Anghelopoulos, “Ex-Change”, la sfida dell’uomo moderno, alla Banca Generali di Roma

di Romano Maria Levante

 La mostra “A. T. Anghelopoulos. Ex-Change”  espone nella sede della Banca Generali di Roma dal 7 ottobre al 12 novembre una serie di opere  con i cicli pittorici di un artista il quale guarda la realtà con occhi penetranti, cerca di non farsi ingannare dalle apparenze e fissa con la pittura le frammentazioni, fratture e ostacoli che si frappongono quando si vuole esplorare in profondità la vita dell’uomo nella società contemporanea. Si inserisce nella Settimana di arte contemporanea “Rome Art Week” inaugurata alla Casina Valadier con la mostra site-specific “Inner Life” di Anghelopoulos e Micaela Legnaioli. Sia la mostra alla Casina Valadier che questa alla Banca Generali sono a cura di Sabrina Consolini intervenuta sull’artista anche nella precedente mostra del 2015 al Vittoriano. Catalogo di Campitano Editore Service.

Anghelopoulos all’inaugurazione della mostra
dinanzi a una sua opera della serie “Passages”

E’ una “location”  inconsueta quella della mostra, sottolineata dal “private banker” della banca ospitante che l’ha voluta, Andrea Petrangeli,  con queste significative parole: “Considerato il luogo dell’evento, il centro direzionale di un’importante istituzione bancaria, ambiente che più di altri incarna gli archetipi delle moderne società – mercato, profitto, successo economico – quel titolo suona come una provocazione, un incauto incitamento alla diserzione”. Lo interpreta quale mutamento del punto di osservazione, per avere “un diverso sguardo sul mondo, quindi inevitabilmente sulla condizione umana”. Come “osservatore semplice” – cita le parole di Anghelopoulos –  e non di semplice osservatore, “scavalcando le convenzioni, i giochi di ruolo, il pensiero di massa”. Ne dà conferma la curatrice Sabrina Consolini affermando – prima delle considerazioni sulla cifra artistica espressa nei diversi cicli pittorici – che “Anghelopoulos, uomo e artista lontano da mode e tendenze traccia un percorso nel quale la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva restituendo pura intimità all’esperienza sensoriale”.

Passages” , 2015

Dalla fotografia alla pittura che trascende il reale

Con queste presentazioni intriganti si avverte ncora di più la sfida posta da ogni artista contemporaneo che si allontana dal figurativo per l’astrazione indefinita. Il primo problema è quello dell’interpretazione delle opere, per la quale non basta l’osservazione  da  visitatore attento, ma vanno ricercati indizi e orientamenti nella biografia dell’artista e occorre documentarsi su sue  esternazioni che aiutino a decifrare  ciò che  appare incomprensibile; a volte pure all’artista, diremmo, almeno quando l’opera è “Untitled”, ed è anche il nostro caso per alcune delle opere esposte. “L’ “osservatore semplice” è già un indizio, ma non basta.

E’ un artista affermato, molte mostre personali e collettive in Italia – dove vive a Roma – e all’estero, apprezzato anche dalla critica straniera, la definizione di “artista di alto livello” é della curatrice italo-francese con attività internazionale Dominique Stella. La biografia registra che  frequentava dei corsi  di pittura sin nell’infanzia, a dieci anni, e nel contempo  prendeva lezioni di chitarra classica, trattandosi di una famiglia di musicofili, è stato  un lettore accanito di classici e di poesie, con predilezione per Montale, ha studiato psichiatria e neurologia; si è appassionato anche alla fotografia, fino ad aprire un laboratorio semi-professionale. In questa molteplicità di interessi Laura Colonnelli vede una “nostalgia del Rinascimento, quando un artista era anche scienziato, letterato, filosofo, musicista”. 

“Passages”, 2015

Nella pittura inizia con il figurativo, nello studio di Gigino Falconi, lo attira anche Monet, ma l’arte contemporanea diventa un richiamo irresistibile, predilige Dalì e Rothko, Magritte e Schifano, per questo vi si dedica dopo una sorta di duplice “autoritratto”  da fotografo imbarazzato perché mentre vuole riprendere ciò che lo circonda vede che sono maschere decomposte  (“Me shooting”, 2009);  o gli si frappone un ostacolo che cerca di superare sporgendosi attraverso un varco (“The Camera Man”, 2010).

Chissà se l’”autoritratto” confuso e tormentato non sia la confessione di aver scoperto che è inutile riprendere la realtà con la fotocamera, perché sfugge e non è quella che appare! La nostra interpretazione si basa sul carattere dell’artista, impegnato a indagare e ricercare, esplorare e perimentare, per cui ci sembra logico pensare che abbia voluto  esternare con quegli “autoritratti” rivelatori il passaggio  del Rubicone non solo dalla fotografia alla pittura ma dal figurativo all’astratto.

Una conferma si trova nelle sue parole, una “interpretazione autentica” della propria vocazione pittorica: “L’arte non deve copiare la realtà ma tornare ad amare l’uomo, provocarne l’intelligenza, portare l’osservatore in una dimensione che trascenda il reale, nella quale proprio l’uomo sia al centro di tutto, di ogni pensiero, di ogni progetto, di ogni fine”.

“Untitled”, 2017

 L’assonanza con l’affermazione di Roberto Longhi secondo cui “l’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa” porta Gianfranco Ferroni  ad affermare che “Anghelopoulos traccia un percorso dove la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva, restituendo un senso intimistico all’esperienza dell’apprendimento”; mentre Silvana Lazzarino vede  in lui “il desiderio di riscoprire nuove possibilità per lasciare che le emozioni individuali possano sfiorarsi”.

Sono tutte interpretazioni in linea con quella della curatrice, che non debbono far pensare a un disimpegno dai temi collettivi, tutt’altro,  perché per meglio approfondirli occorre scrollarsi di dosso le convenzioni della società massificata nella libera visione individuale e personale. Ne dà chiara conferma la  Consolini, dopo aver parlato di “lettura personale” e “pura intimità”:  “Insofferente verso i ritmi, i miti e i riti della contemporaneità, Anghelopoulos è convinto che l’arte debba veicolare valori universali  e parlare della condizione umana nel presente”.

Point of View” , 2016

Come parla della condizione umana dell’uomo contemporaneo lo spiega Federico Castelli Gallinara: “Al centro della sua ricerca pittorica l’uomo e la sua difficoltà e impossibilità di contatti realmente solidali e profondi con i suoi simili, il rapporto tra conoscenza e mondo interiore, tra tensione intellettuale e emozioni, la sua ricerca di verità nascoste sotto la superficie delle cose”. Ripensiamo alla lunga ricerca di Ennio Calabria sul “tempo dell’essere” nella rivoluzione permanente del progresso, espressa in opere pittoriche radicalmente diverse da quelle di Anghelopoulos ma mosse da una analoga esigenza interiore.

L’ “osservatore semplice” che guarda “oltre”

Dunque una visione della vita dell’uomo e della realtà libera dalle sollecitazioni interessate  della società massificata, al di là delle apparenze fuorvianti. Ma cosa vede con gli occhi dell’“osservatore semplice” ? E come lo esprime nella sua trasposizione, anzi trasfigurazione, il nostro artista?

Aver sottolineato il carattere prettamente “individuale” e “personale” di questa sua visione non basta per decifrarne le forme espressive, all’apparenza incomprensibili, anzi le rende ancora più criptiche in quanto proprio per questo non decodificabili  a livello collettivo.

“Point of View”, 2018

Claudio Strinati, nella presentazione alla mostra del 2015,  fornisce qualcosa di più di una chiave di lettura, il codice per aprire, come una “password”, immagini come crittogrammi. Per lo storico e critico dell’arte, in  Anghelopoulos c’è un “disimpegno”  non solo del Dio – come intitola una sua serie che vedremo –  ma in termini più generali, in un concezione dell’arte antitetica all’”arte impegnata” anche in termini politici, si pensi all’opposto in Guttuso.  Il disimpegno “è quel luogo dell’arte posto al confine tra un territorio e l’altro, il territorio dell’evidenza e della forza espressiva e quello del mistero e della sparizione”.

A questo punto il critico sarebbe lui stesso indecifrabile se non precisasse: “Sparizione non solo e non tanto dell’oggetto rappresentato, ma della volontà espressiva stessa dell’artista”.  In una sorta di “non esserci”, di “sottrarsi”, inconcepibile se non fosse motivato dalla volontà  di sparire per vedere meglio  immergendosi, diciamo noi, da sottomarino che alza il periscopio a 360°. Ciò corrisponde – torniamo a Strinati – “all’’ingresso in una dimensione analoga a quella che in matematica si rintraccia nei numeri ‘negativi’, nel ‘meno uno’ e così via”.

“Trama (Weave)”, 2016

E’ una dimensione che allontana dalla visione esistenziale della  vita quotidiana, con le sue false apparenze e fa entrare in mondi invisibili ma esistenti come quelli esplorati dalla  scienza alla ricerca di risposte sulla nascita della vita e sui meccanismi  che regolano l’Universo. Al riguardo  il critico cita la meccanica quantistica, con l’”antimateria” e i “buschi neri” fino al “neutrino”, con l’annullamento di tempo e spazio, elementi invisibili ma veri che pongono tanti interrogativi: “Sono quesiti innumerevoli e traumatici tendenti tutti a farci pensare che esista un altrove che è la vera realtà e quello che percepiamo sia apparenza al di là della quale c’è, appunto, l’‘oltre’; l’arte di Anghelopoulos sembra mossa da tale istanza”.  Quindi a questo “oltre”, oggetto dell’attenzione della scienza, si rivolge anche la ricerca che definiremmo leonardesca,  del nostro artista, e lì dobbiamo trovare il segreto della sua forma espressiva, perché vi risiedono gli equilibri invisibili ma decisivi nel macrocosmo dell’universo con i corpi celesti, come nel microcosmo dell’atomo di cui è  composta la nostra materia.

Le opere con la visione della condizione umana da parte dell’artista

Guardiamo le sue opere con queste chiavi di lettura, la visione “individuale” e “personale” dell’artista  libero dalle sensazioni ingannevoli offerte dalla realtà, e il suo “guardare oltre” penetrando al di là di ogni evidenza sensoriale per scavare in profondità.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio” , 2014

Abbiamo cercato di esplorare i suoi intenti, ma come decodificare le sue realizzazioni? Aiutano in questo le parole di Castelli Gallinara: “Nasce così una pittura potentemente materica, spessa e colorata, textures che rimandano a dimensioni al contempo cosmiche e e neuronali, finestre su un mondo complesso dove si intrecciano mistero, rivelazione, malcerte promesse e barlumi di speranze, in una struggente attesa di cambiamento”.

Nella prima serie della galleria espositiva, i  2 “Passages”, del 2015, definiti dalla curatrice “sfumati”,  vediamo una superficie pittorica con quello che la Colonnelli chiama “il dilagare dell’oro”, per ”le ampie campiture di colore, che piano piano virano verso l’oro assoluto, quello di Giotto, dei trecentisti, delle icone bizantine”; c’è l’oro anche nei due “Untitled”, del 2016-17, con diverse tonalità e  gradazioni.

Più avanti, i 3 “Point of View”   sono “enigmatici”, tre simil-istogrammi bianchi calati dall’alto, immersi in un fondale d’oro,  nell’opera del 2016, mentre nelle 2 opere del 2018 sono immersi  in un fondo nero con dei riflessi chiari sotto agli istogrammi, rispettivamente due e tre; come se nei due anni trascorsi i “punti di vista”  fossero passati dalla luce al buio.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio“, 2015 m

 Nulla da aggiungere alla definizione di “filigrane meditative” data dalla curatrice perTrama (Weave)”.  2016, se non che sono anch’esse intessute d’oro.

Per interpretare le altre serie torniamo agli intenti dell’artista come espressi nella traduzione pittorica secondo la  visione della  Consolini: ”In questo percorso alle radici dell’esistenza, in questa riflessione sul senso della vita si materializzano davanti allo spettatore spiragli, portali, varchi, occasioni per una riflessione, inviti ad alzare lo sguardo, e perché no a compiere un passo nella misteriosa e luminosa direzione offerta, oltre i confini claustrofobici dell’ovvio, del quotidiano, lontano dalle sabbie mobili del consumo  e ben oltre la superficie delle cose, una irresistibile induzione al fatidico passo oltre i confini del proprio perimetro vitale, oltre la superficie delle cose, un’istigazione alla rivolta”. Ci tornano in mente le parole ’incitamento alla diserzione” dell’esponente della Banca  che ospita la mostra, consapevole di come vi sia particolarmente esposto chi, per sua stessa affermazione, “più di altri incarna gli archetipi delle moderne società,  mercato, profitto, successo economico“.  Ma nessun timore, ricordiamo che quella di Anghelopoulos non è un’“arte impegnata” sul piano politico.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2013

La Consolini nel 2015 aveva già indicato come si manifestano questi “confini claustrofobici” negli addensamenti materici di alcune opere che generano nell’osservatore “la sensazione di una mancanza di visuale o di una visuale insufficiente, soffocata. E’ come se con  queste opere egli volesse ricordarci che l’esistenza di ciascuno  è circoscritta da un invisibile diaframma, una pellicola che lo protegge dal mondo esterno”.  Lo protegge ma nello stesso tempo lo imprigiona, per cui “quello che l’uomo riesce a concedersi è inevitabilmente un’occhiata  furtiva, uno sguardo limitato  a ciò che sta intorno, uno sguardo costretto a farsi largo  tra le fitte trame difensive di un vero e proprio bozzolo”; attraverso quelli che lei stessa oggi chiama “spiragli, varchi, portali per una riflessione”.

Vediamo questi addensamenti materici claustrofobici e soffocanti nelle due opere esposte dal titolo “God Engagement”,  2014-15, è i l”disimpegno del Dio”  perché anche la divinità si arrende dinanzi ai muri dell’esistenza, il piano pittorico sembra una superficie lunare, una variazione della “Superficie fratturata bianca”, 2012, dell’esposizione precedente., dove anche il trittico “Sulle orme di Dante”, 2015,  presentava il Paradiso dorato schiacciato tra  un Purgatorio dalla superficie “fratturata” come nel “God Engagement”  e da un Inferno  in cui nella  barriera invalicabile spunta una piccola lucertola, l’unico elemento figurativo, ispirato a quella di bronzo fusa dal Bernini alla base del baldacchino dell’altare della Basilica di San Pietro.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2015

Così l’ha definita Anghelopoulos: “E’ simbolo di rinascita, perché cambia pelle. L’ho adottata come sentinella dell’anima, simbolo di veglia attenta tra occhi offuscati e menti obnubiliate”; e ha concluso: “Se esiste un inferno questo è sulla terra, di essa e dei suoi abitanti dovremmo occuparci prima di tutto”. Altra prova che il suo apparente  “disimpegno”  è per meglio “impegnarsi” in una visione che penetra “oltre”, come dimostra la sua  lucertolina simbolica ed evocativa. Ricordiamo, per averli commentati,  l’”Inferno” nei disegni di Rodin e nei dipinti di Roberta Comi, le tre cantiche nei dipinti di Gianni Ttesta,  raffigurazioni di una realtà immaginata nel figurativo, qui siamo nell’astrazione assoluta e imperscrutabile.

Il simbolo di rinascita dall’inferno “sulla terra” è  dunque presente, ma  sembrerebbe velleitario, se stiamo alla serie “Deep Sky (Cielo Denso)”, 3 opere dal 2013 al 2015, quasi sovrapponibili con minime varianti nella bianca rugosità che lascia trapelare minimi spiragli di azzurro, piccole fessure sulla coltre bianca soffocante che copre il cielo come la cenere dell’eruzione copriva  Pompei. Con una quarta opera,  intitolata significativamente “Inner Sky (Cielo interiore)”, del 2015, però, si ribaltano le proporzioni: il bianco è soltanto nei modesti spazi prima dedicati agli spiragli di azzurro, il “cielo interiore” è  azzurro e blu intenso; mentre l’opera con lo stesso titolo del 2012 era in celeste chiaro, la citiamo per il significato che può avere questa maggiore intensità nel senso di una penetrazione più profonda. Vi troviamo  un invito a leggere  dentro di sé per trovare la chiarezza che ci nega il mondo esterno, anche quando eleviamo lo sguardo verso il cielo:  che non è il “cielo stellato” di Kant, il quale peraltro vedeva “dentro di noi” la legge morale, quasi una proiezione interna del firmamento.  Anghelopoulos ha reso visivamente questa visione.

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“Inner Sky (Cielo Interiore)”, 2015

Ma non è tutto, Strinati ha scritto: “Le sue superfici vengono percepite come graffiate, soffocanti per certi versi, e viene da paragonarle a crateri lunari, visioni satellitari, filamenti celesti, viaggi in mezzo a cieli densi di nuvole pesanti e tempestose”. “ cita Klee e Rothko, aggiungendo: “Ma sempre si avverte l’eco, sulle sue superfici. di bagliori che si stanno spegnendo, di visioni in cui non si riesce a scorgere più nulla, di una specie di ritorno al futuro…”. 

Lo abbiamo visto con l’oro che risplende pur nella desolazione, e negli spiragli di azzurro nel cielo coperto di “cenere” che diventano firmamento interiore con poche macchie residue. Ora lo vediamo nella “Serie Turner – Senza titolo”, 3 opere del 2018 ispirate al grande artista dalle straordinarie visioni naturali, con i suoi cieli nelle più diverse meteorologie serene o tempestose. Con un contorno dorato  si passa dal rosso-arancio a due azzurri con diverse striature bianche che sono proprio i “filamenti celesti” evocati da Strinati che, insieme ai “bagliori”, pur se “si stanno spegnendo”, rappresentano comunque un’apertura, qualcosa di altamente positivo e di salvifico. E’ un finale in bellezza che apre il cuore alla speranza.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

La “Bella Principessa”, metafora del mistero della vita interiore

La figura umana è assente in questa esplorazione che diremmo cosmica, ma l’artista non l’ha dimenticata. E, a parte i due “Autoritratti” citati – che non sono tali nell’accezione tradizionale, perchè esprimono il disorientamento che lo ha portato dalla fotografia alla pittura con gli intenti e la visione  sottesi  – non possiamo non ricordare l’opera esposta nella mostra del 2015 “Vita interiore-Inner life”, del 2014,  espressa nel volto della “Bella Principessa”, ritratto attribuito a Leonardo, in cui Anghelopoulos colloca un vistoso ingranaggio, che parte dalla parte destra del viso e prosegue nella spalla. Un intervento leonardesco, possiamo dire, considerando che il grande genio del Rinascimento abbinava nei suoi “codici” disegni di ingranaggi e di parti del corpo umano ugualmente oggetto della sua inesausta ricerca.

Il nostro artista ha spiegato così quella che potrebbe sembrare una profanazione del delicatissimo volto e della figura femminile: “Ho voluto raffigurare il  suo lato nascosto, il lato sottratto per sempre agli sguardi del mondo e per ciò stesso metafora del mistero che circonda la vita interiore del soggetto ritratto”.  Il mistero che “ella, come ciascuno di noi porta con sé”,  è spiegato così dalla Colonnelli: “La creatura in cui carne  e anima sono un tutt’uno a riflettere l’immagine divina, è ormai un mezzo robot…. l’uomo non è più la magnifica creatura celebrata da Leonardo e dai pensatori suoi contemporanei, ma una macchina vivente totalmente manipolabile. E sempre più misera e inaccessibile appare la sua vita interiore”. Per la Consolini “l’inaccessibile emivolto, ora svelato, assurge a metafora del mistero che circonda la vita interiore… un magma di desideri, paure, pulsioni, lati oscuri. Il complesso ingranaggio innestato sul suo profilo… è parte di quel mistero svelato,  è una proiezione degli insondabili  ingranaggi interiori, è vita interiore”. 

Anche se quest’opera sulla “Vita interiore” non è presente nella mostra attuale, è esposta  la già citata “Inner Sky (Cielo Interiore)” il cui azzurro, divenuto ancora più intenso di un’opera precedente, ha scacciato la cenere soffocante del “Deep Sky” , una metafora dell’”Ex-Change”, come “occasione di ricontrattare le regole d’ingaggio con la realtà”. Sono parole della curatrice Consolini che così conclude la sua presentazione: “Cosa sono queste opere se non l’occasione per l’impossibile di realizzarsi, per l’imprevedibile di diventare realtà, l’opportunità – che solo l’arte fornisce– di ‘sognare contro il mondo e strutturare mondi che sono altri’, citazione quest’ultima di Steiner che ci riporta  all’assunto iniziale.

E’ compito dell’ artista, un “osservatore semplice” che come Bertoldo possa dire: “Il re è nudo”.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

Info

Banca Generali, Roma, Via Leonida Bissolati 76, dal lunedì al venerdì, ore 9,00-17,00, ingesso gratuito.  Catalogo “A. T. Anghelopoulos. Ex. Change”, Campisano Editore Service, ottobre 2019, pp. 34,  bilingue italiano-inglese, formato 20 x 20;  per la mostra del 2015 al Vittoriano,  catalogo “Tra materia e anima, tra memoria e tempo. A. T. Anghelopoulos, Andrea Pinchi”,  a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, novembre 2015,  pp. 112, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28.  Dai due cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sugli artisti e i temi citati: in questo sito, su Leonardo 2, 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, per la mostra precedente, “Anghelopoulos e Pinchi, astratto  e concreto al Vittoriano”  16 novembre 2015, Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018, Guttuso,  14, 26, 30  luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, 25 e 30 gennaio 2013;  Klee  1° e 5 gennaio 2013,  Dalì  28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012,  Rothko, nella Collezione del Guggenheim  22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012; Monet e gli impressionisti 12, 18, 27 gennaio 2015, 11 maggio 2014; per le visioni dell’Inferno,  Rodin,  Roberta Comi  20 febbraio 2013, per le tre cantiche Gianni Testa  14 settembre 2014; per le visioni cosmiche “Meteoriti”5 ottobre 2014, per i “numeri negativi” e simili,””Numeri” 23, 26 aprile 2015; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo, 6 febbraio 2012, 23 febbraio 2011, 11 gennaio 2010, 6 luglio e 30 settembre 2009, Monet e gli impressionisti 27 e 29 giugno 2010; guidaconsumatore.fotografia, Schifano 15 novembre 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini, riportate nell’ordine in cui sono citate nel testo, sono tratte dal Catalogo dell’attuale mostra, tranne quella di apertura fornita cortesemente dalla curatrice, e quella di chiusura tratta dal Catalogo della mostra del 2015, si ringraziano Sabrina Consolini, i due Editori,  con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Anghelopoulos,  per l’opportunità offerta. In apertura, Anghelopoulos all’inaugurazione dinanzi a una sua opera della serie “Passages” ; seguono, 2 opere intitolate “Passages” entrambe 2015, e “Untitled” 2017; poi, 2 opere intitolate “Point of View” 2016 e 2018, e “Trama (Weave)” “2016; inoltre 2 opere intitolate “God disengagement – Disimpegno del Dio” 2014 e 2015; ancora, 2 opere intitolate “Dense Sky (Cielo Denso)” 2013 e 2015, e “Inner Sky (Cielo Interiore)” 2015; infine, 2 opere intitolate “Serie Turner – Senza titolo” entrambe 2018; in chiusura, “Vita Interiore – Inner Life” 2014.

“Vita Interiore – Inner Life”, 2014

Roma. Al Quirino la poesia di Emanuele diventa teatro

di Romano Maria Levante

Riceviamo ora da Comin & Partners: “Caro collega, si è svolto ieri sera, 21 ottobre, al Teatro Quirino di Roma il reading dedicato alle poesie del Prof. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma. Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, insignito di recente del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. In calce e in allegato la nota stampa e alcune immagini. Grazie per l’attenzione e un cordiale saluto, Comin & Partners.” Peccato non aver ricevuto l’invito alla serata, la nota stampa fornisce le notizie essenziali, ma non può rendere l’atmosfera e la magia delle poesie di Emanuele recitate da Geppy Gleijeses, Marisa Lurito e Andrea Giordana. Tre grandi attori, il primo dei quali protagonista del precedente recital nove anni prima, il 20 ottobre 2010. Con lui c’erano Marianella Bargilli e un’altra coppia di grandi attori, Paola Gassman e Ugo Pagliai. Di quella serata riportiamo la nostra cronaca pubblicata allora; della serata di ieri riportiamo il comunicato di Comin & Partners e le immagini che inseriamo in un mix del testo della serata di allora con le fotografie della serata di ieri e con in più fotografie del poeta Emanuele nella serata del Premio Montale e nelle maratone poetiche dei “Ritratti di poesia” nelle quali consegna i premi per la Poesia internazionale e la Poesia nazionale.

Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019

“22 ottobre 2019. Le poesie di Emmanuele Emanuele al Teatro Quirino di Roma – Reading di poesie del Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma, ieri sera al Teatro Quirino di Roma. Di fronte ad una sala gremita per l’occasione, i tre attori Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, il quale oltre ad essere avvocato, docente universitario, economista, filantropo e mecenate, è anche scrittore e poeta di successo, essendo stato recentemente insignito, tra gli altri riconoscimenti letterari ricevuti nel corso della sua carriera, del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. Il reading è stato impreziosito dalle suggestive immagini di sfondo del video-artist Gianluca Rame, su musiche di Ludovico Einaudi. Momenti di sincera commozione in sala quando il Prof. Emanuele, dopo i ringraziamenti di rito, ha chiesto all’amico Gleijeses di leggere due inediti, tratti dall’ultima sua raccolta ‘Il sole dentro’ che ancora dev’essere data alle stampe. Cocktail a seguire nel foyer del teatro, fino a tarda sera”. Questo ieri, ed ora il precedente spettacolo, 20 ottobre 2010.

Come eravamo, le poesie di Emanuele al Quirino nove anni fa

Al Teatro Quirino di Roma la sera del 20 ottobre 2010 uno spettacolo fuori dal comune, la poesia divenuta teatro ed emozione con le letture poetiche dei versi di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, che non ha bisogno di presentazione per chi si appassiona all’economia e alla finanza e per chi ama l’arte: è il “dominus” delle Scuderie del Quirinale e del Palazzo delle Esposizioni, della Fondazione Roma e di altre istituzioni culturali per non parlare di quelle economiche e finanziarie, ed anche delle iniziative in campo sociale con il Terzo settore.

Una serata speciale in un Quirino affollato e partecipe, un vero teatro realizzato attraverso la poesia. Non una delle consuete letture poetiche, ma qualcosa di diverso, anzi molto di più. Sarà stato il palcoscenico, al posto delle normali sale utilizzate per tali occasioni, sarà stato il buio della platea e l’occhio di bue sul lettore di turno, saranno stati gli attori di grido che si sono succeduti alla ribalta a dare la marcia in più alla serata. Ma questi ingredienti scenici erano il contorno, pur se prelibato, del piatto forte: la poesia di Emanuele resa ancora più viva da immagini che scorrevano sullo schermo.

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Uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019

Non un semplice sfondo, ma un vero controcanto con le emozioni visive a corredo delle parole e relativa musica. Un abbinamento che non era mai capitato di vedere con toni e stimoli così suggestivi, in grado non solo di rendere i luoghi e gli ambienti, ma anche di interpretare l’animo del poeta. Di volta in volta sferzato dal vento o abbagliato dalle luci, nel rincorrersi tra montagne che il vento aveva scavato creando immagini antropomorfe o tra le acque impetuose, le sabbie e i vulcani, i declivi e gli abissi. Che erano poi le discese e le risalite, le cadute e i voli del canto poetico.

E’ stata una fortuna assistere a questo spettacolo, con l’ulteriore fortuna di poterlo vivere a fianco di Giuliana Lojodice, e nell’attesa rievocare con lei il mitico sceneggiato “Una tragedia americana”, il suo personaggio di Roberta, antagonista di Sondra, la sfavillante Virna Lisi verso la quale l’attrice ha parole di ammirazione; e poi gli “Oscar del teatro” di cui è stata protagonista – chissà se ci saranno ancora dopo la triste sorte dell’ETI! – e tanti momenti della grande carriera di una interprete e di una coppia straordinaria, Giuliana e Aroldo, compresi i suoi recenti lavori con un regista bravo ed esigente come Sepe; fino allo spettacolo del 22 novembre prossimo all’Eliseo, unico non solo perché si esaurisce in una sola serata ma per la sua forte valenza scenica e artistica.

Scende, dunque, il buio in platea, davanti a due leggii posti agli estremi del palcoscenico, si avvicendano gli attori, e che attori! Paola Gassman e Ugo Pagliai, Geppy Gleijeses e Marianella Bargilli, due coppie molto affiatate, una staffetta di generazioni. Diversi stili interpretativi, che hanno segnato cambi di tonalità e di espressione, quasi a voler marcare i diversi momenti attraversati dal poeta e l’onda di sentimenti che ne scaturiva: il tono pacato e sommesso, tutto interiore di Ugo Pagliai e gli acuti appassionati di Paola Gassman, il vigore e l’intensità interpretativa di Geppy Gleijeses e la leggiadra freschezza vocale e scenica di Marianella Bargilli.

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ll recital delle poesie di Emanuele:, Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana

Ogni poesia segnava la fine di un quadro, l’attore tornava dietro le quinte ed entrava in scena il successivo dal lato opposto del palcoscenico; nessun contatto, non era come la staffetta di tipo calcistico dei “Tre tenori”. Una “ronde” incessante di cui si può intuire il ritmo tenendo conto della brevità delle poesie di Emanuele, essenziali nello scolpire le immagini con poche icastiche parole.

Se quelle di Calder, esposte lo scorso anno nel “suo” Palazzo delle Esposizioni”, erano “sculture d’aria”, le immagini create dalla poesia di Emanuele erano di volta in volta sculture di vento e di sabbia, di mare e di cielo, in definitiva sentimenti scolpiti nella natura e dalla natura che li plasmava. Come ciò potesse avvenire lo si vedeva dalle immagini proiettate, una filmografia dei moti dell’animo. Quando Gleijeses alla fine presenterà, per l’applauso del pubblico, Paolo Calafiore autore del filmato – oltre a Ludovico Einaudi per le musiche e altri operatori – Emanuele dirà: “E’ l’Africa come la ricordo io, l’altopiano è riportato com’era e com’è nelle mie poesie”.

E’ in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani

Ma lo spettacolo non era terminato, entrava in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani, allorché dinanzi alla platea ora illuminata si sono seduti sul palco intorno a lei i quattro interpreti e il poeta Emanuele, che ha dovuto superare la ritrosia a presentarsi in una veste che per pudore non si sente di aggiungere alle altre che indossa con autorevolezza in posizioni di vertice – l’imprenditore e il finanziere, l’intellettuale e lo scrittore, l’operatore culturale e il creatore di grandi eventi artistici – al punto di non aver voluto rilasciare un’intervista sulla poesia: “Io sono tante cose insieme – dice lui stesso – considerarmi anche poeta sarebbe troppo”. Ma non può negarlo, lo considera tale la poetessa per antonomasia, che con fervore giovanile fa una vera e propria orazione celebrativa.

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Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele

“Il poeta è tutto – dice nel delinearne la figura – mentre le altre attività sono parziali e settoriali, il poeta ha la visione d’insieme”. “Emanuele o Emmanuele – prosegue giocando sulla emme raddoppiata nel nome, come ha fatto Lino Angiuli nell’introduzione scritta alla sua silloge – è imprenditore, banchiere, operatore e tanto altro, lui vorrebbe essere soltanto poeta”. Perché ne conosce il valore e il significato, anche se ne ha il pudore: “Quando la gente sente che qualcuno in aggiunta alle proprie attività è anche poeta – continua la Spaziani – fa un sorrisetto come se fosse marginale, un giochetto tipo le parole incrociate se non una stranezza”. La poesia, invece, è un fatto serio: “E’ un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli”.

Ma è anche molto di più: “Se faccio un sogno e poi ne nascono dei versi, quei versi sono il sogno che ha sognato con me. Attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi.”. E, riferendosi alle poesie di Emanuele, aggiunge: “Io ho sognato con lui l’Africa, i suoi deserti e i suoi cactus, la Maremma purtroppo dimenticata e i suoi segreti, i misteri e le favole, Cortina e una storia d’amore”.

Emanuele non è qui il freddo imprenditore, è commosso, ben altro dell’uomo di pietra, non lo è con la sua poesia; ne ha assorbito la sobrietà e il pudore, pur se apre il suo animo ma sempre trattenendosi. Aggiunge solo i ringraziamenti alla poetessa e ai tanti amici che hanno voluto essergli vicini, con un tocco di classe quando evoca la città natale da cui è stato lontano per cinquant’anni, una lontananza voluta per non vederla diversa da come l’aveva vissuta nella fanciullezza; e qui il nostro pensiero corre a “Nuovo Cinema Paradiso” anche se forse non c’è stato un vecchio saggio a dirgli di restarne lontano. C’è voluta l’occasione di un convegno sull’identità mediterranea per riportarlo a Palermo dove ha rivisto quel mondo e si è immedesimato nella poesia che ricorda la “Città”, la ritiene il culmine dei suoi sentimenti: li rappresenta e lo rappresenta fedelmente.

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Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele

Gleijeses la leggerà da par suo in conclusione, dopo aver fatto un’acuta considerazione: “Come una donna bellissima paga lo scotto di non essere ritenuta intelligente, così un grande imprenditore e uomo di finanza può subire il pregiudizio di non essere ritenuto poeta”. Non è il caso di Emanuele, il riconoscimento gli viene da tante parti, qui riconfermato palesemente dalla Spaziani e dai grandi attori che hanno scelto di fare lo spettacolo solo perché le poesie di Emanuele sono grandi poesie.

Le prime tappe del lungo cammino

La serata termina con il saluto degli amici a Emanuele sempre più commosso; ma non può finire la nostra cronaca senza trasmettere ai lettori qualche favilla degli sprazzi di luce poetica che hanno illuminato la platea del Teatro Quirino. Lo facciamo scegliendo, fra le sue tre agili raccolte di poesie esposte, quella dal titolo eloquente “Un lungo cammino”, non è una silloge episodica ma una vera sequenza di cinquant’anni di ricordi e di emozioni; in una serata nella quale il tono teatrale faceva dimenticare la presentazione libraria abbiamo voluto ricordarla chiedendo la dedica di prammatica.

Ed eccoci ora a sfogliare l’aureo libretto cercando di estrarne e legare parole che riescano a renderne il filo conduttore, il ritmo e l’armonia, la modulazione dei toni e la profondità dei contenuti. La prima poesia che troviamo è quella citata in cui l’autore si riconosce maggiormente, “Città”, è nella sezione dedicata alla terra, anni 1956-58: c’è già un primo percorso di vita nel quale si rispecchia anche quello successivo. Appaiono i segni arcani delle strade più buie dell’infanzia, che si ripetono più tardi nel tempo dell’ansia, tra le occhiaie vuote di vuoti destini e slarghi di rara bellezza. Negli anni del dopo interviene il rimpianto, restano gli squarci di luce improvvisi su vecchi portali, il colore rabbioso dei muri, la polvere opaca, e gente incupita dall’antico dolore di chi vive nel bello e ne muore. E sempre in questo periodo, indietro di mezzo secolo, a San Martino c’è il caldo meriggio che annulla i sogni, negli angoli oscuri in fondo all’anima ansima il petto di grandi speranze che il tempo corrode. L’età dell’infanzia suscita i ricordi più dell’attesa degli anni a venire, quando un viso d’opale diffonde una luce e canti trasmettono parole d’incenso. Dalla terra prorompe la rabbia del Sud, l’antico rancore per quel che non fu, per quel che non è, le vane speranze di vite diverse e diverso futuro; in un mare che è ostile seppure ricco di antiche leggende.

Dalla terra sono ispirati i canti dell’Aspra, degli stessi anni, il poeta apre il cuore in una natura dove all’ostilità della terra si contrappone la lusinga del mare. Il mare tra le case in rovina, s’inseguono i venti di terra. Per ore – confida – guardavo le onde, pensavo al futuro di là da quel mare; poi la partenza, andai e persi il ricordo, rivedo di là altro mare, soffermo lo sguardo sull’onde e sento la stessa ansia di sempre: conosce lo stesso pensiero la mente, andare, partire. Lo spirito di Ulisse, forse, il mezzo secolo successivo di Emanuele mostra il suo lungo viaggio con Itaca nel cuore.

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Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l’11 aprile 2019

Il porto è un luogo metafisico con la luna che emerge da dietro le vele e sembra fermarsi immota nel vecchio scenario sbiadito dove la notte che avanza rianima i moli, mentre il mare immobile attende. E sui volti di grande tristezza si legge con l’ansia il gelo di esistere. Un sentimento personale e collettivo, se un canto si leva con le nenie di popoli dispersi da sempre sul mare che unisce le coste. In un mare simile il poeta non resta in superficie a meditare, vi penetra nel fondo. Scendevo nel buio dell’acqua profonda – esclama – nel cono di luce che spegne i raggi e le stelle. Fluttuavo, portato dall’onde leggere nel sacro respiro del mare: padrone di me nel silenzio capivo che come sul mare la vita, incurante, mi avrebbe portato.

L’estate di Pioppo ci dà immagini crepuscolari. E’ sera, mia madre suonava nel portico di vecchi fogliami – ricorda – il buio ritagliava la figura di lei, udivo il richiamo, volevo fermare la voce, l’odore di terra, le strisce del cielo, il vapore alla base dei monti, volevo che tutto restasse così, la madre e la natura. Ma il sogno d’estate carducciano sembra svanire, passa la sera e scende la notte.

Torna la natura con il bosco e le ginestre. Una scultura antica nella radura, immobile, la quercia possente e solitaria, protesa al cielo, resiste al gelo e alla calura, ai venti e ai fulmini; i fusti leggeri invece si accalcano tremanti aggrappati l’un l’altro per cercare protezione. L’insegnamento: così nella vita l’uomo grande è solo e gli altri lo guardano timorosi, bisognosi del gruppo per esistere; e non solo per resistere, aggiungiamo. Prima abbiamo evocato Carducci, la ginestra non può non richiamare Leopardi, per il fiore del deserto il poeta trova una definizione di intensità straordinaria: risposta terrena al raggio del sole si aggrappa alla pietra più arsa. E questa sua capacità di resistere dà forza: lontano si sente l’odore portato dal vento, nel fiore ritrovo l’ardore che porto nel cuore.

Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale
della 13^ Edizione dei Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock,
nel Tempio di Adriano, il 15 febbraio 2019

Il cammino prosegue

Scorrono lenti gli anni, siamo al 1963-67, ancora ricordi dell’isola, per la quale si prova un amore struggente, il poeta la vede e la sente, bella e crudele, forte, di bello di sole e di luce intrisa. E si apre a una confessione che è orgogliosa riaffermazione di identità: negli anni ti ho portato nel cuore, ragione di vita; nei segni lavati dal tempo aspetto di te ciò che è mio. E per questo sente che deve ancora cercare, nel rimpianto di vite diverse vissute nel sogno ed esclama: vorrei ripartire dal nulla di prima e tornare e cercare partendo da niente. Le ore di chiare speranze sembravano grandi e ora sono solo rimpianti. Non vi sono fiori sulle strade ferrate su cui corre la vita, si rimane soli e torna il gelo dell’esistenza: non vedo e non sento – dice – il freddo del cuore mi porta la neve negli occhi.

Il lungo cammino procede, nel 1968-70 si va nell’America di Bob Dylan che cantava: “Quante strade deve percorrere un uomo per diventare uomo, quante orecchie deve avere per sentire qualcuno che piange”. La risposta è nel soffio del vento che va, ora il vento e l’uomo sono lo stesso ma non fermano le lacrime e l’odio. “The road” è il titolo, la strada su cui ora si snoda il lungo cammino, ma arriva la negazione portata dal dolore: non c’è riposta nel soffio del vento, non può rispondere l’uomo al dolore del mondo. L’anima rimane da sola, non sente i dolori del mondo e il grido cammina di notte e non sente.

Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018

L’anno successivo apre un percorso di più di vent’anni, dal 1971 al 1994: esplode l’amore, la vita del cuore. C’è il presagio: svanisce il sogno, corrono negli anni le nuvole, mi volto indietro e non vedo che te, tu sola trapassi il gelo del cuore. L’amore cancella i pensieri tristi: guardarti avanzare leggera richiudere il libro del mondo, tenerti la mano. Perché sei tu, lo so – si confida il poeta – gioisce e batte il cuore al tuo sorriso e si ritrae seguendo il dolore e l’amaro di sempre. Un’amarezza che supera: la luce fa sera negli occhi miei stanchi, e tu sei nel ricordo del giorno. Lei ha riportato la vita nel cuore dove non c’erano più per un tempo infinito sorriso ed emozione, nell’anima non c’erano ansie e veri rimpianti. Sparite al ricordo le voci, le facce, i sorrisi. Ma con l’amore il vento di antichi ricordi riempie i miei sogni – può esclamare – si irradia una luce e in essa ti vedo. L’abbraccio scaccia il tedio e dà voglia ancora d’amore, i giorni svaporano di tutto riempiti di te.

La tappa più recente

Dopo questa abbandono liberatorio al sentimento il lungo cammino giunge alla tappa più recente, dal 1994 al 2005; non arriva all’attualità, per questa c’è un’altra silloge vincitrice di un premio. Ma è un momento che rappresenta comunque l’occasione di fare un bilancio di sentimenti e di emozioni. Prima di evocarli con le sue stesse parole ci sono due motivi quanto mai attuali: l’Africa e il vulcano. La prima è la terra dalla quale, dopo la sua Sicilia, ha tratto le maggiori ispirazioni, con il suo vento e i suoi altopiani, e lo hanno ricordato le immagini straordinarie che hanno accompagnato la lettura poetica: il vento odoroso che porta sul mare i magici suoni di Fez e parla di uomini antichi, della loro civiltà. La terra li accolse felice, finché esseri di ferro crociati li spinsero sul mare. Sparirono, rimasero lì, si perse il ricordo e vissero nel canto. E oggi ritornano sospinti dal vento di Fez ma in essi si è spenta la forza creatrice, diversi dal fu, attratti da ciò che di loro distrugge il ricordo. Veramente profonda, mentre impetuosa è l’immagine del vulcano: rossi crateri e bagliori di fuoco, il grido possente e i metalli neri e fumanti che sono disciolti e corrono a valle, dove si fermano frementi e di pietra divengono a prova che esiste, per sempre: il dio Vulcano.

Su pietre è scritta la vita che a noi umani tocca leggere senza capire, e non sono le pietre del vulcano. S’immerge nella natura sapendo di aver già vissuto nei boschi in vite lontane: da lupo. Ma non si tratta dell’”homo homini lupus”, bensì di una ricerca: è questo che ora mi manca e cerco da solo nel cupo del bosco; sapevo che c’era già stata una vita feroce e felice in cui avevo vissuto la terra mia madre, e il cielo stellato e il sole mio padre e stelle sorelle e fiumi e mari, pietre miliari del ricordo. Cercare se stesso nella natura, ma non solo: ci sono i figli e le vite, il sogno e il rimpianto.

Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”,
nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013

Nel sonno dei figli si scopre un intenso sentimento, è questa la gioia più grande. Le vite nel corso degli anni spariscono, rimane il ricordo, si perdono nel nulla esperienze ed emozioni. Restano rari momenti: un sorriso di donna, un grido d’amore di figli, la polvere tutto sopisce e ricopre, e nulla più torna nella vita. Il sogno che sempre ritorna non porta più a me il tuo dolce bacio – sospira – ogni ora sapendo che nulla sarà mai come allora. Nella canzone d’amore c’è il ricordo di una figura lontana che si cerca di far rivivere: le forme tornite, la veste gioiosa, le labbra dischiuse, e anche il passo armonioso, l’andare altero, lo strano sorriso: rimpiango il tempo perduto e come i rami spezzati mi butto alle spalle i ricordi sfinito e perduto. Ci sono i sogni portati dal delirio di gloria che atterrano l’uomo ma lo spingono anche a volare alto nel cielo come nuvole d’oro. E sono proprio le nuvole l’immagine terminale del lungo cammino che abbiamo percorso con il poeta.

Per questa poesia non ci limitiamo a completare con le parole prese fior da fiore il filo d’Arianna nel labirinto dei sentimenti immersi nella natura, la riportiamo integralmente nella sua scansione in versi: “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse del tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”.

Qualunque parola di commento guasterebbe, è un percorso di vita e di sentimenti che sentiamo anche nostro, grati al poeta di averci offerto questa sua introspezione che illumina tutti noi, ci fa aprire gli occhi dinanzi a stimoli emotivi che ora ci appaiono più chiari e coinvolgenti, dopo aver fatto un viaggio emozionante che solo la poesia può rendere con le parole che vengono scolpite. Al termine di questo percorso ci torna in mente il commento della poetessa Spaziani alla platea: la poesia é un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli, “i versi sono il sogno che ha sognato con me, attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi”.

Ebbene, con le poesie di Emanuele non abbiamo sognato solo l‘Africa e la sua Sicilia, abbiamo sognato ni stessi, le nostre illusioni e le nostre inquietudini. Abbiamo sognato la nostra vita.

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Emmanuele F. M. Emanuele

Info

Pubblicato il 26 ottobre 2010 in cultura.inabruzzo.it, non più raggiungibile. Cfr. i nostri articoli su manifestazioni legate al prof. Emanuele: in www.arteculturaoggi.com, sul conferimento a lui del Premio Montale 14, 20 aprile 2019, sulla maratona poetica annuale da lui ideata e promossa, organizzata e animata, “Ritratti di poesia”, 17 febbraio 2019, 1°, 5 marzo 2018, 13 marzo 2017, 19 febbraio 2016, 15 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, sui “Ritratti di Poesia” 9 maggio 2011, sul recital delle sue poesie al Quirino nel 2010 (testo qui ripubblicato integralmente) 24 ottobre 2010; su un convegno Unioncamere in materia economica 17 aprile 2009; in fotografia.guidaconsumatore, sui “Ritratti di poesia” 30 gennaio 2012 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini della serata del 21 ottobre 2019 sono state fornite da Comin & Partners che si ringrazia, con i titolari dei diritti, illustrano il testo che riporta anche la nostra cronaca e i contenuti della serata di nove anni fa, il 20 ottobre 2010; le immagini della serata del Premio Montale e delle tre manifestazioni dei “Ritratti di Poesia” del 2019, 2018 e 2013 sono state riprese da Romano Maria Levante rispettivamente a Palazzo Althemps e al Tempio di Adriano. In apertura, Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019 ; seguono, uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019, e il recital delle poesie di Emanuele: Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana; poi, Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele, e Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele; quindi, Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l”11 aprile 2019, Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale della 13^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock, nel Tempio di Adriano il 15 febbraio 2019, ed Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia’ alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018; infine, Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”, nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013, ed Emmanuele F. M. Emanuele; in chiusura, Il Teatro Quirino.

Il Teatro Quirino

De Chirico, trilogia III – 3. Le ultime 3 sezioni del “ritorno al futuro”, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Concludiamo  il racconto della mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea” ,  tenuta  a Torino dal 19 aprile al 25 agosto 2019 alla  GAM, Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea,   organizzazione della GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. a cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.. Con questo terzo articolo sulla mostra si conclude quella che abbiamo chiamato la trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità:  aperta dal volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, un vero Film sullo straordinario percorso artistico ed esistenziale del Maestro,  proseguita con la mostra di Genova “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” e conclusa con la mostra di Torino di cui raccontiamo le ultime sezioni espositive, con  de Chirico impareggiabile ispiratore di artisti in qualche modo suoi epigoni.

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Giorgio de Chirico, “Interno metafisico con mano di David”, 1968

Abbiamo delineato in precedenza il percorso che porta de Chirico alla Neometafisica nel corso degli anni ‘60, la riproposizione in forme diverse e con una differente resa cromatica e pittorica dei contenuti della prima Metafisica – che risale a mezzo secolo più indietro, fatto di per sé straordinario –   con le “Piazze d’Italia”  e  i “manichini”,  gli “interni ferraresi” e  gli “archeologi”. 

La Scultura, partendo da Michelangelo

Dalla pittura alla scultura con l’intermezzo della 4^ sezione, “Verso Michelangelo”, il grande Maestro rinascimentale del quale  de Chirico scrisse nel 1920: “L’ultimo grande pittore  italiano, nel quale visse il classicismo con tutti i suoi segni e i suoi misteriosi simboli è stato Michelangelo”. Viene presentato un suo disegno, “Studio di braccio per una figura della Volta Sistina”,  1508-09, importante effetto della presenza nell’organizzazione di  “Metamorfosi”, la società presieduta da Pietro Folena che con i suoi stretti rapporti con Casa Buonarroti ha presentato nel 2012 a Roma una serie di  disegni di Michelangelo abbinati a quelli di Leonardo forniti dalla Biblioteca Laurenziana.

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Giorgio de Chirico, “Adamo”, seconda metà anni ’50

Tornando a de Chirico, un braccio michelangiolesco figura nell’”Interno metafisico con mano di David”, 1968,  un “quadro nel quadro”  con dietro tavolozza, listelli, squadre “ferraresi” inquadrati in una “lira”  con un’ampia finestra dalla quale si vedono  cielo ed edifici, un interno aperto per nulla claustrofobico. E poi i “d’aprés” con segno molto marcato di particolari della Sistina, “Adamo” e i particolari di “Dio”  e “Il profeta Giona”.

Di Tano Festa – già citato per la sua “Piazza d’Italia” fotografica – altre due opere, questa volta di derivazione michelangiolesca sulla scia di de Chirico, “La creazione dell’uomo”, 1966, la celebre immagine delle dita che si avvicinano per la trasmissione della vita, e “Michelangelo according to Tano Festa n. 34”, 1967.

Tano Festa, “Michelangelo according to Tano Festa n. 34”, 1967

Con questa suggestiva introduzione si passa allo “Spazio scultura” della 5^ sezione, con un’ulteriore galleria  neometafisica aperta  e “gioiosa”, senza l’inquietudine della “sospensione”. Sono dipinti, ma il senso della scultura è nei rapporti con lo spazio, nelle immagini scultoree che arrivano fino ai monumenti al centro delle “Piazze d’Italia”, de Chirico si raffigura come statua in alcuni casi, e scrive fin dal 1918: “Un dì sarò anch’io statua solitaria. Sposo vedovo sul sarcofago etrusco”.  Una “presenza pietrificata in un mondo pietrificato”, con la nostalgia per un passato mai dimenticato.

Ne troviamo segni vistosi negli “Archeologi”, 1968, una coppia con il petto ricolmo di templi e statue, colonne spezzate e arcate, torri e altro ancora, in perfetto ordine, l’atteggiamento è sereno, uno dei due tiene la mano sulla spalla dell’altro che tende la mano quasi dialogando, le teste pur a uovo sono accostante, nulla di misterioso, si trovano all’aperto con un vasto orizzonte alle spalle.

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Mimmo Paladino, “Squadra”, 1999

Così il primo piano di due teste  di manichini, la prima con una squadra in una sorta di armatura, “Le maschere”, 1970, è un interno ma con l’ampia finestra aperta sul cielo e su una fuga di torri bianche. Una finestra anche in “Mistero a Manhattan”, 1972, l’enigma è nella testa di Mercurio alato, un “quadro nel quadro”, con una poltrona invasa  da segni, tra due tende teatrali, l’apertura sui grattacieli newyorkesi che si stagliano nel cielo toglie ogni inquietudine al mistero pur presente.

Anche in “Mobili e rocce in una stanza”, 1973, e “Il poeta e il pittore”, 1975, la finestra dà un’apertura sull’esterno, ma in entrambi sono piccole e lasciano vedere solo il cielo con nuvolette bianche. Nel primo, l’apertura fa svanire l’inquietudine che verrebbe dall’accostamento tra elementi interni come i mobili, e da esterno, come templi e rocce, con l’aggiunta di una statua; mentre nel secondo, l’apertura, con l’aggiunta di un quadro  raffigurante una “Piazza d’Italia”, rende  sereno  e non inquieto il colloquio dei due manichini seduti al tavolo tra listelli e squadre “ferraresi”. Non ci sono finestre perché è all’aperto “Termopili”, 1971, con templi grandi e piccoli tra una “lira” teatrale e  un traliccio al centro – che ci fa pensare ai tralicci metallici di Uncini, qui presente con altra interpretazione – in una visione metafisica modernizzata.

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Giorgio de Chirico, “Termopili”, 1971

Sono tutte pitture con elementi scultorei che hanno ispirato artisti in qualche modo divenuti epigoni. Mimmo Paladino – che attraversa i diversi generi artistici, disegno e incisione, pittura e scultura e fonde elementi di diverse aree culturali –  in “Squadra” , 1999, recepisce l’elemento “ferrarese”’ e il mistero metafisico con il manichino seduto, statua che otto anni dopo, in “”Senza titolo (Rabdomante)”, 2007,  rappresenta  in piedi contro il muro trafitto alla schiena da rami alla san Sebastiano. Le  scultoree sono  di bronzo, come “Architettura”, 2000, scatola con fiocco di cui il titolo sottolinea la struttura. A questo associamo “Casa, interno familiare”, 1969, di Giosetta Fioroni – anch’essa inquieta sperimentatrice della Scuola romana, dalla pittura alla scultura, dal collage alla fotografia fino alla ceramica – in legno dipinto a colori brillanti, e la terracotta dipinta, con altri materiali, “La ballata del Cervo”, 1979, di Fausto Melotti – scultore di costruzioni fragili e aeree –  un teatrino con al culmine due piccoli manichini  dinamici ed espressivi.  

Ritroviamo una statua in posizione eretta in  “Pelotaris (Yellow Eyes”, 1999, di Juan Munoz – in una delle sue tipiche figure scultoree monocromatiche fragili e coinvolgenti, tra illusione e realtà –  avvolta come una mummia in una immobilità metafisica; mentre il video di  Vanessa Beecroft, “VB47”, 2001 – specialista nei “quadri viventi” ispirati al mondo di oggi incentrati soprattutto sulla condizione della donna –  presenta un manichino femminile con la testa a uovo ma senza segni divinatori.

Ruggero Savinio, “Stanze (con cielo nero)”, 2007

Le “ombre” in de Chirico e negli epigoni

Dalla scultura alla fotografia, sempre sulla scia dei  motivi dechirichiani. Claudio Abate – che con i suoi scatti ha scavato nel rapporto tra artista  e opera d’arte, come nel caso di Carmelo Bene –  riprende la “performance” di  “Jannis Kounellis, ‘Apollo’ 1973, Gelleria Liverani”, 2010, nella quale mascherato da Apollo è seduto a un tavolo con ruderi, ai lati un corvo e un suonatore di flauto. Mentre Hilla e  Bernd Becher – la coppia impegnata dalla fine degli anni ’50 a rendere in modo sistematico lo spirito della  nascente archeologia industriale con “Wasserturn”, tra il 1972 e il 1995 fotografano 4 strutture industriali di vario nome nella loro fissità e solitudine metafisica, immagini desolate e desolanti.

L’’opposto in“Promenade (Dittico)”, 1973, di Fabrizio Clerici – eclettico nei diversi generi artistici coltivati e nella fusione dei vari stili dal classico all’orientale, dal rinascimentale al barocco –  un dipinto a olio con un’immagine quanto mai dinamica che mostra un vasto spazio interno sul quale si lancia verso l’apertura nella parete opposta un cavallo rampante che sbuca da una porta con la testa e le zampe anteriori protese nel galoppo,  non si può non associare ai cavalli di de Chirico.

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Giorgio de Chirico, “La battaglia sul ponte”, 1969

Dalle Sculture, nella  6^ sezione si passa alle “Ombre”, sulle quali de Chirico ebbe a dire “ovunque la consolazione dell’ombra”, dopo aver constatato “ovunque la volontà del sole”. Così si manifesta tale consolazione: “Le ombre tracciano sul suolo dei rettangoli, dei quadrati, dei trapezi di un nero così dolce che l’occhio bruciato ama rinfrescarsi in essi”.   

Quelle che vediamo nella sezione non sono, però, le ombre metafisiche delle arcate,  e delle presenze misteriose, ma ombre che nascono idealmente dal “Sole spento” e si materializzano in un nuovo “Guidoriccio da Fogliano” nel cavaliere a cavallo  di “Il ritorno al castello”, 1969, sullo sfondo non un tempio greco ma   un castello medievale con cinque  torri; le stesse che si vedono dalla finestra di un interno nel quale si addensano ombre frastagliate come i contorni del cavaliere,   è “La battaglia del ponte”, dello stesso anno, e nello stesso luogo qui trasportato all’interno, perché anche il cavaliere viene ripreso mentre passa sul ponte: le due “lire” di contorno sottolineano l’aspetto teatrale, mentre le squadre da disegno in evidenza ricollegano alla metafisica “ferrarese”. Vediamo anche “Bagni misteriosi con cigno”, 1958,  l’ombra divide in due il tipico parquet-acqua.

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Gino Marotta, “Oasi d’ombra, 1966-73 – Giraffa d’ombra, 1969 –Albero d’ombra“, 1966

Le ombre di de Chirico hanno ispirato Gino Marotta – lo scultore che, pur restando figurativo, ha accentuato gli aspetti artificiali rispetto a quelli naturali – il quale le ha  applicate ai suoi personali metacrilati, agili volumi di animali e piante, dal 1966 al 1973. “Oasi d’ombra”   inizia con “Albero d’ombra”  e prosegue con  Fenicottero d’ombra”,  “Giraffa d’ombra”  e “Pantera apparente”,

Un’ombra su un paesaggio urbano con viale alberato in “Fidenza. Da ‘Il profilo delle nuvole’”, 1989, di Luigi Ghirri – che nella fotografia ha approfondito il rapporto tra immagine naturale e artificiale –  in cui l’oscurità della parete della casa è rotta dalla luce che proviene da una finestra illuminata, e anche sul viale si riflette la luminosità che proviene dall’abitazione; invece  in “Stanze (con cielo nero)”, 2007, di Ruggero Savinio –  il figlio di Alberto, fratello di de Chirico, che nel raffigurare spazi e figure cura il rapporto tra colore, luce e materia – la finestra è oscura perché vista dall’interno, mentre l’ambiente con due persone è ravvivato dall’intensa vivacità cromatica nel rosso dominante. Mentre  l’”Ombra di tre parallelepipedi”, 1973, di Giuseppe Uncini – interessato agli aspetti strutturali, con le sue installazioni metalliche, nelle loro relazioni con lo spazio –  richiama le ombre delle “Piazza d’Italia”  in una astrazione geometrica solo evocativa, non rappresentativa.

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Renato Guttuso, “”La visita della sera”, 1980

Particolarmente significativa ci è sembrata l’”ombra” che cala sugli alberi all’esterno di palazzo del Grillo in “La visita della sera”, 1980,  di Renato Guttuso, il grande artista dalla pittura impegnata politicamente, maestro del realismo contro formalismi e astrazioni, che fu vicino a de Chirico, lo inserì nel celebre dipinto “Caffè Greco” celebrandone l’intesa frequentazione, e lo difese, pur  nella ben diversa cifra stilistica e di contenuto: nel cortile della residenza di Guttuso si muove una tigre la cui presenza, nell’ombra sullo sfondo, crea una sospensione metafisica intensa e misteriosa.

Come intensa e misteriosa è l’ombra che avvolge la fotografia di Gianfranco Gorgoni – che ha documentato le opere delle avanguardie, dalla Pop Art all’arte concettuale, fino a contribuire al lancio della Land Art –  con “De Chirico e Warhol a New York”, 1972, ne emergono i volti percossi da una luce violenta, il fotografo li ha colti con un’espressione molto diversa, ferma e consapevole quella di de Chirico,  stralunata e  assorta quella di Warhol, in una sorta di surreale passaggio di testimone.

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Giorgio de Chirico, “Piazza d’Italia (monumento al poeta)”, 1969

L’identità nella sua figura e nelle interpretazioni dei contemporanei

La 7^ e ultima sezione, “L’artista, l’identità, lo studio”,  è il degno coronamento di una galleria che si è dipanata nel passaggio da de Chirico ai suoi epigoni, perché vediamo il Maestro in persona  con fotografie e autoritratti suoi oltre ad opere  di artisti che lo celebrano evocandone la figura.

Per lo studio vediamo “Sole sul cavalletto”, 1972, con tanti suoi motivi, il sole dardeggiante sul cavalletto e il “sole spento” all’orizzonte, la poltrona all’interno con le squadre da disegno “ferraresi” e i templi e ruderi all’esterno; mentre per la sua figura in forma scultorea “”Piazza d’Italia (monumento al poeta)”, 1969, è al centro ancora con le squadre “ferraresi” in primo piano,  l’alto comignolo sul fondo e le case in lontananza, le arcate ai lati tra le “lire” teatrali.

L’identità viene espressa dai disegni “Il ritorno di Ulisse”, metà anni ’30, e “Il ritorno di Ulisse  per ‘Hebdomeros”, 1972, a distanza di oltre 35 anni il motivo in cui si identifica per la sua vita movimentata, tra Grecia e Francia, Germania e Italia, fino all’America, sempre con il pensiero rivolto alla sua Itaca greca. Maurice Owen, Russell Richards – il primo, studioso dei rapporti tra la metafisica dechirichiana e la prospettiva, i dipinti di de Chirio e le antiche pitture parietali, il secondo degli spazi reali e virtuali e dell’interattività –  in Hebdomeros  + KikiTt Visuonics”,  rendono omaggio al protagonista del romanzo di de Chirico con un’animazione digitale di immagini sovrapposte.

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Giulio Paolini, “La caduta nel mondo”, 2009

Infine l’artista, del quale Claudio Abate presenta la fotografia a figura intera intitolata semplicemente “Giorgio de Chirico”, 1972,  sullo sfondo alle sue spalle si riconosce Salvador Dalì in giacca bianca che lo guarda mentre viene avanti; lo stesso Abate ci dà il profilo della sua figura fissato in camera oscura in una straordinaria somiglianza con i celebri profili di Hitchock, manca solo la musichetta che li accompagnava. Altre immagini del Maestro, bambino ad Atene,  a Monaco di Baviera nel 1907, a Parigi nel 1928 completano la galleria fotografica. Mentre il suo “Autoritratto nudo”, 1945, ci dà l’autorappresentazione più estrema di un artista che si è ritratto con gli abiti più sontuosi delle diverse epoche nella voluta teatralizzazione della sua figura.

Ebbene, proprio a questo autoritratto che abbiamo definito estremo si è ispirato dichiaratamente  Luigi Ontani  con “Autoritratto nudo (d’aprés Giorgio de Chirico)”, 1978,  replicato 33 anni dopo con “SemiNudo (d’aprés Giorgio de Chirico)”, 2011, due immagini fotografiche nella stessa positura  di Ontani giovane e poi maturo, nel primo la “foglia di fico” è un asciugamano annodato come in de Chirico.

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Giorgio de Chirico, “”Autoritratto nudo”, 1945

Anche Giulio Paolini – impegnato in vari campi, dalla fotografia alla scultura fino all’installazione, dal teatro all’editoria, nella ricerca sull’arte nel confronto con le immagini in rapporto con il fruitore – si è riferito all’Autoritratto nudo” facendone l’approdo di una avvicinamento progressivo di immagini e visioni nella mostra del 2010 L’enigma dell’ora” svoltasi a Roma al Palazzo delle Esposizioni insieme alla mostra “De Chirico e la natura”. Di Paolini è esposto il misterioso “Et quid amabo nisi quod enigma est?, 1969-70,  con la mano che mette nella tasca della giacca il proprio biglietto da vista, il tutto con un titolo dechirichiano; mentre è esplicito e palese “La caduta del mondo”, 2009, una evidente proposizione di una “Piazza d’Italia” con torre ed ombre e soprattutto la statua che riproduce la sagoma di de Chirico nelle due visioni  della luce bianca e dell’ombra nera che si proietta al suolo. 

Un’altra opera di Paolini, “Senza titolo (GDC/GP), 2016,  presenta i fogli dipinti assemblati e appesi nello studio. Sono solo alcune occasioni del suo continuo confronto con de Chirico del quale ha ammirato la persistenza al di là dei cicli artistici, per la sua spontaneità che supera gli eventi temporali.  “Nessuno meglio di de Chirico  – ha detto nel 2016 – ha saputo destreggiarsi, in epoca moderna, nell’insostenibile ruolo di ‘artista contemporaneo’, non per un attento sorvegliato, equilibrio tra passato  e presente, ma per essersi abbandonato  a una trionfale caduta libera negli abissi del tempo”.   E si tratta di un artista dell’avanguardia concettuale, immerso nella modernità ma senza dimenticare la tradizione.

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Luigi Ontani, “Autoritratto nudo
(d’après Giorgio de Chirico)”, 1978

Un’immagine simbolica del volto di de Chirico è nell’Opera Ubiqua” (Delfina D.D. – Auronia D. D.), di Gino De Dominicis – artista eclettico, dall’arte concettuale al figurativo alle “performance” provocatorie – con un sorriso enigmatico in un’espressione statuaria, mentre Vettor Pisani – le cui opere concettuali e simboliche sono “aperte a interpretazioni visuali e mentali, dai risvolti esoterici e inquietanti” –  nel suo  “Vero falso d’autore”, 2009, evoca l’inizio della metafisica con  immagini di quadri di Bocklin che si intravvedono nel buio.  La  “Divisione dello specchio”, 1975, di Michelangelo Pistoletto – dalla Pop Art all’arte povera, con il coinvolgimento dell’osservatore come nei “quadri specchianti” – rappresenta una specie di labirinto metafisico con un gioco di riflessi, e “Senza titolo”, 1988, di Claudio Parmeggiani  – nella sua ricerca concettuale su ruolo e natura delle immagini rispetto ai referenti emotivi e culturali – ci sembra evochi il celebre guanto di “Chant d’amour”, la  fase con oggetti insensati,  insieme ad altri motivi.

Per ultimo abbiamo lasciato Servo Muto Ariano (da Ariano)”, 1995, con vestito, cravatta e scarpe su un poggia abito che sostiene il simulacro di una presenza inesistente,  c’è solo l’abbigliamento. Ma non è un’assenza, l’opera vuole sottolineare la presenza insostituibile, un  mistero quanto mai intrigante che riporta al clima enigmatico della metafisica dechirichiana. E’ un’opera di Fabio Mauri – anch’egli dell’avanguardia, vicino a Pasolini, le cui opere sono legate alla comunicazione  e ai modelli comportamentali nei loro risvolti  sociologici  e ideologici – il quale nel 2002 ha avuto queste parole per il Maestro: “De Chirico non ci ha insegnato cosa è  l’arte, ma cosa è e cosa può essere l’artista, cosa è la sua lungimiranza, la sua persistenza, la sua poesia, con quanta cura si devono gustare i propri alimenti… Come si fa  a non amarlo per sempre?”.

Ci sembra questa la migliore conclusione della  trilogia dechirichiana nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità.

Fabio Mauri, “Servo Muto Arano (da Ariano)”, 1995

Info

Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, questo 3° articolo, che segue i due usciti il 25 e 27 settembre, conclude l’intera trilogia aperta dal primo articolo del 3 settembre 2019. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, 3 nostri articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, 7 nostri articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 25 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Guttuso 14, 16, 30 luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 25, 30 gennaio 2013, Adami 16 gennaio e 12 marzo 2017, Warhol 15, 22 settembre 2014, Fioroni 1° gennaio 2014, Pistoletto 11 aprile 2013, Abate 2 gennaio 2013, Marotta 13 ottobre 2012: in cultura.inabruzzo.it, Paolini 10 luglio 2010; in www.archeorivista.it, Paladino 26 gennaio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le ultime 4 sezioni della mostra commentate nel testo e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Interno metafisico con mano di David” 1968; seguono, Giorgio de Chirico, “Adamo” seconda metà anni ’50, e Tano Festa, “Michelangelo according to Tano Festa n. 34” 1967; poi, Mimmo Paladino, “Squadra” 1999, e Giorgio de Chirico, “Termopili” 1971; quindi, Ruggero Savinio, “Stanze (con cielo nero)” “2007, e Giorgio de Chirico, “La battaglia sul ponte” 1969; inoltre, Gino Marotta, “Oasi d’ombra 1966-73 – Giraffa d’ombra 1969 –Albero d’ombra” 1966, e Renato Guttuso, “”La visita della sera” 1980; ancora, Giorgio de Chirico, “Piazza d’Italia (monumento al poeta)” 1969, e Giulio Paolini, “La caduta nel mondo” 2009; continua, Giorgio de Chirico, “”Autoritratto nudo” 1945, e Luigi Ontani, “Autoritratto nudo (d’après Giorgio de Chirico)” 1978; infine Fabio Mauri, “Servo Muto Arano (da Ariano)” 1995 e, in chiusura, Gianfranco Gorgoni, “De Chirico e Warhol a New York” 1972.

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Gianfranco Gorgoni, “De Chirico e Warhol a New York”,1972

De Chirico, trilogia III – 2. Le prime 3 sezioni del “ritorno al futuro”, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Proseguiamo il racconto della mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”, svoltasi a Torino dal 19 aprile al 25 agosto 2019 alla  GAM, Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea,   organizzata dalla GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. a cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.

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Giorgio de Chirico, “Ettore e Andromaca davanti a Troia”, 1968

E’ la  terza parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte, e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, ne abbiamo già delineato i contenuti, ora passiamo in rassegna la galleria di opere esposte nelle 5 sezioni: le prime due sulle opere metafisiche di de Chirico ispiratrici  di citazioni e riferimenti contenuti nelle opere di altri artisti raggruppate nelle altre sezioni, con ritorni su de Chirico scultore e impareggiabile creatore di spunti sempre nuovi e intriganti per altre interpretazioni.

Abbiamo ripercorso in precedenza l’itinerario che porta de Chirico alla Neometafisica nel corso degli anni ‘60, la riproposizione in forme diverse e con una differente resa cromatica e pittorica dei contenuti della prima Metafisica, che risale a mezzo secolo più indietro – cosa di per sé straordinaria –   con le “Piazze d’Italia”  e  i “manichini”,  gli “interni ferraresi” e  gli “archeologi”. 

Così definisce questo itinerario  Riccardo Passoni, direttore della GAM e curatore della mostra con Lorenzo Canova: “Da questo lungo percorso di conferma e di verifica del sé, nasceranno nei suoi quadri in questa fase finale  nuovi arricchimenti e  travestimenti compositivi, sia in esterni sia in interni. Arricchimenti di informazioni visive, messi alla prova in iconografie  proliferanti, compaiono in opere che non rinunciano agli antichi schemi compositivi”.  Questo per i contenuti, ed ecco come nascono nell’artista in modo nuovo e come sono espressi in una tecnica pittorica adeguata al diverso “animus”:  “De Chirico li intride di nuova ironia, e di quella giocosità su cui ha insistito la critica recente, rimarcando al contempo il cambio di  timbro dei colori, il rischiaramento di una tavolozza scelto per una pittura non più gravida di ansie, ma che si voleva divertire – verrebbe da dire – alla prova della reazione del fruitore”. 

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Enzo Gribaudo, “Omaggio a de Chirico” 1968

Non  si sente più l’inquietudine e la sospensione della prima Metafisica dinanzi all’enigma e al mistero, d’altra parte l’origine è ben diversa. De Chirico parla di “evoluzione  di visioni, apparenze e sensi reconditi di quei soggetti che ho eseguito prima, per molti anni”. E ne precisa contenuti e forme espressive: “Queste visioni  dei quadri da me dipinti da alcuni anni mi si presentano in vari modi. A volte in stato di perfetta coscienza, guardando, magari, un quadro della mia produzione precedente, e pensando: ecco, quel personaggio potrebbe essere molto più  chiaro di colore, la camera dove si trovano uno o più personaggi potrebbe pure essere di una tonalità più chiara e sulla parete di destra potrebbe esserci una finestra, o un vano, dal quale si sorgerebbe  un po’ di cielo, con delle nubi, e qualche edificio di una città immaginaria”. Poi aggiunge: “A volte anche queste visioni dei quadri  di questi ultimi anni mi si presentano di notte, ma non proprio in sogno, ma in quello stato di semi incoscienza che precede il sogno”. La matrice onirica in lui è sempre presente.

D’altra parte, quando nasce la Neometafisica c’è il ritorno generale alla figurazione, sia pure nelle forme provocatrici del neo.dadaismo e della Pop Art, e  in questo contesto – afferma sempre Passoni – “De Chirico è il modello, non l’epigono tardivo di tante situazioni, che pure  a lui  furono senz’altro debitrici… Perché  la sua pittura rappresentativa, con il suo carico di messaggi, anche anti-naturalisti, indicava sin da  subito un nuovo paradigma fortissimo di svolta anti Informale”.

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Giorgio de Chirico, “Le muse inquietanti “1947

La galleria espositiva presenta gli artisti con le opere “debitrici” verso de Chirico, in collegamento con la Neometafisica e con altri aspetti della sua attività poliedrica, scultura compresa, in una sequenza così precisata dal curatore: “Il nostro percorso si snoderà dalla citazione esplicita, diretta, al pretesto intelligente; da una riflessione  sul senso dello spazio, anche secondo una resa tridimensionale, alla sosta degli aspetti più misteriosi e sfuggenti dell’opera del grande maestro-interlocutore: fino all’interrogazione sul sé, da parte dell’artefice contemporaneo: sé fisico, sé mentale, e di riflesso su forza  e limiti dell’operare artisticamente, sulla possibilità o meno di incidere nel mondo”. Delle 6 sezioni, la 1^ é riservata a de Chirico, nelle altre ci sono sue opere ed opere di artisti contemporanei a lui “debitori”.

La Neometafisica nelle 9 opere della 1^ sezione

La 1^ sezione presenta “Giorgio de Chirico Neometafisico”, con la sfilata di  9 dipinti nei quali, come in una anteprima teatrale, vengono riproposti alcuni dei suoi principali motivi.

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Mimmo Rotella, “ De Chirico”, 1988

Orfeo Trovatore stanco” , 1970, li riassume idealmente raffigurando, tra un sipario teatrale aperto e le squadre-righelli della metafisica “ferrarese”, il “manichino” dalla testa ad uovo seduto con il torace ricettivo di oggetti come negli “Archeologi”, le arcate delle “Piazze d’Italia” e lo sfondo lontano con torre ed edifici. Dello stesso anno “La tristezza della primavera”, in cui possiamo trovare la “nuova ironia” di cui ha parlato Passoni, essendovi tutt’altro che la tristezza del titolo nel grande albero della vasta apertura nel fondo; inoltre,  dietro al “manichino” seduto spunta una testa a uovo e un braccio, per sorprendere o scherzare, con un secondo albero dietro una  piccola finestra.

Altro “manichino” seduto “Il pensatore”, 1973,  nel corpo un assemblaggio di oggetti, una colonna e una testa scolpita,  libri e altro, a sinistra le arcate, a destra l’ingresso di un tempio, elementi evocativi dell’enigma e del mistero ma senza sospensione e inquietudine.  Anche  per “Il meditatore”, 1971, figura seduta  e umanizzata nella testa, non più ad uovo da “manichino”, pur nell’inconsueto  viluppo che ricopre il corpo e nella chiusura in uno spazio ristretto, il potenziale effetto inquietante e claustrofobico è alleggerito dalla finestrella con l’azzurro del cielo e le nuvolette bianche.

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Francesco Vezzoli, “Portrait of Sophia Loren as the
Muse of Antiquity (After Giorgio de Chirico)”, 2011

Dalla finestrella sul cielo alla totale apertura paesaggistica sul mare blu sotto un cielo azzurro che scolora all’orizzonte in “Frutta con busto di Apollo”, 1973, in primo piano mele e banane, un uovo e un melograno, un piccolo grappolo d’uva con acini sparsi e un grande ananas, una vera “vita silente”  piuttosto che “natura morta” sotto gli occhi di Apollo, il dio vaticinatore la cui testa pensante è sulla destra.

“Bagni misteriosi” è dello stesso 1973, anche qui ampia apertura sul cielo con le consuete nuvolette  orizzontali e l’immersione dei due bagnati nudi e “in carne” nell’acqua-parquet  caratteristica di questa creazione, tra colonne smozzicate e altre evocazioni.  Nell’anno successivo abbiamo “Il nuotatore nel bagno misterioso”, un torso michelangiolesco che nuota nell’acqua-parquet, l’ambiente ristretto e senza aperture, dopo l’”en plein air” dei “Bagni” del 1973, sarebbe claustrofobico se non fosse alleggerito dal cigno in primo piano, tra l’altro non bianco ma a strisce colorate, come conferma anche in questo caso dell’approccio ironico  e gioioso della Neometafisica.

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Andy Warhol, “The Disquieting Muses (After de Chirico)”, 1982

Del resto, del 1974 abbiamo altre due opere esposte a chiusura della sezione, entrambe in uno scenario aperto e in un clima euforico. “Cavalli antichi di Apollo” , si intitola il dipinto con una coppia di destrieri che scalpitano  rampanti da stemma araldico, tra ruderi di colonne e la facciata di un piccolo tempio. “Trofeo con testa  e tempio” l’apoteosi finale con una sorta di “totem” eretto sulla trabeazione di un tempio antico con una testa di statua greca, squadre da disegno e altri oggetti in un fitto assemblaggio che culmina in tre mani protese, due  dal pugno chiuso a braccio nudo, una con le cinque dita aperte, in carattere con il titolo; la piattaforma lignea del “trofeo” domina una pianura con dei templi, verso un orizzonte sempre più luminoso sotto un cielo azzurro intenso.

Le “Citazioni”, 20 opere nella 2^ sezione

Presentato così il de Chirico neometafisico, nella 2^ sezione con le “Citazioni” si entra nel vivo dell’influenza che ha avuto  sulle avanguardie dell’epoca, facendo precedere le opere “debitrici” da quelle cui si riferiscono o che  hanno inciso maggiormente sull’ispirazione degli autori.

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Giorgio de Chirico, “Gladiatore nell’arena”, 1975

“Ettore e Andromaca davanti a Troia”, 1968, è una prova ulteriore  del carattere nuovo della  Neometafisica, la composizione è ben diversa dalle figure ingessate di “Ettore e Andromaca” della metafisica precedente, i due “manichini” in primo piano hanno le bocche spalancate come se cantassero, dietro una selva di lance, un tempio e le mura sotto un cielo azzurro con le nuvolette  che si scolora nell’orizzonte, un’immagine gioiosa, sulla sinistra in basso il figlioletto Astianatte; e pensare che Ettore sarebbe andato al duello mortale con Achille senza scampo – “periremo, ma gloriosi, e alle future genti qualche bel fatto porterà il mio nome”, le sue parole – ed è struggente l'”Addio di Ettore ad Andromaca” con il confronto tra i valori della famiglia che premono in lei e quelli della patria e dell’onore che premono in lui. Di quest’opera troviamo una “citazione” fedele in “Omaggio a de Chirico” di Ezio Gribaudo – editore e collezionista d’arte, oltre che artista presente in mostre personali e collettive dall’inizio degli anni 50 – con un primo piano del gioioso “Ettore e Andromaca”  della Neometafisica tra altre figure evocative.

Ma anche la “Piazza d’Italia” diventa “Poesia d’estate” , 1970,  arcate e torre, ombre lunghe e treno sbuffante, con la statua di Arianna distesa  al centro, ma c’è una figura rassicurante sotto la grande arcata di destra che non fa avvertire la solitudine e la sospensione, l’enigma è risolto. Ne vediamo “citazioni” molto particolari nella visione di Mario Schifano – poliedrico tra cinema, musica e pittura, tra i fondatori della  Scuola di Piazza del Popolo,  inquieto tra monocromie e colori brillanti fino alla multimedialità –  in  “Senza titolo”, 1972, una delle 4 immagini fotografiche riprese dalla televisione  mostra la statua di Arianna in primo piano e il treno sbuffante sullo sfondo, cui si aggiunge  una grande bottiglia a sinistra. La più sorprendente è un’opera  recente, del 2012, dominata dall’immagine della diva, novella Arianna al centro della “Piazza d’Italia”, ma tutt’altro che distesa e sconsolata, eretta, le mani dietro la testa in bikini, nella  sua prorompente e provocatrice bellezza, si tratta di “Portrait of Sophia Loren starring in ‘Presente e Passato’ (After de Chirico)”. 2012, collage di carta, stampa  e getto d’inchiostro su tela e ricamo metallico.

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Franco Fontana, “Presence Absence, Roma EUR”, 1979

Del 1971 Interno metafisico con palla e biscotti”,  ben più arioso degli interni “ferraresi” nei quali si sentiva l’incubo della guerra alle porte, qui la fuga  delle forme triangolari di tonalità chiara del soffitto dà respiro alla scena; mentre ”Interno metafisico con sole spento” , e anche “luna spenta”, tra le squadre “ferraresi”, è ravvivato dal sole dardeggiante e dalla luna luminosa delle due grandi finestre laterali, con il cielo azzurro e gli edifici; è il sole che troviamo in un’altra fotografia dell’opera di Schifano appena citata. 

Sono del 1973 due coppie di “manichini”, quelli solo accennati da sagome lignee senza volume di “Le muse della lirica” dove la muse sono evocate dalla lira con il profilo del dio; e i “manichini” veri e propri, dalle teste a uovo e l’occhio divinatorio, con “incorporati” templi ed altro, di “Il dialogo misterioso”. In entrambi ampi squarci di esterno aperto tra tende teatrali. Il “manichino” è immortalato da Mario Schifano in “Maestro italiano del 900”, 1976, uno smalto su tela e plexiglas con la testa a uovo tra squadre “ferraresi” in un tripudio di violenti colori. 

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Giorgio de Chirico, “Le maschere”, 1970

Dopo questa reiterata “introduzione” metafisica, con “Le muse inquietanti”, versione del 1947 – quindi un quarto di secolo prima delle opere ora ricordate – inizia la serie dei lavori dei contemporanei ispirati direttamente alla metafisica. L’ispirazione più diretta e autorevole a questa fondamentale opera metafisica è quella di Andy Warhol – personalità eccentrica ed eclettica, tra i massimi esponenti della Pop Art –  il quale ne fa una  quadruplice replica cromatica sull’onda delle repliche dechirichiane, riconoscendogli esplicitamente il valore della sua scelta seriale tanto contrastata dai surrealisti.  

Mimmo Rotella –  innovatore con il  “decollage”, manifesti strappati poi incollati sulla tela in forme varie – presenta la sagoma dai contorni marcati di un manichino su una colonna tra brandelli di carta intitolato significativamente De Chirico”, 1988; intitola “Giorgio de Chirico”  l’omaggio di una sorta di statua con il suo nome delineata dai soli contorni su un piedistallo. La musa moderna impersonata in una diva nel recente “Portrait of Sophia Loren as the Muse od Antiquity (After Giorgio de Chirico)”, 2011, di Francesco Vezzoli – che esprime la cultura popolare in varie forme utilizzando personaggi dello spettacolo quali star dell’effimero mediatico –  figura statuaria con le “incorporazioni” degli “Archeologi” e l’innesto su una colonna come “musa inquietante”, con arcate e sfondo da “Piazza d’Italia”, due dei più celebri archetipi metafisici celebrati contemporaneamente.

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Mario Schifano, “Maestro italiano del 900″, 1976

Con “Mobili nella valle” , 1968, di de Chirico, troviamo la”ripetizione”, avente lo stesso titolo, ispirata a precedenti sue opere sul tema, di Mario Ceroli – fautore dell’“arte povera” con l’uso di materiali naturali per esprimere la realtà e l’ambiente in cui si svolge la vita quotidiana  –  che presenta dei veri mobili lignei, in una sorta di “ready made” ispirata dal Maestro.

“Il ventilatore”, 1972, di Emilio Tadini – scrittore e saggista oltre che pittore con una solida base teorica alle sue figurazioni improntate all’oggettività – evoca, nell’”Archeologia” della modernità le origini del “sole spento” dal ventilatore della Marelli, mentre “Dal ciclo restaurazione, Trovatore  da e per de Chirico”, 1973,  di Concetto Pozzati – dalla pubblicità alla pittura, dalla Pop art a figurazioni ironiche con riflessi metafisici, surrealisti e tradizionali – emerge un vero “manichino” dechirichiano in bianco-nero.  

 Per ultime,  due “citazioni” di concezione opposta. La prima è la successione di  capolavori immaginari tra cui la citazione dechirichiana di Ugo Nespolo – tra  Pop Art e dadaismo ha esplorato il rapporto tra arte e immagine con approccio ludico e trasgressivo – dal titolo Al Museo in volo & a zompi”, 1991; la seconda il monolitico totem di Luigi Ontani – sperimentatore in vari generi d’arte, autore  e modello, “tableau vivant” con il proprio corpo –  “Canopo Dioscuri DeChirico S’AVinio”  con delineate immagini delle opere dei due fratelli, spicca la celebre immagine metafisica della bimba che corre con il cerchio.

Henry Moore, “”Nuclear Energy”, 1964

Le “Derive”, la 3^ sezione con 25 opere

La galleria di de Chirico con i suoi epigoni prosegue  con la 3^ sezione sulle “Derive”, 25 opere tra cui 9 di de Chirico e 16 degli artisti che hanno fatto  riferimento a lui. La gioiosa Neometafisica torna all’aperto con  “I giocattoli del principe”, 1960, oggetti stravaganti in una “Piazza d’Italia” con arcate ma  senza statua, e La torre”, 1968, in primo piano imponente a quattro piani; al chiuso con due “Interni metafisici”, uno “.. con profilo di statua”, 1962, l’altro “… con nudo anatomico”, 1968, entrambe le figure del titolo sono inserite in una visione verso l’esterno, cui si aggiunge, nel secondo, una finestra con vista sull’officina, che tolgono ogni senso claustrofobico.

Anche i Gladiatori sono rappresentati in modo più aperto di quelli originari, addirittura abbiamo “Quattro gladiatori nella stanza con vista del Colosseo”, 1965, e “Combattimento di gladiatori”, 1969, in una rotonda molto teatrale. Ma poi “Gladiatore nell’arena”, 1975, ce lo presenta nel Colosseo non nella consueta veste umana, ma con la reincarnazione del “manichino” nella testa a uovo divinatorio sia pure con la carne e i muscoli in vista. Fino ai due enigmi, “Il segreto del castello”, fine anni ’60, e “Mistero di una stanza d’albergo a Venezia”,  1974, nel primo alle due tetre costruzioni sulla destra si contrappongono gli oggetti in primo piano e il ghirigoro sulla sinistra, che fanno svanire ogni incubo, mentre nel secondo una sorta di Ebdomeros si muove tra  pannelli arabescati dietro una sorta di sipario teatrale spalancato.

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Giorgio de Chirico, “Quattro gladiatori
nella stanza con vista del Colosseo”, 1965

I riferimenti più espliciti sono quelli di Henry Moore – il grande scultore dai costanti riferimenti a maternità, mito e storia, in una integrazione della forma tra interno ed esterno – con  “Nuclear Energy”, che richiama la testa di “manichino”, è del 1964 ma Moore ha dialogato con de Chirico addirittura dagli anni ’30; e di Salvo (Salvatore Mangione) – dall’“arte povera” all’“arte concettuale” fino   a una “pittura dei luoghi”, dalle valli alle pianure – con i suoi “Gladiatori”  del 1968 e il classicheggiante “Ippolito e Fedra” del 1977, che richiama Ovidio oltre de Chirico.  

Altri riferimenti diretti si riscontrano in Franco Angeli – che con altri artisti, in un legame anche esistenziale, creò la Scuola di Piazza del Popolo,  impegnato nel superamento dell’informale per meglio interpretare il suo tempo –  il quale in “Sabaudia”, 1986-88, mostra la torre e la falce di luna nera indubbiamente dechirichiane; e nei due “Presence Absence, Roma Eur”, 1979, di Franco Fontana – fotografo tra i primi a usare il colore non come mezzo ma come messaggio, impegnato nella ricerca sul paesaggio e lo spazio urbano nei suoi aspetti reali e onirici – che presenta, con i loro elementi metafisici, le arcate e le statue del “Colosseo quadrato”, le ombre lunghe  e l’atmosfera sospesa. Tano Festa – altro fondatore della Scuola romana di Piazza del Popolo che riportò alla figurazione dopo le avanguardie iconoclaste –  addirittura intitola “Piazza d’Italia 1977” la sua versione quasi evanescente del tema del Maestro, con arcate  e torri,  che troviamo anche nella stampa fotografica di Gabriele Basilico – il più noto fotografo di paesaggi urbani documentati nel loro valore identitario e  nei loro mutamenti, fino alle grandi metropoli – intitolata “Milano”, 2003, due grandi palazzi con al centro un monumento, “mutatis mutandis” una piazza metafisica .

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Salvo (Salvatore Mangione), “Gladiatori”, 1978

Più indirette altre “derive”, come  “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur”, 1964, di Valerio Adami  – narratore figurativo ispirato ai fumetti  con un disegno preciso e un cromatismo uniforme per interni moderni e spersonalizzati –  è un occhio metafisico in una sovrapposizione bianca su una  misteriosa figura rosa, e “Rosso Veneziano”, 1965, di Lucio del Pezzo – originale nell’astrazione formale delle sue opere, animate da ironia e senso ludico dell’arte – una fila di  oggetti allineati che richiamano quelli “ferraresi”; “Unititled (Wall)”, 1971,  di Philip Guston – pittura ideologica  e di critica sociale la sua, che si muove tra la rappresentatività della figurazione e l’essenzialità dell’astrazione – è un muro evocativo nel suo rosa sfumato, con sopra dei reperti, è un artista molto legato a de Chirico;  “Senza titolo”, 1986, un’immagine da interno di Alessandro Mendini – tra architettura, design e arte, progettista teorico e  realizzatore di  oggetti e mobili, pitture e istallazioni – con segni che richiamano le forme di Capogrossi e le lingue dei “Rolling Stones”.

Infine le opere degli anni ’80 di Luca Patella – anticipatore di “Land Art” e “Arte concettuale”, tra i primi nella multimedialità e nella gestualità delle “performance”, impegnato nell’interazione tra i vari  linguaggi e i loro simboli –  che invece citano direttamente de Chirico nei titoli,  Vaso  fisiognomico di Giorgio de Chirico” che come l’analogo dedicato a Marcel Duchamp ne  riproduce il profilo, e “Bauli ballanti Dech (de Chirico) e Duch (Duchamp”, ancora associati nell’omaggio dell’artista, per i bauli il riferimento è al cromatismo, esteso anche alle pareti.

Terminano così le prime 3 sezioni, prossimamente racconteremo le ultime 3 con altre interessanti scoperte.

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Giorgio de Chirico, “Mobili nella valle”, 1968

Info

Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa, dopo questo 2° articolo, che segue il 1° uscito il 25 settembre, ci sarà la conclusione dell”intera trilogia con il 3° articolo del 29 settembre 2019. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, i nostri 3 articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, i nostri 7 articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 25 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Patella 18 aprile 2015, Warhol 15, 22 settembre 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Angeli 31 luglio 2013; in cultura.inabruzzo.it su Schifano 15 maggio 2011, per l’aspetto onirico,Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre 2010, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010.

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le prime 3 sezioni della mostra commentate nel testo e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Ettore e Andromaca davanti a Troia” 1968; seguono, Enzo Gribaudo, “Omaggio a de Chirico” 1968, e Giorgio de Chirico, “Le muse inquietanti” 1947; poi, Mimmo Rotella, “De Chirico” 1988, e Francesco Vezzoli, “Portrait of Sophia Loren as the Muse of Antiquity (After Giorgio de Chirico)” 2011; quindi, Andy Warhol, “The Disquieting Muses (After de Chirico)” 1982, e Giorgio de Chirico, “Gladiatore nell’arena” 1975; inoltre, Franco Fontana, “Presence Absence, Roma EUR” 1979, e Giorgio de Chirico, “Le maschere” 1970; ancora, Mario Schifano, “Maestro italiano del 900 1976, e Henry Moore, “”Nuclear Energy” 1964; continua, Giorgio de Chirico, “Quattro gladiatori nella stanza con vista del Colosseo” 1965, e Salvo (Salvatore Mangione), “Gladiatori” 1978; infine Giorgio de Chirico, “Mobili nella valle” 1968 e, in chiusura, Mario Ceroli, “I mobili nella valle” 1965.

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Mario Ceroli, “I mobili nella valle”, 1965

De Chirico, trilogia III – 1. Neometafisica e contemporanei, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Alla  Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea, la GAM  di Torino,  dal 19 aprile al 25 agosto 2019,  la  terza parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. Dopo Roma e Genova delle prime due parti, nel ricordo degli spostamenti dell’artista da una città all’altra, la mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”,  presenta a Torino “de Chirico neometafisico”, con le sezioni “Citazioni” e  “Derive”, ”Verso Michelangelo” e “Ombre” che espongono opere sue e di contemporanei a lui ispirati, e chiude con “L’artista, l’identità, lo studio”. Organizzata dalla GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. A cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.

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Giorgio de Chirico, “Il pensatore”, 1973

“Questa mostra vuole  ricostruire così le dinamiche di un dialogo innovativo e fecondo, la storia della sintonia tra un grande artista e gli artisti che lo hanno seguito, un confronto tra la pittura neometafisica di Giorgio de Chirico e le opere di autori italiani e internazionali  che hanno visto la sua opera con occhi nuovi, in un momento in cui l’arte contemporanea ha cercato una nuova ispirazione nelle immagini di massa, negli oggetti della vita quotidiana, nei colori e nelle luci del mondo contemporaneo”.  Con queste parole ne riassume contenuti e intenti Lorenzo Canova, curatore della mostra con Riccardo Passoni, e autore nel 2010 dell’intensa immedesimazione nei viaggi dechirichiani “Nelle ombre lucenti di de Chirico”.

L’impatto sul mondo dell’arte e sulle  avanguardie

Il curatore precisa che prima dell’impatto sugli artisti contemporanei di cui alla mostra, ha spiazzato il mondo dell’arte avendo superato non solo i canoni rinascimentali, ma anche “l’attenzione percettiva  e ‘retinica’ che ha legato l’impressionismo e la scomposizione cubista, l’attenzione al movimento e alle compenetrazioni del dinamismo futurista…”, Come? “Utilizzando un sistema multiplo di aperture prospettiche, di piani sfalsati, di ombre e di luci in cui l’enigma di Nietzsche prende forma concreta nelle piazze e nelle architetture, negli interni e nei loro accumuli di oggetti”.

Anche i New Dada e le altre avanguardie sono state influenzate dalla sua traduzione pittorica del pensiero filosofico di Schopenauer e Nietzsche, che evoca l’insensatezza della vita. Con il dadaismo, secondo Maurizio Calvesi, c’è in comune “il recupero dell’oggetto così com’è, integro al di là dei processi compositivi della visione cubista e futurista, o anche delle deformazioni espressionistiche”. L’oggetto non porta, però, al realismo: “Una condizione di questo recupero è lo ‘spaesamento’ dell’oggetto, cioè la sua collocazione al di fuori della rete usuale dei rapporti causa-effetto, dipendenza, vicinanza, in cui l’esperienza e la memoria ci hanno abituati ad inserirlo”.

“Giorgio de Chirico, “La tristezza della primavera”, 1970

Nel loro “spaesamento” trovano una spiegazione i biscotti, le righe-squadre da disegno e le altre “piccole cose di pessimo gusto” ferraresi più o meno gozzaniane, al di fuori del normale contesto,  i “mobili nella valle” all’esterno delle abitazioni e, per converso, le case e gli alberi nelle stanze, fino alla barchetta di Ulisse e di Ebdòmeros che remano nell’acqua della camera; e l’osservatore non si sente più “spaesato” dinanzi alla visione insolita, che invece diventa intrigante.   

L’anticipazione di avanguardie come la Pop Art si percepisce anche dalle sue parole, quando collega alle immagini oniriche di templi e santuari greci la pubblicità di un dentifricio, e nei suoi dipinti, in particolare “Canto d’amore”, in cui a lato del  calco della testa dell’“Apollo del Belvedere” pone una  palla verde e un guanto arancione, “un vero e proprio archetipo per l’immaginario di un’intera generazione degli anni Sessanta tra Italia, Europa e Stati Uniti”.

Canova  lo afferma con chiarezza, ed è meritorio dinanzi a visioni incomprensibili perché indecifrabili: “Le due direttrici sono tracciate: la memoria classica e dell’arte del passato e i segnali della comunicazione urbana. Apollo e il dentifricio, diventano così i due poli ideali tra i quali si sono mossi moltissimi artisti legati a questa linea neometafisica”.

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Luigi Ontani, “Campo Dioscuri
De ChiricoS’AVInio” , 2017

Il nuovo sistema pittorico della Neometafisica

Entra in campo la Neometafisica, troppo spesso considerata una mera ripetizione della prima Metafisica, trionfale esordio sulla scena dell’arte del poco più che ventenne pittore,  ripresa nell’età avanzata quasi avesse esaurito l’ispirazione e volesse rifugiarsi in una tale isola felice. Le aspre polemiche iniziate con Breton dopo la svolta classicista del 1919,  poi rivolte all’imitazione e alle copie ed acuitesi soprattutto nel secondo dopoguerra,  hanno sviato l’attenzione dal vero significato della Neometafisica e dalla sua importanza, al di là delle questioni di mercato e del suo valore intrinseco, come nuova scossa innovativa e rigeneratrice del mondo dell’arte.

“A partire dal 1968 – è sempre Canova – de Chirico ha costruito così il nuovo sistema pittorico della Neometafisica, dove la rielaborazione delle sue creazioni non si contraddistingue come una semplice (anche se splendida) replica del passato, ma come un nuovo e luminoso periodo di creazione in cui il maestro ha riletto e interpretato la sua stagione metafisica giovanile contaminandola con l’immenso apparato iconografico delle sue opere degli anni Venti e Trenta per ottenere nuovi risultati”. Eccoli: “Ne è scaturito un discorso del tutto differente che apre alla visione dell’arte che sta segnando il panorama attuale nell’idea di ‘remixaggio’ e ripensamento fecondo del passato (in questo caso soprattutto del passato creativo dello stesso artista) in chiave diversa, anticipando infatti uno dei tratti salienti dell’arte odierna”.  Si tratta della “ripetizione differenziata”, ma anche sulla copia de Chirico non si tira indietro, se ben fatta è un’opera d’arte essa stessa.

Sulle “citazioni” va ricordato che anche prima della Neometafisica inseriva elementi del passato nelle nuove opere, per cui quelle del periodo classico, anzi dei periodi classicisti, recano tracce metafisiche; e non si può negare, per converso, che la prima Metafisica,  pur nella sua concezione rivoluzionaria, fosse  permeata delle presenze classiciste della sua adolescenza e delle prime prove pittoriche.

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Concetto Pozzati, “Dal ciclo restauratore, Trovatore da e per de Chirico”,1972

Con la Neometafisica, questa costante della sua vita artistica ha assunto una forma sistematica e ben più rilevante, configurandosi “allo stesso tempo come un ritorno e come una nuova partenza, una fase di nuova creatività”. Ed è straordinario che Canova  usi  questa parola per sfatare tutte le sottovalutazioni, per usare un eufemismo, del nuovo corso di de Chirico, e sottolineiamo nuovo.

Si tratta di una “grande macchina scenica dove tutto sembra illuminato dalla luce di una nuova rivelazione, dallo scioglimento lieto di molti enigmi, dal compimento gioioso di una vita consapevole della propria immortale grandezza, da affrontare e rivisitare anche con un leggero senso di ironia, dal diradarsi delle antiche tenebre della melanconia e della solitudine metafisica”. Non a caso la mostra a Campobasso del 2017 è stata intitolata alla “gioiosa Neometafisica”.

Questo avviene nella fase finale, e “rappresenta il lungo e splendido tramonto del pittore” che invece di essere forzatamente dimesso, è “un momento di straordinaria intensità in cui le cose, i colori e il suo sguardo sul mondo toccano un nuovo diapason di chiarore”, al posto della luce calante crepuscolare la rutilante luce solare che brilla come nel suo simbolico “Sole sul cavalletto”.

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Giorgio de Chirico, “Poesia d’estate”, 1970

In virtuale sintonia con la Pop Art e il clima degli anni ’60  ripropone le sue creazioni più tipiche – dai “Manichini” alle “Piazze” agli “Archeologi” fino ai “Gladiatori” – “in un nuovo vortice di idee in cui la pittura, nella sua dimensione intellettuale anticipa la linea concettuale delle giovani generazioni”. La capacità di anticipare le giovani generazioni nella fase finale di un produzione sessantennale, anche prescindendo dal suo altissimo valore, dà una misura della sua grandezza.

Il ritorno al passato

L’insegnamento va anche oltre, e riguarda i rapporti con il passato, il modo di farne tesoro per meglio interpretare il presente. Un presente nel quale, in questa fase della sua vita, irrompevano le nuove forme di comunicazione in grado di travolgere ogni argine. Quindi occorreva che nel mondo dell’arte fosse trasfusa nuova energia proveniente da un passato rivisitato, e poteva provenire per mano di un artista  mai domo che aveva superato tante frontiere, dalla Metafisica al classicismo, senza mai ritirarsi, ma ripresentandosi sempre sui diversi versanti della sua arte incarnando forse come nessun altro, per averla tradotta nell’arte,  la condizione umana sospesa tra le memorie di una civiltà classica nel segno della bellezza e il portato di tutt’altro segno della civiltà di massa.

Nei rapporti con il passato, in effetti, ha seguito l’esempio dei grandi Maestri che anch’essi replicavano le loro opere, in particolare Tiziano, che segnò la sua prima svolta classicista, e Rubens cui si è ispirato in una serie di nudi, e per questo è stato esaltato dall’artista della Pop Art Andy Warhol.  Con il suo rifarsi al passato, ma innovando in molti particolari anche tecnici come le luci e i colori, mette in pratica nella sua pittura quella ricerca del “progresso qualitativo dovuto al fatto – sono sue parole – che io cerco sempre di perfezionarla nel senso della qualità”  per ottenere “quadri che possono stare alla pari con qualsiasi capolavoro dei maestri antichi”. Anche questo è un insegnamento da non lasciar cadere per un’arte sempre più frettolosa e meno attenta alla qualità.

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Tano Festa, “Piazza d’Italia” , 1977

E mentre la cura della qualità è uno degli aspetti collaterali del “ritorno al passato”, con riferimento all’arte contemporanea nelle sue correnti più avanzate, nella sua pittura esalta “la componente mentale, l’aspetto intellettuale e spirituale”, anticipando il senso dell’ “arte concettuale”, anche se questa per lo più ha scelto scorciatoie ben lontane dalla “qualità” da lui ricercata nel dare corpo ai contenuti ispirati dalle sue conoscenze filosofiche e dalle sue reminiscenze classiche presenti anche nelle fasi lontane dal classicismo.

Sui rapporti con la modernità viene osservato inoltre che la pittura Neometafisica, pur tornando al passato, si collega alle opere nate nella Parigi che allora era il simbolo della “modernità, questo gran mistero, tu lo ritrovi a ogni angolo di strade accoppiato a ciò che fu, gravido di ciò che sarà”; e in queste sue parole del 1925 si trova la chiave del legame che ha avuto con la capitale francese  e del valore permanente della pittura che gli ha ispirato, nella sua concezione circolare del tempo, in cui presente, passato e futuro fanno parte di un flusso continuo, evocato da Calvesi nel centenario della sua  nascita in relazione ad “Ebdòmero e l’immortalità, gli ‘archeologi’ e nuovi manichini”: “La memoria contempla il passato come un fiume che ha corso a valle, nella speranza del futuro”.

Sono figure la cui “malinconia è confortata”, per cui profeticamente “preludono al ritorno luminoso e ‘consolatorio’ della Neometafisica, che con il suo paradossale flusso del fiume  che va indietro per comporre il futuro nella curva del tempo, dà compimento e dona migliore comprensione  alle opere dei decenni precedenti”. E’ il tempo circolare, “l’eterno ritorno” delle sue letture filosofiche, personificato nel “Ritorno di Ulisse” su una piccola barca a remi come quella con cui Ebdòmero rema in cerchio nella sua stanza, “barchetta metafisica e allo stesso tempo umile  e ironica di un uomo abituato ad affrontare le grande imprese dell’arte con i semplici e leggeri strumenti della pittura”: de Chirico, che Canova vede nei panni di Ebdòmero, il novello Ulisse metafisico.

Franco Angeli, “Sabaudia”, 1986-88

E non a caso de Chirico spende parole si ammirazione per “quel film meraviglioso di metafisica che si chiama ‘I dieci Comandamenti’”; e che a Parigi “ogni muro tappezzato di réclames  è una sorpresa metafisica”. Non solo, ma “il putto gigante del sapone Cadum, e il rosso puledro del cioccolato Poulain  sorgono con la solennità inquietante di divinità dei miti antichi”. Preludio alla Pop Art, che nella Neometafisica trova il suo sbocco naturale, con i nuovi enigmi al passo dei tempi, e “non dimentica le esperienze passate… ma che ora ha trovato una nuova ricchezza e una nuova corposità… e celebra una lucentezza che mostra uno stato d’animo del tutto nuovo dopo la malinconia e i malesseri fisici della sua giovinezza”, sono sempre parole di Lorenzo Canova.   

Fagiolo dell’Arco a sua volta trova nella “ripresa festosa dei temi metafisici… il vero momento della rivelazione”, che immagina “ (come in una valle di Giosafat) quando tornano in scena tutti i personaggi, tutti i simboli sembrano chiarirsi, tutti i misteri appaiono meno oscuri in quei teatrini della memoria nei quali il Veggente, ormai pacificato, sembra parlare con linguaggio non troppo sibillino”.

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Philip Guston, “Untitled (Wall)”, 1971

Le repliche Neometafisiche, dunque,  non sono ripetizioni pedisseque nei contenuti, come afferma lo stesso de Chirico  riferendosi ai “soggetti che sono, direi, come una evoluzione di visioni, apparenze e sensi reconditi di quei soggetti che ho eseguito prima, per molti anni”. Non lo sono neppure nella forma e nella tecnica pittorica: “Queste nuove  ispirazioni, e visioni, che dir si voglia, si basano su vari elementi, fisici e metafisici. Gli elementi fisici sono una maggior chiarezza  nella tonalità generale del dipinto, e l’uso del nero, più abbondante di quanto lo usassi prima”.

Non è un nero che opprime, come scrive Dell’Arco che vede i simboli schiarirsi e i misteri meno oscuri, anzi “è il sole a rappresentare l’immagine per eccellenza della Neometafisica… uscito dal bianco e nero delle litografie per incendiarsi di rossi e di gialli, Come in un percorso di purificazione esoterica, è l’oro del sole l’oro della conquista e il sole del cavalletto rischiara della sua luce interiore  tutta la pittura degli ultimi anni di de Chirico, segno ermetico di una condizione sublimata di beatitudine ascetica che riecheggia quella teorizzata proprio da Schopenauer, un filosofo che de Chirico ha amato per tutta la vita…”.

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Giorgio de Chirico, “Frutta con busto di Apollo”, 1973

A queste parole di Canova aggiungiamo quelle di Giulio Paolini che nella mostra del 2010 svolta al Palazzo Esposizioni di Roma,  “L’enigma dell’ora” in parallelo con “De Chirico e la Natura”, ha fatto del suo “Autoritratto nudo”  l’approdo di un avvicinamento progressivo: “Nessuno meglio di de Chirico ha saputo destreggiarsi, in epoca moderna, nell’insostenibile ruolo di artista contemporaneo”; in quanto tale, “la posizione di de Chirico nel corso degli anni è stata recepita e resa attiva anche grazie agli artisti che ne hanno compreso la grande forza simbolica”: Paolini e altri, le cui opere sono ispirate dai dipinti della Neometafisica con i quali sono esposte nella mostra.

 Gli artisti contemporanei affiancati alla Neometafisica

Un breve accenno a questi artisti contemporanei per introdurre la galleria delle opere affiancate alla Neometafisica, partendo dall’affermazione di Canova: “Dunque, il paradosso finale di de Chirico è stato quello di non influenzare solo gli artisti del Ritorno all’ordine, alla tradizione e al mestiere, ma di dare linfa vitale alle ricerche di artisti legati alla Pop Art, all’arte concettuale (come lo stesso Paolini) o alla Body Art e alla Performance, nel momento in cui hanno sentito il bisogno di uscire dai codici di quello sviluppo progressivo dell’arte del Novecento fondato sulla successione dei movimenti di avanguardia, che già un artista come Duchamp aveva messo in discussione”; e aveva osservato tra l’altro, in contrasto con le critiche dei contemporanei a de Chirico dopo la svolta post-metafisica: “Ma la posterità potrebbe avere qualcosa da dire”. Una profezia che si è realizzata.

Il primo artista da citare, “noblesse oblige”, è Andy Warhol, per lui de Chirico ha rivolto lo sguardo al passato  per profetizzare il futuro, creando “immagini che cambiano mentre si ripetono”, e ha dichiarato: “Ho sempre ammirato de Chirico . Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte e poi  quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo… Probabilmente è questo che abbiamo in comune… Mi piace il mito che de Chirico usava… le immagini di de Chirico sono un mito ed è  per questo che l’ho usato per esprimere i miei sentimenti. Ha usato anche la mitologia greca… mi piace anche questo… Ogni volta che vedevo i quadri di de Chirico mi sentivo vicino a lui. Ogni volta che lo vedevo mi sembrava di averlo conosciuto da sempre”. In una celebre foto del 1972 sono insieme a New York, e il viso di Warhol sembra al contempo assorto e stravolto.

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Valerio Adami, “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur”, 1964

Dopo Warhol, Giulio Paolini, la cui opera si richiama a de Chirico nei due estremi che si uniscono, il ricordo e la memoria nel tornare al passato della grande arte, la profezia e la chiaroveggenza nel vaticinare il futuro. Mentre attribuisce la ricerca del nuovo delle avanguardie all’età giovanile per cui, avendola superata, conclude: “Oggi non vedo più quell’interesse ad andare avanti. Cerco di andare in profondità”. 

Gli  artisti vicini alla Scuola romana di Piazza del Popolo, Franco Angeli e Mario Schifano, Tano Festa e Mimmo Rotella, sono altrettanto legati a de Chirico. Franco Angeli è preso dalla sua segreta anima metafisica dove la melanconia irride alla morte tra i segni ermetici delle piazze dechirichiane, Mario Schifano definisce de Chirico “grande Maestro italiano del ‘900” citando le sue opere metafisiche e neometafisiche, Tano Festa, interessato al recupero dei capolavori del passato,  entra in gioco in merito alla citazione e alla copia, e Mimmo Rotella vi riferisce  la nuova pittura “in senso moderno, non tradizionale”, con una forza “quasi magica” da visionario.

Mario Ceroli, interessato al recupero dell’arte antica e della tradizione rinascimentale in senso contemporaneo, è colpito dal carattere innovativo delle opere di de Chirico, e vi si ispira; mentre Pino Pascali e Fabio Sargentini faranno entrare il mare nella galleria d’arte, Gino Marotta il bosco artificiale dentro il Museo. E lo scultore Fausto Melotti si ispira alla composizioni metafisiche con i suoi Teatrini gioiosi come la Neometafisica, mentre per Giosetta Fioroni  “in un clima  bloccato nel tempo e nella dimensione della memoria pervade la casa-teatrino”. Del resto de Chirico, da grande scenografo, nella Neometafisica valorizza la scena, con quinte teatrali e l’assemblaggio di oggetti.

Claudio Parmiggiani, “Senza titolo” 1988

Come quelli di Claudio Parmeggiani, “fondati sulla dialettica metafisica tra splendore e oscurità”. Mentre Gino De Dominicis condivide con de Chirico “la concezione del tempo che rovescia la contemporaneità per la dimensione atemporale dell’immortalità”; e “la scultura di Mimmo Paladino è sostenuta da “una segreta misura metafisica, dall’incrocio tra enigma e geometria, dal sentimento di una melanconia intellettuale che aleggia sui suoi personaggi, sulle architetture”.

Michelangelo Pistoletto “costruisce un sistema enigmatico di rimandi e riflessioni che, tuttavia, lascia aperto l’enigma di uno specchio che può riflettere ogni cosa ma non sé stesso”, e dice: “Se l’arte è lo specchio della vita io sono lo specchiaio. Sono diventato prestigiatore: dentro ad uno specchio tagliato in due sono apparsi tanti specchi quanti sono i numeri possibili, fino all’infinito”. Alessandro Mendini  “ha riconosciuto una radice metafisica nel suo lavoro”, e Luigi Ontani  “ha precorso anche ironicamente l’uso della citazione nell’arte contemporanea” di marca dechirichiana, così come Salvo con modalità diverse.    

L’assemblaggio negli interni, l’accumulo di squadre da disegno e altri oggetti ha interessato Lucio del Pezzo ispirandogli  opere in cui, tra pittura, scultura e installazione, materializza l’enigma dechirichiano. E Ugo Nespolo ospita de Chirico nei suoi Musei immaginari nel cui labirinto la Neometafisica si unisce al fumetto e insieme alla tradizione del Rinascimento, al puzzle e alle tarsie “in un percorso felice e luminoso dove la pittura diviene una festa dello sguardo”.

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Giosetta Fioroni, “”Casa: interno familiare” , 1969

Mentre Ezio Gribaudo, sodale di de Chirico e ideatore-editore di libri su di lui, gli ha reso omaggio come artista in un linguaggio Pop citando opere metafisiche e neometafisiche in composizioni cromatiche vibranti. Si ispira alla metafisica anche Valerio Adami, che si confronta con il Pop e il fumetto “in un sistema iconografico che trova in de Chirico una delle sue radici”.

Concetto Pozzati, all’insegna di una “restaurazione dei valori” fondata sui grandi Maestri italici in un palcoscenico metafisico, “modulando bianco e nero e colore, scrittura e pittura”, realizza “la visione quasi allucinata di un omaggio a de Chirico come caposcuola della grande arte  moderna italiana”. E Fabrizio Clerici viene indicato come il “prosecutore della metafisica” dagli anni ’40, con Alberto Savinio, fratello di de Chirico, mediante “una pittura di grande forza visionaria e di severo rigore costruttivo”; anche il figlio di Alberto, Ruggero Savinio, suo nipote, si rifà alla metafisica con ambienti “dall’atmosfera sospesa” dove domina “il senso di un’attesa inesplicabile”.

Clerici è amico di de Chirico e di Renato Guttuso,  che ne ha sostenuto la grandezza e la paternità della Metafisica – “la ‘metafisica’ è de Chirico e da lui parte, dal profondo de Chirico” – inoltre gli ha dedicato un ritratto e lo ha raffigurato nel grande dipinto “Caffè Greco”, mentre in “La visita della sera” crea “un’atmosfera di misteriosa e inesplicabile sospensione” di chiara marca metafisica.

Fausto Melotti, “La Ballata del Cervo” , 1979

Infine dei  fotografi, che riproducono la  “sospensione temporale delle piazze di de Chirico e la loro visione architettonica”. Alcuni nomi: Gabriele Basilico e Luigi Ghirri, Franco Fontana e Claudio Abate, che ne ha ricavato il  “profilo segreto” nel contorno bianco mentre emerge dal buio.

Concludiamo questa rapida carrellata sugli artisti contemporanei che hanno sentito l’influsso di de Chirico e della sua Metafisica e Neometafisica, nella quale le citazioni sono da Canova, con le sue conclusioni, da curatore della mostra, a proposito della “felice stagione metafisica” di “de Chirico, Metafisico, Neometafisico, Contemporaneo”: “Alla fine del suo percorso de Chirico celebra così il trofeo stesso della sua opera, erigendo  il monumento trionfale alla sua lotta di gladiatore monomonaco  al centro dell’arena dell’arte, pronto per essere riscoperto come precursore delle generazioni a venire, aprendo al futuro tutti i suoi ritorni nella curva del tempo”.

Un tempo breve per il nostro ritorno sulla mostra, prossimamente la descrizione delle opere esposte, sue  e dei contemporanei che a lui si sono ispirati nei modi più diversi.

Juan Munoz, “‘Pelotaris
(Yellow Eyes” , 1999

Info

Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa, a questo primo articolo ne seguiranno 2 che usciranno il 27 e 29 settembre e concluderanno l’intera trilogia. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, i nostri 3 articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, i nostri 7 articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019, Guttuso 14, 16, 30 luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 25, 30 gennaio 2013, Futuristi 7 marzo 2018, Adami 16 gennaio e 12 marzo 2017, Impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2016, Espressionisti 27 gennaio 2016, Patella 18 aprile 2015, Warhol 15, 22 settembre 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Fioroni 1° gennaio 2014, Angeli 31 luglio 2013, Cubisti 16 maggio 2013; Tiziano 10, 15 maggio 2013, Pistoletto 11 aprile 2013, Abate 2 gennaio 2013, Pop Art 29 novembre 2012, Marotta 13 ottobre 2012: in cultura.inabruzzo.it , Irripetibili anni ’60, 3 articoli 28 luglio 2010, Schifano, 15 maggio 2011, Paolini 10 luglio 2010, Impressionisti 27, 29 giugno 2010, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre 2009, 2 febbraio 2010; in www.archeorivista.it, Paladino 26 gennaio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le diverse sezioni della mostra commentate in modo specifico nei due articoli successivi e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Il pensatore” 1973; seguono, “Giorgio de Chirico, “La tristezza della primavera” 1970, e Luigi Ontani, “Campo DioscuriDe ChiricoS’AVInio” 2017; poi, Concetto Pozzati, “Dal ciclo restauratore, Trovatore da e per de Chirico” 1972, e Giorgio de Chirico, “Poesia d’estate” “1970; quindi, Tano Festa, “Piazza d’Italia” 1977, e Franco Angeli, “”Sabaudia” 1986-88; inoltre, Philip Guston, “Untitled (Wall)” 1971, e Giorgio de Chirico, “Frutta con busto di Apollo” 1973; ancora, Valerio Adami, “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur” 1964, e Claudio Parmiggiani, “Senza titolo” 1988; continua, Giosetta Fioroni, “”Casa: interno familiare” 1969, e Fausto Melotti, “La Ballata del Cervo” 1979; infine, Juan Munoz, “‘Pelotaris (Yellow Eyes” 1999 e, in chiusura, Claudio Abate, “Giorgio de Chrico 20.12.72 ore 22.23. Contatto con la superficie sensibile” 1972 (anno di stampa 2001).

Claudio Abate, “Giorgio de Chrico 20.12.72 ore 22.23. Contatto con la superficie sensibile” 1972 (anno di stampa 2001)

De Chirico, trilogia II – 3. Le ultime 4 sezioni della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della mostra “Giorgio de Chirico, Il volto della Metafisica”,  organizzata  a Genova, al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge con apertura dal 30 marzo al 7 luglio  2019, dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson che ha curato anche il Catalogo Skira. E’ la seconda parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, con il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita  e l’opera”, che l’ha aperta, e la parallela mostra di Torino “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro”, che la chiude. 

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“Gli archeologhi”, 1940

Dopo averne riassunto i contenuti e descritto la galleria delle prime 3 sezioni della mostra – il “Viaggio senza fine”, gli “Esterni” e gli “Interni metafisici” –  completiamo il racconto e chiudiamo la seconda trilogia con le ultime 4 sezioni – dai “protagonisti metafisici” alla “natura metafisica”, dal “ritorno alla tradizione” alla “magia della linea” – ribadendo la convinzione che ci ha fatto aggiungere alla definizione  di “Metafisica continua” quella di “Classicità continua” per la compresenza costante dei motivi classici con i metafisici.

Finora abbiamo descritto il “viaggio senza fine” e l’ambiente in cui si svolge, gli “esterni” e gli “interni” metafisici come un “set” teatrale, del resto la teatralizzazione fa parte della visione dechirichiana, e non solo quando è esplicita come nei suoi Autoritratti in costume d’epoca.

Ma cos’è il teatro senza i personaggi? Ed ecco irrompere “I protagonisti metafisici”, nella 4^ sezione della mostra. Sono le “Arianne” e i “manichini”, gli “archeologi” e i “gladiatori”, ciascuno una storia, una funzione, una metafora, e c’è anche l’artista negli abiti di scena della sua grande rappresentazione. 

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“”Il trovatore”, 1972

Arianna – celebrata da Ovidio come inconsolabile dopo essere stata abbandonata da Teseo che aveva aiutato ad uscire dal Labirinto, prima dell’incontro con Bacco – al centro delle “Piazze d’Italia” distesa in un triste abbandono non è sempre la stessa. Essa esprime il dilemma apollineo-dionisiaco  del pensiero di Nietzsche – per questo è diventata l’icona metafisica di de Chirico – ma nei “ritorni” metafisici assume sembianze e atteggiamenti diversi; addirittura viene identificata nella figura della sua compagna Isabella Pakswer come “Diana addormentata nel bosco” e la “Fanciulla addormentata”. Come avviene per altre figure metafisiche, anch’esse viste in chiara evoluzione.

Dopo Arianna, i “Manichini”, che  nella loro semplicità rappresentativa esprimono aspetti centrali del pensiero di Nietzsche e di Apollinaire,  incarnando il “vaticinatore”, il “veggente”, e a volte il “trovatore”. Hanno la testa a forma di uovo, una sorta di ellisse senza volto, priva di lineamenti, ma con un segno, simbolo di una seconda vista o visione interiore, la cosiddetta “apoptéia”. Evolvono in forme più elaborate, come gli “archeologi”, ma soprattutto in forme sempre più umanizzate, fino ad assumere un incarnato roseo al posto delle membra e del corpo fatti di volumi geometrici inanimati. Arrivano a impersonare soggetti ben identificati, dal “figliuol prodigo” ai mitici Ettore e Andromaca, per citare i più frequenti.

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“Ettore e Andromaca”, seconda metà anni ’50

Un posto a sé occupano gli “Archeologi”, con i quali l’artista gioca in casa, depositario dei ricordi e delle nostalgie della sua terra nonché dei valori  dei reperti e dell’arte antica. E’ evidente il significato dei ruderi che sono nel loro torace, ma è straordinario come la essenzialità del “manichino”  si  sia arricchita nell’incrocio con statua ed essere umano, acquisendo  elementi  simbolici  soprattutto di un dinamismo e una vivacità espressiva che mancava nei “manichini”. Hanno anche elementi umani nei corpi lunghi e nelle gambe corte, e soprattutto negli atteggiamenti, e a differenza dei “manichini” di prima generazione presentano movenze e comunicano tra loro con semplici ma significativi gesti, anche consolatori, per questo spesso sono rappresentati in coppia.   

Evolvono naturalmente  nei “Gladiatori” in una progressiva e irresistibile umanizzazione. Non ci sono più elementi meccanici, sono figure umane in carne ed ossa, magari filiformi per lo più addensate in gruppi che combattono o festeggiano, la solitudine metafisica è un lontano ricordo.  

“Il segreto della sposa”, 1971

Vediamo una tale evoluzione nei dipinti di questa sezione,  che si apre con un disegno inconsueto, “L’apparizione”, 1917, una sorta di sintesi tra il manichino “meccanico” e quello “umanizzato”, nelle due figure, l’una in piedi e l’altra seduta, con i diversi elementi compresenti e integrati.

Di particolare interesse “Ettore e Andromaca” e “Trovatore”, seconda metà anni ’50, per l’efficacia dirompente delle figure di “manichini” con la corazza, due dipinti quasi gemelli, nel secondo c’è anche la testa di statua evocativa a terra; e per la ripetizione degli stessi soggetti ma in forma diversa nel 1970-72, la coppia è in primo piano, “a mezzo busto” se così si può dire, mentre nel “Trovatore” si sono aggiunte le arcate e il treno sbuffante sul fondo, in una ripresa nostalgica dei primi motivi metafisici.

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“La musa del silenzio” , 1973

“Il contemplatore”, 1976,  guarda un “quadro nel quadro”  con un castello sulla rupe e un grande albero. In tutti, le figure meccaniche con testa a uovo e il segno della veggenza, tra squadre da disegno e righelli della metafisica “ferrarese”.

Un  “manichino”  vestito di rosa in “Il segreto della sposa”, 1971, un “quadro nel quadro”  anche qui tra squadre da disegno “ferraresi”, in primo piano una grande testa di statua a terra, a sinistra una finestra da cui si vede un tempio tra le rocce e una testa di statua, a destra una finestrella con  nuvolette bianche in un cielo azzurro.

Due teste di “manichini”  in un primo piano cinematografico con ”Le maschere”, 1973. la prima non è la consueta forma a uovo ellissoidale senza volto, sembra una celata con l’apertura nel viso attraversata da una squadra da disegno, sullo sfondo da una finestra si vede un edificio bianco con le arcate e una torre, davanti altre squadre e righelli, una composizione aperta nonostante il titolo.    

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“Natura morta con selvaggina e bicchiere di vino”, 1923

Seguono i “manichini”  con oggetti incorporati nel torace, da “Canzone metafisica”, 1930, in cui il manichino chitarrista incorpora un’abitazione, a “Gli archeologhi”, 1940, una coppia di figure sedute e accostate con incorporati ruderi di colonne,  fino a “Oreste e Pilade”, 1960,  un’altra  coppia che incorpora  non solo colonne ma templi, e “Oreste solitario”, 1974, in cui l’incorporazione è più schematica, con apertura al cielo e a una  distesa di templi in basso. Sono umanizzati, le braccia morbide, nulla più di meccanico, gli atteggiamenti accattivanti. 

L’umanizzazione è anche più evidente in La musa del silenzio”, 1973,  del “manichino” resta  solo la piccola testa nera, il corpo è di carne, tra squadre da disegno, una testa di statua a terra e un vaso con una pianta verde, dalla finestra si vedono due edifici che si stagliano nel cielo.

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“Corazze con cavaliere (Natura morta ariostea”, 1940

In modo diverso, in “Il figliuol prodigo”. 1974, la figura seduta sovrastata dalla statua è vestita  interamente  con cappello a tuba come una colonna, così le braccia, non c’è più  il “manichino”.

Con “Lotta di gladiatori”  l’umanizzazione è completa, una diecina di figure in carne ed ossa, con chiaroscuri che ne sottolineano la struttura corporea, risale al 1928,  nella visione atemporale della mostra.

La “natura” e  la “tradizione”, fino alla “magia della linea”

Siamo usciti definitivamente dagli interni claustrofobici di origine “ferrrarese” per immergerci nella natura alla quale nel 2010 fu dedicata la  grande mostra “De Chirico e la natura”  al Palazzo delle Esposizioni collegata alla mostra di Giulio Paolini, nella stessa sede espositiva, “L’enigma dell’ora”, che culminava nell’approdo all”Autoritratto nudo” di de Chirico.

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“Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)”, 1929

Com’è la “Natura metafisica” cui è intitolata la 5^ sezione?  Innanzitutto non è mai una “natura morta”, anche i frutti staccati dall’albero e la selvaggina sono  chiamati “vita silente” perché, come scrisse nel 1942,  “rappresenta la vita silenziosa degli oggetti e delle cose”, ispirandosi ai nomi tedesco “Still leben” e inglese “Still life”.  Quando la natura è aperta sul paesaggio la rappresenta nel periodo barocco con castelli e cavalieri, altrimenti con templi e ruderi antichi. L’intensità cromatica evolve con l’evoluzione stilistica, al riguardo va ricordato che approfondì molto la tecnica dei Maestri antichi utilizzando anche la “tempera”, è curata molto la resa visiva.

Si va da “Natura morta con dolce siciliano”, 1919, e “I pesci sacri”, fine anni ’30,  in contesti claustrofobici, alle immagini di soli frutti ma ubertosi, in “Natura morta” e “Natura morta con coltello”, 1930, alle composizioni di  “vita silente” ben più aperte, come “Mandarini su un ramo (Arance-Villa romana)”, 1922, e soprattutto “Natura morta con selvaggina e un bicchiere di vino”, 1929, che ha addirittura uno scenario teatrale, con la tenda-sipario  e uno sfondo paesaggistico, collinetta alberata e abitazioni.  Analogo contesto teatrale e paesistico con collinetta in “Corazza con cavaliere”, 1940, in primo piano da protagonista l’armatura e una brocca, solo in secondo piano il cavaliere alla “Guidoriccio da Fogliano”, viene definita “Natura morta ariostea”, analoga impostazione paesistica con ampio orizzonte in ”Ricordo metafisico delle rocce di Orvieto”, 1922.

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“Il carro del sole”, 1970

Troviamo  il mito in “Ippolito e compagni”, 1969,  e nelle immagini gemelle “Il carro del sole”  e “Visione sulla riviera”, 1970, con lo stesso scorcio della villa, balconata e ringhiera, albero e piante mentre in volo c’è Fetonte e un’altra figura alata. Irrompono i cavalieri in “Paesaggio con rudere, castello e cavaliere”, 1955,  e soprattutto i cavalli alla Delacroix in “Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)”, 1929, e in “Cavalli in riva al mare”, 1935 con ruderi e nel primo un tempio; “Testa di cavallo”, 1962, celebra il nobile animale come protagonista della visione teatrale.       

In “Marina presso Genova”, 1935, una visione plastica, inconsueta, nuvole, rocce e monti prevalgono sulla ristretta striscia del mare, mentre la grande macchia di alberi a sinistra dà il tono alla composizione. Con de Chirico le sorprese non finiscono mai, non è poliedrica soltanto la sua espressione artistica e stilistica, anche la sua ispirazione si nutre di stimoli sempre nuovi e inattesi.

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“La gravida da Raffaello”, 1920

La natura riporta ai temi tradizionali perché è sempre stato un riferimento costante per l’arte. Per questo nella 6^ sezione “La Metafisica incontra la tradizione”, incontro avvenuto sin dalla prima svolta classicista del 1919 con il momentaneo distacco dalla prima Metafisica. Fu “galeotto” anche il soggiorno a Roma e a Firenze dopo il servizio militare a Ferrara ad avvicinarlo maggiormente all’arte antica da lui sempre coltivata, fino all’attrazione fatale che lo portò alle copie e ai “d’aprés” preparati in lunghe contemplazioni nei grandi musei, e ad approfondire la tecnica pittorica antica, con l’uso della “tempera”, fino a teorizzarla e a farla prevalere sul contenuto.

Anche in questo approccio c’è stato un processo evolutivo che lo ha portato ad accostarsi a Renoir, con i suoi nudi morbidi e delicati, fino a un reincarnazione reinoiriana della mitica Arianna. Naturalmente nel periodo barocco si sbizzarrisce  nei ritratti e nei soggetti equestri rielaborando anche opere di antichi maestri da Tiziano a Rubens, da Velasquez a Delacroix, e  nella fase più avanzata approdando agli   Autoritratti in abiti dei diversi secoli.

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“”Diana addormentata nel bosco”, 1933

La sezione inizia con “”Ritratto della madre” , 1911, e La signora Gartzen”, 1913, generalmente citati per dimostrare che il classicismo evidente nelle due figure precede anche la prima Metafisica, poi si passa a “La gravida di Raffaello”, 1920, altra opera cardine della sua prima svolta, con le derivazione dirette dai Maestri antichi, che prosegue con “Testa di fanciulla da Perugino”, seguito da “Ritratto femminile”, entrambi del 1921. 

Dello stesso anno la figura nuda in piedi di “Lucrezia”, che prelude alla Bagnante”  del 1929 e al “Nudo”  in riva al mare della fanciulla, in due immagini, in  piedi e seduta del 1930,  di chiara derivazione da Renoir; come i nudi dormienti di Fanciulla addormentata da Watteau”, 1947, e Nudo coricato (Sera d’estate)”,  anni ’50, mentre “Diana addormentata nel bosco” , 1933, è una Arianna bucolica nella “vita silente” dechirichiana, con l’uva e i pomi a terra in primo piano.

‘”Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934

Concludono la sezione due immagini della prima metà degli anni ’30, “Ritratto di Luigi e Nini Bellini”, 1932, e “Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934, la moglie di de Chirico che ci introduce ai suoi due “selfie” teatrali,  “Autoritratto in costume del Seicento”  e “Autoritratto con corazza”, del 1947-48, nell’estrema teatralizzazione della sua arte.

L’esposizione si conclude con la 7^ sezione, “La magia della linea”, che rievoca il titolo della mostra del 2009 al Museo Carlo Bilotti, ispirato alla sua definizione del disegno considerato un “demone lineare”, un’arte “divina”  dalla quale nasce “un’opera  a sé, bella e pulita, emozionata ed emozionante”.  Questo perché “ogni aspetto della natura, ingannevole, cangiante e passeggero, possiede, riguardo al mondo delle cose eterne, il suo particolare segno, o simbolo,  ed è appunto tale segno o simbolo… che l’artista classico scopre”: sono sue parole del 1920, dopo l’esplosione della prima Metafisica e la prima svolta classicista.

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“‘Laura e Mario’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli”, 1922

Sono esposte le 12 illustrazioni per il libro di Massimo Bontempelli, “Siepe a nordovest”,  eleganti e raffinate, nelle figure singole e nelle composizioni molto elaborate nella natura; e le 11 illustrazioni per il libro del suo amico ed estimatore, Jean Cocteau, “Mythologie”, più nette e incisive e soprattutto con le immagini intriganti dei “Bagni misteriosi” dall’alto valore evocativo.

Così si conclude la galleria espositiva di Genova, con opere che coprono l’intero spettro della vita artistica di de Chirico e comprovano la definizione di “Metafisica continua”  data alla sua arte.

A questa che abbiamo chiamato la seconda parte della trilogia dechirichiana nel 40° anniversario della sua scomparsa e nel 100° dalla prima svolta classicista, seguirà la terza parte della trilogia sull’influsso nei confronti dell’arte contemporanea su cui si è esercitata la parallela mostra di Torino “Ritorno al futuro”. Ne daremo conto prossimamente.

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“‘Il centauro misterioso’, illustrazione per
‘Mythologie di Jean Cocteau”, 1934

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di VictoriaNoel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che termina con l’articolo attuale dopo gli articoli del 18 e del 20 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 18 settembre. Sulle citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com per la mostra su Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019; in cultura.inabruzzo, su Paolini 10 luglio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le ultime 4 sezioni della mostra commentate nel presente articolo. In apertura, “Gli archeologhi” 1940; seguono, “”l trovatore” 1972, ed “Ettore e Andromaca” seconda metà anni ’50; poi, “”Il segreto della sposa” 1971, e “”La musa del silenzio” 1973; quindi, “Natura morta con selvaggina e bicchiere di vino” 1923, e “Corazze con cavaliere (Natura morta ariostea” 1940; inoltre, “Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)” 1929, e “Il carro del sole” 1970; ancora, “”La gravida da Raffaello” 1920, e “”Diana addormentata nel bosco” 1933; continua, “‘”Ritratto di Isa, vestito rosa e nero” 1934, e “‘Laura e Mario’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli” 1922; infine, ‘Il centauro misterioso’, illustrazione per ‘Mythologie’ di Jean Cocteau” 1934 e, in chiusura, “”Autoritratto in costume del Seicento” 1947.

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“”Autoritratto in costume del Seicento”, 1947

De Chirico, trilogia II – 2. Le prime 3 sezioni della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

Prosegue il racconto della mostra “Giorgio de Chirico, Il volto della Metafisica” svoltasi a Genova dal 30 marzo al 7 luglio  2019 al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, organizzata dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson che ha curato anche il Catalogo Skira.

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“”Piazza d’Italia con statua di Cavour”, 1974

E’ la seconda parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. In precedenza ne abbiamo delineato i contenuti, ora passiamo in rassegna la galleria di opere esposte nelle  varie sezioni, raggruppate per temi e non per cronologia con le relative motivazioni, in una persistenza che ha fatto parlare di “Metafisica continua”; definizione cui noi abbiamo aggiunto quella di “Classicità continua” per i motivi classici sempre compresenti come quelli metafisici. Cominciamo con le prime 3 sezioni, nelle quali viene inquadrato il suggestivo contesto metafisico.

Inizia il “viaggio”,  gli “esterni” metafisici

La 1^ sezione evoca “Il viaggio senza fine”, espressione che riassume “la vita e l’opera” di Giorgio de Chirico, come si intitola il prezioso lavoro di Fabio Benzi, un volume di oltre 500 pagine che abbiamo definito “Il Film della mia vita”, in parallelo con “Le memorie della mia vita” del Maestro. Si tratta di una ricerca molto approfondita e documentata , che affronta in modo franco e diretto le tante questioni aperte e fornisce una preziosa chiave interpretativa delle “invenzioni” dechirichiane, spesso spiazzanti, pubblicata significativamente in questo quarantennale della sua morte in aggiunta alle mostre di Genova e di Torino, le altre due parti della trilogia celebrativa; ne abbiamo trattato ampiamente in precedenza.

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“L’ebreo errante”, 1917

La poesia di de Chirico “Viaggio”, dell’aprile 1917, fa capire come siano persistenti alcuni motivi legati alla terra natale.  Cita “la casa/  paterna… che non rivedrò più mai”,  poi “il marciapiede  bianco di polvere e di freddo/… della mia già lontana/ infanzia”,  l’imbarcazione che “salpa/ verso i porti della vecchia Europa”, quindi esclama “e tu ingegnere piemontese, costruttore di nuove/ strade ferrate perché sei così mesto oggi?”, fino alla visione “che il mondo/ scoperto era veramente/ Un mondo nuovo”.  

C’è tutto il suo “viaggio” dalla terra natìa al “mondo nuovo” americano che tanto lo colpì quando lo raggiunse, la nostalgia dell’infanzia, il trasferimento in  diversi paesi europei. Un viaggio come quello di Ulisse, in un “eterno ritorno”, identificazione obbligata dato che il dipinto “Ulisse”, del 1929, è un proprio “Autoritratto”, e Il ritorno di Ulisse”, del 1968,  a 40 anni di distanza, sottolinea questa equiparazione con l’eterno viaggio racchiuso in una stanza,  in cui rema nella barchetta su un tappeto divenuto mare non più senza fine, forse metafora della vita con la porta socchiusa  in fondo che rappresenta l’unica uscita ma verso il buio, mentre alle due pareti il quadro con la torre metafisica e la finestra con il tempietto classico rappresentano i poli della sua arte e della sua vita; visione ln qualche modo rasserenata 5 anni dopo nel “Ritorno di Ebdomeros” .

Anche la 2^ sezione si apre con un’immagine di viaggiatore inquieto e tormentato, dello stesso anno della poesia, elemento indubbiamente significativo, per cui non comprendiamo perché non abbia aperto la 1^ sezione abbinando all’identificazione con Ulisse questa con “L’ebreo errante”, un acquerello evocativo, con l’ombra della solitudine che si allunga nell’ambiente deserto e inospitale.

“Piazza d’Italia con fontana”, 1968, firmato 1934

E’ la sezione degli “Esterni metafisici”, irrompono le “Piazze d’Italia”, in una sequenza che come nelle sezioni successive è senza tempo; nel senso che, come si è accennato, gli accostamenti sono tematici e non cronologici, e spesso si affiancano opere sullo stesso tema di epoche molto diverse.  

Sono esterni che esprimono “la strana sensazione di vedere tutte le cose per la prima volta” provata in piazza Santa Croce a Firenze nel 1910 quando ebbe l’”illuminazione” metafisica che gli ispirerà le piazze con le arcate e le ombre lunghe, la statua al centro e in fondo il treno a vapore. La prima suggestiva esternazione di quanto sentiva dentro di sé fu “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, che evoca la visione iniziale con la chiesa e la statua raffigurate schematicamente senza voler riprodurre la realtà. Seguirono altre piazze, con la sua particolare visione prospettica che crea un’atmosfera indicibile di sospensione.

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“Il ritorno di Ulisse”, 1968

E’  il caso di  “Piazza d’Italia” (Souvenir d’Italie)” 1924  e “Piazza d’Italia (con statua di Cavour)” 1974,  tra loro 50 anni, dalla metafisica alla gioiosa Neometafisica: nel primo si sente l’inquietudine dell’isolamento con le due minuscole figure nella piazza assolata e la grande statua vista di spalle che accresce questa sensazione;  nel secondo c’è maggiore apertura  e luminosità, pur se le arcate e la statua sono sempre lì, ma le arcate non sono oscure e misteriose, bensì accoglienti con una figura nell’arcata centrale che attira l’attenzione, mentre le due figurette sono ancora più lontane  e più piccole, la statua di Cavour vista frontalmente  e non dal retro, è più comunicativa.

C’è anche una “Piazza d’Italia con piedistallo vuoto”, del 1965, con molta ombra tra scorci di arcate e la base di una statua mancante, peraltro appena visibile sulla sinistra, in fondo una casa con l’orologio sulla parete di fronte, segnali di vita che attenuano il senso di privazione dell’insieme.

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“Il mattino delle muse”, 1972

Si passa dalle Piazze alle Torri nel dipinto del 1968 Piazza d’Italia con fontana”, il suo zampillo rischiara la zona d’ombra delle arcate a destra, quelle a sinistra sono in piena luce, al centro sullo sfondo un nuovo elemento architettonico, la torre a 4 piani, che vediamo alla ribalta in “La torre” , del 1974, immagine che svetta con tutti i suoi significati metafisici.

Entrano in scena i celebri “Manichini”,  che con la loro testa a uovo impenetrabile sono la metafisica  personificazione degli enigmi e misteri altrimenti affidati alle piazze con le loro arcate o alle statue poste al centro, come quella di Arianna, con i riferimenti che rimandano all’inconscio.

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“Il figliuol prodigo”, 1975

Con “Le muse inquietanti” della fine degli anni ’50  abbiamo la rivisitazione del celebre quadro della prima Metafisica che fu all’origine della brusca rottura con il capofila dei surrealisti.3 Abbiamo ricordato in precedenza che Breton voleva avere quest’opera senza riuscirci per le difficoltà poste dal proprietario con tanta insistenza che Chirico si offrì di preparagliene una copia; accettò, il proprietario autorizzò e l’operazione si fece, poi lui negò tutto attaccando de Chirico come se avesse artatamente diffuso una copia spacciandola per l’originale. Fu solo l’inizio di una campagna diffamatoria contro de Chirico diffusa a macchia d’olio che ne segnò la vita e anche l’espressione artistica perché, non essendo tipo da porgere l’altra guancia, in certi periodi orientò la sua produzione in senso provocatorio scegliendo volutamente percorsi antitetici ai surrealisti.

E’ esposta anche una rielaborazione ancora più tarda del dipinto, dal titolo “Il mattino delle muse” del 1972, in cui è quasi immutata la parte centrale della composizione, con la statua-manichino in piedi a sinistra e la musa seduta a destra, ispirata a un reperto visto dal giovanissimo de Chirico nel Museo di Atene vicino alla scuola che frequentava; mentre è totalmente mutato lo sfondo, non più il misterioso castello rosso ma abitazioni sparse aperte e ariose, e anche la statua in secondo piano esce dall’ombra per mostrarsi in piena luce: la Neometafisica è gioiosa anche in questo modo.

“Contemplazione metafisica”, 1950-60

Ma ecco “Il figliuol prodigo”, del 1975,  l’antico e il moderno nella statua del padre che scende dal piedistallo per abbracciare il figlio manichino, per di più con le squadre da disegno e i listelli “ferraresi”, fa pensare che la statua mancante nel quadro del 1955 – che forse per questo gli viene accostato – possa essere questa scesa momentaneamente a terra dalla sua base per un gesto affettuoso. Sullo sfondo una statua equestre dopo le consuete arcate metafisiche.

Ci sono anche esterni appena accennati, quindi senza le piazze spettacolari con le loro arcate e le loro ombre nette.  Sono quelli che si  intravedono appena in “Composizione metafisica” , 1950-60, e in “Triangolo metafisico (con guanto)”, 1968, il guanto di colore arancione in entrambi, il primo rielabora “Chant d’amour”, con la testa greca e la palla verde, il secondo a forma triangolare con una scacchiera  tra forme oscure; l’esterno è rappresentato nel primo dal cielo con piccole sagome di edifici scuri, nel secondo dai comignoli di una fabbrica che si stagliano nel cielo azzurro, i fumi si confondono con le consuete nuvolette orizzontali.

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“La meditazione di Mercurio”, 1973

Una testa greca anche in “La meditazione di Mercurio”, 1973,  con una variante dei biscotti “ferraresi” sulla destra, oggetti indeterminati forse ornamentali.  Dello stesso anno  “Il sole sul cavalletto”, dardeggiante e luminoso come simbolo di un’ispirazione costante, come del resto la falce di luna anche se è a terra, con a lato una poltrona, quella dell’artista. Il dipinto è posto tra gli “interni metafisici” ma lo spostiamo idealmente qui perché nella grande apertura sul fondo vengono inquadrati all’esterno, sopra dei piccoli templi bianchi, il sole spento che scende all’orizzonte e la luna nera, sempre collegati con i fili elettrici nell’inesauribile inventiva dell’artista e nei suoi enigmi così intriganti. “Offerta al sole” , del 1968, esprime la luminosità del periodo americano, il sole dardeggia sullo sfondo come se sorgesse all’orizzonte mentre sembra accendere un fuoco di raggi su una sorta di piedistallo, quasi una forma celebrativa. Non c’è il sole spento, ma due falci di luna, una nera l’altra rossa, sempre collegate come il sole a dei fili elettrici. L’ambivalenza tra luce e ombra attraverso i raggi del sole luminoso o spento e le falci di luna, con i fili che innescano linee di forza e di energia, si unisce all’ambivalenza esterno-interno di cui diremo.

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“Offerta al sole”, 1968

Gli “interni” metafisici

Nella 3^ sezione, dagli esterni si passa agli “Interni metafisici”, cui ci ha introdotto  “Il sole sul cavalletto”.  Rappresenta quello che chiama “l’enigma  di cose considerate in genere insignificanti”, assemblate in modo apparentemente senza senso, accostate a immagini evocative dell’antichità come templi, statue ed altro e spesso con riferimenti agli esterni metafisici prediletti come scorci delle “Piazze d’Italia”.

La compresenza di oggetti e forme diverse esprime ciò che avviene nella memoria quando torna indifferentemente ad eventi vicini e lontani di natura molto diversa, nella compresenza di ricordi personali ed evocazioni storiche accomunati senza una logica. Ma proprio per questo motivo l’osservatore è spinto a cercare i collegamenti  incomprensibili e comunque inespressi, tanto più che anche il contesto in cui sono inseriti sembra altrettanto illogico, quindi misterioso.

Non solo, anche i possibili significati dei singoli oggetti diventano motivo di attenzione, per cui da insignificanti diventano evocativi dei più disparati riferimenti. “L’ordinario è misteriosamente trasformato in qualcosa di straordinario – osserva la curatrice – strano ed enigmatico: una sensazione di scoperta, sorpresa e rivelazione pervade la scena”.

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“Interno metafisico con pere”, 1968

L’aspetto più straordinario è che questo non avviene per caso: “L’artista voleva che la sua pittura agisse come una sorta di  catalizzatore rivelatorio per l’osservatore, che in questo modo poteva ‘vivere nel mondo come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli bizzarri, variopinti,  che cambiano aspetto, che a volte come bambini  rompiamo per vedere come sono fatti dentro. – E, delusi, ci accorgiamo che sono vuoti’”, sono parole di de Chirico quelle citate, del 1912, in piena fioritura della prima Metafisica.

E’ quello che viene chiamato “l’aspetto metafisico delle cose ordinarie”, l’aspetto centrale degli “interni” metafisici, mentre per gli “esterni” abbiamo visto invece le arcate, non certo presenti negli edifici moderni, e la statua classica al centro della piazza, anch’essa da ritenersi alquanto eccezionale, almeno nelle sembianze di Arianna abbandonata. 

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‘Interno metafisico con officina”, 1969

Ritroviamo altre vecchie conoscenze, come le teste classiche, In”Interno  metafisico con testa di Mercurio” e “… con testa di Esculapio”, 1969, non in forma scultorea, bensì come quadri inseriti in composizioni nelle quali le righe e squadre da disegno “ferraresi” sorreggono l’immagine incorniciata, mentre dall’apertura sulla destra che dà spazio alla composizione si vede una”Piazza d’Italia” con statua e il mare con tempio antico.

Ma c’è anche l’”Interno metafisico con paesaggio romantico” e “…con officina”, sempre il “quadro nel quadro” al centro con l’immagine da cui prende il titolo e le aperture, questa volta sulla sinistra, su edifici di varia forma immersi nel paesaggio. “Interno metafisico con pere” e  “…con ovale nero”  non hanno simili aperture sull’esterno, ci sono solo delle nuvolette in alto nel primo, nel secondo tornano i biscotti “ferraresi”. Sono tutti del 1968-69.

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“Interno metafisico con testa di Esculapio” , 1969

Aperture sul fondo che sembrano quadri in “Visione metafisica di New York”  e “Armonia della solitudine”, del 1975-76, con la visione rispettivamente dei grattacieli e di uno scorcio di arcate di una Piazza d’Italia, in primo piano l’assemblaggio di oggetti, per lo più squadre “ferraresi” con anfore panciute dalla superficie liscia e luminosa.

Di poco anteriore “Il grande trofeo misterioso”, 1973,  l’assemblaggio quanto mai denso di forme, più che oggetti, templi e ruderi, non manca il “quadro nel quadro”, e la testa di un cavallo dagli occhi spalancati ravviva la scena, ai due lati le finestre si aprono su un paesaggio con case e templi.

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“Armonia della solitudine”, 1976

Gli interni metafisici esposti sono del periodo 1968-73,  ma per meglio comprenderli si deve risalire alla fase in cui sono stati concepiti quelli che, dopo una ripresa nella seconda metà degli anni ’20, sono esplosi nella “Neometafisica” di fine anni ’60- anni ’70, in forme più aperte e solari.

Resta però l’impronta  dell’ispirazione iniziale, a Ferrara dove era coscritto, sia pure come scritturale e non combattente, nel periodo della prima guerra mondiale 1916-18, tra i timori della guerra e l’isolamento, che suscitavano un senso claustrofobico in cui interno ed esterno si sovrappongono; il “quadro nel quadro” accentua questa ambivalenza portando l’esterno, anche edifici e templi, negli “interni metafisici”, e si confonde con la finestra, come  nei citati “Interno metafisico con officina” e “… con paesaggio romantico”.  Anche di qui passa lo “straniamento”, con l’annullamento del confine tra realtà e finzione in una messa in scena di tipo teatrale.

Prossimamente il racconto delle altre 4 sezioni della mostra concluderà la seconda parte della trilogia, prima di passare alla terza parte della mostra di Torino.

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“Il grande trofeo misterioso” 1973

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di VictoriaNoel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che dopo l’articolo attuale e quello del 18, terminerà con il terzo articolo del 22 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 18 settembre.

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Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le prime 3 sezioni della mostra commentate nel presente articolo. In apertura, “Piazza d’Italia con statua di Cavour” 1974; seguono, “L’ebreo errante” 1917, e “”Piazza d’Italia con fontana” 1968 firmato 1934; poi, ““Il ritorno di Ulisse”” 1968, e “Il mattino delle muse” 1972; quindi, “Il figliuol prodigo” 1975, e “Contemplazione metafisica” 1950-60; inoltre, “La meditazione di Mercurio” 1973, e “Offerta al sole” 1968; ancora, “Interno metafisico con pere” 1968, e “Interno metafisico con officina” 1969; continua, ‘Interno metafisico con testa di Esculapio” 1969, e“Armonia della solitudine” 1976; infine, “Il grande trofeo misterioso” 1973 e, in chiusura, “Il sole sul cavalletto” 1973.

“”Il sole sul cavalletto”, 1973

De Chirico, trilogia II – 1. Il volto della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

La seconda parte della trilogia dechirichiana nel 40° anniversario della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità – dopo la prima da noi chiamata “Il Film della mia vita”, l’imponente lavoro di Fabio Benzi , “Giorgio de Chirico, La vita e l’opera” – è la mostra a Genova, “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica”; conclude la trilogia la terza parte a Torino, “Giorgio de Chirico, Ritorno al Futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”. La mostra di Genova è aperta dal 30 marzo al 7 luglio  2019 al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, organizzata dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson come per il Catalogo Skira.

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“Ettore e Andromaca”, 1970

Il viaggio senza fine in una mostra speciale

Una mostra speciale su Giorgio de Chirico, imperniata sull’assioma “Metafisica continua”, in base alla constatazione che anche nei periodi in cui sembrerebbe ripudiata per abbracciare il classicismo, l’impronta metafisica permane nei particolari anche di contorno, pronta a tornare di nuovo alla ribalta e occupare tutta la scena. Il 2019, oltre che celebrativo dei 40 anni dalla scomparsa del Maestro, lo è anche del centenario dell’abbandono, nel 1919,  della prima Metafisica per il classicismo, con successivi reciproci ritorni, in uno spettacolare susseguirsi di invenzioni e sorprese. Tanto che la curatrice della mostra, Victoria Noel-Johnson  lo chiama “Le voyage san fin”.

Di questo viaggio la mostra fa rivivere i momenti salienti seguendo non un criterio cronologico ma tematico, per cui opere di periodi diversi  sugli stessi temi sono appaiati: “esterni”  e “interni metafisici”, “protagonisti” e “natura metafisica”, “l’incontro della metafisica con la tradizione” e “la magia della linea”, sono tappe del percorso ininterrotto in 60 anni di lavoro artistico geniale e fonte di continue scoperte. E’ un itinerario che seguiremo visitando queste sezioni tematiche della mostra, 6 atti di uno spettacolo teatrale suggestivo, come è stato suggestivo il “Film della mia vita” , da noi tradotto in una “fiction”  in 7 puntate.

In quella che è stata la prima parte della “trilogia” dechirichiana abbiamo ripercorso le molteplici e spesso tormentate fasi della sua esistenza con i numerosi spostamenti  soprattutto tra Grecia e Germania, Francia e Italia, fino agli Stati Uniti, che ne hanno fatto un cosmopolita poliglotta agguerrito, dotato tra l’altro di una notevole vis polemica; e l’evoluzione del processo creativo iniziato in grande mentre era poco più che ventenne con la prima Metafisica – rimasta la pietra miliare della sua arte – e sviluppatosi con il classicismo oscillando come un pendolo in moto incessante.

“”Piazza d’Italia con piedistallo vuoto”, 1955

Nel  nostro tragitto abbiamo esplorato i principali temi di una gamma vastissima, in stretto collegamento con il grande lavoro di ricerca e di approfondimento di Fabio Benzi, per cui ora  tratteremo solo quelli che la curatrice ha ritenuto di dover evidenziare come linee guida per meglio apprezzare la ricca galleria espositiva: 6 sezioni, ripetiamo, come 6 atti di uno spettacolo teatrale.

Le impronte del genio, enigmi e misteri della Metafisica e non solo

Da parte nostra ci piace sottolineare innanzitutto come le impronte del genio si vedono subito, basta porre mente al fatto, non abbastanza evidenziato, che la sua grande “invenzione” metafisica, dopo l’illuminazione nella piazza fiorentina di Santa Croce davanti alla statua di Dante, avvenne nel 2010, quando aveva 22 anni, e l’intero ciclo della prima Metafisica si è svolto nell’arco di 8 anni, quindi si è concluso con lui trentenne, per poi riaprirsi in diversi momenti e con varie forme.

Ed è stata la prima Metafisica ad imporsi all’ammirazione del mondo dell’arte – su cui si è abbattuta come un vento rigeneratore – e in particolare dei surrealisti, Breton in testa, i quali vi hanno colto uno spirito innovativo e d’avanguardia che apparentemente collimava con le loro posizioni. Mentre si basavano sull’irrazionale visione onirica con la coscienza addormentata, ben diversa dalle fondamenta filosofiche del pensiero di de Chirico nate da solide letture, Nietzsche e Schopenauer in particolare, letti nella lingua originale conoscendo bene il tedesco dopo il trasferimento a Monaco.

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Piazza d’Italia con fontana” , 1969

La curatrice della mostra Viictoria Noel-Johnson, con le parole sorpresa-scoperta-rivelazione evoca l’atmosfera imponderabile e suggestiva che aleggia nelle composizioni metafisiche: “E’ proprio la peculiarità di questa atmosfera (o Stimmung in termini nietzschiani), pregna di imprevedibilità e inquietudine, a suscitare un sentimento di sorpresa, scoperta e rivelazione: una rivelazione metafisica, per essere più specifici. Il mondo di de Chirico è, in definitiva, un luogo enigmatico in cui la banalità della vita quotidiana e gli oggetti ordinari si trasformano in modo tale da ‘rivelarci’ la loro essenza metafisica”.

De Chirico così ne scrisse  all’amico Fritz Gartz il 26 dicembre 2010: “I miei quadri sono piccoli… ma ognuno  è un enigma, ognuno racchiude una poesia, un’atmosfera, un presagio che lei non può trovare in altri quadri. Per me è una gioia terribile averli dipinti – quando li esporrò sarà una rivelazione per il mondo intero”. Molto sicuro di sé, ma a ragione, fu proprio come aveva previsto. Del resto, sono molteplici gli enigmi, le atmosfere, i presagi, delle sue composizioni metafisiche.

“Interno metafisico con paesaggio romantico” , 1968

Ci sono quelli delle piazze deserte, con le arcate e le ombre nette mentre un treno a vapore corre sul fondo e minuscole figure si stagliano nella solitudine di una landa assolata; con la variante della statua di Arianna al centro della piazza, nella desolata tristezza dell’abbandono da parte di Teseo.

Poi gli enigmi dei manichini, figure inquietanti che richiamano le Muse – uno dei quadri più celebri ha questo titolo – come vaticinatori che evocano il ruolo dell’oracolo, con i suoi presagi e i suoi misteri; e anche espressione dell’uomo-macchina di Apollinaire, il poeta sodale di de Chirico, e financo dell’uomo deprivato della propria coscienza razionale, enigma tra i tanti enigmi del mondo.

Ancora, gli enigmi degli interni “ferraresi” e non solo, con l’accozzaglia di righe e squadre da disegno e altri oggetti di uso quotidiano, per non parlare dei biscotti, incomprensibile se non si pensa alle vetrine da lui viste a Ferrara nel periodo militare nel quartiere ebraico, con tutto il retaggio dei suoi studi sulle religioni che lo interessavano forse per il loro contenuto misterico.

“Interno metafisico con testa di Mercurio”, 1969

Non sono enigmi metafisici ma enigmi altrettanto intriganti gli archeologi con il torace ricolmo di ruderi, evidentemente interiorizzati e divenuti parte integrante della loro persona; i “mobili nella valle” all’aperto “impropriamente” in strada, ma ispirati dalla visione spiazzante dei traslochi; e, di converso, le case e gli alberi nelle stanze, altrettanto impropri ma ispirati anch’essi ad evidenze reali, come l’ara monumentale di Pergamo in una sala del Museo di Berlino.

Sia in quest’ultimo caso, sia negli altri, preminente è l’onda di ricordi personali, e di nostalgie, per quanto di Ellade e Grecia antica si è impresso nel suo animo di adolescente, che frequentava un istituto vicino al Museo, visto come raccoglitore di memorie e cimeli: ed ecco la sala con il Palazzo Reale e altri edifici diventare quel raccoglitore di memorie, mentre gli alberi che si vedono nella stanza, che lui chiama “intrusione della natura”, entrano come elementi naturale  nell’intimità quotidiana ed evocano  la vicinanza degli dei agli uomini della mitologia greca; in chiave moderna   ha anticipato “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli che canta “questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti…”.  

“Visione metafisica di New York”, 1975

L’Ellade della sua adolescenza rivive nella Metafisica e nelle altre espressioni criptiche, apparentemente stravaganti, anche se oggi con l’arte contemporanea non ci si stupisce come avveniva al tempo in cui queste opere fecero irruzione nel mondo dell’arte. Percorso, sì, dalle provocazioni delle avanguardie, e dalle altrettanto spiazzanti innovazioni dei cubisti e dei surrealisti, ma quelle di de Chirico sottintendevano significati profondi che non si riusciva a rintracciare e ad individuare.

Proprio questo aspetto lo ha posto al centro di polemiche e aggressioni inqualificabili, come quella del capofila dei surrealisti, Breton, ammiratore della prima Metafisica al punto di chiedere con insistenza un’opera del periodo d’oro, accontentandosi di una copia che, con l’autorizzazione del proprietario, fu dipinta eccezionalmente da de Chirico per esaudire il suo desiderio così acuto; ebbene, questo gesto di benevolenza fu spudoratamente trasformato in falsaria produzione di copie, con la negazione dell’accordo nonostante prove inconfutabili che Benzi nel suo libro documenta. Gli strascichi di questo scontro violento si sono fatti sentire a lungo danneggiando il percorso del Maestro, che ha reagito con la sua proverbiale energia sostenuto anche dagli artisti italiani di Parigi.

Ma c’è poi tutto il filone del classicismo dechirichiano, manifestatosi a più riprese e in varie forme, fino alla paziente copia di dipinti dei grandi maestri rinascimentali, per rifarsi alla radice dell’arte e del culto della bellezza, in un’estensione di temi e soggetti, stili e visioni che non ha eguali.

“Il contemplatore”, 1976

Motivo e valore della svolta del 1919

E’ il centenario della svolta del 1919,  che la mostra intende celebrare insieme al quarantennale della scomparsa del Maestro, con una selezione di opere successive a tale anno, tranne il disegno “L’ebreo errante” del 1917. Prima di passare in rassegna la ricca galleria espositiva, dopo la carrellata sui principali temi evocati cercheremo di rispondere all’interrogativo che sorge spontaneo:  perché abbandonò di colpo la metafisica che aveva avuto e stava avendo tanto successo?

La risposta la troviamo nello scritto intitolato significativamente “L’esploratore”, pubblicato nella fase culminante della pittura metafisica, immediatamente prima del fatidico 1919. Rivela l’intenzione di ricercare “un’arte più completa, più profonda, più complicata”, e paradossalmente “più metafisica”, per arrivare a una “nuova Metafisica”. E si propone di farlo cercando “il demone in ogni cosa”, risalendo all’”origine o originarietà”. Il trasferimento a Roma pochi mesi dopo, con l’immersione nella classicità della città eterna fece sì che questi intenti trovassero uno sbocco nel classicismo, apparentemente antitetico alla Metafisica, ma nella sua mente invece contiguo. Del resto ciò è provato dal fatto che nelle sue composizioni metafisiche ci sono sempre richiami classici evidenti.

“Il figliuol prodigo” , 1974

Nulla di improvvisato né di occasionale, fu un cambiamento profondo pur in una continuità ideale espressa nei motivi metafisici che permangono nelle opere classiciste. E per risalire all’origine dell’arte classica si assoggettava a copiare dal vero, nei musei dove  erano esposte opere di Maestri, in particolare del Rinascimento, cercando di penetrare anche nella tecnica pittorica e nei materiali usati, tanto che per un certo periodo abbandonò l’olio per la tempera “all’antica”. E lo ha anche approfondito nei suoi scritti, che costituiscono un vero giacimento culturale abbinato alla pittura.

“So che il valore di quello che faccio oggi apparirà, presto o tardi, anche ai ciechi”, scriveva il 28 dicembre 1921 a Breton che non solo non riconoscerà il valore della svolta, ma lo boicotterà, come si è accennato, con gran parte dei surrealisti – non tutti – mentre sia pure tardi, il “vaticinio” di de Chirico si è avverato: non viene negato il valore della svolta né la continuità. D’altro canto, anche l’indiscussa Metafisica ebbe le aspre critiche di Roberto Longhi e le sue ironie sul “dio ortopedico”!

La Noel-Johnson afferma: “Nonostante le critiche surrealiste dichiarassero il contrario, de Chirico non abbandonò né tanto meno rinunciò alle sue prime opere metafisiche, ma scelse invece di svilupparle nella direzione di una maggiore riservatezza. Non si trattava di un ripudio, di una reazione o di una rivoluzione, bensì di una rinascita compiuta attraverso la scoperta metafisica”.  E ricorda che nella mostra del 1921, sebbene fosse tutto preso dalla riscoperta dei classici fino a farne copia, presentò sia le pitture metafisiche che le più recenti, compresa la copia del “Tondo Doni” di Michelangelo eseguita nel 1920;  inoltre nel catalogo scrisse: “Il lato metafisico della pittura mi ha sempre preoccupato”. E conclude,  riferendosi in particolare alla stroncatura di Roberto Longhi e alle aspre quanto interessate critiche dei surrealisti: “A cent’anni di distanza, non solo queste critiche appaiono datate, ristrette e superate, ma la cosiddetta arte da museo  e la produzione post-1918 di de Chirico risultano ‘audaci’, fresche e innovative tanto nell’approccio quanto nell’esecuzione”.

Natura morta”, 1930

Il viaggio di de Chirico tra passato e futuro

Un motivo che si può ritenere da un lato alla base della svolta del 1919, dall’altro unificante con la prima Metafisica che la precede, è quello del viaggio. Sia nella vita, per i suoi frequenti trasferimenti tra un paese europeo all’altro – dalla Grecia alla Germania, poi dalla nuova sede in Francia  all’Italia – e da una città italiana all’altra, da Firenze a Milano, fino a Roma con la parentesi di Torino; sia nell’arte, nella quale il viaggio viene evocato spesso, con il sigillo del 1917 nell””Ebreo errante”, rafforzato dalla sua attenzione per l’ebraismo sfociata anche nella metafisica “ferrarese” ispirata alle vetrine del quartiere ebraico con esposti poveri oggetti e i tipici biscotti.

Ma c’è di più, il pensiero di Nietzsche, cui è legata tanta parte della sua visione metafisica, contiene un riferimento preciso all’”eterno ritorno”, dal quale il giovane de Chirico – che lo leggeva nell’originale tedesco – fu molto colpito, e si rafforzerà nella convinzione quando i suoi viaggi si moltiplicheranno. Secondo questa concezione, l’esistenza si ripete in un ciclo infinito, e non potrebbe essere altrimenti data l’incessante trasformazione di materia ed energia.

Ecco il filosofo in “La gaia scienza”: “Questa vita, così come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte… e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione… l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta, e tu con essa…”. L’insegnamento di Nietzsche è “che il tempo non esiste e che sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire”.

Di qui nasce l’interesse per una serie di personaggi mitici, le cui immagini sono presenti nella sua pittura: Giano raffigurato nell’incisione sulla fontana di alcuni dipinti,  simbolo della visione rivolta al  passato e nel contempo al futuro, nato in Tessaglia da cui erano partiti gli Argonauti, simboli del viaggio senza fine; e anche del suo viaggio come di quello di Ulisse e di Ebdomeros – il protagonista del suo romanzo – evocato in due opere in cui naviga nella barchetta all’interno della stanza in moto circolare, simbolo della natura eterna del viaggio, citato in una serie di titoli che incontreremo nella visita alla galleria della mostra.

“Ippolito e compagni”, 1963

Vados, dove nacque de Chirico è in Tessaglia, quindi al motivo mitico di Giano bifronte si aggiunge quello personale in una commistione nostalgica che pervade tutta l’opera del Maestro. La forza della classicità, con la prima parte della formazione ad Atene, non è attenuata dalla circostanza che la sua nascita in quella terra fu, per così dire, casuale trattandosi della sede provvisoria del padre, ingegnere ferroviario che stava lavorando per realizzare la rete in Tessaglia. Troppo forte è stato l’impatto su una mente assetata di conoscenza e su un’anima aperta alla fantasia, come quella del ragazzo, poi adolescente, Giorgio, per non lasciare un segno indelebile, nella vita e poi anche nell’arte, in un itinerario movimentato ma con una costante di fondo: la nostalgia venata di malinconia.   

Il figliuol prodigo, altro tema di più dipinti,  allude specificamente all’unione passato-presente con l’incontro tra il padre, quale statua di pietra o antico gentiluomo, che simboleggia la tradizione e il figlio, manichino metafisico. La Noel-Johnson interpreta così il significato dell’incontro: “L’abbraccio tra padre  e figlio sembra alludere al punto di contatto in cui passato e presente si toccano sulla grande curva dell’eternità nietzschiana, quel cerchio ininterrotto in cui ‘il passato è uguale all’avvenire’ ed è costruito da ‘flussi e riflussi, partenze e ritorni e rinascite’”. Nello specifico della visione dechirichiana, “in questo senso, la scena del ritorno del figliuol prodigo pare simboleggiare l’abbraccio armonioso, da parte di de Chirico, del passato (i grandi maestri) e del presente (la pittura metafisica)”: quindi  non va interpretato come ideale passaggio di consegne da una fase (metafisica) all’altra (classicismo) della propria espressione artistica ma, aggiungiamo noi, come la loro stretta unione  per  dimostrarne la complementarità e la continuità.

“Ritratto femminile”, 1921

L’unione tra passato e presente, lo “straniamento”

Nelle opere di de Chirico, in particolare in quelle metafisiche, è frequente l’accostamento di retaggi del passato, come templi e ruderi, a oggetti del presente nella loro semplice quotidianità. Ci troviamo di fronte al “dépaysement”, lo “straniamento” dato dalle  combinazioni singolari di oggetti avulsi dal contesto in cui sono collocati.

A fronte di tutto questo, va considerata la sua ricerca nell’arte e nella cultura classica per interpretare il mondo moderno con l’apporto del sapere sedimentato nei secoli. E’ un  contesto nel quale si inserisce il suo impegno nel fare copie di opere dei grandi artisti del passato per studiarli a fondo e cercare di carpirne i segreti. L’interesse per il passato nella propria produzione artistica scatta nel 1919, e diventa una costante fino alla Neometafisica dell’ultimo decennio della sua vita;  in fondo un ritorno personale trattandosi di opere che ricalcano quelle della prima Metafisica.

Sulle opere ispirate invece ai più celebri artisti del passato e, in particolare, sulle copie dai dipinti originali, va sottolineata l’evoluzione nel tempo, in quanto si differenziano da quelle del periodo iniziale sia nella scelta del soggetto, sia nell’approccio alla copia: ”Ora l’artista sceglieva di rielaborare particolari – spiega la Noel-Johnson –  o di includere specifici motivi tratti da dipinti dei grandi maestri riprodotti in fonti secondarie… anziché lavorare direttamente sull’originale”.

In sostanza, faceva  rielaborazioni simili o molto vicine a un dettaglio dell’originale, oppure inseriva motivi dei Maestri del passato in un diverso contesto ambientale; o si sbizzarriva negli Autoritratti, in particolare in quelli in costume  del ‘600 o del ‘700 considerati una “novità nel campo del ritratto”.

“Testa di fanciulla da Perugino”, 1921

Le rielaborazioni non vanno considerate imitazioni a cui è ricorso avendo perduto la vena creativa della prima Metafisica, dato che è sempre stato una fucina di idee e di invenzioni; riflettono piuttosto il depaysement . lo “straniamento” cui si è già accennato.  E l’interesse per i classici non  porta a ripudiare, bensì a sviluppare le opere precedenti; anzi, “tanto le realizzazioni artistiche, quanto i suoi scritti  critico-teorici esprimono in maniera costante il desiderio di portare avanti la grande tradizione pittorica ed entrare  a far parte della storia dell’arte”.

Sono parole della Noel-Johnson che, con la citazione di Ingres entra nel campo controverso dell’imitazione: “Quando vi ordino di copiare i grandi maestri, credete che voglia fare di voi degli imitatori servili e dei copisti? No, voglio che prendiate il succo della pianta per viverne”. Risultato, “tradurre la verità della grande tradizione dell’arte”. De Chirico, invece, “cercava di sottoporla  a una ‘trasfigurazione misteriosa’”, non ricercando l’originalità e l’innovazione  come le avanguardie dai surrealisti ai dadaisti, ma l’“originarietà – un’emozione  primordiale ricorrente legata all’origine della creazione artistica… presente in tutta la produzione dell’artista”. Mentre l’originalità vuol dire,  secondo Nietzsche, “non l’essere i primi a vedere qualcosa di nuovo, ma vedere come nuovo ciò che è conosciuto da sempre e, in quanto tale, visto e trascurato da tutti”. E, secondo de Chirico, ciò che qualifica l’opera d’arte è il fatto che “sarà sempre qualcosa di nuovo che l’artista avrà fatto uscire dal niente, qualcosa che prima non esisteva”.

Il problema dell’imitazione e della copia ha suscitato negli anni le polemiche più vivaci, dato che de Chirico vi ha fatto ampio ricorso, né si può liquidare con poche parole. Ci sembrano fornire un’interpretazione autentica le dichiarazioni da lui rese in un’ intervista all’“Europeo” il 30 aprile 1970: “La copia che riproduce e interpreti bene un’opera d’arte può anche essere un’opera d’arte, perché la copia, se è fatta bene, per quanto copia, è un’opera d’arte per forza, non può essere altrimenti”; e ancor più direttamente: “La copia di un’opera di de Chirico, se fosse fatta bene, sarebbe una buona copia della mia opera. Diversa è la questione dei falsi”. Alla base di tutto c’è l’“originarietà” e l’impiego del dépaysement. Non resta che concludere: ”Così è, se vi pare”…

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“”‘Frontespizio’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli”, 1922

Dalla “Metafisica continua” alla “Classicità continua”

Una notazione finale sul motivo di fondo della mostra, “Metafisica continua”. Indubbiamente è una costante che ritroviamo nelle fasi classiciste, come un sigillo, a marcarne la persistenza pur nelle notevoli differenze di stile e di contenuto. Però ci sembra che avvenga anche il reciproco, nelle opere metafisiche, dalla prima ai “ritorni di fiamma”,  non mancano riferimenti classici, anche qui elementi di varia natura, altrettanti  sigilli che l’artista vuol lasciare per sé, prima che per gli altri.

E allora, se i segni metafisici lasciati pur nelle opere classiciste hanno fatto parlare di “Metafisica continua”, ci sembra che altrettanto possa dirsi per i segni classicisti, per cui ci sentiamo di  dire che ci troviamo di fronte anche ad una “Classicità continua”. Così le due forti spinte interiori del Maestro possono congiungersi in un binomio indissolubile, e compenetrarsi nella visione della sua figura, che s’innalza sempre più nell’Olimpo dell’arte di tutti i tempi. Anche perché la sua “Metafisica continua”  unita alla sua “Classicità continua” dà luogo a una miscela tale da aver contagiato i contemporanei, pur così diversi, come dimostra la parallela mostra di Torino.

Concludiamo con il messaggio finale della curatrice Noel-Johnson: “Questo Zeusi novecentesco ci invita a seguirlo come ‘esploratori pronti per altre partenze’, in un viaggio infinito di sorpresa, scoperta e rivelazione metafisica”. Lo traduciamo nell’invito a visitare la mostra, racconteremo prossimamente la galleria delle 6 sezioni espositive.

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“‘Conversazione misteriosa’, illustrazione per
‘Mythologie di Jean Cocteau”, 1934

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di Victoria Noel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa, e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che dopo l’articolo attuale e quello del 18, terminerà con il terzo articolo del 22 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010  a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e sulla mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Per gli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com sui Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it su “Dada e surrealisti” 6, 7 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le diverse sezioni della mostra commentate in modo specifico nei due articoli successivi. In apertura, “Ettore e Andromaca” 1970; seguono, “”Piazza d’Italia con piedistallo vuoto” 1955, e “Piazza d’Italia con fontana” 1969; poi, “Interno metafisico con paesaggio romantico” 1968, e “Interno metafisico con testa di Mercurio” 1969; quindi, “Visione metafisica di New York”” 1975, e “Il contemplatore” 1976; inoltre, “Il figliuol prodigo” 1974, e “Natura morta” 1930; ancora, “Ippolito e compagni” 1963, e “Ritratto femminile” 1921; continua, “Testa di fanciulla da Perugino” 1921, e “‘Frontespizio’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli” 1922; infine, “‘Conversazione misteriosa’, illustrazione per ‘Mythologie di Jean Cocteau” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto con corazza” 1948.

“Autoritratto con corazza“, 1948

De Chirico, trilogia I – 7. Neometafisica e pittura antica, termina il “Film” di Fabio Benzi

di Romano Maria Levante

La 7^ e ultima  puntata del  “Film” di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera” – così definito da noi  anche per le immagini che come “fotogrammi” accompagnano l’accurata ricostruzione del monumentale libro  – è il coronamento di una storia movimentata e appassionante, anche per come è ricostruita e scritta: non solo un saggio molto ben documentato ma il “Film della mia vita”, direbbe il Maestro. Dal punto di vista esistenziale, i molti trasferimenti e viaggi in Europa e in America, con le due guerre, e dal punto di vista artistico l’evoluzione  e i ritorni dalla prima Metafisica con la variante “ferrarese” al  classicismo e  “romanticismo”, dal surrealismo all’aspra rottura con il suo alfiere e l’approdo al classicismo mediterraneo con gli archeologi e i gladiatori, poi  il teatro e le nuove forme di classicismo moderno fino alla Metafisica del mondo nuovo e il periodo della guerra.

“Piazza d’Italia” , 1926-27 ca.

Per comprendere appieno l’arte di de Chirico e interpretare le vicende non solo artistiche in cui è stato coinvolto, va ricordata la sua vena di letterato attento, con cui  teorizzava le proprie creazioni, quindi entrando nel vivo del dibattito tra i critici, lui artista; e la vena di polemista agguerrito, ironico e graffiante.

La “ripetizione differente” della prima Metafisica

Nella vicenda delle repliche della sua prima Metafisica, dopo quanto abbiamo già ricordato in precedenza, ci sono ulteriori sviluppi nei decenni successivi. Ripetiamo che inizia nel 1924 con la replica di “Le Muse inquietanti” , per Breton, il capofila dei surrealisti che insisteva nella richiesta  apprezzando molto la Metafisica, pur negandolo poi, in una ritrattazione su cui si basò per attaccare violentemente il Maestro con l’accusa di falso quando lasciò la Metafisica per il Classicismo. Fu la prima replica identica,  anche se “con una materia più bella e una tecnica più conforme”;  prima  era tornato su temi consueti con dipinti che replicavano titoli come “Il figliuol prodigo” e “Trovatore”, “Il filosofo” ed “Ettore ed Andromaca”, ma  del tutto rielaborati; seguono, negli anni ’20,  poche  altre varianti di soggetti metafisici.

Intanto la feroce polemica con Breton,  che lo definiva “un morto che copia se stesso” gli diede un ulteriore stimolo per la svolta classicista – condannata dall’alfiere del surrealismo sebbene avesse aspetti surrealisti – in cui entravano il sogno e l’inconscio in una visione moderna con tracce di tecnica “all’antica”.

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“Il figliol prodigo”, 1922

“Poi, dopo la terribile crisi economica del 1929, quando il mercato si fa rarefatto e l’artista non vende più la quantità di dipinti che fino a quel momento gli era stata richiesta (e che persino faticava a soddisfare) probabilmente ritorna a meditare sulla convenienza di rifare i suoi dipinti metafisici, che avevano comunque un mercato più attivo”.  Sono parole di Benzi, ad ulteriore dimostrazione che la ricostruzione dell’esponente della Fondazione Giorgio e  Isa de Chirico è totalmente fedele e per nulla edulcorata nel punto forse più controverso di una storia gloriosa.

Ma precisa subito che alla base c’era “la convinzione di farli ‘meglio di allora’, perché considerava che nel frattempo la sua abilità pittorica si era affinata”. E non poteva essere altrimenti dato che alla creazione della prima Metafisica, con “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”,  aveva solo 22 anni. Una prova che mancava qualunque intento mistificatorio è  data dal fatto che utilizzava la tecnica corrente al momento della replica, quindi riconoscibilissima per la differenza con quella degli anni ’10.  C’era in tutto questo una sfida ai critici e ai collezionisti rimasti legati a un’epoca passata, quasi per una sorta di “feticismo” artistico, con il suo temperamento polemico, pronto allo scontro. D’altra parte, anche suoi contemporanei facevano la stessa cosa, Mario Sironi con retrodatazioni e postdatazioni, in un vero “labirinto cronologico”, poi negli anni ’40 e ’50  anche Carrà e Severini.

Le repliche di de Chirico dei primi anni ’30  sono reinterpretazioni molto difformi, come  “Ricordi d’Italia”, “L’ouef dans la rue” e “La téte en platre” in una inedita quanto originale visione cinematografica, a parte i titoli anch’essi del tutto nuovi.  Tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, il suo ritorno alla “pittura antica” lo porta ai primi “rifacimenti mimetici”, pur se ben distinguibili dagli originali, con delle prime retrodatazioni.  Sempre Benzi lo spiega, nella sua consueta franchezza,  con le difficoltà economiche intervenute a causa della  guerra, che provocarono il trasferimento da Parigi a Milano con la moglie ebrea, che “devono averlo indotto  a una piccola produzione ‘metafisica’, di facile  immediata commercializzazione, per assicurarsi una protezione economica in vista di ulteriori avversità”.

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“Ettore e Andromeda””, 1924

Questa produzione marginale e occasionale divenne rilevante come reazione di uno spirito quanto mai agguerrito e pronto a raccogliere la sfida, non solo a livello di polemica, allorché nel 1948, alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra, alla mostra sulla Metafisica i suoi aspri detrattori Carrà  e il critico Longhi membri del  Comitato organizzatore, ignorarono totalmente lui che ne era il padre, ed esposero come unica sua opera  “Malinconia torinese”, 1939 datato 1915, un falso.

“Di fronte a tale tentativo di deprivazione di un primato oggettivo – afferma Benzi – de Chirico risponde moltiplicando le immagini delle piazze metafisiche, inaugurandone  una produzione vasta e distinta dal suo stile attuale; quadri che attestano caparbiamente, con la loro diffusione, l’identificazione dell’artista con la ‘sua’  Metafisica, anche in senso mediatico”. Realizzati con una diversa tecnica, nella loro  datazione erratica, a parte la reazione polemica che non giustificherebbe la persistenza, vogliono anche, e forse soprattutto, dare corpo all’idea di “un’arte assoluta fuori dal tempo”, in linea con il pensiero di Nietzsche, della “contemporaneità, o meglio atemporalità dell’arte”. L’“eterno ritorno”  come araba fenice, in questo caso di de Chirico,  lo testimonia Andy Warhol che fa della Metafisica, in particolare delle “Piazze d’Italia” con “Arianna”, una versione da Pop Art, con una riproduzione fedele a immagini quadruplicate nel suo modo inconfondibile. 

La “ripetizione differente” della Metafisica accompagna l’altra sua produzione, rivolta all’antico.

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“La téte en platre” 1935 ca.

Il ritorno all’antico nel gusto seicentesco di una nuova Arcadia

Nella sua impostazione dagli anni ’30 in poi la tecnica pittorica, come si è accennato, prevale sui contenuti, la “bella pittura” è senza tempo, quindi  anche moderna, come la Metafisica nelle sue riprese tardive.  Poiché le avanguardie, e in particolare i surrealisti, avversavano tale concezione, il suo spirito polemico lo portava a insistere pervicacemente e portarla alle estreme conseguenze con le repliche delle opere degli antichi Maestri, considerate fuori dal tempo, cita Rubens e Velasquez, Ribera e Il Greco, Goya e Delacroix. In questo ha un alleato inatteso, Picasso, che si ispira ai pittori del passato anche con rifacimenti, nella sua critica ai moderni lo salva, pur se è molto diverso da lui.

Quindi le sue opere sono “immagini di pura fantasia pittorica, in cui la realtà non trova alcun interesse o riscontro, salvo che nei ritratti”, il mito viene evocato per il suo valore universale, eterno. Vediamo “Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo” e “Cavalli spaventati dopo la batttglia”, del 1945,  scene di massa nelle quali ci sembra di riscontrare quanto osserva Briganti sulla posizione di de Chirico che declama sulla “bella pittura” mentre invece “la materia è viscida, morta, confusa, la pennellata imprecisa, il disegno sempre accademico, ma sempre manierato e casuale”. Un altro fronte si apre al combattivo Maestro, non più sulla svolta classicista e sulle repliche metafisiche, bensì sul tema a cui teneva molto, la tecnica pittorica sopra ogni altra cosa.

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“Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo”, 1945 ca.

E’ “un leone costretto nell’arena” che si difende con “una derivazione quasi duchampiana, ma in realtà una preconizzazione di oltre vent’anni dell’arte concettuale”. Lo afferma Benzi che spiega: “E’ proprio questo l’ultimo paradosso polemico di de Chirico, genio cattivo e sublime, surreale e dadaista ante litteram, polemista  a oltranza, che spesso dichiara il contrario di ciò che realmente intende”. Con una precisazione molto significativa: “E forse tutto il periodo di resistenza alle  avanguardie del secondo dopoguerra andrà interpretato in questo senso, in un senso assolutamente dadaista assai conforme al suo carattere, che ha sempre nascosto, più che svelato i suoi più profondi motivi ispiratori”. 

Le pitture seicentesche e gli “Autoritratti” in costume di varie epoche, come le scene mitologiche e i decori sono una pittura che “rende immobile il tempo”; ma in quanto osteggiate ferocemente dalle avanguardie, “divengono paradossalmente un mezzo usato per oltraggiare e irritare i suoi avversari”, che non sanno leggere la trama “al rovescio” della sua opera.

Una pittura di “antiavanguardia” di chi “l’avanguardia l’aveva davvero inventata, influenzando del resto buona parte dell’arte di questo secolo”, come per Picabia, tanto che il neobarocco, nato come approdo del Classicismo, “negli anni cinquanta e sessanta diviene addirittura una bandiera, un atto di esplicito disprezzo per chi lo disprezzava: il mito immanente si trasformava così in mitologia classica, atemporale, contrapposta alla contingenza e mancanza di miti dell’arte contemporanea”. Sono parole di Benzi sulla sofferta polemica, nell’arte e nella vita, tra de Chirico e i suoi detrattori.

“Trovatore”, 1948

“Vita silente” e barocco, nella persecuzione dei falsi

Abbiamo accennato alle traversie del periodo bellico con i trasferimenti  insieme alla moglie ebrea,  fonte di preoccupazioni. Nell’arte abbiamo visto l’accostamento agli antichi Maestri per i motivi anzidetti, ai quali si aggiunge l’evasione in un mondo arcadico: si interessa alla “natura morta”, che chiama “vita silente” nel modo tedesco e anglosassone, com’è anche nella sua essenza pittorica espressa da forma e volume senza scosse, a parte la mano umana  che può muovere  le vite silenziose e lo fa nei suoi dipinti intimi anch’essi al di fuori del tempo e degli eventi. Vediamo“Natura morta con pomodoretti”, del 1948, e “Vita silente (frutta di paese)”, del 1955-56,  non si notano i 7-8 anni che li separano, stesso cromatismo neutro, e analoga forma compositiva con i piccoli pomodori, uva e pomi al centro, altra frutta sparsa a terra, alberi ed edifici di varia grandezza nello sfondo; mentre “Vita silente di oggetti su un tavolo”, del 1959, rappresenta in un interno una tavola imbandita con pane, posate e frutta, due vasi e un busto antico in grande evidenza. 

Il ritorno a Roma nel dopoguerra diviene definitivo, si stabilisce in un bel palazzo a Piazza di Spagna, l’attuale Casa Museo con la sede della Fondazione:  ha 60 anni,  nella città eterna oltre alle antichità c’è il barocco, l’ambiente ideale per le sue reminiscenze classiche e il suo nuovo orientamento pittorico. Arrivano i riconoscimenti internazionali, tra gli altri viene nominato nel 1948 Accademico della Royal Society of British Artists, nel 1974 Accademico di Francia, nel 1975 riceve la croce di Grande Ufficiale della Repubblica Federale Tedesca.

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“Autoritratto in costume nero”, 1948

Ma non si placa la sua vis polemica che dirige verso l’arte moderna,  e in particolare verso le  avanguardie, mentre si difende dagli attacchi alla sua figura di artista iniziati da Breton con il sodale Soby  che ne hanno contestato alla radice il valore definendolo addirittura “un morto che imita se stesso”, dopo che le falsità sulla duplicazione delle “Muse inquietanti” si sono diffuse a macchia d’olio.  La miglior difesa è l’attacco, si dice, però in qualche caso de Chirico non riesce a frenare il suo temperamento e va sopra le righe, se Benzi arriva a dire che “non sempre le sue affermazioni sono efficaci, anzi, lo sbilanciamento fa nettamente slittare le sue considerazioni sul recupero della tradizione su una piattaforma di conservatorismo oltranzista, apparentemente vieto e rétro”.

E’ obiettivo e non di parte l’autore, come di consueto, e ne dà subito l’immancabile spiegazione aggiungendo trattarsi di una posizione “che possiamo sì comprendere psicologicamente, dato l’accerchiamento su più fronti che deve subire, ma dà vita anche, talvolta, a operazioni di respiro polemico inevitabilmente marginale”. Una di queste è l’“Antibiennale” del 1950, come reazione alla Biennale del 1948 in cui era stato ignorato per di più con la presentazione di un falso dipinto  metafisico; la sua personale veneziana con altri artisti fece scandalo per lo slogan dadaista “Biennale a fuoco” che riecheggiava quello futurista iconoclasta dei musei, e poteva essere preso come vero allarme.

Riesplode la questione dei falsi, con de Chirico ancora una volta all’attacco anche sul piano legale, ma in modo tardivo perché con la sua vita girovaga non aveva potuto accorgersi che ormai i falsi dilagavano.  Lo dimostra il fatto che è del 1967 il suo Rapporto al capo della Polizia in cui fa risalire al  l926-30 l’inizio delle falsificazioni che potrebbe addirittura essere datato al 1921-22, con l’acquisto a prezzo irrisorio, dopo che aveva lasciato Parigi, da parte di Breton dei suoi lavori rimasti nell’atelier incompiuti e poi fatti terminare da altri per venderli. Analogamente a quanto era avvenuto,  lo ha sottolineato lo stesso de Chirico, ai danni di Rousseau “il doganiere”, come abbiamo già ricordato ripercorrendo l’accurata ricostruzione di Benzi. 

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“Natura morta con pomodoretti”, 1948

L’entità del fenomeno appare evidente nella sua dimensione se si pensa che alla mostra parigina del 1946 alla Galerie Allard, su 28 dipinti esposti ve n’erano 20 metafisici falsi, opera del surrealista Oscar Dominguez amico di Breton, di cui vediamo il manichino di “Trovatore” falso, e l’improbabile “Télephone et revolver” altrettanto falso; come era opera di un falsario sconosciuto “Cavalli selvaggi (The Folly of Horses)”, esposto  l’anno successivo alla mostra di de Chirico a New York nel 1947. La dichiarazione di de Chirico secondo cui i 20 quadri presentati a Parigi erano falsi prima non fu presa sul serio, poi fu ribaltata contro di lui come se li avesse fatti falsificare per poi ricattare la galleria minacciando di rivelarne la falsità.

Non si limita alla pittura metafisica l’azione dei falsari, investe anche le opere più recenti, come quelle esposte alla mostra del 1946 a New York, dove erano state spedite quelle autentiche, poi sostituite dai falsari durante il viaggio; il mistero non fu chiarito, ma l’organizzatore Bellini dubitò anche di de Chirico. L’artista, per il  falso esposto alla Biennale di Venezia del 1948, fu accusato da Breton addirittura di non riconoscere artatamente le proprie opere  dichiarando false anche quelle autentiche. Un attacco volgare, cui non fu estraneo Soby – il critico americano vicino a Breton – il quale però si ricredette, tanto che negli anni ’70 confessò a Schmied: “Dovremmo fare attenzione a cosa de Chirico stesso ha detto: nei casi in cui dichiara falso un quadro a lui attribuito, ha generalmente ragione”.

Sembrerebbe un’ovvietà, ma nel clima avvelenato da sospetti reciproci questa ammissione di uno degli “untori” è rivelatrice. Tra l’altro, l’ammirevole obiettività di Benzi non nasconde nulla di quelle intricate vicende, arrivando a dire: “Va tuttavia notato che un circoscritto numero di opere autentiche e documentabili come tali vengono dichiarate false dall’artista”. Aveva ragione Breton ed era sbagliato il ripensamento di Soby? No, l’autore lo spiega almeno per alcune opere: “L’appartenenza originaria a un nemico mortale come Breton potrebbe inoltre aver causato di per sé una vendetta personale, anche a scapito di un’opera da lui concepita e dipinta (del resto Breton non si era comportato con più limpida moralità nei suoi confronti)”.  Per il resto “forse, nell’impotenza che sentiva di fronte  a un’ostilità generale, questo gli sarà parso l’unico strumento che gli era rimasto per regolare conti segreti”.  D’altra parte, era così assediato dai falsi che ricorse alle autentiche notarili, esse stesse inquinate dalle possibili alterazioni da parte dei falsari della sua attestazione come dalla certificazione notarile: una persecuzione che lo ha segnato profondamente.

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“Cavallo bianco nel bosco (Arione))”, 1948

La conclusione della storia infinita di de Chirico con l’eterno ritorno

Ma lasciamo queste miserie ed ammiriamo la bellezza delle sue opere barocche, dal “Cavallo bianco nel bosco (Arione)”  del 1948, ad “Angelica e Ruggero” del 1950, nelle loro rotondità ridondanti; per i paesaggi, dal “Paese con cavaliere e contadini” a “Venezia – Ponte di Rialto” e “Venezia (Isola di San Giorgio)”, della metà degli anni ’50,  nel cromatismo neutro di questo periodo, ravvivato dalla rossa fioritura in primo piano nell’“Isola con ghirlanda di fiori” del 1969.  Alla precisione calligrafica è unita  una  morbidezza nella linea oltre che nei colori, la stessa che si nota in “Lo sbarco di Alessandro”, del 1959-62, oltre che negli “Autoritratti” in costume.

Il  “Film” della vita e dell’opera di de Chirico entra nell’ultimo decennio, gli anni ’70  con dei prodromi negli anni ’60, soprattutto nella seconda metà. Dopo tante invenzioni e svolte pittoriche e tanti cambiamenti di residenza, si potrebbe pensare che si adagiasse sugli allori, anche se cosparsi di spine, di un’esistenza per molti versi tormentata ma gloriosa, anche per l’esaurimento dello spirito creativo.  Ma ancora una volta il Maestro non manca di sorprendere con la sua vitalità artistica.

Le suggestioni nostalgiche hanno la meglio sulla vis polemica che aveva utilizzato la pittura neobarocca come risposta provocatrice agli attacchi inusitati dei surrealisti e delle avanguardie, proprio perché totalmente alternativa rispetto alle nuove tendenze, ancora più del classicismo abbracciato dopo l’abbandono della prima Metafisica e così aspramente combattuto.  Invece di accanirsi in quella che Benzi definisce “battaglia neodadaista”, abbandona lo strumento pittorico che utilizzava quale arma impropria per seguire l’ispirazione, “qualcosa di nuovo, anzi d’antico” per dirla con Pascoli. Di nuovo c’è l’atteggiamento, l’animus con cui si abbandona al nuovo corso, e la tecnica pittorica,  d’antico la forma espressiva con il ritorno alla Metafisica.

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“Il trovatore stanco”, 1960

Ma non è una semplice ripresa più o meno fedele di quei temi, e tanto meno una replica, è un ciclo totalmente nuovo con l’atteggiamento non più ansioso e quasi sgomento dinanzi all’imponderabile metafisico, bensì sereno, al punto che la definizione di  “Neometafisica” è stata qualificata nella mostra a Campobasso del 2017 come “gioiosa Neometafisica”.

“Anche il tessuto pittorico si fa più chiaro e più magro, leggero, dimenticando le paste lavorate e spesse del periodo ‘barocco’ – precisa Benzi – aggiungendo che “stesure di colore quasi trasparente velano le tele con una modernità e velocità di campitura che ricorda la pittura degli anni sessanta”. E cita i suoi contemporanei, dalla Scuola romana di Piazza del Popolo di Schifano e Festa, a Warhol, che abbiamo ricordato per l’opera celebrativa dei “Bagni misteriosi” espressa in multipli; e anche “l’epoca degli anni venti parigini. Una luminescenza quasi perlacea alona i nuovi dipinti”, anche qui qualcosa di nuovo e d’antico, ma non il ritorno alla “tempera” dei Maestri classici che lo aveva appassionato nella prima svolta.

Questa nuova svolta non è indolore, e ciò dimostra la convinzione, anzi l’accanimento con cui l’ha intrapresa. Infatti gli costa 60 milioni di lire di allora, corrispondenti a 700.000 euro odierni, tale fu la penale pagata alla Galleria dei Russo, la “Barcaccia”, con cui aveva un impegno vincolante di fornire ogni mese 2 dipinti – anzi, erano 3 prima del 1964 –  oltre ad alcuni acquerelli, impegno che non si sentiva più di rispettare avendo ripudiato lo stile neobarocco; mentre si impegnò con il mercante milanese Bruno Grossetti per 25 dipinti delle “Piazze d’Italia”,  ne fornirà 18.

“Il rimorso di Oreste”, 1969

Dunque, tornano le “Piazze d’Italia”, ma in forme nuove come “Il grande gioco (Piazze d’Italia)”, del 1971, con la sorpresa delle squadre da disegno ”ferraresi” in primo piano, anticipate in “Interno metafisico con profilo di statua” del 1962 e in “Interno metafisico con mano di David”, del 1968,  nel quale una finestra si apre su due casette all’esterno, ne compare un gran numero in “Figure sulla città” ai limiti di una piazza con i passanti soli o  a coppie in formato lillipuziano, mentre  due uomini giganteschi in vestito e cravatta, novelli Gulliver, dominano la scena.

Tornano anche i “manichini”, come in “Orfeo, il trovatore stanco” e “La tristezza della primavera”, del 1970, ammorbiditi e umanizzati soprattutto nel precedente  “Il ritorno di Oreste”,  del 1969, con l’innovativa  ombra segmentata come le sagome di “Il ritorno al castello avito” e “Battaglia sul ponte” dello stesso 1969.   Segmentazione che corrisponde alla raggiera con cui illustrò la copertina di “Calligrammes” di Apollinaire, il poeta suo mentore, e altre parti come “Le vigneron champenois”, prendendo l’idea addirittura da un ventilatore della Marelli. Si era nel 1930, la raggiera è diventata, dopo quarant’anni, il nuovo sole con la sua ombra, la seghettatura scura, in “Tempo del sole”, Interno metafisico con sole spento” e “Spettacolo misterioso”, tutti del 1971: nuovo e antico ancora compresenti nell’ispirazione e nella rappresentazione.

Non mancano neppure i templi, come in “Termopili”, del 1971, e i busti classici apollinei, come in “Il mistero di Manhattan” e “Muse della lirica”, del 1973, il primo con la vista dei grattacieli, il secondo con squadre da disegno e teste di legno da manichino, tutti tra due tende da sipario teatrale.

A questi elementi caratteristici delle fasi metafisiche, la prima e quella “ferrarese”,  se ne aggiungono altri, come in “Il meditatore”, del 1971, più avviluppato di un archeologo, e “Testa di un animale misterioso”, del 1975, composta di templi e rovine come mai in forma così invasiva.

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“Il ritorno al castello avito”,1969

The End, il senso della vita di de Chirico nella metafora finale

De Chirico pesca nella galleria inesauribile dei temi delle sue creazioni, come faceva Picasso, “componendoli, smontandoli e ricomponendoli con un senso di gioco sostenuto dalla certezza della propria strada. Le immagini che aveva inventato diventano un repertorio cui attingere con lo scanzonato vigore di un creatore che fa i conti con la vita che termina”,  entrando “paradossalmente in dialogo  con la visione ‘post-moderna’” in cui ricomporre “elementi del passato sedimentati nella memoria e nella cultura”.

A questa interpretazione di Benzi facciamo seguire quella di Maurizio Calvesi: “I suoi personaggi, i suoi manichini, i suoi oggetti, le sue architetture sono in realtà divenuti giocattoli e il senso del gioco – che pure era già segretamente latente in qualche angolo della prima Metafisica – trionfa ora come chiave creativa del tutto nuova, vitalizzata da un’assoluta coscienza di libertà  e dominio sul proprio mondo poetico e perfino psichico, da cui non è più sopraffatto ma di cui diviene  il disincantato regista; o se si vuole il burattinaio di una recita ricca di sorprese; il prestidigitatore di segreti ben conosciuti”, Un’altra notazione di Benzi completa il quadro: “Ma ciò che emerge più chiaramente, da quelle scene di ambiguità sottile e indecifrabile, è il non-senso della vita, e il gioco (se di gioco si tratta) nasconde una melanconia cosmica, profonda, oscura quanto, in fondo, stoica e serena”.

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“Orfeo, il trovatore stanco”, 1970

La metafora  di tutto questo  viene trovata nei dipinti “Il ritorno di Ulisse” del 1968, e cinque anni dopo nel consimile “Ritorno di Ebdomeros” , 1973, ai quali ben si adattano le parole di Benzi: “Il mito torna ad animare con vivacità le scene di quei quadri, che sono visioni fortemente autobiografiche, e che proprio in questa chiave riprendono giocosamente spunti dello stile che egli stesso aveva inventato”. Nel primo, il viaggiatore de Chirico,  impersonato nell’eroe omerico,  ormai vecchio immagina di viaggiare ancora, come in tutta la sua vita,  remando su una barchetta nella propria stanza con nella parete sinistra un quadro della sua metafisica, nella destra una finestra con vista su un tempio della sua Ellade e dietro una porta socchiusa il buio dell’Ade; nel secondo, il tempio greco è addirittura dentro la stanza, e la visione è più serena, invece della porta socchiusa sul buio una tenda azzurra, invece della piccola sedia un comodo divano, dalla finestra si vede il mare. “Alla fine – commenta Benzi – il grande mare della vita appare piccolo come un tappeto, e tutto il percorso pieno di avventure, pericoli e conoscenze non ha maggiore dimensione e significato di un viaggio in una stanza. Il mito conclude il senso di una vicenda che col mito era iniziata”.

Così si conclude anche la nostra rivisitazione dello straordinario artista  e protagonista del ‘900,  Giorgio de Chirico, in quello che abbiamo chiamato “Il  Film della mia vita” dal grande libro di  Fabio Benzi, nelle 7 puntate dell’immaginaria “fiction” in cui abbiamo diviso la prima parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale dalla scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. Seguiranno le altre due parti dedicate alla mostra di Genova sul “Volto della Metafisica” e di Torino sul “Ritorno al futuro”.

L’imponente lavoro di Benzi si è tradotto in “un’essenziale’, ‘chiara’ e ‘verificata’ esposizione”, come sottolinea il presidente della Fondazione Paolo Picozza, che ha il merito di aver dissipato tanti misteri e decifrato tanti enigmi della vita e dell’opera del Maestro. Una pietra miliare preziosa e insostituibile. 

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“Spettacolo misterioso”, 1971

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: con questo articolo sul libro di Benzi, dopo quelli dei giorni 3, 5, 7, 9, 11, 13, si conclude la I parte della trilogia; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – usciranno il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2014, Warhol 15, 22 settembre 2014, Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009; guidaconsumatore.fotografia, Schifano 15 novembre 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Piazza d’Italia” 1926-27 ca.; seguono, “Il figliol prodigo” 1922, e “Ettore e Andromeda” 1924; poi, “La téte en platre” 1935 ca. e “Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo” 1945 ca.; quindi, “Trovatore” e “Autoritratto in costume nero” 1948; inoltre, “Natura morta con pomodoretti” e “Cavallo bianco nel bosco (Arione))” 1948; ancora, “Il trovatore stanco” 1960, e “Il rimorso di Oreste” 1969; continua, “”Il ritorno al castello avito” 1969, e “Orfeo, il trovatore stanco” 1970; infine, “Spettacolo misterioso” 1971 e, in chiusura, “Ritorno di Ebdomeros” 1973.

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Ritorno di Ebdomeros”, 1973

De Chirico, trilogia I – 6. L’eterno ritorno, nuovo classicismo e nuova Metafisica

di Romano Maria Levante

Siamo alla 6^ e penultima puntata di quello che, per la spettacolarità unita al rigore,  abbiamo chiamato il “Film” di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”. Le precedenti 5 puntate hanno ripercorso la sua vita tra Grecia e Monaco,  Milano  e Parigi, Roma, Torino e Firenze, poi ancora Parigi; e l’arte,  dalla Metafisica originaria a quella “ferrarese”, dal classicismo e  “romanticismo” al surrealismo, la rottura con Breton e il classicismo mediterraneo con gli archeologi e i gladiatori. La nostra “fiction” ideale prosegue con le nuove forme di classicismo moderno fino alla Metafisica del mondo nuovo e il periodo della guerra.

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Una nuova sorpresa, delle tante che risvegliano di continuo l’interesse, facendo superare la complessità e il senso di appagamento che suscita una vicenda artistica e umana interminabile: spunta una nuova idea di classicismo moderno, dopo l’esaltazione classicista del 1919, con l’abdicazione dalla Metafisica di cui con la “trilogia dechirichiana” si celebra il centenario.

Questa idea viene dall’interesse per Renoir, che nasce sin dal “ritorno all’ordine” del 1920, all’insegna del classicismo per i volumi  rotondi espressi nelle “Bagnanti”. Poi si acuisce quando Waldemar George – sostenitore di de Chirico con gli  “Italiens de Paris” di cui era critico e difensore – nel 1929, in una mostra della collezione di Guillaume, altro personaggio vicino a de Chirico, presenta una lettura del pittore francese distaccatosi dall’impressionismo, che lo considera d’avanguardia con una “pittura di tradizione”. Renoir era considerato colui che rinnovava i valori antichi nella direzione di Derain, Braque e Picasso nelle loro espressioni neoclassiche, in alternativa alla linea che attribuiva il rinnovamento a Cézanne, artefice degli sviluppi dell’arte moderna.

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“San Juan les Pins”, 1930

 Non è soltanto un interesse critico, sebbene de Chirico si esprimesse anche su questo piano, ma un diretto interesse pittorico, che si vede già nei “Gladiatori” del 1927-28, con “i primi accenni di una pittura ‘renoiriana’  sfiaccata, leggera e trasparente, dai tocchi intrecciati”, nelle parole di Benzi; primi accenni che diventano ben più espliciti nei nudi  del 1930, ”Nudo di donna (con rupe e tempio)”, e del 1932, “Nudo di donna coricata (Il riposo di Alcmena)”, entrambi di forme e toni  morbidi e immersi nella natura come quelli di Renoir,  ma senza alberi, con il mare sul fondo,  il Mediterraneo della sua Ellade, nel primo nudo con un tempio a picco sulla scogliera.

Magritte si riconobbe nella posizione di de Chirico, e non volle firmare il proclama contro di lui dei surrealisti belgi pur continuando a far parte del loro gruppo,  e il suo  “Le principe d’incertude”, del 1944, nella morbidezza e nella linea leggera, richiama i nudi dechirichiani del 1930. E anche Derain, in quanto, nelle parole di George, “come Giano, il dio a doppia faccia, ha presente allo spirito il passato e l’avvenire”, allo stesso modo di de Chirico che in “San Juan les Pins” del 1930 si ispira sia pure lontanamente, al suo ”Le gros arbre” di poco anteriore.

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“Autoritratto nello studio”, 1930

Lo stesso tocco morbido e leggero nelle opere su altri temi dal 1930 al 1933,  in sequenza, dall’“Autoritratto nello studio” ai manichini della “Canzone meridionale”, dalla “Natura morta con coltello” ai “Cavalli in riva al mare”.

Non si ferma qui l’ attenzione al tocco e agli altri aspetti tecnici di quella pittura, dopo che nel primo passaggio al classicismo aveva provato la tempera degli antichi Maestri. Nel 1928 aveva scritto il “Piccolo trattato di tecnica pittorica” nel quale, pur non facendo prevalere la tecnica sulla genialità nel risultato finale, sosteneva che un vero pittore, antico o moderno, non può ignorarla.

La crisi economica del 1929 lo costrinse a lasciare Parigi, salvo brevi ritorni, poi fece una serie di viaggi tra Italia, Stati Uniti e Francia, in un periodo che lo vide impegnato in opere su temi già trattati nel decennio precedente in forme rinnovate o su nuovi temi: tornano gli archeologi e i gladiatori, i cavalli sulle spiagge e i paesaggi nel chiuso delle stanze, oltre a  interpretazioni in un inedito realismo alla Velasquez, entrano in scena i Bagni misteriosi” e nuovi  impegni teatrali.

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“Cavalli in riva al mare”, 1933 ca.

In questo periodo abbiamo sue composizioni in cui, vicino ad oggetti presi dalla vita reale, se ne trovano di mitologici già presenti negli anni ’20, e  fantasiosi inventati di tipo metafisico, come i suddetti Bagni misteriosi”, nei quali la realtà è trasfigurata dall’immaginazione, cosa che suscitò polemiche alla Quadriennale di Roma del 1935.  E’ il suo il tentativo di  rendere, come i pittori antichi, non la realtà ma l’apparenza della realtà, interpretando però, in chiave realistica, anche le sue invenzioni passate, “cosa che comporta uno ‘scollamento’ tra l’apparenza reale e l’invenzione surreale”, secondo il giudizio di Benzi. 

Così anche le creazioni più fantastiche sono calate nella realtà come fossero vere. Lo vediamo in “Cavalieri e cavalli in riva al mare”, del 1933, e in “Puritani e centauro in riva al mare”, “I Dioscuri con i compagni in riva al mare”, del 1934-35,  mentre  i due nudi  del 1934 “Sera d’estate” e “Bagnanti sulla spiaggia” sono veri ma sembrano fantastici per il contesto di tipo mitologico  in cui sono inseriti. Anche le invenzioni metafisiche dei manichini assumono un aspetto vicino alla realtà, si vede nelle opere del 1933, “Nobili e Borghesi”, addirittura con vestito, camicia e cravatta, e nei “Manichini coloniali”, dalle movenze umane nelle mani  e nei piedi, mentre gli orpelli che sembrerebbero “incorporati” come negli “Archeologi”, invece sono sovrapposti alle giubbe, quali aggiunte ornamentali.  Anche “Ruines étranges (I contemplatori di rovine)”, 1934, pur nella loro rigidità metafisica sono umanizzati nei volti, negli arti, nella figura.

“Manichini coloniali”, 1933 ca.

Sempre nel 1934, mentre scriveva al suo amico Nino Bertoletti che continuava a perfezionare la tecnica pittorica pur “in mezzo ai guai”, come un monaco medievale, disegnava le illustrazioni del libro “Mythologie” di Cocteau, del quale abbiamo ricordato la vicinanza. Così nacquero i “Bagni misteriosi”, un’invenzione  che scaturisce dai ricordi d’infanzia dei bagni del paese natale Volos,  cui si aggiunge la visione surrealista di un parquet così lucido da sembrare fatto di acqua dove poteva sprofondare chi vi camminava sopra. Sempre dalle memorie infantili affiorava l’impressione data dalle figure vestite, come statue maestose, e i nuotatori  spogliati,  come inermi  e indifesi. A questi motivi se ne aggiungono altri propriamente artistici: un’incisione di Klinger – alla cui “Storia di un guanto” si era già ispirato venti anni prima per il celebre “Le chant d’amour” – con la stessa ambiguità irreale-reale tra la superficie dell’acqua e ciò che sta sopra, nell’incisione un pianista; mosaici romani tunisini  e libici con l’acqua su cui si muovono figure marine a zig zag. A questo ciclo appartengono “I bagni misteriosi”, “Le cabine misteriose”, “Il cigno misterioso” , del 1934-35. 

Negli anni successivi la sua fama cresce, non solo in Italia ma in Europa e negli Stati Uniti, dove vengono organizzate numerose mostre. Intanto nella pittura alterna la proposizione di immagini reali  in chiave metafisica e viceversa, come abbiamo visto, e nel contempo  approfondisce la rivisitazione della tecnica utilizzata tornando sempre più all’antico. Attua il proclamato “ritorno al mestiere”  identificandosi con gli antichi Maestri, ma anche per la polemica verso le avanguardie attribuisce loro la grandezza che viene riconosciuta alla perfezione tecnica piuttosto che ai contenuti. Si distacca dalla rappresentazione della realtà ma anche delle visioni metafisiche e verranno privilegiati da lui paesaggi idilliaci. barocchi e favolosi. In tal modo”mescola realismo e fantasia pittorica con citazioni eterogenee da secoli differenti – precisa Benzi –  gli archeologi si trasformano in cavalieri in vesti araldiche e nobili in borghese, personaggi da melodramma scesi da un palcoscenico e incapaci di accorgersi dello straniamento della realtà”.

“Ruines étranges (I contemplatori di rovine)”, 1934 ca.

L’arte teatrale e gli Autoritratti

Il palcoscenico virtuale evocato dall’autore era stato reale già dieci anni prima  con l’ingresso di de Chirico nel teatro, quello vero, nel 1924, con le scene e i costumi del balletto La Jarre di Luigi Pirandello al Théatre des Champs-Elisées di Parigi, seguito dal lavoro per una “piece” del fratello Savinio nel 1925  e dalle scene per i Balletti Russi di Diagilev, gli stessi per i quali lavorò Picasso venendo appositamente in Italia a Roma e a Napoli, altro motivo di accostamento tra i due maestri.

Seguiranno Pulcinella  a Londra e Bacco e Arianna a Parigi nel 1931, e I Puritani al Maggio musicale fiorentino nella prima edizione del 1933, gli spettatori furono sconcertati dai  costumi araldici a forti colori che ingessavano i personaggi,  come avvenne a Picasso per i rigidi e monumentali costumi cubisti che disegnò per i Balletti russi. Per la manifestazione fiorentina curerà anche scene e costumi di Don Giovanni nel 1944,  Medea e Orfeo nel 1949,  Ifigenia nel 1951 e Don Chisciotte nel 1952.  Nel teatro anche a Roma, per La figlia di Jorio di Gabriele d’Annunzio con la regia di Luigi Pirandello nel 1934 e per Otello nel 1964; a Milano per Anfione  nel 1942 e La leggenda di Giuseppe nel 1951, Mefistofele nel 1952 e Apollo musagète nel 1956; e ad Atene, per il Festival,  Oreste e Le Baccanti, Il Minotauro ed Edipo  nel 1939,  spettacoli non realizzati: sono i principali spettacoli di cui ha curato scene e costumi.  La scenografia per i “Puritani” è classica e austera, mentre quelle per “Don Chisciotte” e  “Otello”, in particolare il Siparietto, sono visioni arcadiche aperte e ariose.

“Puritani e centauro in riva al mare”, 1934 ca.

“Un’arte teatrale” viene definita ben a ragione da Benzi quella che riflette tali  esperienze ma esprime anche la sua attitudine, tanto che anche nella sua prima Metafisica venivano visti aspetti teatrali, considerati apparenti dall’artista che li rifiutava richiamandosi al sogno e all’assurdo. “L’attività per il teatro, che nel quarto decennio si fa  in effetti più intensa e serrata, uniforma  con la sua visione il palcoscenico della vita, che si immedesima con la messa in scena della pittura stessa”. Non solo l’abbinamento arte-vita, dunque, ma anche la presenza in entrambe attraverso il teatro.

Come per le altre svolte artistiche, non manca di teorizzare anche questa nel Discorso sullo spettacolo teatrale poco dopo il 1940, il teatro entra nella sua pittura con sipari e quinte scenografiche virtuali che inquadrano le composizioni, spesso cavalleresche. Poi  gli “Autoritratti”  in costumi teatrali spesso presi dagli spettacoli, che non si comprenderebbero senza collegarli al suo impegno teatrale di cui sono espressione. Vediamo, tra il 1940 e il 1942, “Autoritratto in costume orientale”  e “Autoritratto  in costume cinquecentesco”, “Autoritratto in costume da torero” e“Autoritratto in costume (con pennello)”,  nel 1943 “Autoritratto nudo” che è stato preso da Giulio Paolini come punto di arrivo di un avvicinamento progressivo nella mostra del 2010 “L’enigma dell’ora” al Palazzo Esposizioni, parallela alla mostra “De Chirico  e la natura”; nel 1948  “Autoritratto in costume nero”, nel 1959 “Autoritratto nel parco”,  gli ultimi due a figura intera, con intorno elementi arcadici.

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, “Bagnanti sopra una spieggia” , 1934

Il fascino dell’America, “l’altro mondo”

Intanto la sua fama si diffonde, in Europa oltre che in Francia e Germania in Cecoslovacchia e nel mondo anglosassone. In Inghilterra va cinque volte, negli anni ’20, ’30 e ’40, farà 4 mostre personali e parteciperà a circa 30 mostre collettive, esercitando una certa influenza sull’arte inglese, tra gli altri gli è debitore Henry Moore, il cui amico Penrose aveva molte sue opere. Arriva negli Stati Uniti al porto di New York sul transatlantico Roma il 27 agosto 1936, si fermerà un anno e 4 mesi.

Era già conosciuto, nel 1926 erano stati presentati al Brooklyn Museum di New York 3 suoi quadri metafisici in una mostra con Duchamp, già nel 1923 il noto collezionista Barnes aveva acquistato un suo quadro, arriverà a 20. Fu accolto alla grande negli ambienti mondani, con sua immediata condiscendenza, e nello stesso anno dell’arrivo gli furono  commissionati due  grandi pannelli pubblicitari dalla casa di moda Helena Rubinstein e dal sarto Benno Scheiner, copertine e altro dalla rivista “Vogue”.  Ne è tanto preso che gli balena l’idea di un trasferimento definitivo, ma verrà a scadere il permesso di soggiorno.

Straordinaria l’impressione che riceve da quello che chiama  “un altro mondo”, e Benzi vira in “mondo nuovo”, dato che lui ritiene superato chiamarlo “nuovo mondo”  essendo già così sviluppato.  Perché, a differenza dell’Europa,  “in modo impercettibile tutto è cambiato”, e nel dire questo cita non solo gli elementi più vistosi, parlando del “caleidoscopio inverosimile  delle sue vetrine, delle sue torri trasparenti, dei suoi splendidi bazar, delle sue bacheche” nelle quali già  immagina “gli ineffabili dioscuri appoggiati ai petti dei loro cavalli affaticati”; ma cita anche l’atmosfera perché “luce e temperatura sono differenti… In America uomini e oggetti perdono la loro ombra”, e sappiamo l’importanza che aveva per lui nella pittura metafisica. Ma non lo turba, anzi  esalta New York come “città splendida di sogno nel sogno, città di Bacheche , Città-Bacheca, Città-Vetrina, nelle cui vetrine sfilano giorno e notte… tutte le cose dell’oscura umanità”.  Vi trova anche “le maschere gigantesche degli dei antichi”, e perfino “l’immensa solitudine del Partenone nelle notti d’estate, sotto il grande cielo tutto sfavillante di stelle”.  Questa sua descrizione  è datata 29 gennaio 1938,  il suo viaggio di ritorno era iniziato il 5 gennaio con il pittore Corrado Cagli e la gallerista Pezzi Blunt sul transatlantico Rex, la sua sembra una visione felliniana ante litteram.

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“I Dioscuri con i compagni in riva al mare”, 1934-35

“Questa stagione, queste nuove suggestioni visive e ambientali – commenta Benzi – … introducono una nuova aria nella sua arte. I bagni misteriosi si popolano di grattacieli… dei e dee  si travestono con pepli e chitoni di un glamour sofisticato, i cavalli hanno pose aggraziate di danza,  elementi di ruderi antichi si mescolano a reminiscenze  di oggetti metafisici trasformati in quinte teatrali”.  C’è “un nuovo mondo di colori virati  e di scene dove il Mediterraneo si mescola a un’atmosfera eterea e rarefatta, dai toni ghiacciati. Anche nei dipinti più ‘realisti’ prevale un’eleganza solida ma ben composta, soggetti di un tono pittoresco alto e ben definito”.

Lo riscontriamo nelle opere del 1936-37,  “Visione di New York” con un cavallo vicino a un triclinio, mentre “Cavalli e sibille con velari in riva al mare” è una specie di monumento vivente con le criniere svettanti dei nobili animali, che in “Horses of Tragedy” sono in due arcate, con tenda e una piccola piscina, e in “Divinità in riva al mare” scalpitano in una commistione con le antichità, dal segno leggero e colore sfumato nel pannello per il salone di Helena Rubinstein, con un accenno di tempio a destra. Il tempio diviene solido e completo in “Eroi di Omero”, con  elmi  e lance in riva al mare. Molto diverse le illustrazioni per “Vogue”,  “Le Femme antique”, con le ben note nuvolette orizzontali in un cielo che tende all’arancio e una figura femminile ieratica al centro, tra separè dietro i quali si intravedono teste di donne, sulla destra lo scorcio di tempio antico.

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“I bagni misteriosi”, 1934-35

Non mancano i manichini, “The Lovers”, la coppia richiama “Les consolateurs” del 1929 nelle mani che si stringono, ma sono più umanizzati anche nelle vesti, salvo le teste a uovo sono figure normali, dietro cui c’è una grande finestra con le nuvolette orizzontali nel cielo azzurro. E i grattacieli? Eccoli che si stagliano sulla sinistra in “Petronio e l’Adone moderno in frac”, ma l’elemento dominante è il giovane sulla destra nell’abito da cerimonia mentre al centro c’è un cavaliere e in lontananza un tempietto. Fanno da sfondo allineati in gran numero in “Bagni misteriosi a Manhattan”, la grande figura vestita e la piccola nuda sono sbarcati in America. “ll sognatore poetico”, un viso giovane  con la testa turrita di casotti balneari con bandierine, chiude questa piccola galleria americana.

Anni difficili, la scultura, lo stile teatrale e neobarocco

Nel gennaio 1938 in una sosta a Roma passa dall’impressione americana a quella romana, lo colpiscono positivamente via dell’Impero e le novità architettoniche di una Roma città moderna.  Torna a Milano dove tiene una mostra di successo cui seguono mostre a Genova e Venezia;  va anche a Parigi e Londra per altre mostre con successo crescente. Su questo momento felice si abbattono le leggi razziali ed essendo la moglie ebrea cominciano le peripezie. Va a Parigi dove al Louvre ha un ritorno di fiamma per la pittura dei Maestri dell’antichità, poi deve lasciarla per la minaccia della guerra, va a Cannes e Vichy, varca la frontiera con l’aiuto di un collezionista  e approda a Milano dopo essere stato bloccato a Nizza. È l’entrata in guerra, l’Europa è in fiamme.

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“Le cabine misteriose“, 1934-35

Di quest’anno così tormentato abbiamo immagini che lo sono altrettanto, con un cromatismo inedito senza contrasti, in tutte quelle che citiamo vi sono cavalli. Così i classicheggianti “Dioscuri” e “Chevaux effrayés”, la visione paesistica monumentale di “Guerriero in riposo con cavallo che beve in un pozzo”, i primi piani equini, a dispetto dei titoli,  di “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” e “L’uomo dal berretto”.

Dalle leggi razziali alla guerra, la vita a Milano  è minacciata dai bombardamenti, nel 1942 si trasferisce a Firenze  con Isabella, sua compagna, e alla Biennale di Venezia in una sala a lui dedicata presenta le sue novità in una tecnica che, mentre fa brillare la superficie pittorica, consente velature e chiaroscuri misteriosi; la sua arte è sempre più orientata sullo stile  teatrale e barocco. 

“Cavalli antichi spaventati dalla voce dell’oracolo”, 1935

Raffaele Carrieri commenta “questo ormai evidente mutamento di rotta che coincide in realtà con una drammatica introiezione psicologica  indotta dalla guerra ormai deflagrata, quasi un colloquio intimo, solipsistico e visionario, una forma di ascesi mistica”, ricorda  Benzi. Ecco alcune espressioni del noto critico: ”Egli dipinge tutto con la medesima intensità…  va in cerca di pesche e di costumi d’opera per i prossimi quadri… Dipinge ritratti. Dipinge autoritratti… Dipinge di tutto”.

Gli  “Autoritratti” nei costumi  più diversi li abbiamo citati in precedenza riguardo all’“arte teatrale”, ora aggiungiamo “Natura morta con cestino di mele” e “Natura morta di frutta con castello”, “L’oca spiumata”   e “Battaglia presso un castello”: la prima con cromatismo brillante, le altre con tinte velate, e in tutte, salvo “l’oca piumata”, un castello o un rudere, un richiamo classico. Di ispirazione classica anche “Perseo libera Andromeda”,  con l’uccisione del Minotauro sullo sfondo e il nodo di Andromeda in primo piano, intimista “Le amiche”, due volti pensosi.

La vita di de Chirico si svolge tra Milano, Firenze e Roma, e in un momento così movimentato – siamo all’inizio degli anni ’40 – si interessa alla scultura, come sempre anche sul piano teorico con il testo Brevis pro plastica oratio. Vi si legge che  “lo scultore è  il creatore per eccellenza… Egli scava per tirar fuori, nel blocco di creta o di marmo, con fiuto di rabdomante, comincia  frugare, e già quello che c’è dentro… comincia a sobbollire alla superficie, comincia ad agitarsi…”. E ancora: “La scultura dev’essere morbida e calda, e della pittura avrà non solo tutte le morbidezze, ma anche tutti i colori: una bella scultura è sempre pittorica”. E sono morbide e calde le sculture dei suoi temi, “Arianna” e “Archeologi” del filone metafisico, “Ippolito e il suo cavallo” del filone  classico. 

“Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro”,1938

Le difficoltà create dalla guerra ostacoleranno questa nuova attività artistica, che  riprenderà soltanto nel 1966 per non lasciarla più: “Ettore e Andromaca” sarà la sua opera maggiore, ma va ricordata anche la scultura-fontana “Bagni misteriosi” del 1973 per la XV Triennale di Milano.

Naturalmente la pittura prosegue, a Firenze sperimenta una nuova tecnica affine all’emulsione e la applica all’“Autoritratto nudo”,  che definisce  “la pittura più completa che io abbia eseguito finora”,  poi si trasferisce definitivamente a Roma, è il 1943.  Un nuovo cambiamento si manifesterà nel dopoguerra, con la pittura neobarocca, antinaturalistica, ispirata  a una pagina di Schopenauer  “sul senso metafisico di certe calme nature e paesaggi olandesi”, una metafisica che Mucci definisce “più sottile  e più qualitativamente pittorica di quella più famosa”.  Gli “Autoritratti” di questo periodo sono una prima manifestazione della sua nuova pittura barocca, come travestimento teatrale in ambientazione antica, una finzione spiazzante.

“L’esordio del periodo barocco – conclude Benzi – è calibrato equamente sullo spiazzamento metafisico, sulla finzione teatrale pervasiva e ‘non vera’ , sulla polemica con i critici modernisti e con i surrealisti che non sono capaci di vedere oltre il ‘non vero’, nel senso profondo della Metafisica del mondo”. Ne vedremo prossimamente gli sviluppi e la successiva evoluzione dell’arte di de Chirico in un cambiamento continuo con espressioni artistiche sempre nuove  e sorprendenti.

“Natura morta con cestino di mele”,1940

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: l’articolo restante sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7, 9, 11 – la I parte della trilogia – nel giorno 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp, 16 gennaio 2014, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, Dalì 2, 18 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Paolini, 10 luglio 2010, Dada e Surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Canzone meridionale” 1931 ca.; seguono, “San Juan les Pins” e Autoritratto nello studio” 1930; poi, “”Cavalli in riva al mare” e “Manichini coloniali” 1933 ca.; quindi, “Ruines étranges (I contemplatori di rovine)” e “Puritani e centauro in riva al mare” 1934 ca; inoltre, “Bagnanti sopra una spieggia” 1934, e “I Dioscuri con i compagni in riva al mare” 1934-35; ancora, “I bagni misteriosi” e “Le cabine misteriose” 1934-35; continua, “Cavalli antichi spaventati dalla voce dell’oracolo” 1935, e “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” 1938; infine, “Natura morta con cestino di mele” 1940 e, in chiusura, “Autoritratto in costume di torero” 1941.

Autoritratto in costume di torero”, 1941