogliami – ricorda – il buio ritagliava la figura di lei, udivo il richiamo, volevo fermare la voce, l’odore di terra, le strisce del cielo, il vapore alla base dei monti, volevo che tutto restasse così, la madre e la natura. Ma il sogno d’estate carducciano sembra svanire, passa la sera e scende la notte.

Torna la natura con il bosco e le ginestre. Una scultura antica nella radura, immobile, la quercia possente e solitaria, protesa al cielo, resiste al gelo e alla calura, ai venti e ai fulmini; i fusti leggeri invece si accalcano tremanti aggrappati l’un l’altro per cercare protezione. L’insegnamento: così nella vita l’uomo grande è solo e gli altri lo guardano timorosi, bisognosi del gruppo per esistere; e non solo per resistere, aggiungiamo. Prima abbiamo evocato Carducci, la ginestra non può non richiamare Leopardi, per il fiore del deserto il poeta trova una definizione di intensità straordinaria: risposta terrena al raggio del sole si aggrappa alla pietra più arsa. E questa sua capacità di resistere dà forza: lontano si sente l’odore portato dal vento, nel fiore ritrovo l’ardore che porto nel cuore.

Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale
della 13^ Edizione dei Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock,
nel Tempio di Adriano, il 15 febbraio 2019

Il cammino prosegue

Scorrono lenti gli anni, siamo al 1963-67, ancora ricordi dell’isola, per la quale si prova un amore struggente, il poeta la vede e la sente, bella e crudele, forte, di bello di sole e di luce intrisa. E si apre a una confessione che è orgogliosa riaffermazione di identità: negli anni ti ho portato nel cuore, ragione di vita; nei segni lavati dal tempo aspetto di te ciò che è mio. E per questo sente che deve ancora cercare, nel rimpianto di vite diverse vissute nel sogno ed esclama: vorrei ripartire dal nulla di prima e tornare e cercare partendo da niente. Le ore di chiare speranze sembravano grandi e ora sono solo rimpianti. Non vi sono fiori sulle strade ferrate su cui corre la vita, si rimane soli e torna il gelo dell’esistenza: non vedo e non sento – dice – il freddo del cuore mi porta la neve negli occhi.

Il lungo cammino procede, nel 1968-70 si va nell’America di Bob Dylan che cantava: “Quante strade deve percorrere un uomo per diventare uomo, quante orecchie deve avere per sentire qualcuno che piange”. La risposta è nel soffio del vento che va, ora il vento e l’uomo sono lo stesso ma non fermano le lacrime e l’odio. “The road” è il titolo, la strada su cui ora si snoda il lungo cammino, ma arriva la negazione portata dal dolore: non c’è riposta nel soffio del vento, non può rispondere l’uomo al dolore del mondo. L’anima rimane da sola, non sente i dolori del mondo e il grido cammina di notte e non sente.

Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018

L’anno successivo apre un percorso di più di vent’anni, dal 1971 al 1994: esplode l’amore, la vita del cuore. C’è il presagio: svanisce il sogno, corrono negli anni le nuvole, mi volto indietro e non vedo che te, tu sola trapassi il gelo del cuore. L’amore cancella i pensieri tristi: guardarti avanzare leggera richiudere il libro del mondo, tenerti la mano. Perché sei tu, lo so – si confida il poeta – gioisce e batte il cuore al tuo sorriso e si ritrae seguendo il dolore e l’amaro di sempre. Un’amarezza che supera: la luce fa sera negli occhi miei stanchi, e tu sei nel ricordo del giorno. Lei ha riportato la vita nel cuore dove non c’erano più per un tempo infinito sorriso ed emozione, nell’anima non c’erano ansie e veri rimpianti. Sparite al ricordo le voci, le facce, i sorrisi. Ma con l’amore il vento di antichi ricordi riempie i miei sogni – può esclamare – si irradia una luce e in essa ti vedo. L’abbraccio scaccia il tedio e dà voglia ancora d’amore, i giorni svaporano di tutto riempiti di te.

La tappa più recente

Dopo questa abbandono liberatorio al sentimento il lungo cammino giunge alla tappa più recente, dal 1994 al 2005; non arriva all’attualità, per questa c’è un’altra silloge vincitrice di un premio. Ma è un momento che rappresenta comunque l’occasione di fare un bilancio di sentimenti e di emozioni. Prima di evocarli con le sue stesse parole ci sono due motivi quanto mai attuali: l’Africa e il vulcano. La prima è la terra dalla quale, dopo la sua Sicilia, ha tratto le maggiori ispirazioni, con il suo vento e i suoi altopiani, e lo hanno ricordato le immagini straordinarie che hanno accompagnato la lettura poetica: il vento odoroso che porta sul mare i magici suoni di Fez e parla di uomini antichi, della loro civiltà. La terra li accolse felice, finché esseri di ferro crociati li spinsero sul mare. Sparirono, rimasero lì, si perse il ricordo e vissero nel canto. E oggi ritornano sospinti dal vento di Fez ma in essi si è spenta la forza creatrice, diversi dal fu, attratti da ciò che di loro distrugge il ricordo. Veramente profonda, mentre impetuosa è l’immagine del vulcano: rossi crateri e bagliori di fuoco, il grido possente e i metalli neri e fumanti che sono disciolti e corrono a valle, dove si fermano frementi e di pietra divengono a prova che esiste, per sempre: il dio Vulcano.

Su pietre è scritta la vita che a noi umani tocca leggere senza capire, e non sono le pietre del vulcano. S’immerge nella natura sapendo di aver già vissuto nei boschi in vite lontane: da lupo. Ma non si tratta dell’”homo homini lupus”, bensì di una ricerca: è questo che ora mi manca e cerco da solo nel cupo del bosco; sapevo che c’era già stata una vita feroce e felice in cui avevo vissuto la terra mia madre, e il cielo stellato e il sole mio padre e stelle sorelle e fiumi e mari, pietre miliari del ricordo. Cercare se stesso nella natura, ma non solo: ci sono i figli e le vite, il sogno e il rimpianto.

Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”,
nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013

Nel sonno dei figli si scopre un intenso sentimento, è questa la gioia più grande. Le vite nel corso degli anni spariscono, rimane il ricordo, si perdono nel nulla esperienze ed emozioni. Restano rari momenti: un sorriso di donna, un grido d’amore di figli, la polvere tutto sopisce e ricopre, e nulla più torna nella vita. Il sogno che sempre ritorna non porta più a me il tuo dolce bacio – sospira – ogni ora sapendo che nulla sarà mai come allora. Nella canzone d’amore c’è il ricordo di una figura lontana che si cerca di far rivivere: le forme tornite, la veste gioiosa, le labbra dischiuse, e anche il passo armonioso, l’andare altero, lo strano sorriso: rimpiango il tempo perduto e come i rami spezzati mi butto alle spalle i ricordi sfinito e perduto. Ci sono i sogni portati dal delirio di gloria che atterrano l’uomo ma lo spingono anche a volare alto nel cielo come nuvole d’oro. E sono proprio le nuvole l’immagine terminale del lungo cammino che abbiamo percorso con il poeta.

Per questa poesia non ci limitiamo a completare con le parole prese fior da fiore il filo d’Arianna nel labirinto dei sentimenti immersi nella natura, la riportiamo integralmente nella sua scansione in versi: “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse del tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”.

Qualunque parola di commento guasterebbe, è un percorso di vita e di sentimenti che sentiamo anche nostro, grati al poeta di averci offerto questa sua introspezione che illumina tutti noi, ci fa aprire gli occhi dinanzi a stimoli emotivi che ora ci appaiono più chiari e coinvolgenti, dopo aver fatto un viaggio emozionante che solo la poesia può rendere con le parole che vengono scolpite. Al termine di questo percorso ci torna in mente il commento della poetessa Spaziani alla platea: la poesia é un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli, “i versi sono il sogno che ha sognato con me, attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi”.

Ebbene, con le poesie di Emanuele non abbiamo sognato solo l‘Africa e la sua Sicilia, abbiamo sognato ni stessi, le nostre illusioni e le nostre inquietudini. Abbiamo sognato la nostra vita.

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Emmanuele F. M. Emanuele

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Pubblicato il 26 ottobre 2010 in cultura.inabruzzo.it, non più raggiungibile. Cfr. i nostri articoli su manifestazioni legate al prof. Emanuele: in www.arteculturaoggi.com, sul conferimento a lui del Premio Montale 14, 20 aprile 2019, sulla maratona poetica annuale da lui ideata e promossa, organizzata e animata, “Ritratti di poesia”, 17 febbraio 2019, 1°, 5 marzo 2018, 13 marzo 2017, 19 febbraio 2016, 15 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, sui “Ritratti di Poesia” 9 maggio 2011, sul recital delle sue poesie al Quirino nel 2010 (testo qui ripubblicato integralmente) 24 ottobre 2010; su un convegno Unioncamere in materia economica 17 aprile 2009; in fotografia.guidaconsumatore, sui “Ritratti di poesia” 30 gennaio 2012 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Le immagini della serata del 21 ottobre 2019 sono state fornite da Comin & Partners che si ringrazia, con i titolari dei diritti, illustrano il testo che riporta anche la nostra cronaca e i contenuti della serata di nove anni fa, il 20 ottobre 2010; le immagini della serata del Premio Montale e delle tre manifestazioni dei “Ritratti di Poesia” del 2019, 2018 e 2013 sono state riprese da Romano Maria Levante rispettivamente a Palazzo Althemps e al Tempio di Adriano. In apertura, Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019 ; seguono, uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019, e il recital delle poesie di Emanuele: Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana; poi, Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele, e Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele; quindi, Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l”11 aprile 2019, Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale della 13^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock, nel Tempio di Adriano il 15 febbraio 2019, ed Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia’ alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018; infine, Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”, nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013, ed Emmanuele F. M. Emanuele; in chiusura, Il Teatro Quirino.

Il Teatro Quirino