De Chirico, trilogia I – 5. Classicismo mediterraneo, con archeologi e gladiatori

di Romano Maria Levante

“Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, di Fabio Benzi continua a dipanarsi come un “Film” che ricostruisce una vicenda artistica e umana appassionante, dando sempre una risposta precisa ai mille interrogativi che pongono espressioni pittoriche quanto mai geniali e sorprendenti nella loro singolarità. Nelle 4 puntate precedenti della nostra “fiction” quanto mai vera e reale, la vita  è stata movimentata, nei trasferimenti dalla Grecia a Monaco, da Milano  a Parigi, da Roma a Torino e Firenze, poi di nuovo a Parigi; l’arte,  dalla Metafisica in evoluzione con la variante “ferrarese”, al classicismo, poi al “romanticismo” delle ville romane e al surrealismo, fino alla rottura con Breton, passato dall’esaltazione ammirata alla più spudorata denigrazione basata su falsità. La risposta di de Chirico nella vita è stata evocata, ora quella nell’arte, e il seguito è ancora una volta imprevedibile.

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“Le consolateur” , 1929

La risposta a Breton, l’arroccamento nel Museo in chiave moderna

De Chirico, ferito nella propria dignità di uomo e di artista dalla gratuita diffamazione di Breton – che lo ha accusato di spacciare copie di opere della prima Metafisica anche retrodatate, dopo aver esaltato la sua arte e averlo accolto nel Surrealismo – reagisce nella vita, e lo abbiamo ricordato, ma anche nell’espressione e collocazione artistica. Si arrocca nel “Museo”, la cittadella sempre più sottoposta agli assalti dei suoi precedenti alleati surrealisti nella loro furia iconoclasta contro la tradizione; che invece ha alimentato non solo l’arte ma anche la vita di de Chirico con la sua nascita nella Grecia delle antichità classiche, nel Museo raccolte e custodite. E si sono impresse nella sua psiche risultando in lui la matrice che nei surrealisti invece è la loro negazione, il loro rifiuto; ed esprimendosi nella sua arte, anche nella forma metafisica imbevuta di retaggi classicisti, poi portati sempre più alla luce.

La sua ispirazione alla base della Metafisica, oltre ai ricordati Nietzsche e Apollinaire con Guillaume, nasceva dalle opere di Salomon Reinach sulla religione, la storia antica e soprattutto l’archeologia, cosa sfuggita all’ “incomprensibile ignoranza dei surrealisti” che invece volevano farne piazza pulita all’insegna dell’automatismo onirico senza radici, tanto meno nel passato; e non capivano – osserva Benzi –  “il vero senso della pittura dechirichiana, anche quella metafisica che essi stessi esaltavano”. Per cui la risposta è stata “la calcolata enfatizzazione di de Chirico di un’antichità archeologica attualizzata, peraltro in perfetta sintonia con gli spiriti classicisti che percorrevano l’intera Europa negli anni venti”, come rilevato da JeamCocteau che ha saputo cogliere con lucidità il rapporto tra la Metafisica, l’antichità greca e il Rinascimento italiano. Non tutti i surrealisti seguirono Breton nei suoi attacchi, molti lo lasciarono beccandosi insulti come quelli da lui scagliati su de Chirico; altri come Duchamp, Picabia ed Ernst mantennero i rapporti con il pittore metafisico, i suoi mercanti Rosemberg e Guillaume li rafforzarono, e così Paulhaun e Cocteau.  

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“La famille du peintre”, 1926

Dopo le feroci quanto penose diatribe di Breton basate sulla voluta falsificazione della realtà da parte del mercante surrealista e non sulla presunta quanto inesistente duplicazione in falsi d’artista da parte di de Chirico, semmai da parte dello stesso Breton, ci si eleva nei cieli non solo del Mediterraneo, ma della storia umana, della civiltà antica e della cultura classica,  sempre l’alimento e l’ispirazione del grande artista greco, divenuto cosmopolita e approdato in Italia da preclaro cittadino.

In questa visione superiore, proprio Cocteau “colloca nitidamente de Chirico sul palcoscenico parigino – sono parole dell’autore – come l’alter ego, a lui complementare, di Picasso: i due giganti solitari del secolo”, le cui espressioni artistiche pur molto diverse avevano radici comuni, e da questa implicita intesa di fondo nasceva una reciproca, profonda considerazione. Ma prendiamo, fior da fiore, alcune espressioni di Cocteau su questo parallelismo: “De Chirico è un pittore del mistero. Picasso è un pittore misterioso… L’opera di Picasso appare travestita e mascherata e come tale intrigante e misteriosa. De Chirico è invece pittore di misteri. Egli sostituisce alla rappresentazione dei miracoli con cui i primitivi riescono a stupirci, i miracoli che vengono da lui solo”. Con questa diversità: “Le collere di Picasso contro la pittura innalzano autentiche crocifissioni. Opere terribili, fatte di chiodi, di lenzuoli, di strappi, di lego, di sangue. De Chirico non monta mai in collera. La calma della sua opera è quella degli arcieri che nelle tele dei primitivi, assistono al supplizio e guardano fuori del quadro”. E così via, con riferimento, per de Chirico,  non solo alla pittura metafisica ma anche, e forse di più,  ai temi  recenti.

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L’enfant prodigue” 1926

Anche de Chirico valorizzava la propria arte come moderna scrivendo: “Non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna…. La pittura italiana moderna non esiste. Ci siamo Modigliani e io, ma noi siamo quasi francesi. Io amo le cose più avanzate e più nuove”. E questo vale non solo per i contenuti, ma anche per la tecnica pittorica, che dopo la lentezza del ritorno alla “tempera” classica, si è velocizzata con nuovi materiali al punto che il mercante Rosenberg, dinanzi a quadri basati “su tinte piatte e non lavorate” – quelle dei pittori francesi di allora – lo sollecitava “a terminarli il più possibile, poiché piace ormai ovunque la pittura molto rifinita”.

Ma lui stesso, nel “Piccolo trattato di tecnica pittorica” del 1928,  considera superato il ritorno alla pittura “all’antica” del 1919-22 – dopo l’abiura alla metafisica per la classicità – e scrive: “Il sospirare eternamente davanti alle perfezioni degli antichi non mi sembra cosa degna di un pittore moderno. Ebbi anch’io il mio periodo antico e me ne vanto… ma però non ho mai dimenticato che anche la nostra epoca ha in arte le sue perfezioni, i suoi tours de force, per nulla inferiori a quelli degli Antichi”. E’ sua  la maiuscola di Antichi con cui conclude, ecco cosa aveva premesso: “Ogni epoca ha il suo spirito, il suo genere, la sua atmosfera speciale in cui vive e respira, direi quasi la sua morale artistica”.

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“La maison aux volets verts” , 1926

Cocteau individua la fonte della continuità tra la prima Metafisica e il “richiamo all’ordine” del classicismo degli anni ‘20 in “una verità dell’anima che esclude ogni elemento pittoresco, assieme al retroterra in cui trova alimento”. E dopo un’appassionata rassegna delle tante immagini dei quadri dechirichiani conclude: “Talvolta l’unione di prospettiva italiana e  e di miracolo greco mi ha parlato, in de Chirico, quando ormai niente mi parlava più”.  E Duchamp porta la sua continuità almeno fino al 1926, con l’arroccamento nel Museo in funzione antisurrealista e il passaggio, che può sembrare  contraddittorio, a una pittura più moderna e imprevedibile, fino ad affermare: “I suoi ammiratori potrebbero non seguirlo e decidere che il de Chirico della seconda maniera abbia perso la fiamma della prima. Ma la posterità potrebbe avere qualcosa da dire”.

Mobili all’esterno, interni con alberi e case, più altri contenuti della svolta artistica

I contenuti della nuova svolta sono anch’essi spiegati, come sempre, da Benzi, anche quelli del tutto  incomprensibili ai più, come gli interni con piante ed edifici, i mobili all’aperto e altro ancora.    

“Meubles dans une vallée” si intitolano due quadri del 1927,  fuori dall’abitazione letto e poltrona,  specchio e comò, con ruderi e, in uno di essi, il cielo mediterraneo con le sue tipiche nuvolette orizzontali. La spiegazione: in parte retaggio dei ricordi d’infanzia, quando nei terremoti i mobili venivano portati nelle strade; ma soprattutto, in chiave attuale, “i mobili trascinati in strada dai traslochi creano uno spaesamento che li riveste ‘di una strana solitudine’, formano un’isola esotica che li rende come circondati da oceani ostili, personaggi che mostrano tra loro strane intimità, de Chirico li vede anche ‘in una piana della Grecia deserta e coperta di rovine’”. In “La nuit de Périclès”, del 1926, appaiono esposti in una grande apertura verso il buio con vaghi contorni di templi, non mobili ma grosse scatole disegnate.

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“Nus antiques” , 1926

Se i mobili escono dalle abitazioni, vi entrano altrettanto incomprensibilmente edifici, alberi e quant’altro, dopo che negli “interni metafisici” del 1924-25 c’era tutt’altro, oggetti, righe e squadre da disegno, “quadri nel quadro” pur essi improbabili ma non impossibili come avviene ora. La spiegazione di Benzi: “Non c’è dubbio che i templi nella stanza nascano  dai ricordi giovanili, dalla strana presenza classica del Palazzo Reale di Atene (ripreso in diverse opere) o dalle case neoclassiche elleniche, dalla straziante singolarità dell’ara di Pergamo chiusa nella sala eterna di un Museo berlinese”; visione che pone “il Museo, appunto, come raccoglitore di frammenti di vite passate, di culture poliformi, di ricordi infantili e di strane interiorità”. E’ il Museo in cui si è arroccato, come detto all’inizio, per attingere agli elementi vitali impressi in lui dall’infanzia dopo la tempesta-Breton. De Chirico, dopo aver premesso di essersi ispirato, nel creare gli interni, all’“atmosfera metafisica dell’arte greca”, e della natura, da cui nasce “questa familiarità tra gli dei e gli uomini”, aggiunge: “Questa intrusione, che ho tentato di suggerire, della natura all’interno delle abitazioni ricorda quest’alleanza conclusa tra gli dei e gli uomini che impregna tutta l’arte greca”.

Nel triennio 1926-28 vediamo 4 opere sorprendenti che sarebbero incomprensibili senza la chiave interpretativa anzidetta. In ordine cronologico, la “Maison aux volets verts” “ospita”, nelle due stanze collegate da una porta, non una ma due  case con finestre e tetti, dietro una di esse una rupe, dietro l’altra un albero alto come la casa, tutto in un interno; l’“Intérieur forestier (Equinoxe)” è occupato da un gruppo compatto di tronchi d’albero e da un velo di acque  con onde dalla schiuma bianca, e “Paysage dans une chambre” mostra un intero paesaggio nella stanza, un monte con il grande Palazzo Reale e altri edifici; chiude ”Temple et forét dans la chambre”, dalla casa al tempio, dall’albero alla foresta.

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Meubles dans une vallée”, 1927

Ma non è soltanto inanimato il nuovo mondo dechirichiano, anche se l’ “anima” si sente pure nelle immagini senza figure umane, perché nascono dalla spinta dei suoi sentimenti. Cocteau trova in questo mondo “il fascino imperturbabile delle civiltà che si mescolano. Un Buddha dal torso e dai riccioli greci. Le figure di Antinoe, volti romani che sanno tenere gli occhi spalancati sulla morte, come le figure egiziane e i tuffatori nel mare… figure tombali e dormienti ci affascinano nei musei anche quando la stanchezza arriva a fiaccarci… De Chirico, nato in Grecia, non ha più bisogno di dipingere Pegaso. Un cavallo davanti al mare, per via del colore, degli occhi, della bocca acquista l’importanza del mito”.

E’ una descrizione poetica delle opere tra il 1926 e il 1927, riconosciamo i volti e le figure di “Nos antiques” e “L’esprit de domination”, nudi  in interni con il “sigillo” archeologico appena accennato, dalle rotondità mediterranee con riflessi picassiani; con la “figura tombale” di “L’enfant prodigue”, la statua che nell’interno diventa persona a fianco di quella reale seduta. Ma lo spirito mediterraneo dell’artista ha bisogno di correre negli spazi aperti della sua marina. Ed ecco “il cavallo davanti al mare” evocato da Cocteau, anzi i cavalli, in coppia e scalpitanti, in “Chavaux sur une  plage” con un tempio in lontananza, e “Les reproches tardifs” in cui oltre al tempio lontano sul promontorio c’è la colonna spezzata vicina a terra, “La joie soudaine” con più mare e roccia e, del 1929, “Cheval et zebre”, dove non manca il rudere sul fondo e la colonna spezzata vicina.

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“Chevaux sur une plage”, 1927

Queste opere sono il frutto “di una scelta di classicismo ellenico contrapposto al surrealismo”, che ebbe successo, ed è così spiegata dal Maestro: “E io penso ancora all’enigma del cavallo nel senso del dio marino: io mi immaginavo una volta nell’oscurità di un tempio che si erge sulla riva del mare il destriero parlante e vaticinatore che il dio glauco diede al re di Argo”. La matrice classica, con presenze archeologiche è comprovata dai disegni di cavalli inseriti nel “Repertoire de la statuaire greque et romaine” pubblicato a Parigi nel 1909 da Reinach, l’archeologo, e non solo, di cui de Chirico conosceva molto bene le opere e ne traeva  ispirazione.

Gli archeologi e i gladiatori

In questo campo a lui molto caro, l’artista non si è limitato ai templi lontani e alle colonne a terra vicine, vediamo in coppia “Les archéologues”, sempre del 1927, e singolarmente “L’archeologo”, del 1928, in cui celebra questi protagonisti delle ricerche dei resti di antiche civiltà che portano alla luce, li raffigura come se avessero interiorizzato i tanti ruderi nel loro stesso corpo, in una incorporazione chiaramente simbolica.  Lui scrive che si ispirano a “certi personaggi delle sculture gotiche che ci sono nelle cattedrali e che quando sono seduti hanno l’aria molto maestosa perché hanno il corpo grande e le gambe piccole” e sembra non debbano mai alzarsi; i suoi “archeologi” li ha creati così “perché ciò conferisce una sorta di grandezza ai personaggi stessi”.

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“Les archéologues”, 1927

Benzi osserva che, in realtà, “i ‘manichini archeologi’ nascevano anche e soprattutto dalla temperie metafisica (dai manichini delle Muse inquietanti, ad esempio)” e, aggiungiamo noi, precisamente dai manichini seduti con solidi incorporati quali i già citati “Les Jeux terribiles” e “Le peintre” del 1925;  de Chirico si riferisce alle statue medioevali per dare più  rilievo classicista “rifondandone il significato di creature più umanizzate” con i ruderi della memoria che anche lui sentiva dentro di sé.  L’umanizzazione è massima nel più tardo “Le consolateur”, del 1929, in cui il manichino tiene per mano e appoggia la mano sulla spalla di quello alla sua sinistra, non hanno incorporati ruderi ma piccoli elementi ornamentali, il manichino triste addirittura uno spicchio di cielo azzurro con le nuvolette orizzontali, sarà il segno della nostalgia? Vi si identificherà de Chirico? Un precedente significativo in “Le poète triste consolé par sa muse”, antesignano nel 1925  del “Le consolateur”,  quello che viene consolato è accasciato sulla poltrona, il corpo interamente coperto da una tunica.

Dagli archeologi ai gladiatori cambia tutto. A nostro avviso spariscono totalmente i manichini sebbene fosse stato facile e quasi naturale l’adattamento, altro segno che  l’inquietudine del Maestro non lo faceva riposare sugli allori, era sempre alla ricerca dell’innovazione. Benzi, da parte sua, vi vede la “trasposizione del manichino ferrarese attualizzato nel profondo classicismo ‘tardo-antico’”, derivazione metafisica attestata, a suo dire, da riprese iconografiche datate; la derivazione non la discutiamo, solo ci sembrano molto lontani i manichini. E ci è difficile vedere in loro “l’espressione svuotata da ogni psicologia, che ne fa il perfetto parallelo del manichino metafisico, ma calato in una mediterraneità sempre più esplicita e impostata”, forse in questo c’è la differenza della nostra percezione, ci sembra prevalga la mediterraneità che anima i gladiatori. Le loro figure sono umane, non solo antropomorfe,   in folti gruppi con lance e scudi o singole, sempre nude, siamo nel 1927. E il disegno del 1927 con “Testa di gladiatore (Ritratto di Apollinaire)” citato dall’autore, se prova giustamente la derivazione metafisica, ci sembra possa contraddire il riferimento ai manichini con “l’espressione svuotata da ogni psicologia”, era tutt’altro “il grande e indimenticato amico”.    

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“Paysage dans une chambre”, 1927

Le figure in gruppo le vediamo in “Le triomphe”, 1928-29, la testa con criniera e le gambe di un cavallo scalpitante sembrano trascinare nel trionfo una quindicina di armigeri dalle chiome antiche. Le figure singole sono riprese nella lotta, come in “Fin de combat”  e “Léons et gladiateurs”, del 1927, composizioni altamente drammatiche; mentre “Combat”, del 1928, sembra un gruppo araldico, sebbene la figura in piedi e quella a cavallo lottino con i pugnali. Nello stesso anno i “Guerrieri”, immagine diversa da tutte le altre con tre figure centrali in evidenza ed altre due appiattite su di loro in modo inusitato, ma sempre molto “umane”, immerse nei pensieri.

E’ questa una manifestazione di “un’arte mentale, antimaterialista” – in un articolo di Waldemar George su de Chirico, al  quale riservò anche una monografia –  che “ne fa un idioma dello spirito” e vi scopre “il principio generatore di un ordine, di un tipo di civilizzazione che trasformerà il mondo”, cambiandolo dall’interno in quanto “capovolge trasfigura la sua anima”. Per concludere con un riconoscimento di valore straordinario: “Ecco perché credo fermamente che la rivoluzione realizzata da Giorgio de Chirico è più essenziale, più profonda, più attiva della spinta cubista”.

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“Fin de combat”, 1927

Gli “Italiens de Paris”, de Chirico non è più solo

Waldemar George  divenne il capofila degli “Italiens de Paris”, un gruppo di artisti vicino al “Movimento italiano” di Margherita Sarfatti, – tra cui Savinio e Giacometti, de Pisis e Campigli – i quali, guidati da Mario Tozzi, si strinsero intorno a de Chirico e Severini, sostenuti dal mercante Rosenberg, che fece decorare le singole stanze della sua nuova casa vicino al Trocadero affidandone ciascuna ad un artista della sua scuderia, Picabia e Metzinger, Léger ed Herbin, Severini e de Chirico il quale dipinse battaglie di Gladiatori.

Questi artisti italiani che vivevano a Parigi hanno un’identità nazionale e internazionale al contempo, e sono aperti ai linguaggi delle avanguardie, come il Cubismo, con il quale condividono l’avversione verso il pur italianissimo Futurismo; rispetto al  Surrealismo prendono le distanze considerandolo  “la rappresentazione dell’informe, ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’incosciente, ossia di quello che la coscienza non ha ancora organizzato”. Mentre il vero Surrealismo “è esattamente il contrario… perché non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dar forma all’informe e coscienza all’incosciente”.

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“Lion et gladiateurs“, 1927

Sono parole di Savinio, che descrive così le forme di classicismo originario predilette dal gruppo italiano: “Non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa, ma raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica”. Questa forma è la “mediterraneità” di cui parla George, intesa come “un sottile trait d’union tra lo spirito del Mediterraneo e lo spirito europeo tout court… questa arte segna la rivincita della tradizione latina e della sua straordinaria facoltà di astrazione”.

E definisce “reame in sconquasso” “lo stile giudeo romantico dei Soutine e il surrealismo” contro cui schiera idealmente “le legioni gallo romane, composte di elettissimi guerrieri”. Sarebbero i componenti  del gruppo degli “Italiens in Paris”, sempre più conosciuti all’estero, che si pone come alternativa ai surrealisti “giocando simultaneamente – osserva Benzi – le carte della classicità (tutta italiana) e della tradizione metafisica (il cui straordinario primato era peraltro riconosciuto dagli stessi  avversari)”.

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“Combat”, 1928

De Chirico nei suoi “retaggi classici” fa riferimento “a un’Ellade primigenia, i templi quasi sempre in rovina, le statue in frammenti. Non c’è più un luogo riconoscibile, se non quello che li raccoglie e individua tutti, cioè il Museo”, nel quale, come abbiamo visto all’inizio, si è arroccato. 

Ma la capitale francese è talmente aperta agli incontri che il più volte ricordato Rosenberg, “pubblicava (sulla sua bella rivista Bulletin de l’Effort Moderne, che portava lo stesso nome della galleria), esponeva  e vendeva senza preconcetti dipinti  cubisti, surrealisti e italiani classico- surreali”. Del resto queste correnti, se si possono chiamare così, “erano parti attive di un dibattito in fieri, allora considerato alla pari, dove però gli italiani svolgevano un ruolo che a molti sembrava vincente”. Intanto, dopo la rottura con Breton, proprio a Rosenberg, come si è già accennato,  de Chirico diede l’esclusiva di vendita delle proprie opere.

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“Guerrieri”, 1928

Fu una piccola rivincita, come il sostegno di una comunità artistica così qualificata quale quella degli “Italiens de Paris”,  a riparazione dei torti subiti. Come lo fu la pubblicazione nel 1928 di tre monografie su di lui, di Cocteau e George prima citati in Francia, e di Ternoverz in Italia; cui va aggiunta quella dell’anno precedente di Roger Vitrac, surrealista ma che si era staccato con Araud dal movimento che tanto male aveva fatto a de Chirico.

Gli anni ’20 terminano così in bellezza, con gli anni ’30 “una nuova idea di classicismo moderno”, poi la “pittura della realtà” e  “un’arte teatrale”, “la metafisica del mondo nuovo”, i “presagi” e “il periodo della guerra”. Sono altrettanti capitoli del libro di Benzi, ne parleremo prossimamente, prima del gran finale con “la ripresa delle opere metafisiche” e   “il definitivo ritorno della pittura antica” con “il nuovo classicismo”, “la nuova stagione metafisica e l’eterno ritorno”.  Quando si ferma il pendolo metafisica-classicismo.

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“L’archeologo” , 1928

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 2 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7, 9 – la I parte della trilogia – nei giorni 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Modigliani e Soutine 22 febbraio, 5, 7 marzo 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, per Dada e Surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le consolateur” 1929; seguono, “La famille du peintre” e “L’enfant prodigue” 1926; poi, “La maison aux volets verts” e “Nus antiques” 1926; quindi, “Meubles dans une vallée” e “Chevaux sur une plage” 1927; inoltre “Les archéologues” e “Paysage dans une chambre” 1927; ancora, “Fin de combat” e “Lion et gladiateurs” 1927; continua, “Combat” e “Guerrieri” ” 1928; infine, “L’archeologo” 1928 e, in chiusura, “Le triomphe” 1928-29.

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Le triomphe”, 1928-29

De Chirico, trilogia I – 4. Il periodo romantico, surrealismo e rottura con Breton

Romano Maria Levante

Continua il nostro viaggio nel mondo dechirichiano seguendo il monumentale volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera” – che chiamiamo il “’Film della mia vita” nella “regia”di Fabio Benzi per l’incalzante taglio cinematografico della sua ricostruzione – basato su un’accurata ricerca avvalendosi di una miriade di fonti interpretate con una logica serrata per penetrare nel processo creativo dell’artista. Nelle tre puntate precedenti di questa che consideriamo una “fiction” vera e reale, abbiamo ripercorso l’educazione in Grecia, i trasferimenti a Monaco, Milano, Parigi e i vari viaggi in Italia a Roma, Torino e Firenze, con la nascita della Metafisica che si esprime attraverso le “Piazze d’Italia”  e i “manichini”,  fino ai biscotti “ferraresi” e agli altri oggetti insensati, in una escalation metafisica che d’improvviso cessa con il passaggio al classicismo. E’ il 1919, de Chirico che ha creato la metafisica a 22 anni, ora ne ha 31, è passato decisamente al classicismo. Lo seguiamo nel suo continuo rinnovarsi e innovare.

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“Le revenant”, 1918-22

Ricordiamo il suo rigore purista dopo la svolta classicista del 1919, di cui si celebra il centenario, tanto che sulla rivista “Valori Plastici” era tra i più accaniti avversari del “secentismo”, finché con la chiusura delle rivista avviene un altro “ribaltone” stilistico e contenutistico: cade l’idea classicista per una visione più aperta verso le espressioni liriche, in una prima fase legate al romanticismo. Bocklin e Courbet i suoi riferimenti ideali, il primo era stato seguito da lui giovanissimo.

Ecco come Benzi introduce la nuova fase: “Bocklin prese  così il sopravvento su Raffaello, Piero della Francesca e Giovanni Bellini, de Chirico si trovò a rimeditare forme  e sistemi rappresentativi che già erano stati fondamentali per l’incubazione e ed elaborazione della Metafisica”. E lo fece recuperando i motivi del passato e seguendo l’ispirazione proveniente dalla realtà, che lo portava ad aprirsi al lirismo, sempre sentito nella sua vena interiore, e per il quale era stato attratto dal lirico Apollinaire e da Nietzsche, il cui pensiero filosofo era espresso in forma lirica, tanto che Savinio scriveva: “Nietzsche è un lirico: é l’esempio più tipico del lirico. E’ l’uomo liricamente più completo che io conosca. Nonché la sua opera, la sua vita stessa è un fatto lirico”. Un lirismo che si esprimeva in particolare nella “Stimmung” di cui abbiamo parlato come atmosfera metafisica, mentre della prevalente idea del Superuomo de Chirico non si è mai interessato.

“Villa romana (Paesaggio romano)”, 1922

I dipinti di questi anni hanno tale nuova ispirazione, le ville richiamano la “Villa am meer”  di Bocklin del 1864, ma nello specifico si riferiscono a Ville romane, con qualche eccezione fiorentina. L’ apripista, “Villa romana (Paesaggio romano)” del 1922, è una veduta dei Monti Parioli con la rupe tufacea e due edifici che quasi si toccano, evidente il riferimento a  Villa Strohl-Fern in cui si riunivano gli artisti, de Chirico compreso, in alto su una nuvola vola Mercurio, un Hebdomeros “ante litteram”. Segue una serie di Ville del 1923, anch’esse per lo più romane, alcune ben identificate, di cui  colpisce l’imponenza e l’eleganza classica, insieme all’ambientazione e alla presenza umana che dà vita all’ambiente; e soprattutto, in alcune di esse, degli alberi fronzuti, l’opposto della lineare essenzialità della metafisica. In “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” gli alberi occupano interamente il quadro con le loro chiome folte, incredibile per de Chirico, alla loro ombra due piccole figure, Tibullo a  terra  che saluta l’amico Messalla in partenza per una guerra. Alberi anche in “Villa romana (Paesaggio con cavaliere)” e  “Oreste e Elettra” in due versioni, nella seconda si riconoscono edifici romani e fiorentini “in un collage metafisico in cui tempo e spazio sono annullati”. In  “Ottobrata” ritroviamo l’edificio degli Horti Farnesiani di “Oreste e Elettra” con un’impronta classica molto marcata; altrettanto classico il tempietto di “Partenza dell’avventuriero (seconda versione)” nella trasposizione con edifici fiorentini di una prima versione con edifici romani intitolata “Il ritorno del cavaliere errante”.  

Del 1923 anche 2 nature morte, “Il bicchiere di vino” e “Natura morta con busto classico”, mele e selvaggina, oltre al bicchiere nel primo, melagrane nel secondo, tutti prodotti autunnali, con “l’autunno come topos, come luogo temporale, non meno pregnante del luogo reale ed evocativo delle ville romane”; e la classicità che nel busto della natura morta si erge dominante sulla natura.  

“Villa romana (Paesaggio con cavalieri)”, 1923

Così conclude Benzi  la rievocazione del periodo “romantico”: “In questa ottica i luoghi diventano una complessa categoria dello spirito, un insieme di natura, storia, cultura  e mito, capaci di coagulare lo Stimmung dell’artista. Gli stessi, identici temi della prima Metafisica, le identiche premesse filosofiche e pittoriche sono svolte in modo ora completamente diverso, ma il contenuto rimane di una coerenza impeccabile”. 

La consonanza tra Metafisica e Surrealismo sul piano artistico

Anno nuovo, vita nuova e anche arte nuova, con il 1924,  e poi il 1925,  cambia ancora tutto, perché al legame permanente con la classicità si aggiungono le sollecitazioni della contemporaneità impresse dalla avanguardie. E tra queste il Surrealismo, conosciuto già nel 1910, in particolare il mentore Breton, per il sodalizio con Apollinaire, morto nel 918 e venerato da  entrambi.

De Chirico torna  a Parigi  dopo la lunga parentesi romana, che gli ha ispirato la fase “romantica”, e come si era impegnato con la rivista “Valori Plastici” nella virata classicista, così si impegna con la rivista “La Révolution surrealiste” nella suggestione surrealista: vi pubblica non solo scritti, ma disegni e immagini delle sue nuove opere  che – precisa Benzi – “rivisitano la pittura metafisica in chiave del tutto originale, monumentalmente classica,  in cui fa rivivere elementi della sua nativa cultura ellenica e mediterranea”. Del resto, “gli esordi del suo nuovo stile pittorico ‘parigino’”, come viene definito,  vanno visti alla luce del rinnovamento promosso dalle avanguardie e in particolare dal surrealismo al quale aderisce dopo la rottura di oltre dieci anni prima che interrompeva i contatti con Breton, molto vicino anche lui ad Apollinaire.

“Oreste e Elettra” (prima versione), 1923

Dimenticate le polemiche su tutti i piani, del resto Breton, con cui riprende i contatti nel 1921,  non lesina gli elogi ai dipinti metafisici, come era avvenuto al loro primo apparire sulla scena parigina: il “nuovo stile pittorico” aggiorna i suoi temi con varianti nelle quali si sente anche il “romanticismo” delle “ville romane”. Un esempio è “Il filosofo (Il ritornante)”, che nel 1924 riecheggia “Le revenant” del 1914, analogo edificio sullo sfondo e in primo piano, tenda simile dal lato destro invece che sinistro, ma maggiore morbidezza rispetto all’aspetto raggelato del primo “revenant”; come era avvenuto per la natura morta di “Il bicchiere di vino”  del 1923, rispetto a quella altrettanto raggelata del 1915.

Il rinnovamento, nella continuità ideale di un’ispirazione profonda, si manifesta anche nell’abbandono della tempera “all’antica”,  molto adatta nel ritorno al classicismo, superata dalla nuova tecnica a olio, “chiara e compendiaria come quella degli affreschi pompeiani”, che dà, oltre a una maggiore speditezza realizzativa, una forza cromatica al livello di quella di Picasso.

Come al livello picassiono sono considerate “La ciociara” e  “Figura di donna in riva al mare”, la prima parte di una serie, che suscitò questo commento di Margherita Sarfatti dopo averla vista esposta alla Biennale romana del 1925: “Giorgio de Chirico appare fortemente impressionato dalla pittura classica-sintetista  del più recente Picasso”, riferendosi ovviamente alle sue figure neoclassiche, non a quelle cubiste. Sono, come il sopra citato “Filosofo”, di un figurativo, se si può usare questo aggettivo, rotondo e morbido, come nelle “Ville romane”, e riguardo all’assonanza con Picasso, Benzi osserva: “Il dialogo che de Chirico instaura è voluto, meditato, ma cerca di sottolineare le molteplici riprese di Picasso dalle sue stesse opere, intrattenendo così un rapporto di co-protagonismo, privo di polemica, sul palcoscenico parigino”.

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Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)”, 1923

Così troviamo non solo derivazioni picassiane in de Chirico, ma anche derivazioni dechirichiane in Picasso, come nelle nuvole orizzontali dei cieli mediterranei che vediamo in “Le poète et le philosophe” e “Le double réve de printemps”, della prima metà del 1915. L’autore completa così il suo raffronto: “Insomma, de Chirico ingaggia più che un certame, un dialogo ammiccante con Picasso, replicando ciò che egli stesso aveva già sperimentato, e che lo spagnolo aveva a sua volta ripreso”.

Ma in questo nuovo corso c’è molto di più, torna anche la Metafisica “ferrarese”, così particolare e incomprensibile se non si coglie l’ispirazione dell’ambiente cittadino, in particolare del quartiere ebraico, con le sue povere vetrine ricolme di biscotti e oggetti affastellati. Una metafisica rivista anch’essa in una visione mediterranea, come viene rivisto il “quadro nel quadro”, abituale nelle opere di quel periodo, come si è detto in precedenza. Lo notiamo in “Interno metafisico- L’aprés midi d’eté”, e in “”Nature morte  a la briosce”, entrambi del 1925 con le nuvolette orizzontali mediterranee: nel primo il “quadro nel quadro” è preso da “Caccia ai trichechi”, dipinto  nel 1900 circa dal pittore austriaco Theodor Breidweiser – riferimento individuato dal presidente della Fondazione  de Chirico Paolo Picozza – nel secondo i biscotti “ferraresi” si trasformano nelle briosce, forse in omaggio a Maria Antonietta…   Con “L’automate”, dello stesso anno, le squadre e le righe da disegno della struttura compositiva, ad esempio di “L’ange juif”, di 9 anni prima, diventano elementi  arrotondati, con dietro lo scorcio di un edificio incorniciato e nello sfondo il cielo azzurro con le nuvolette orizzontali che apre alla visione mediterranea.

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Natura morta con busto classico”, fine 1923

Se queste sono novità rilevanti, quella nei manichini metafisici è sconvolgente. A parte le teste a uovo sostanzialmente immutate, non più le forme essenziali nella loro composizione di elementi geometrici assemblati ma rigorosamente chiusi con un’impressione di rigore, forza  e solidità; bensì forme  arrotondate e soprattutto aperte nel torace per accogliervi elementi geometrici, precisamente volumi di solidi, cubi e parallelepipedi, piramidi e frammenti, non più le precise squadre e righe “ferraresi” e non ancora i chiari ruderi antichi che troveremo negli “Archeologhi”. Sono figure dolenti come “Le poète triste consolé par sa muse”, e “Les jeux terribile”,  pensierose come “Le peintre”, nelle ultime due la visione si apre sull’azzurro del cielo mediterraneo con le nuvolette orizzontali.

Una “rimeditazione” dei temi metafisici dovuta  all’influenza dei contatti con i surrealisti, in  una “consonanza” del nuovo orientamento dimostrata dagli scritti nei primi numeri della rivista “La Revolution Surrealiste”, a loro volta ispirati dalle originarie visioni della prima metafisica da loro a suo tempo apprezzata. Questo non viene scalfito dall’argomento addotto secondo cui “i surrealisti mirino all’inconscio e de Chirico alla memoria” differenza che porterebbe “all’automatismo e al sogno” i primi e “alla chiarezza e alla visione “ il secondo.

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“Autoritratto”, inverno 1923-24

Benzi le considera “ragioni pretestuose”, anche considerando che “i surrealismi sono di molte specie e spesso assai diversi fra loro”. In particolare “non vi è automatismo in Magritte o in Dalì, e d’altra parte sogno e inconscio emergono… anche dalle opere di de Chirico, come dal suo romanzo Hebdomeros”. E definisce il nuovo corso “un surrealismo sui generis, quindi, ma dalla fine del 19124-26 sviluppatosi nell’alveo di quello ufficiale, nitidamente teorizzato nei primissimi numeri delle rivista”.

L’autore cita al riguardo  l’affermazione di Max Morise secondo cui “è  qui che noi giungiamo a un’attività veramente surrealista – le forme e i colori passano da un oggetto all’altro, si organizzano secondo una legge che sfugge ad ogni premeditazione, si fa e si disfa nello stesso momento in cui si manifesta”, come avviene, ad esempio negli “interni metafisici” del 1924-25 che, sottolinea l’autore, sono “colmi di oggetti imprecisabili in cui le forme e i colori vivacissimi si  compenetrano senza ordine. O ancora, i manichini le cui forme viscerali si materializzano in rovine, giocattoli e squadre non sembrano differire  da quel sogno reso confuso dal recente risveglio di cui parla Aragon”   a proposito dell’”invention”, titolo del suo articolo del 1924 sul tema nel primo numero della Rivista.

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“”Il filosofo (Il ritornante)”, inizi 1924

Il pensiero filosofico di de Chirico – dal quale nasce la Metafisica – non differisce da quello di Aragon il quale considera  gli oggetti “non come vuote astrazioni… ma nella loro forma concreta”, come del resto l’immagine e la poesia. La conoscenza filosofica, negando il reale, crea un rapporto con l’irreale, per poi evaderne senza affermare il reale ma confondendolo con l’irreale. L’invenzione nasce dal sogno, il creatore “riprende questa allucinazione, e per così dire la ricalca, la traduce, la mette alla portata delle mani degli increduli”. Nell’Ebdòmero de Chirico riecheggia questi temi: “Quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire e  osservate quale forma piglia al suo posto il ricordo del suo aspetto… “.

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‘L’automate”, fine 1924-inizio 1925

Così l’autore conclude l’immersione surrealista: “Seguendo queste premesse, appare evidente che i temi rappresentati nei quadri  di questo periodo siano sostanzialmente ‘invenzioni surreali’, luoghi alcuni già dell’immaginario onirico metafisico, ma riletti in una luce di realtà soffusa, familiare, onirica, che proprio nell’apparente consuetudine borghese degli interni reca l’implicito allarme, lo scollamento tra cosa reale e prodotto dell’immaginazione”.

Dalla consonanza artistica alla rottura sul piano personale con Breton

Tutto bene, dunque, gemellaggio virtuale tra Metafisica e Surrealismo? Sul piano artistico la risposta non può che essere positiva, la consonanza permane;  ma la drastica rottura con Breton, il portabandiera del Surrealismo, che avvenne in modo imprevedibile dati i precedenti di sintonia tra i due, quanto irreversibile, ebbe ripercussioni di lungo termine anche sulla critica d’arte. E questo sebbene la rottura non avvenisse su questioni artistiche ma mercantili, quindi d’interesse, oltretutto banali, almeno in apparenza.

Benzi dedica un ampio capitolo a “questa complessa vicenda, forse a lungo ma credo non inutilmente descritta”, e lo fa ricostruendola con un’indagine certosina in cui verifica accuratamente dichiarazioni e circostanze dimostrando l’infondatezza di alcuni giudizi sommari dati su de Chirico sulla base di presupposti risultati palesemente falsi.

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“La ciociara”, 1925

L’accusa più grave è di aver sistematicamente copiato i propri dipinti della stagione d’oro della prima Metafisica, mentre fece una copia di “Le muse inquietanti”, con l’autorizzazione del proprietario dell’originale, Castelfranco, per accontentare Breton il quale non era riuscito ad acquistare l’opera cui era molto interessato anche per la lievitazione della richiesta economica di quest’ultimo; rassicurava Breton sull’accuratezza della copia delle “Muse” –  e anche dei “Pesci”, altra opera proposta – spiegando in una lettera alla moglie dello stesso che le opere duplicate “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”. Ebbene, Breton non volle ammettere di avergli commissionato la copia – che sembra abbia venduto poi come antica – per lanciargli la grave accusa che si è propagata nel tempo e nello spazio, di essere copiatore e falsificatore della pittura metafisica per la quale, oltretutto, attribuisce a Savinio la primazia. E dire che de Chirico gli aveva procurato subito “Le revenant” del 1918, ma non era riuscito a soddisfare le sue pressanti richieste di quadri del primo periodo metafisico!

A questo gravissimo motivo di rottura si aggiungono altri screzi relativi a quanto de Chirico aveva lasciato a Parigi al richiamo militare del 1914: non solo una documentazione preziosa sul suo processo creativo, ma anche “quadri probabilmente non finiti”, il tutto amdato nelle mani di Breton all’irrisoria cifra di 500 franchi per il prolungarsi della guerra che allontanava il ritorno di de Chirico a Parigi. Era ciò che rimaneva di quanto lasciato nel suo studio dopo che opere in numero imprecisato furono raccolte da Ungaretti e portate all’amico comune Paulhan per la vendita.

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Figura di donna in riva al mare”, 1925

Non va sottovalutato il valore anche economico dei quadri incompiuti  perché “la pratica del ‘completamento’ era un elemento inusuale, anche se scorretto” e, di conseguenza, “l’assenza di de Chirico da Parigi, considerata  ormai definitiva, rendeva quell’atteggiamento praticabile e certamente redditizio”. Come esempi vengono indicati “La matinée angoissante”, datato 1912, “dipinto forse incompiuto di de Chirico, compare per la prima volta nel dicembre 1921, e “Composizione metafisica”, dichiarato “dipinto falso, forse incompiuto di de Chirico ma successivamente radicalmente contraffatto”, venduto nel 1925.

De Chirico ha subìto e continua a subire  gravi danni  dal comportamento ostile di Breton il quale invece se ne avvantaggiò, diffamandolo con accuse false. Non va dimenticato che Breton era un collezionista mercante, e per gli interessi di tale attività pubblicò sulla Rivista dei surrealisti, nel marzo 1926, l’”Oreste e Elettra” del 1926 di de Chirico sfregiato; nel numero successivo lo denunciò come “falsario di se stesso [che] ha messo in circolazione un gran numero di falsi caratterizzati, tra i quali delle copie servili, peraltro per la maggior parte antedatate”. Per quali interessi lo spiega Benzi: “E sappiamo che non esiterà, in seguito, a far eseguire, da altri, dipinti falsi, con intento puramente venale oltreché su quello di gettare discredito sull’artista. Lo scopo (oltre a vendicarsi di de Chirico) era quello di divenire, al posto dell’autore, l’arbitro dell’autenticità dei dipinti metafisici”.

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“Les jeux terribles”, 1925

Vendicarsi di cosa? E’ presto detto, de Chirico non porse di certo l’altra guancia, anzi con il suo temperamento focoso passò all’offensiva e nella mostra “La peinture surrealiste”, organizzata da Breton nel novembre 2015,  contestò l’intitolazione di sue opere e soprattutto l’abusivo completamento di altre passate a Breton. Inoltre lo colpì da lato economico: strinse rapporti con un nuovo mercante, Lèonce Rosenberg – presentatogli da Breton –  il quale nel maggio 1925 espose in una mostra subito organizzata l’originale di “Le muse inquietanti”  spiazzando Breton che poteva aver venduto nel 1923 la copia spacciandola per originale, fatto di estrema gravità; ma soprattutto, tornato stabilmente a Parigi, nel novembre 1925 stipulò due contratti  di esclusiva alla vendita delle sue opere, prima con Rosenberg e dopo con Guillaume, il suo mercante della prima ora. Conclude Benzi: “Non sarà ovviamente Breton a gestire il mercato della sua pittura”. Il “follow the money” di Giovanni Falcone sembra valere pure in questo campo.

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” Interno metafisico-L’après midi d’eté”, 1925

Dieci anni dopo, nell’ottobre 1935, si arriva allo scontro fisico, dopo che alla minaccia di de Chirico “che regoleranno presto i loro conti, … Breton, replicando rabbiosamente che li regoleranno invece subito, colpisce con un pugno de Chirico gettandolo a terra, ripetendo cinque o sei volte l’atto  oltraggioso”. Sono ben lontani i tempi della fotografia scattata da Man Ray al “gruppo surrealista”, e pubblicata sulla copertina del primo numero della loro Rivista, che vede Breton e de Chirico  in posa tra i 14 artisti, divisi soltanto da Jacques-André Boiffard!     

Il “Film” di Benzi ci porta presto “in più spirabil aere”: si va dal classicismo mediterraneo a un nuovo classicismo, dalla “pittura della realtà” a un’“arte teatrale”, dalla “Metafisica del mondo nuovo” ai “presagi di guerra”. Ne parleremo nelle prossime puntate della nostra “fiction”, prima del gran finale, con il pendolo che oscilla di nuovo tra la “ripresa delle opere metafisiche” e “il definitivo ritorno all’arte antica”, che non è poi definitivo perché negli ultimi anni abbiamo  “la nuova stagione metafisica”. E’ “l’eterno ritorno” di un artista incommensurabile.

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“Nature morte à la brioche”, 1925

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 3 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7 – la I parte della trilogia – nei giorni 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012 ; in cultura.inabruzzo.it “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Bellini e Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte la chiusura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le revenant” 1918-22; seguono,“Villa romana (Paesaggio romano)” e “Villa romana (Paesaggio con cavalieri)” 1922; poi, ” Oreste e Elettra” ( prima versione) 1923, e “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” 1923″; quindi, “Natura morta con busto classico” fine 1923, e “Autoritratto” inverno 1923-24, inoltre, “Il filosofo (Il ritornante)” inizi 1924, e ‘”‘L’automate” fine 1924-inizio 1925; ancora, “La ciociara” e “Figura di donna in riva al mare”” 1925; continua, “Les jeux terribles” e ” Interno metafisico L’après midi d’eté” 1925; infine, “Nature morte à la brioche” 1925 e, in chiusura, “Composizione metafisica”, venduto nel 1925, forse incompiuto di de Chirico, ma poi contraffatto e dichiarato falso da de Chirico.

Composizione metafisica”, venduto nel 1925, forse incompiuto di de Chirico, ma poi contraffatto e dichiarato falso da de Chirico.

De Chirico, trilogia I – 3. Dalla Metafisica “ferrarese” al ritorno al classicismo

di Romano Maria Levante

Prosegue la visione di “Il Film della mia vita”, come abbiamo chiamato, riferendoci al Maestro, il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, Siamo alla 3^ puntata della “fiction” in cui si snoda, dopo la 1^ dedicata all’educazione in Grecia, ai trasferimenti a  Monaco e Milano, poi Firenze con l’illuminazione metafisica di Piazza Santa Croce; e la 2^ agli sviluppi della Metafisica con il trasferimento a Parigi, dove nascono le Piazze d’Italia, la malinconia di Arianna, le rivoluzioni prospettiche e gli oggetti insensati, fino ai manichini, con la figura ispiratrice di Apollinaire. Un’evoluzione  artistica apparentemente incomprensibile decrittata dall’accurata ricerca di Benzi, che fornisce spiegazioni documentate anche per il seguito, altrettanto criptico nella Metafisica “ferrarese”.

“Le Muse inquietanti” , giugno 1918

La metafisica dei biscotti e oggetti insensati di Ferrara

Abbiamo lasciato de Chirico a Parigi, Apollinaire si è arruolato per la Grande Guerra nell’estate 1914, ma con l’entrata in campo dell’Italia anche lui viene richiamato in patria con il fratello Savinio. E’ il maggio 1915, vanno al distretto militare di Firenze, poi sono assegnati a Ferrara e all’artista vengono date mansioni di “scritturale” che gli permettono di dipingere, dopo una fase di assestamento iniziale, il “Portrait de Paul Guillame”, della prima parte dell’anno: è l’ultimo retaggio parigino, del resto è il mercante al quale ha lasciato i suoi quadri e con cui resterà in continuo contatto. E’ preciso e figurativo, come il “Ritratto di Carlo Cirelli” di ottobre, già sotto la naja; altrettanto figurativi“Natura morta”  e “Les jouets du prince”, stesso periodo, mentre nell’inverno con “Le projects de la jeune fille” torna l’apparente insensatezza del guanto con dei rocchetti in primo piano, ma a sinistra spicca un edificio rosso con la cima turrita.

Dopo la scomparsa di ogni reminiscenza localistica e poi anche di ogni senso logico, Ferrara comincia a entrare con forza nella sua ispirazione, cominciando dai palazzi. E la Metafisica delle piazze, le arcate e i manichini, per non parlare di Arianna? Sembra dimenticata, ma per una nuova Metafisica, quella “ferrarese”, con la quale cerca di “riannodare i fili della sua ispirazione” con “i nuovi segni che Ferrara gli suggerisce – è la chiave con cui Benzi interpreta l’indecifrabile – Vetrine di provincia con oggetti disordinati, dimenticati forse da generazioni, quasi vetrine di una  Wunderkammer dove si annidano stranezze di mondi lontani, oggetti il cui uso è stato apparentemente dimenticato e sembra appartenere ad altre, remore culture”.  Si tratta della cultura ebraica, del ghetto di Ferrara, che risveglia l’interesse di de Chirico coltivato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, con l’ebraismo considerato da Reinach fondante la civiltà occidentale, giudaico-cristiana.

“La nostalgie de l’ingénieur”, prima metà 1916

E gli oggetti che lo colpiscono, esposti nelle vetrine e presenti nelle case, sono soprattutto, nelle sue parole, “dolci e biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane. A tale periodo appartengono i quadri detti ‘interni metafisici’.  A questi si aggiungono, fino a diventare prevalenti, oggetti geometrici, come squadre e righe da disegnatore, strumenti curvilinei e goniometri che provengono da un’altra “cultura”, le composizioni meccaniche futuriste, del movimento italianissimo da lui preferito, sia pure attribuendogli “molte debolezze”, al  cubismo “eminentemente francese” e al fauvismo. Tutto ciò si manifesta nelle opere della prima metà del 1916, quali  “Composizione metafisica” e “La nostalgie de l’ingénieur”,  “La révolte du sage” e Le fèdele serviteur” , “Le salut de l’ami lontain”, “Le deux après midi” . Mentre, nell’estate successiva, in “L’auge  juif”  torna una composizione da “manichino” formato dall’assemblaggio di righe e squadre da disegno, e in “Interno metafisico con grande officina” le squadre sono il contorno di un “quadro nel quadro”.

Nel settembre-dicembre 1916 un’altra novità, con i contorni dati dagli strumenti del disegnatore troviamo la cartina geografica dell’Istria,  altra manifestazione di italianità – oltre al riconoscimento dato al futurismo, al quale peraltro restò estraneo – dopo la notizia giunta a fine agosto dell’impiccagione da parte degli austriaci dell’irredentista istriano Cesare Battisti catturato sul sommergibile incagliato nel Quarnaro. Anche qui Benzi dà un’interpretazione: “E il coacervo di riquadri con oggetti, di squadre e segmenti tubolari, non è escluso che evochi l’affollato intrico degli interni dei sommergibili della prima guerra”. L’onda emotiva gli fa scrivere a Soffici “il cuore mio sventola ‘spiegato come una bandiera’”, parole del poeta che fa sue, e gli fa inserire una bandierina in “La mélanconie du départ” e in “La politique”,  non in “Natura morta evangelica” e “Le corseire”, nei quali comunque, come nei primi due, c’è la cartina dell’Istria.

“La révolte du sage”, metà 1916

Abbiamo sottolineato il suo riconoscimento del futurismo, al riguardo nacque un sodalizio con Carrà presentatogli da Soffici, peraltro quando entrambi avevano abbandonato il movimento. Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire prima a Pieve di Cento vicino Ferrara, poi nell’aprile 1917 nella stessa Ferrara per stare con de Chirico. Voleva fondare una rivista, anche insieme a Soffici,  a Parigi, con il mercante Guillaume e Apollinaire, la cui morte nel 1918 fece cadere il progetto.

De Chirico è ancora legato ai temi “ferraresi”: nei suoi dipinti tra la primavera  e l’autunno 1917  abbiamo i biscotti in “Natura morta evangelica “, il “quadro nel quadro” con un’officina in “Le jeux du savant” e “Interno metafisico con piccola officina”, dopo quello con la “grande officina” dell’anno precedente, di nuovo il “quadro nel quadro”  in  “Le réve de Tobie” con un pesce  e in  “Interno metafisico con villa”.

“Le fidèle serviteur”, metà 1916

Rivediamo i “manichini” in due opere tra marzo e agosto, “La musa metafisica” eSolitudine”, ma non sono di  de Chirico nonostante i titoli, bensì di Carrà. Cos’è avvenuto?  De Chirico in “La révélation du solitaire” , ai biscotti “ferraresi” dentro un riquadro, ha aggiunto una parvenza di testa di manichino, senza rilievo ma evocativa. E allora, è sempre Benzi che interpreta: “Carrà aderisce entusiasta alle ‘rivelazioni’ dechirichiane, ma con una radice fortemente idealistica, dichiaratamente platonica, che si distacca di netto dal nichilismo vaticinatorio di de Chirico”. Con intenti ambiziosi: “Egli crea una sorta di ‘religione’ dell’arte, in cui tutto si risponde secondo regole armoniche e filosofiche, ma usa e abusa delle immagini e dei segni dechirichiani”. E seguendo queste modalità: “L’adozione entusiastica del tema del manichino, che egli sviluppa in questo momento più del suo inventore de Chirico (dal quale comunque la trasse), lo ricollega  a sue esperienze precedenti… di personaggi meccanici futuristi”.

De Chirico ne è influenzato, abbandona l’assemblaggio di oggetti del secondo periodo “ferrarese” senza tornare alla compressione degli spazi e della prospettiva dell’ultima fase parigina; gli stessi temi “ferraresi” tradizionali, prima citati,  assumono parvenze oniriche e inquietanti; inoltre, con gli strumenti da disegnatore e le carte geografiche istriane, “inizia a comparire con sempre più evidenza qualche squarcio  di natura apparentemente iperrealista”, ma che rappresenta invece un sogno evocato nell’”Autobiografia”, dal quale è nato l’”Interno metafisico con villa”.

“Interno metafisico con grande officina”, estate 1916

Ricompaiono i manichini

Ai manichini bianchi e statuari di Carrà de Chirico risponde, alla fine del 1917, con gli splendidi manichini  compositi e cromatici di “Il trovatore” e la coppia “Ettore e Andromaca”, nei quali restano le squadre ma di contorno, mentre in “Il grande metafisico” sono elementi strutturali.

E’ solo l’inizio, nel giugno 1918 con “Le Muse inquietanti” “trova la sua apoteosi” – osserva Benzi – “in un completo abbandono del sistema di trasfigurazione che de Chirico applicava nella prima fase della metafisica…, ma accrescendo così il senso di realismo oggettivo e straniante che è proprio dei sogni; la sostituzione dei personaggi umani  con i manichini, già elaborati al tempo di Parigi, accresce la ‘disumanizzazione’ e l’onirismo delle scene”. La figura seduta senza testa si ispira a una statua acefala che aveva visto al Museo Archeologico Nazionale di Atene, vicinissimo  all’Accademia di Belle Arti del Politecnico da lui frequentata. Si tratta della dea Artemide, alla base la scritta OMEGA,  come  fine del tempo, letta alla rovescia AGEMO come “Hegemone”, secondo Benzi “dovette fondersi nella sua memoria con l’idea dell’eterno ritorno nietzschiano:  ‘L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere’”, viene evocato anche Eraclito, “il filosofo dei misteri” molto seguito da Nietzsche e da de Chirico.

“Les jeux du savant”, maggio 1917

L’autore fa una considerazione di ordine generale:  “A Ferrara la Metafisica diviene dunque un incrocio potremmo dire ‘fatale’, non un vero  e proprio movimento ma un movimento in nuce, progettato ma mai concluso, un gruppo disomogeneo per quanto ristretto, il quale trasforma l’invenzione pura e autonoma di de Chirico nel linguaggio comune di una piccolissima falange di artisti che si pone in parallelo alle contemporanee sensibilità europee di ‘riforma’ delle avanguardie prebelliche”. E conclude: “La visione di de Chirico si allarga come un cerchio nell’acqua a Carrà, che ne riprende puntualmente i temi salienti (manichini, stanze incubatrici di sogni, oggetti misteriosi, carte geografiche, perfino i biscotti e i pani tratti dalle vetrine di fornai del ghetto di Ferrara) riverberandosi in poco tempo su Giorgio Morandi…, sul giovane Filippo de Pisis, sul fratello di Giorgio, Alberto Savinio, ancora solamente come poeta e critico, e sul nume tutelare di tutti, Ardengo Soffici”.

A Roma il “ritorno all’ordine” verso il classicismo

De Chirico, pur essendo il padre assoluto della pittura Metafisica, ci teneva  a mantenere unita quella “piccolissima falange”, anche per poter meglio penetrare in Italia dove era poco conosciuto avendo maturato a Parigi la propria crescita artistica. Ma questo gli creò dei problemi che vedremo.

“‘Interno metafisico con piccola officina”, primavera-estate 1917

Torniamo al clima che si respirava a Roma alla fine del 1918, ben diverso da quello “di inquieta sospensione” della fase bellica che aveva visto gli artisti disperdersi per il richiamo alle armi. Già nella primavera due mostre contrapposte movimentano l’ambiente romano: a maggio la collettiva alla galleria dell’Epoca con de Chirico e Carrà, che espongono quadri metafisici, Soffici e Prampolini; a giugno la mostra di Piacentini  e Tridenti con 7 giovani di orientamento secessionista.

Sembra in atto la ricerca faticosa di un ritorno all’ordine dopo il caos nell’arte creato dalle avanguardie. Viene fondata la rivista “Valori Plastici” aperta ai contributi degli artisti, apre i battenti la galleria “Casa d’arte Bragaglia”, si succedono le mostre di pittori delle varie correnti, futuristi in testa con Balla e Depero, oltre a de Chirico e Sironi. Non manca Picasso conosciuto ancora come cubista, anche se in Italia aveva riscoperto il classicismo; pure de Chirico a Roma nell’aprile 1918 per la propria mostra sente il fascino del classicismo, sul quale si è aperto un dibattito,  dopo le tante esperienze che lo avevano allontanato dai classici ma solo in parte, restando il richiamo in sottofondo.  Non si limita a discutere, dipinge tra giugno e luglio quello che è stato definito il “dittico amoroso”: la “testa di donna” preannunciata a Soffici per la mostra,  “Alcesti”, che incarna la sua fidanzata, con il riferimento classico degli occhi  rivolti in alto come le Niobidi, e in sequenza, tra luglio e novembre, il proprio  “Autoritratto”.

; inoltre, “Interno metafisico con villa”, estate 1917

C’è un ritorno di fiamma per la metafisica “ferrarese” del “quadro nel quadro” tra righe e squadre da disegno in quest’ultimo mese in “Natura morta con cascata  paesaggio” e “Interno metafisico con faro”,  dove cascata-paesaggio e faro sono incorniciati. E nella mostra del 2 febbraio 1919 espone i quadri metafisici più rappresentativi, dall’”Enigma dell’oracolo” e “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” del 1910, a “ll trovatore”, “il grande metafisico” del 1917 fino alle “Muse inquietanti” del 1918 e al contestuale “Alcesti” che apre il nuovo corso.

Qui un cenno va fatto all’italica tragedia delle gelosie tra artisti,  Carrà, che dall’esperienza futurista aveva appreso l’importanza di un’etichetta artistica efficace come era la Metafisica, cercava di acquisirne il primato, sebbene fosse di de Chirico, al punto di boicottarne la partecipazione a una mostra del 1917 per apparirvi come unico metafisico presente; ma non si fermò qui, indusse l’amico Papini a suggerire a de Chirico Roberto Longhi come critico al quale sollecitare un articolo, mentre era d’accordo con loro per una stroncatura sul giornale “Il Tempo” dal titolo “Il dio ortopedico” uscita il giorno dopo la chiusura della mostra perchè non traesse vantaggi dal clamore suscitato.

Papini arrivò a proporre a Carrà – e non a de Chirico che non vi sarà nemmeno citato, cosa che gli aprirà gli occhi – di scrivere un libro dal titolo “Pittura metafisica”, dopo aver fatto cadere quello che lo considerava amico nella trappola del critico Longhi.  Benzi è molto circostanziato nell’analizzare i vari momenti di questo autentico complotto, dovuto alla frenesia di Carrà per rifarsi dall’uscita dal futurismo con l’aureola del creatore di un nuovo movimento altamente evocativo come  il metafisico, mentre gli avveduti parlavano “senza mezzi termini di plagio”.

“Ettore e Andromaca”, 1917

L’interesse non era del solo Carrà; de Chirico nell’Autobiografia scrive di essersi accorto tardi di essere “al centro di una congiura, e non sta fronteggiando solo l’ambizione del singolo Carrà”, che  godeva di molti appoggi mentre lui era isolato; ci sono anche gli altri, da Papini a Longhi, interessati ad essere protagonisti di un movimento che avrebbe dato “una nuova definizione dell’arte contemporanea”. De Chirico ne subì a lungo gli effetti negativi sulla sua vita artistica.

“Pictor classicus sum”, l’abdicazione alla metafisica 

Prima di riferire della “congiura” metafisica abbiamo accennato al nuovo fascino classicista riemerso tra il 1918 e il 1919, ma ancora “episodico e concettuale”, tanto che all’inizio del 1919 ancora dipinti metafisici di pregio, “I pesci sacri” e “Melanconia ermetica”, spogli ed essenziali senza più le divagazioni oniriche ferraresi e per questo  intensi ed efficaci, una sorta di botto finale.

Ormai il fascino classicista lo prende, scrive che alla vista di un quadro di Tiziano a Roma, durante la mostra nella galleria di Bragaglia, ebbe  “la rivelazione della grande pittura”. Per questo, dopo una condiscendenza verso il futurismo – ritenuto nella prima metà del 1919 “una necessità indiscutibile, un movimento che giovò immensamente alla nuova arte” – nella seconda parte dell’anno “la sua posizione si ribalta – dichiara Benzi – alla ricerca di un classicismo antiavanguardistico e di un “ritorno al mestiere” degli antichi, per cui ogni futurismo diviene un’aberrazione “che non ha nullamente giovato alla pittura italiana’”, scrive nei “Valori Plastici” a fine 1919.  Ed è questo il “ritorno all’ordine” del dopoguerra conclamato dalla rivista di Broglio.

“I pesci sacri””, inizio 1919,

Devono essere evitati gli accumuli di oggetti senza senso nati da sollecitazioni oniriche per una compostezza ispirata alla pittura rinascimentale, “in una ricostituzione ideale dell’ordine costruttivo dell’antica arte italiana”. Addirittura de Chirico si assoggetta a fare copie di opere antiche e, mentre copia un ritratto di Lorenzo Lotto alla galleria Borghese, ha un malessere fisico del tipo di quello provato quando ebbe l’illuminazione metafisica, ora ha dell’arte una nuova visione classicistica. Il “Ritratto di gentiluomo” di Lotto diventa il suo tenebroso “Ritratto d’uomo”, siamo nel luglio 1919.

Inizialmente è un classicismo che mantiene delle reminiscenze metafisiche, come “Ritratto dell’artista con la madre”, di fine primavera 1919, e anche la rivista “Valori Plastici” pubblica articoli accondiscendenti, di Carrà, Savinio e dello stesso de Chirico, con eventuali contaminazioni siano esse futuriste, metafisiche o altro. Sono dei mesi tra luglio e novembre i dipinti in cui sperimenta  la tecnica ad olio “all’antica”, e per questo “son tutti segnati dalle ossidazioni e dai prosciughi”: “Il ritorno del figliol prodigo” e “La vergine del tempo”, “Natura morta con le zucche (Le zucche)” e “Diana (Vestale)”.

“Il ritorno del figliol prodigo” , luglio-novembre 1919

La transizione non dura molto, presto “Valori Plastici” si irrigidirà, con tutto il suo gruppo, in una concezione molto rigida di classicismo. E dire che ne facevano parte sia Carrà, come si è visto già entusiasta della pittura metafisica al punto di volerla scippare a de Chirico;, sia il re della metafisica in persona, che evidentemente  stava abdicando, tutto preso dal nuovo amore per i classici!. I “valori plastici” secondo lui risiedevano nel Rinascimento, mentre secondo Carrà nel Trecento: prima si “litigavano” la Metafisica, ora il classicismo.

Dal “ritorno all’ordine “ al “richiamo all’ordine”, per così dire, e paradossalmente de Chirico è tra i più rigidi assertori dell’esigenza di una purezza assoluta. Dipinge “Autoritratto con busto antico e pennello”, che Benzi definisce “vero manifesto di un dipingere all’antica”, meglio conservato di quelli appena citati, segno che si è impadronito della tecnica pittorica classica. E’ novembre-dicembre 1919, scrive su “Valori Plastici”: “Mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d’ogni mia opera:  “Pictor classicus sum”. 

“Mercurio e i metafisici (La statua che si è mossa)””, 1920

Termina il 1919, il dado è tratto, la svolta si è compiuta e l’appassionante “Film” di Benzi ne celebra il Centenario. Della pittura metafisica resta solo un ricordo, anche se in qualche caso se ne vede la traccia nell’identificazione dei luoghi, con richiami greci, del resto classicità è anche Grecia antica. E’ il caso di “Il saluto degli Argonauti partenti”, siamo entrati nel 1920,  Benzi lo considera “il manifesto delle intenzioni del nuovo corso classicista dechirichiano” e lo associa all’”Enigma di un pomeriggio d’autunno”, entrambi segnano l’inizio di una fase, il “saluto” per quella classica,  l’”enigma”  per quella metafisica.

Dello stesso anno,  due “Mercurio e i metafisici”, nel primo il corpo nudo del dio sembra materializzarsi da una statua, nel secondo c’è addirittura la statua di Arianna al centro della piazza, ed “Edipo e la  Sfinge (Il tempio di Apollo)”,  non più vaticinatori ma dei: “Dallo stato dionisiaco nietzschiano della Metafisica la visione sembra essersi spostata sulla calma apollinea”, spiega Benzi; mentre in “Lucrezia”, dipinta tra il 1919 e il 1921, si notano segni metafisici nello squarcio di finestra triangolare con nuvolette, e l’incarnato finale è tipicamente classico.  Anche Picasso aveva abbracciato il classicismo, ma senza abbandonare il cubismo, li alternava, pur così diversi; mentre de Chirico diventava sempre più “Pictor classicus”.

“Mercurio e i metafisici”, fine 1920

Il suo entusiasmo per il nuovo corso classico è evidente nella lettera al mercante Guilllaume del 28 dicembre 1921 in cui propone una mostra per presentare la sua “nouvelle picture” ai francesi che pensavano si fosse smarrito, e scrive appassionatamente: “Ho risolto il problema tecnico della pittura in un modo eclatante: vedrete una pittura di una solidità, di una chiarezza, di un fascino e di un mistero meravigliosi”. Ma i francesi non la pensavano così,  e lui lo sapeva avendone scritto a Breton, con il quale avrà nuovi contatti nella fase surrealista.

Concludiamo questo terzo tempo del “Film” di Benzi con i suoi 3 “Autoritratti”, dopo quello del 1919:  la sua testa su fondo verde nel 1920-21, affiancata  a una testa da statua greca, come il “Ritratto d’Apollinaire, la sua figura al lato del Busto di Euripide con la scritta “Nulla sine tragoedia gloria”.

Ma le sorprese non finiscono mai, il rigore classicista si allentò e vennero le contaminazioni anche con un certo secentismo, de Chirico mostrò tutta la sua apertura a sollecitazioni opposte. Si entra nel periodo ‘romantico’”, ma poi verrà il surrealismo, un nuovo classicismo ed altro ancora, fino alla neo-metafisica, nell’evoluzione con rinnovamento continuo ma in una continuità di fondo di un artista irrequieto. Ne parleremo prossimamente nelle successive  puntate della “fiction” appassionante in cui si dipana “Il Film della mia vita” con la “regia” di Fabio Benzi.

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“Il saluto degli Argonauti partenti”,1920

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 4 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3 e 5 – la I parte della trilogia – nei giorni 9, 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del precedente articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Morandi 17 maggio 2015, Secessione 21 gennaio 2015, Sironi 1, 14, 29 dicembre 2014, Cubisti 16 maggio 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Lotto 2, 12 giugno 2011, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Le Muse inquietanti” giugno 1918; seguono, “La nostalgie de l’ingénieur” prima metà 1916, “e ““La révolte du sage” metà 1916, e “Le fidèle serviteur”, metà 1916; poi, “Le doux après-midi” metà 1916, e “Interno metafisico con grande officina” estate 1916; quindi, “Les jeux du savant” maggio 1917, e “‘Interno metafisico con piccola officina” primavera-estate 1917; inoltre, “Interno metafisico con villa” estate 1917, e “Ettore e Andromaca” 1917; ancora, “I pesci sacri” inizio 1919, e “Il ritorno del figliol prodigo” luglio-novembre 1919; continua, “Mercurio e i metafisici (La statua che si è mossa)” 1920, e “Mercurio e i metafisici” fine 1920; infine, “Il saluto degli Argonauti partenti” 1920 e, in chiusura, “Autoritratto con busto di Euripide” 1922.

Autoritratto con busto di Euripide” 1922

De Chirico, trilogia I – 2. L’evoluzione della pittura Metafisica

di Romano Maria Levante

“Il Film della mia vita”, come direbbe il Maestro se potesse leggere il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, dopo l’educazione in Grecia, a Vados e Atene, e i trasferimenti prima a Monaco, poi a Milano e Firenze – dove nasce la prima  Metafisica nella Piazza di Santa Croce davanti al monumento di Dante – si snoda nei mutamenti continui, di sede, con il trasferimento a Parigi, e di espressione artistica, con le forme sempre diverse e intriganti in cui si esprime l’invenzione metafisica. Poi andrà a Roma e con il “ritorno all’ordine” abbraccerà il classicismo, ma sarà la 3^ puntata di questa “fiction” vera e coinvolgente. Prima di “vedere”  la 2^ puntata, ripetiamo che non possiamo ripercorrere l’interminabile itinerario di ricerca e di indagine dell’autore, pur se appassionante come un film poliziesco, ma dobbiamo limitarci ai risultati straordinari che  fanno uscire dal labirinto dechirichiano e decrittare gli intricati enigmi.

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Mystère et melancolie d’une rue”, prima metà 1914

Parigi, la Metafisica della nostalgia

E’ il 14 luglio 1911, da quattro giorni ha compiuto 23 anni, approda a Parigi dove è già andato il fratello Savinio alla continua ricerca del successo musicale invano atteso a Milano e a Monaco. E’   ansioso di entrare in contatto con il gotha dell’arte, ha già conosciuto l’opera di Rousseau, è apprezzato da Apollinaire e da Picasso. Ma non risente degli influssi artistici francesi, è al livello delle avanguardie, dai cubisti agli orfisti, un “vate”  europeo,  non solo italiano o “fiorentino” –  come lo definiva Soffici – aggiungendovi il retaggio culturale della Grecia antica e moderna, di Germania e Francia. Cosmopolita, ma con la malinconia del “senza patria”, il “greculo Chirico” , come lo chiamò poi Carrà, restò legato alle radici elleniche, sognando e amando la sua terra natale.

Del resto, dalla lettura di Nietzsche aveva imparato che “la bella apparizione dei mondi del sogno … è il presupposto di ogni arte figurativa”, e dalla lettura di Schopenhauer che  “contrassegno del pensiero filosofico [è] il dono che altri abbia di vedere in certi momenti gli uomini e le cose come puri fantasmi o ombre di sogno… L’uomo artisticamente sensibile,,, dalle immagini del sogno impara a spiegarsi la vita”. Ma più che i sogni, in quell’estate lo affliggono i disturbi psicosomatici e in autunno, sempre del 1911,  dipinge soltanto il “Ritratto della madre” completando il trittico dell’“Autoritratto” dipinto in primavera, e del “Ritratto del fratello” del 1910.

L’anno dopo, 1912, ad ottobre espone  al Salon d’Automne, quello che Benzi chiama “il ‘dittico’ della ‘rivelazione’”, i due enigmi dell’autunno 1910 visti nel primo tempo del nostro “film”, “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” e “L’enigma dell’oracolo” con un “Autoritratto”.

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Solitude (Malinconia)”, prima metà 1912

Passano pochi mesi e nel marzo 1913 presenta al  Salon des Indèpendans la prima opera parigina, “L’énigme de l’arrivée et de l’après-midi”, realizzata all’inizio del 2012, insieme a “L’énigme del’heure”, che risale al 1910 e abbiamo già citato nel titolo in italiano, e a “La méditation matinale”, della seconda parte del 1912; nei due  dipinti parigini ci sono due figure, come in “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” del 1910, più grandi ma separate, sono notati da Picasso ed Apollinaire. Quest’ultimo dipinto evoca ricordi della Grecia, il vecchio edificio del museo di Olimpia da lui visitato, finestre molto simili dietro le quali si affacciano le antiche statue di divinità, si fa sentire la nostalgia; ma abbiamo detto che ci sono anche due figure, quindi una compresenza umano-divino fonte essa stessa di mistero, accentuato dall’immagine statuaria centrale, come distesa su un triclinio, che anticipa la successiva presenza di Arianna.

Non risulta abbia presentato nella prima mostra dell’ottobre 2012  l’opera la cui datazione la fa ritenere disponibile sin da allora pur avendola esposta nella seconda mostra del 2013; e in nessuna delle due mostre citate risultano esposte altre 4 opere metafisiche, anch’esse riferite al 2012, forse anche qui con un’anticipazione rispetto alla data effettiva, altrimenti le avrebbe presentate. Si tratta di ”Solitude (Melanconia)”, “La lassitude de l’infinì”, “Les plaisirs  du poete”, della prima metà dell’anno, di  “L’arrivée (La mélancolie du départ)”, della seconda metà.

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“L’arrivée (La mélancolie du de depart?)”, seconda metà 1912

Sono  accomunate da una vivace campitura gialla, sembrerebbe accolta l’osservazione di Apollinaire il quale, pur essendo vicino al cubismo dalle basse tonalità cromatiche, nel commentare la mostra pur in termini positivi trovava il  colore dei dipinti “triste”; non solo l’artista ne avrebbe tenuto conto nelle opere successive alla critica, ma avrebbe ritoccato quelle precedenti per renderle più vivaci. In tutte, inoltre, troviamo  gli elementi caratteristici della Metafisica parigina: le arcate più o meno numerose; l’elemento centrale costituito in due dipinti dalla statua, in altri due da motivi diversi;  la locomotiva sbuffante sullo sfondo, tranne in “Solitude” con due piccole figure e un’ombra misteriosa e inquietante.

Di nuovo la nostalgia in “La mélancolie d’une belle journée”, 1913, dopo un anno si esprime nelle colline sullo sfondo che ricordano quelle di Atene dietro la sua casa, dove da bambino giocava con il fratello.

In altri dipinti, più che la nostalgia ritroviamo visioni che lo hanno colpito, come nella visita a Torino del 1911 la Mole Antonelliana, nella cuspide troncata di “La nostalgie de l’infini”, 1913; e, nell’ottobre 1909, a 21 anni, nella visita a Roma la Tomba di Cecilia Metella riconoscibile in “La tour rouge”, aprile-ottobre 1913. Queste due opere, di ispirazione italiana, hanno dato avvio alla serie delle  torri metafisiche.

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“La melancolie d’une belle journée”, 1913

Di Roma gli rimasero impresse le arcate ininterrotte degli acquedotti, di lì è nato il sigillo delle “Piazze d’Italia”. Scrisse: “L’Arcata romana è una fatalità; essa ha una voce che parla attraverso enigmi pieni di una poesia stranamente romana, di ombre sui vecchi muri, e una musica curiosa…”   

E di Parigi? E’ colpito dalle stazioni e dalle alte ciminiere delle periferie di una città operosa, in un rimando alle immagini della Grecia, tra i ricordi infantili del padre ingegnere ferroviario e delle ciminiere  di Atene con l’Acropoli nello sfondo  “proponendo – nota  Benzi – quello stridente e indecifrabile contrasto tra antichità mitica e modernità industriale”.  

L’autore, sugli spunti presi dalla realtà, fa un penetrante rilievo, e ne vedremo in seguito l’importanza: “Dunque molti luoghi apparentemente immaginari  dei quadri dechirichiani sono decodificabili, e questi luoghi  hanno sempre uno speciale significato nella sua filosofia pittorica; sono una localizzazione dello Stimmung, potremmo dire dell’ispirazione stessa di de Chirico, che intende individuare il lato misterioso degli uomini e delle cose”. Tanto che nel 1918 scriverà:  “Bisogna scoprire il ‘demone’ in ogni cosa ”. Sono elementi reali da lui trasfigurati che restano riconoscibili, ma solo in questa fase.

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“La récompense du dévin”, 1913

Arianna e le Piazze d’Italia

Naturalmente non è presa dalla realtà Arianna – la cui figura dolente reclinata a terra compare nelle statue al centro delle “Piazze d’Italia” – né è tratta direttamente dalla poetica di Ovidio sul mito dell’abbandono da parte di Apollo da cui deriva comunque  l’immagine malinconica e desolata, ancora non è sopravvenuto Bacco a consolarla. Nasce da una poesia di Nietzsche – Apollinaire la citerà dopo, nel 1913 – “Lamento di Arianna” : “Fulminata  a terra da te,/ occhio beffardo che dall’oscuro mi guardi!/ Eccomi distesa,/ mi piego, mi dibatto tormentata/ da tutte le torture eterne,/ colpita/ da te, crudelissimo cacciatore,/ sconosciuto – dio…”.  In effetti, così la vediamo, distesa e tormentata nell’atmosfera metafisica delle “Piazze d’Italia”.

In “La ricompense  du dévin”, del 1913, di Nietzsche, oltre ad Arianna ci sono le due palme nello sfondo  dopo l’arcata e al di là del muro di mattoni, su cui il poeta tedesco scriveva: “A me un Europeo sotto le palme/ …e guardo come la palma,/ quasi una danzatrice,/ si piega flessuosa e sull’anca si dondola”.  Anche nel quadro “L’arrivée” c’è la “citazione” artistica  delle palme. 

Ricordiamo l’opera del 1912 , prima metà,  “Solitudine (Melanconia)”, già citata, con Arianna al centro e l’ombra inquietante tra le arcate, ora possiamo identificarla come appartenente al dio Apollo che “dall’oscuro” la guarda dopo averla “fulminata” con l’abbandono.

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“Piazza con Arianna”, metà 1913

Del 1913, ad aprile-ottobre “L’après-midi d’Arianne”,  in cui al motivo di Arianna si aggiungono la nostalgia e l’identificazione: l’alta torre-comignolo richiama, sia pure nel diverso colore rosso, quella del quartiere ateniese di Gazi ad Atene con le ciminiere in vista dell’Acropoli, nella commistione moderno e antico che abbiamo già sottolineato.

Arianna protagonista assoluta nei due dipinti da zoom fotografico, anzi, nel nostro riferimento cinematografico, da sequenza con primo piano finale: “Piazza con Arianna”  e “La statue silencieuse”, entrambi del 1913 in sequenza temporale, il primo a metà anno, l’altro nella seconda metà; vi troviamo i motivi  metafisici, arcate, torri e treno a vapore sbuffante sullo sfondo.

In queste due opere notiamo una prospettiva meno nitida di quelle precedenti, soprattutto nella seconda il primo piano schiaccia tutto il resto; in “Le voyage émouvant”, di fine 1913, addirittura manca la prospettiva, si è dentro le arcate, l’unica apertura l’arcata sinistra con lo sbuffo di vapore dietro il muro rosso, in una composizione quasi claustrofobica.  Nelle opere dell’anno successivo, il 1914, la deformazione si consolida, prima con una prospettiva laterale, poi con punti di fuga molteplici, fino a schiacciamenti in una sorta di scombussolamento senza alcun rapporto con la realtà pur immaginata.

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“La statue silencieuse”, seconda metà 1913

“Anche le rappresentazioni delle Piazze d’Italia, quando ancora compaiono – osserva l’autore – sono scosse da un terremoto interiore e onirico più profondo e minaccioso”, cosa che rende l’insieme   “sempre più evidentemente irreale, vicino alle immagini di un sogno. Le scene sono rivolte  a far emergere dall’interno della psiche nodi associativi che suggeriscano in maniera progressivamente più esplicita l’equivalente dello spaesamento visionario, della ‘rivelazione’ nietzschiana e schopenhauriana”.  Vi rientrano, in deformazione prospettica crescente, 4 opere della prima metà del 1914: “L’énigme d’une journée I”, e “Mystère et mélanconie d’une rue”, “Nature morte. Turin printanière” e “Le jour de féte”, fino al bianco e nero di “Le joie du retour”  le cui componenti sono prive di prospettiva come di spazi, con un effetto ancora più claustrofobico di “Le voyage”.  

I quadri “innovativi e stupefacenti” con oggetti impensati

Non solo piazze in questi anni, vediamo nel 2011 “Autoritratto” e “Ritratto della madre”;  nel 2013  “Portrait de Madame L. Gartzen” e  “Nu (aux cheveux noirs”, “L’incertude du poète”; nella prima metà del 2014 “La conquéte du philosophe” e “L’enigme de la fatalité”, “La revenant (Le cerveau de l’enfan)t”  e “Le  temple fatal”, “La sérenité du savant” e “Le chant d’amour”. A parte i ritratti, elementi disparati ed enigmatici, carciofi e  guanti, palle e  stampi, fino al cannone.

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“L”énigme d’une journée” , prima metà 1914

Anche di questi quadri, che definisce “innovativi e stupefacenti”, l’autore dà una descrizione quanto mai efficace: “Gli oggetti dilagano, monumentali, in spazi incomprensibili e serrati, dove anche i formati  dei dipinti possono deformarsi in inconsueti triangoli o trapezi, completamente alieni rispetto ai canoni della storia dell’arte”.  Ed ecco l’interpretazione: “Sembra quasi inutile cercare significati iconologici in dipinti che rinnegano qualsiasi senso logico. I nessi sono ormai solo psichici: ritroviamo sì i topoi dell’immaginario dechirichiano, ma essi sono contraddetti e messi in crisi da contesti intenzionalmente spiazzanti, a somiglianza di ciò che accade nei sogni più intimi e misteriosi, che ci lasciano al risveglio angosciati e  incapaci di comprenderne il senso”.

Troviamo conferma nelle parole dello stesso de Chirico che, proprio nel 1914-15,  scrive: “Affinché un’opera d’arte sia veramente immortale bisogna che esca completamente dai limiti dell’umano: il buon senso e la logica vi mancheranno. In questo modo essa si avvicinerà al sogno e anche  alla mentalità infantile”.  E Soffici, nel primo scritto su di lui definì la sua pittura “scrittura di sogni”.

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“Nature morte. Turin printanière”, prima metà 1914

La spiegazione non manca neppure dinanzi a visioni inimmaginabili, merito del grande lavoro di ricerca compiuto dall’autore e valore indiscutibile dei risultati del suo sforzo ammirevole, anche per le assonanze che trova con altri artisti e lo portano a riprodurre vicino al dipinto di de Chirico quelli “citati” di Rousseau e Matisse, Picasso e Gauguin, fino a Van Gogh. A scanso di equivoci spiega: “Questi riferimenti scivolano come mercurio sulle immagini assolute e autonome di de Chirico, senza contaminarle, come sosteneva Apollinaire, con riferimenti e debiti leggibili”. Ed ecco la citazione del poeta mentore e sodale di de Chirico: “L’arte di questo giovane pittore è un’arte interiore e celebrale che non ha alcun rapporto con quella dei pittori che si sono rivelati in questi ultimi anni. Non viene né da Matisse né da Picasso; e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova, che essa merita di essere segnalata”. E chiama i suoi dipinti “metafisici”.

I manichini metafisici e Apollinaire

Benzi osserva che lo stringersi dei rapporti con Apollinaire ha coinciso con l’evoluzione di cui si è detto nelle  Piazze metafisiche, allontanatesi sempre più dai luoghi della nostalgia perdendo anche i riferimenti prospettici e l’ ambientazione naturale: “Gli spazi e i contesti  che vanno creandosi sono sempre più vicini a quelli irrazionali dei sogni, in un percorso che era già iniziato con la Metafisica fiorentina, ma che ora va approfondendosi in iconografie sempre più complesse e articolate”.

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“Le chant d’amour”, metà 1914

Ma va ben oltre, nella sua investigazione che, come abbiamo detto, cerca anche di individuare la matrice originaria di quanto è ritenuto frutto di una intuizione personale senza altri padri. Lo vediamo rispetto ai “manichini”, il sigillo di quella parte della Metafisica dechirichiana diversa dalle Piazze d’Italia  e da altre visioni. E trova la matrice in Apollinaire, a conferma di quanto de Chirico ne seguisse gli scritti, che il poeta gli faceva leggere anche prima della pubblicazione quando i loro rapporti si strinsero; e così fu per “Le poète assassiné”, in cui oltre alla descrizione dell’”homme-cible”, cioè bersaglio, c’è “l’uomo calvo”,  una statua di bronzo che parla e si muove,  e un uomo “senza occhi senza naso senza orecchie”, dai quali nasce il manichino di de Chirico; e non – come insinuato maliziosamente da Roberto Longhi, che non ha mai amato de Chirico – dai “Chants de mi mort” di Savino ispiratisi nello stesso periodo alla medesima fonte.

Il primo manichino lo vediamo in “Le tourment du poète”, è solo un prototipo, se possiamo usare questo termine, di tipo sartoriale, della fine del 1914. Ma già all’inizio del 1915 abbiamo i manichini metafisici veri e propri, con due archetipi. “Le vaticinateur”  ne fissa l’immagine e il ruolo “misterico”, quello dell’oracolo. E anche nella funzione, oltre che nella forma di manichino, de Chirico si ispira ad Apollinaire, impegnato sui temi a lui cari, “la ‘preistoria’ dell’umanità e la sensazione del presagio, l’oracolo e il mistero, il non senso che si può esprimere attraverso segni di cui si ignora il significato”. L’autore cita anche i “geroglifici” presenti in opere dell’artista con questa derivazione e significato: nella commistione antico-moderno diventano segni stenografici.

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“Portrait de Guillaume Apollinaire”, estate 1914

L’altro archetipo, “Le duo”,  prelude a una serie di coppie metafisiche – “Ettore e Andromaca”, “Oreste e Pilade”, “Il figliuol prodigo” –  la cui origine, documentata da Benzi con le immagini comparative,  si trova nel gruppo statuario greco del I sec. d. C. “Oreste  e Elettra”. Nella prima  metà del 1915 “Les deux soeurs” ci dà il primo piano delle teste di un “duo” di manichini, quasi una “zoomata” come quella che abbiamo visto nella “Statue silencieuse” di Arianna nel 1913.

Manichino di spalle  sulla destra in “Le poète et la philosophe” e sulla sinistra in”Le double réve du printemps”, accomunati anche da un quadro centrale: nel primo sono delineati i contorni, mentre in “Le pareté d’un réve” c’è anche un quadro al centro, questa volta con un ramo colorato, che dà luce alla composizione con due alte costruzioni ai lati dalle arcate scure e opprimenti.

Siamo nella prima metà del 1915, è anche l’oppressione della guerra alle porte, per la quale l’interpretazione del significato del manichino si incupisce rispetto a quella legata ad Apollinaire: “In continuità col pensiero nietzschiano della prima Metafisica, il manichino assume l’aspetto dell’uomo deprivato della sua coscienza nazionale, parvenza enigmatica in mezzo alle altre enigmatiche presenze del mondo, uomo primordiale all’alba della storia”.  De Chirico è stato testimone di un  bombardamento a Parigi, perciò – scrive Benzi – il manichino “rappresenta il senso dell’alienazione umana causata dal conflitto… come se la classicità ellenica e italica, che sempre aveva permeato i suoi primi dipinti metafisici, fosse stata messa in crisi dalla brutalità cieca della guerra. Tuttavia la visione dechirichiana rimane sempre intatta sullo sfondo, anche in presenza di crisi”.

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“Le vaticinateur”, inizio 1915

Invece Apollinaire partecipò da volontario alla Grande guerra, e fu ferito alla testa da una scheggia di obice nel 1916, nella tempia sinistra dove profeticamente de Chirico aveva tracciato un bersaglio nel “Portrait de Guillaume Apollinaire” dell’estate 1914,  proprio quando il poeta amico lasciò Parigi nel mese di luglio per arruolarsi. Il bersaglio dell’”homme-cible” è nel profilo scuro di fondo della figura,  mentre in primo piano c’è la testa da scultura classica ma con capelli moderni e occhiali scuri che alludono alla veggenza:  un uomo contemporaneo visto come busto classico, l’intrigante commistione antico-moderno. Due formelle per dolci sulla destra, la “carpa”, pesce della malinconia,  per questa che viene definita “musa inquietante” sua e di de Chirico,  e la “conchiglia”  per il pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela del quale il poeta parla nel  “Poete assassiné”, una sorta di simbolica autobiografia. Il monumento al protagonista Croniamantial, “nuovo Orfeo”,  è fatto di “nulla”, è una fossa affinché “il vuoto fosse pieno del suo fantasma”, perché qualunque materiale sarebbe inadeguato alla  sua grandezza. come queste  forme vuote: “Una sorta di fossile moderno, memoria di epoche primordiali, la cui forma è conservata dal suo vuoto”. Anche nell’altro ritratto di poco successivo, “La nostalgie du poéte”, estate-autunno 1914, c’è la testa da statua con occhiali, questa volta di profilo, e la “carpa” vuota. Apollinaire definì il ritratto “opera singolare e profonda”, e de Chirico, nel rendergli omaggio dopo la morte prematura nel 1918 scrisse: “Di malinconie ne conosceva più di una; anzitutto quella dei senzapatria”; ricordando  “le spirali della sua cronica malinconia di poeta dal destino triste”.

“Le duo”, inizio 1915

Così Benzi riassume l’importanza del poeta nell’evoluzione dell’artista, ormai trentenne: “Il sodalizio con Apollinaire e l’influenza della sua onirocritique, il metodo del sogno innestato alla poesia, coincide dunque con la sviluppo in de Chirico di spazi sempre più irreali… e contigui allo stato onirico, di non luoghi, o meglio, luoghi della coscienza interiore. Manichini, forme inspiegabili, scritte indecifrabili li popolano da ora in avanti, segni di una coscienza allo stato primordiale, di un vaticinio appena espresso: che invece di rendere più chiaro il mondo, lo rende ancora più imperscrutabile”.

Vedremo nella 3^ puntata della “fiction” vera in cui si snoda “Il Film della mia vita” di de Chirico,  nella magistrale regia di Fabio Benzi, come la sua Metafisica diventi ancora più indecifrabile nel periodo “ferrarese”, e sarà seguita dal  “ritorno all’ordine” e dal classicismo adottato pienamente, nella tecnica e nei contenuti. Nelle puntate successive l’ulteriore evoluzione, il surrealismo e l’arte teatrale, il ritorno della Metafisica, seguita da un nuovo classicismo fino alla neometafisica. C’è ancora molto da vedere e da emozionarsi dinanzi a una vita e un’arte così inquieta e mutevole.   

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“Les deux seurs”, prima metà 1915

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 5 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quello del giorno 3 – la I parte della trilogia – nei giorni 7, 9, 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del precedente articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per la mostra su Ovidio, 1, 6, 11 gennaio 2019, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Matisse 23, 26 maggio 2015, in cultura.inabruzzo.it Van Gogh 17, 18 febbraio 201, per l’aspetto onirico “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi tutte meno 4 (perchè in doppia pagina), si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Le 4 immagini non riprese dal libro sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: tali siti sono “Engramma” per le immagini n. 2, 3, 7, “Fichr” per la n. 6 In apertura, “Mystère et melancolie d’une rue” , prima metà 1914; seguono “Solitude (Malinconia)” prima metà 1912, e “L’arrivée (La mélancolie du de depart?)” seconda metà 1912; poi, “La melancolie d’une belle journée” e “La récompense du dévin” 1913; quindi, “Piazza con Arianna” metà 1913, e“La statue silencieuse” seconda metà 1913; inoltre, “L”énigme d’une journée” e “Nature morte. Turin printanière” prima metà 1914; ancora, “Le chant d’amour” metà 1914, e “Portrait de Guillaume Apollinaire” estate 1914; continua, “Le vaticinateur” e “Le duo” inizio 1915; infine, “Les deux seurs” e, in chiusura, “Le poète et le philosophe” prima metà del 1915.

“Le poète et le philosophe”, prima metà del 1915

De Chirico, trilogia I – 1. Il Film della vita e dell’arte nella grande ricerca di Fabio Benzi

di Romano Maria Levante

Una nuova  celebrazione di Giorgio de Chirico dopo quella del 2016 dedicata al trentennale della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico: fu una giornata di analisi e riflessioni sulle implicazioni filosofiche del suo pensiero e della sua arte all’Accademia di San Luca con le relazioni  di docenti universitari, oltre che del presidente Paolo Picozza e di Fabio Benzi. Questa celebrazione è dedicata al quarantennale della morte e al centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità con la venuta a Roma dell’artista nel 1919, e si sono fatte le cose in grande. La Fondazione ha prodotto quella che ci piace chiamare una “trilogia” dechirichiana, innovativa anche nelle  componenti più tradizionali, per così dire, le mostre di Genova e di Torino, dove la novità sta nell’ulteriore approfondimento, la prima della “metafisica continua”, la seconda dell’eredità dei posteri con opere ispirate al  Maestro; trilogia iniziata con la grande ricerca di Fabio Benzi.

Autoritratto”, 1920 (dalla copertina del libro)

Il volume di Benzi, un’accurata ricerca nel labirinto e nell’enigma dechirichiano

La massima innovazione l’abbiamo trovata nella prima componente della “trilogia”, la chiave interpretativa delle altre due e dell’intera storia del Maestro l’imponente lavoro ermeneutico, di ricerca e ricostruzione svolto da Fabio Benzi  nel volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”. Non l’abbiamo chiamata “biografia”, sarebbe stato non solo riduttivo ma fuorviante, e in questo sta il suo aspetto profondamente innovativo tale da rappresentare un archetipo da seguire per chi avrà la forza di svolgere, come ha fatto Benzi,  un lavoro imponente anche per altri maestri.  

La volontà tuttavia non basta,  è necessaria la vasta documentazione che si trova solo se si sono costituiti Archivi  completi che consentono di ripercorrere l’itinerario creativo intrecciato alla vita dell’artista. La mostra “La vetrina di Cambellotti”  nel marzo scorso ha celebrato il compimento del vasto e documentato Archivio su di lui, ricco di 8000 documenti, a disposizione degli studiosi, e Fabrizio Russo, titolare dell’omonima galleria in cui si è svolta la mostra, ne ha sottolineato l’importanza a tutti gli effetti.

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Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni, 1907

Benzi ha dimostrato come si possa valorizzare il materiale d’Archivio collegandolo alle opere dell’artista impegnandosi in un lavoro certosino di analisi e verifica  dei molteplici   momenti  creativi tradotti nelle opere collegandoli  con gli altrettanto molteplici momenti di vita per darne interpretazioni sostenute da valutazioni di ordine psicologico tanto più motivate quanto più la ricostruzione è precisa e documentata.

Una ricostruzione  inedita, originale e  innovativa, l’isola che non c’era nel mare delle analisi dechirichiane, con  gli opportuni  riferimenti agli apporti dei critici impegnatisi sui singoli aspetti  di volta considerati,  tratti da una bibliografia che l’autore definisce “immensa”, tale da non poter essere riportata in appendice;  mentre vengono indicate le citazioni utili a comporre un quadro valutativo  documentato in ogni aspetto.

E anche nella parte iconografica l’impegno è stato massimo, accompagnando passo passo la  ricostruzione del percorso artistico e dell’itinerario di vita nella quale particolare rilievo assumono  i contatti e gli incontri per i loro riflessi sul processo creativo dell’artista fatti rivivere con la riproduzione delle opere che ne sono nate. Per questo  il titolo “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”  ci sembra riduttivo, alludendo a una biografia, mentre è molto di più: ripensiamo al libro del Maestro “Le memorie della mia vita”,  nel lavoro di Benzi de Chirico potrà vedere “Il Film della mia vita”, perché le immagini contestuali ai singoli momenti dell’arte e dell’esistenza trasformano la lettura in una visione, appunto cinematografica, quanto mai coinvolgente: sono oltre 300, inserite nelle 550 pagine  del ricco volume, a illustrare ogni momento rivelatore del processo creativo.  

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“Tritone e sirena” , estate-autunno 1909

La lettura delle biografie per lo più si limita a suscitare un interesse conoscitivo facendo restare all’esterno,  mentre la lettura, anzi la visione della rappresentazione di Benzi fa entrare  dentro la scena fino a coinvolgere totalmente con l’ansia di andare avanti: per conoscere, interpretare e soprattutto vedere il prosieguo di una storia sempre più avvincente. Si penetra nelle vicende di una vita movimentata e mutevole e nel processo creativo che, pur nella “metafisica continua” cui si intitola una delle due mostre del quarantennale, è altrettanto movimentato e variabile dando vita ad  opere apparentemente incomprensibili  che la ricostruzione di Benzi riesce a far decifrare dando al lettore la soddisfazione della scoperta.

E come sia stato complesso tutto questo lo anticipano  le due citazioni che l’autore pone in apertura come  “sigilli”:   “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata  a tale fine” ” di Jorge Louis Borges; e “l’enigma dell’arte racchiude in sé quello del mondo, però lo rende formalmente praticabile” di Fabio Mauri.

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“Lotta di centauri” , estate-autunno 1909

Benzi non si è fatto “confondere” dal labirinto dechirichiano in cui ci sono le architetture, con e senza simmetrie;  e si è impegnato nel decrittare “l’enigma dell’arte” rendendo “praticabile” quello del mondo. E lo ha fatto – elemento oltremodo importante e non scontato facendo lui parte della Fondazione – senza alcun intento agiografico, al contrario si impegna strenuamente per far emergere gli influssi e le ispirazioni che il Maestro ha avuto nelle  sue creazioni maggiormente innovative – dalla pittura  metafisica in generale fino ai manichini in particolare – e trova i precedenti in poeti e pensatori, e non solo, in una visione opposta a quella che coltiva il “genio isolato” anticipatore senza alcun debito verso il retroterra culturale.  Sotto questo profilo la sua ricerca è particolarmente accurata, si direbbe accanita: anche dove comunemente viene visto un “prius” assoluto scova antecedenti ispiratori, e riporta le relative immagini a confronto con la rielaborazione del Maestro, sempre innovativa, si tratti di luoghi come pure, in certi casi, perfino di  dipinti.

Ci ha fatto ripensare all’impostazione della mostra alle Scuderie del Quirinale nel quinto centenario della morte di Leonardo, dichiaratamente orientata a “sfatare il mito del genio isolato” da parte del curatore, che dirige il Museo delle macchine leonardesche. Il lavoro di Benzi, esponente della Fondazione de Chirico, sebbene non si propone  questo, fa emergere, con una indagine anche psicologica molto penetrante, i fattori su cui si è costruito quel genio straordinario che ha lasciato un segno profondo nell’arte e nel pensiero del ‘900:  fattori interni, come la formazione adolescenziale e gli spostamenti da una parte all’altra in Europa e nel mondo, fattori esterni nei rapporti con filosofi, poeti, e anche pittori dai quali ha tratto gli elementi per la sua personale rielaborazione.  I suoi copiosi scritti, e quelli dei personaggi con cui è stato in contatto,  sono  una fonte preziosa di validazione e conferma di quanto ricostruito con l’equazione arte-vita.

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“Centauro morente” , estate-autunno 1909

Uno dei maggiori pregi della ricostruzione operata da Benzi sta nel procedimento investigativo con cui ha trattato le sue fonti dalle origini più diverse, ma noi non potremo darne conto per i limiti del nostro scritto, concentrato necessariamente sui punti fermi, e sono molteplici, che riesce a fissare nella sua ricerca instancabile all’interno del labirinto. Riesce sempre a trovare il percorso giusto che gli consente di decifrare gli enigmi più imperscrutabili, nei quali l’arte si intreccia con la filosofia e con altre discipline che l’inesauribile fantasia e l’imponderabile versatilità del Maestro evocano in forme sempre nuove e intriganti. Pagina dopo pagina l’interesse cresce, si resta attoniti e ammirati, seguiremo il suo racconto come il dipanarsi di un film, per questo riprodurremo in parte anche la sequenza di immagini che lo corredano.

Atene, Monaco e Milano, la nascita di un artista colto e irrequieto

La ricostruzione della figura e dell’opera di de Chirico, nato a Vados in Tessaglia il 10 luglio 1888 da famiglia benestante – il padre Evaristo ingegnere civile costruttore di ferrovie in varie nazioni e poliglotta, come sarà anche lui che parlerà cinque lingue – inizia con “l’educazione in Grecia” in un clima cosmopolita per la presenza di espatriati; quindi, apertura internazionale ma intense suggestioni del mito greco, inteso non come mitologia favolistica bensì come simbolo e metafora. Il massimo  poeta ellenico di allora, Kostis Palamis ebbe di certo influenza su di lui, che studiava al Politecnico di Atene, come sui giovani compagni che manifestavano anche in piazza. Il pensiero di Nietzsche, al quale si ispirava il poeta, e la filosofia di Schopenauer, si impressero nel meccanismo formativo  del giovane Giorgio ammodernando ciò che altrimenti sarebbe stato superato e stantio.

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“Prometeo” , inverno 1909

Una compresenza di entrambi i motivi, tradizionale e moderno, si aveva anche nel panorama urbano, con le antiche rovine, si pensi all’Acropoli,  e i moderni edifici industriali, e tutto ciò si rifletterà nelle sue opere, almeno all’inizio.  Come la formazione dei suoi insegnanti del Politecnico, avvenuta all’Accademia delle Belle Arti di Monaco, rinsaldava il nesso con la cultura tedesca già emerso in Nietzsche, in direzione di un rinnovamento che nella pittura apriva l’arte greca al di là dalle icone tradizionali. De Chirico si collegava agli artisti greci d’avanguardia, oltre che all’ambiente letterario e filosofico; poi verranno gli innovatori,  Picasso, Kandinskji e Marinetti.

Da Atene e Vados a Monaco di Baviera, il salto avvenne nell’ottobre 1906, meno di un anno e mezzo dopo la morte del padre, lui aveva meno di 17 anni, il fratello Savinio era tredicenne,  orientato alla musica. La madre volle trasferirsi nella città tedesca alla ricerca della migliore Accademia d’arte per lui, da cui provenivano  i maestri del Politecnico, mentre per il fratello c’era la prospettiva musicale in Italia dove andò dopo 5 mesi accompagnato dalla madre, che rimase con lui. Giorgio restò a Monaco, una pietra miliare sul piano artistico perché conobbe la pittura di Bocklin, le incisioni di Klinger, definito “il campione delle Secessioni”, e altri come Feuerbach e von Marèes; mentre sul piano filosofico si addentrò nella filosofia di Nietzsche e Schopenhauer che leggeva nei testi originali, conoscendo il tedesco, e assimilò temi e concezioni nel suo mondo interiore che troverà lo sbocco geniale dell’espressione metafisica.

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La partenza degli Argonauti” , inverno 1909

L’insegnamento accademico, tuttavia, alieno da ogni sperimentazione, costituiva pur sempre una sorta di cappa alla quale cercava di sfuggire con gli approfondimenti personali ora citati di tutt’altro orientamento, finché lasciò l’Accademia prima di terminare gli studi per seguire “l’altra strada”.  

Ma è a Milano – dove si trasferisce a 20 anni raggiungendo madre e fratello dopo due anni e mezzo vissuti da solo, senza portare con sé quanto dipinto a Monaco ritenuto inadeguato – che nascono i primi dipinti  “bockliniani”, come “Tritone e sirena” e “Prometeo”, “Lotta di Centauri” e “Centauro morente”, fino a “La partenza degli Argonauti”, tutti dell’autunno  1909. Un “mondo ancestrale, sospeso tra natura primigenia e mitologia antica, sorgente dell’umanità –  commenta Benzi – un’aurora dell’uomo  in cui ogni cosa stupisce e il tempo è fermo, circolare, un presente ancora senza storia dove è possibile l’eterno ritorno nietzschiano”.

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Serenata”, primavera-estate 1910

A Firenze, l’illuminazione metafisica con i suoi enigmi

E’ molto breve la parentesi milanese, nel 1910 è Firenze ad accogliere lui ventiduenne  con il fervore culturale e artistico cittadino, conosce Soffici e Papini il cui pensiero gli apre finalmente “l’altra strada”, che si traduce nella visione metafisica. Questa pur fondamentale circostanza non basta ad interpretare compiutamente le opere ispirate al nuovo sistema poetico-filosofico se non si trova anche la matrice della forma rappresentativa radicalmente diversa da quella di ispirazione blockiniana.  Infatti “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” e “L’enigma dell’oracolo”, entrambi dell’ottobre-novembre 1910, con la nettezza e precisione delle campiture, sono lontanissimi dallo stile in cui sono dipinti i Centauri, Tritoni, Argonauti,  delle opere milanesi prima citate le cui vibrazioni pittoriche, assenti negli “enigmi fiorentini”, sono date da pennellate “minuziose e strisciate, pastose e tremolanti”.  Ebbene,  l’autore trova la nuova matrice pittorica delle primissime opere metafisiche nello stile di Henri Rousseau, a sua volta ispirato da Paolo Uccello, conosciuto attraverso un articolo di Soffici – che aveva acquistato due quadri del Doganiere – pubblicato subito dopo la morte del pittore francese; anzi, individua nelle due figure dell’”Enigma di un pomeriggio d’autunno” una citazione della “Musa che  ispira il poeta Apollinaire” di uno dei due quadri di Rousseau riprodotti in bianco  e nero  nell’articolo di Soffici, che potrebbe aver visto al naturale visitando la sua casa.

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“Processione su un monte” , settembre-ottobre 1910

Entra così in campo il poeta Apollinaire, che in un primo tempo sembra accreditare il riferimento a Rousseau, poi si ricrede, divenne sodale di de Chirico, sul quale – osserva l’autore con la sua libertà di pensiero aliena da intenti agiografici – “possiamo esser certi che non avrebbe mai confessato ad Apollinaire o ad altri il suo debito fugace ma determinante nei confronti del Doganiere”. Altrettanto libera e coraggiosa l’osservazione sui contenuti appoggiata a una citazione di brani  di Soffici su Rousseau: “L’impressionante linguaggio di Soffici, che sembra una descrizione dei quadri dechirichiani enunciata ancor prima che essi siano stati dipinti, ci dà una misura di come, appena uno o due mesi prima della sua intuizione, de Chirico dovesse aver letto quelle pagine, sentendole cariche di un presagio ancora non realizzato: descrizione di piazze deserte,  e di oggetti privati di significato, di lirismo spogliato di razionalità”.  A ciò fanno eco le affermazioni di de Chirico metafisico con riscontri tra parole, poetiche e concetti definiti “impressionanti”.

Il clima di malinconia nasce dallo “Stimmung”, posto da de Chirico alla base della sua visione metafisica come “stato d’animo”  che lui stesso, traendolo da Nietzsche, definisce “atmosfera nel senso morale”. Si traduce nell’espressione pittorica conseguente così definita: “Le nuove stesure divengono ampie e monocrome, rialzate da leggere pennellate chiare o scure per dare volume alle forme”  rispetto al precedente “sfrigolante tessuto”  di “pennellate sovrapposte”. In tal modo “riesce a rappresentare un mondo in cui l’astrazione del colore dona alle forme  un’assolutezza noumenica, astrattiva, mentale, che realizza una visione interiore e sintetica”.

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“L’enigma d’un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 1910

Ecco come lo giudica Soffici dopo un breve accenno a Paolo Uccello che ritira subito negando una “somiglianza essenziale” con de Chirico, anzi aggiungendo che “la sua opera non somiglia a nessun’altra, antica o moderna, che sia formata su cotesti elementi”. Per concludere: “La pittura di de Chirico non è pittura, nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni… egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, dì immobilità di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata”.

Siamo entrati così nel bel mezzo della visione metafisica, nei suoi aspetti contenutistici ed espressivi, e dopo aver citato le due prime opere in cui essi appaiono con chiarezza, ne citiamo una definita  “quadro proto metafisico”, che precede le prime due di un mese, “Processione su un monte”, settembre-ottobre 1910, un  paesaggio greco con tre coppie “infagottate” in cammino lungo un sentiero in salita verso una chiesetta lontana: il confronto con la composizione del 1908 di Camillo Innocenti, “Al rosario”, mostra le notevoli differenze ma anche l’analogia compositiva, mentre viene sottolineata “la somiglianza certo ancora più pregnante di questo quadro con quelli di Rousseau”, altra sconfessione del “genio isolato” avulso dall’ambiente artistico del suo tempo. Costituisce “il primo esperimento, ancora acerbo ma destinato rapidamente a condensarsi nella nuova visione, nella direzione dell’invenzione metafisica”.

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“L’enigma dell’oracolo”, ottobre-dicembre 1910

Ma si passa subito, un mese dopo, al “primo enigma metafisico”, cioè “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 2010, quando a Firenze, in Piazza Santa Croce, come racconta lui stesso, seduto su una panchina da convalescente, davanti alla statua in marmo di Dante al centro della piazza, ebbe ”la strana impressione” di vedere “tutte le cose per la prima volta”: “E la composizione del quadro mi apparve in mente… Mi piace chiamare anche l’opera che ne risulta un enigma”. 

L’atmosfera è quella dello “Stimmung”, lo stato d’animo  che spoglia le cose del significato consueto per far affiorare il mistero della loro vera natura, e non manca il riferimento a Rousseau al quale Soffici attribuisce un “senso d’ irreparabile, quotidiana, diuturna malinconia”. Mentre de Chirico si entusiasma a ciò che di nuovo ha creato definendolo – in una lettera a Fritz Gartz, amico-collega di Monaco – “non grande o profondo (nel vecchio senso della parola) ma terribile” e cita Nietzsche come “il poeta più profondo”, mentre la profondità  “si trova da tutt’altra parte  rispetto a dove la si è cercata finora”. Fino ad esclamare: “I miei quadri sono piccoli, ma ognuno è un enigma, ognuno contiene una poesia, un’atmosfera (‘Stimmung’)… una promessa che lei non potrebbe trovare in altri quadri. E’ una terribile gioia per me averli dipinti”.

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L’enigma dell’ora” , ottobre-dicembre 1910

Seguono, entrambi di ottobre-dicembre 2010, altri due enigmi. In “L’enigma dell’oracolo” la figura arroccata in alto si staglia su uno sfondo lontano, tipico panorama che evoca il Partenone, mentre sulla destra c’è la statua del dio seminascosta da una tenda nera, che evoca a sua volta l’iconostasi posta nelle chiese ortodosse per separare la parte della chiesa dedicata alla divinità da quella con i fedeli. Al riguardo lui stesso scrive: “Una delle sensazioni più strane  e profonde che ci abbia lasciato la preistoria  è la sensazione del presagio. Essa esisterà sempre. E’ come una prova eterna del non senso dell’universo”. In merito al quadro precisa: “E’ l’ora ghiacciata dell’aurora di un giorno chiaro, alla fine della primavera”.

Poi si passa a “L’enigma dell’ora”, a chiusura di questa prima fase metafisica fiorentina, con riferimento al mistero del “meriggio” che nella tradizione greca e nei paesi mediterranei è “l’ora dei fantasmi, delle visioni, dei deliqui divinatori”, e nei paesi nordici corrisponde alla mezzanotte. Un ritorno alla cultura ancestrale greca a riprova che continua a premere su di lui, insieme alla poetica di Palamis, ai temi filosofici di Nietzsche e Schopenauer, al pensiero di Papini e Soffici.

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Ritratto dl fratello”, gennaio-marzo 1910

Così, riassume l’autore, “la meditazione paradigmatica rappresentata dalle due prime tele metafisiche, basate su Firenze e Atene, va ampliandosi a piazze più mediterranee in senso lato, che svilupperà  ampiamente  a Parigi, gravato dal senso di primordio greco che all’illuminazione  offertagli dalla filosofia  e poesia di Nietzsche aggiunge le proprie coordinate personali”. Con questo risultato: “L’enigma del tempo, aggiungendosi agli altri enigmi del mondo delle cose e dell’esistenza, viene condensato in quell’ora fatale che permette, facendo vacillare la mente razionale, l’applicazione dell’’eterno ritorno’ nietzschiano in un presente senza storia, in una consapevolezza in cui il futuro coincide col passato, in cui l’uomo è presenza che si può solo interrogare, senza darsi risposta, sul perché del mondo”.

Siamo solo agli inizi, l’artista ha 22 anni, andrà a Parigi dove la sua “metafisica” assumerà  nuove forme, dalle piazze d’Italia con la statua di Arianna ai manichini, fino all’apparentemente insensato assemblaggio di oggetti; il racconto proseguirà nella  2^ puntata di “Il Film della mia vita” di de Chirico visto come una fiction televisiva, il “regista” Benzi darà le spiegazioni e svelerà misteri che sembrano impenetrabili. Ne parleremo prossimamente, senza anticipare per ora i contenuti delle successive cinque puntate, anch’essi quanto mai intriganti e appassionanti come il resto del “film”.

“Ritratto della madre”, primavera 1911

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 6 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale – la I parte della trilogia – nei giorni 5, 7, 9,11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, Leonardo 2, 4 giugno 2019, Cambellotti 5 aprile 2019; in www.arteculturaoggi.com Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Secessionisti 21 gennaio 2015, Marinetti 2 marzo 2013; in cultura.inabruzzo.it, Picasso 4 febbraio 2009.

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto” 1920 (dalla copertina del libro); seguono, Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni 1907, e “Tritone e sirena” estate-autunno 1909; poi, “Lotta di centauri” e “Centauro morente” estate-autunno 1909; quindi, “Prometeo” e “La partenza degli Argonauti” inverno 1909; inoltre, “Serenata” primavera-estate 1910, e “Processione su un monte” settembre-ottobre 1910; ancora, “L’enigma d’un pomeriggio d’autunno” ottobre-novembre 1910, e “L’enigma dell’oracolo” ottobre-dicembre 2010; continua, “L’enigma dell’ora” ottobre-dicembre 1910 e “Ritratto dl fratello” “gennaio-marzo 1910; infine, “Ritratto della madre” autunno 1911e, in chiusura, “Autoritratto” marzo 1911.

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“Autoritratto”, primavera 1911

Pietracamela, 2019, 2. Il Borgo in Arte, pittura e musica, teatro e tradizioni

di Romano Maria Levante

L’agosto che nei primi giorni ha sollecitato memoria e nostalgia con il ricordo della mitica Luigina a Ponte Arno, l’antica “stazione di posta” al bivio sulla Statale ’80,  negli ultimi giorni ha fatto appello all’arte e alle tradizioni. Il “Borgo in Arte” è diventato un appuntamento costante, quest’anno anticipato al 17 agosto, il giorno dopo la festa di San Rocco del 16, in un abbinamento significativo. Infatti sono nel DNA e nelle tradizioni del borgo arte e cultura, unite alla forte religiosità espressa nella antica  devozione per il santo, sentito come patrono, insieme a San Leucio cui è intitolata la chiesa madre, la chiesetta di San Rocco è posta alla sommità del paese, sulla “Via degli Aquilotti del Gran Sasso” che sale verso la montagna.

La “locandina” del “Borgo in Arte” 2019

L’Arte è impersonata dal pittore Guido Montauti, di cui lo scorso anno è stato celebrato il centenario della nascita, scomparso nel 1979 lasciando una forte impronta con i suoi dipinti evocativi di un “quarto stato montanaro” – come lo abbiamo chiamato – sagome assorte tra le rocce, poi i cespugli, le bande oblique, e la rarefazione finale fino all’Empireo, con due delle ultime opere  in cui torna quasi figurativo per lasciare il testamento pittorico, “Lettera”  e “Pastori”, non più sagome assorte quasi assenti nella loro attesa paziente, ma volti di una comunità consapevole, ben delineati, compunti e in ascolto.

E poi la cultura, che ha una storia, ce la ricorda acutamente Lidia Montauti, l’ideatrice e curatrice anche con sacrificio personale delle due mostre fotografiche di alcuni anni fa “I matrimoni di una volta” e “I bambini di una volta” : ha osservato che le maestre e i maestri di Pietracamela nel ‘900  hanno “alfabetizzato” il comprensorio del Gran Sasso e Monti della Laga, insegnando nei paesi e borghi, anche i più isolati, dove si fermavano in modo stabile nei lunghi inverni sotto la neve, e ne abbiamo avuto esperienza diretta anche a livello familiare.

Su queste antiche radici sono nati nel tempo i libri di autori pretaroli: i libri sulla montagna, dall’antico saggio su Corno Piccolo ristampato di recente di un precursore, fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo in Italia, gruppo celebrato nel “Borgo in Arte” dello scorso anno,  alle appassionate rievocazioni di una vita sul Gran Sasso di altri due grandi alpinisti pretaroli, oltre al libro sugli “Aquilotti del Gran Sasso”,  con le conquiste degli alpinisti locali, di un tempo lontano e attuali; i libri sulle memorie e storie  del paese, dai personaggi controversi come Manodoro e dalle  leggende montanare e memorie personali all’epopea dell’emigrazione; i libri su temi di interesse generale, storici sull’Unità d’Italia e sui Carabinieri nella storia italiana, religiosi-filosofici  su Gesù come uomo, sulle contraddizioni e gli interrogativi in merito alla fede e dell’esistenza fino a Dio,  economici sulla globalizzazione, d’inchiesta sul D’Annunzio del Vittoriale nel suo profilo interiore e nella storia d’Italia,  con riferimenti paesani anche premonitori, in particolare alla novella dannunziana “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”.

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Forse un’idea meritevole di essere tenuta presente per le prossime edizioni della manifestazione può essere l’esibizione di questo giacimento culturale paesano, che non sembra modesto;  e, per la novella dannunziana, semplice da rappresentare quanto spettacolare, la messa in scena – anche nel “teatro da strada”- di una versione tra le case di pietra del centro storico, con una voce narrante e due personaggi, il pittore Fiamignano che dipinge un ritratto,  la “marchesa di Pietracamela” che posa e si scambiano poche intense battute, fino all’intrigante quanto suggestiva visione  conclusiva. Il Presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, Giordano Bruno Guerri, potrebbe non essere indifferente a una simile iniziativa, avendo rappresentato Van Gogh al Vittoriano a Roma, figurarsi per D’Annunzio del quale – oltre ad essere custode appassionato e dinamico della memoria con continue iniziative culturali  e biografo dell’”amante guerriero” –   sembra la reincarnazione.

Naturalmente, la produzione culturale andrebbe esibita a fianco di quella tradizionale artigiana, è cultura  anch’essa, e  nella festa di quest’anno prodotti artigiani sono stati di nuovo sciorinati: sarebbero i versanti della cultura locale in una felice sinergia.

Romolo Intini impersona il versante artigiano in varie forme, quest’anno  non ha partecipato come maestro cardatore, tuttavia ha esposto  lavori in legno ammirati da tutti, tra cui una scena da osteria di ieri, un tavolo e 4 avventori. Ma ci sono state anche altre esposizioni di semplici appassionate,  nei cui occhi si leggeva la fierezza di presentare oggetti preparati con amore in una tradizione rappresentata anche da loro, che suscita un senso di nostalgia.

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Nulla di nostalgico, ma di molto moderno, invece, nel complesso musicale “Le Galassie” che ha vivacizzato la serata nel “Belvedere Guido Montauti”; anche qui voglia di condividere le proprie emozioni, questa volta musicali, nell’impegno dei musicisti  e delle due cantanti, diverse nell’abito,  nero l’una,  bianco l’altra, ma unite nella passione con cui hanno sciorinato un repertorio travolgente, mentre la notte portava un’aria sempre più fresca che però non raffreddava il pubblico infervorato.

 “Borgo in Arte”  è anche questo, ma è soprattutto Arte. E qui, pur non essendo in senso stretto “Street Art” perché le opere esposte in strada erano compiute e non “in fieri”, si aveva questa sensazione, di vederle nascere “in loco”, essendo in carattere con l’ambiente montanaro.  L’esposizione si è svolta come sempre  nel centro storico, dal largo con vista panoramica sulla vallata di un verde di straordinaria intensità, alla scalinata sotto l’arco che porta alla vecchia sede del Municipio, fino al dedalo di vicoli divenuti una sede espositiva quanto mai pittoresca.

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Tra i pittori nel “Borgo in Arte” c’è la costante di Paolo Foglia, rimastoci impresso per la sua iniziale simbiosi con il poeta Francesco Bernabei, che negli anni scorsi avevamo ritrovato come lettore poetico e narratore di storie, come quelle montanare degli “Aquilotti del Gran Sasso”;  un  “performer”  che con la folta barba di quest’anno ha accresciuto il suo impatto carismatico, e ha scelto il monologo di “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, con qualche malizioso riferimento alle polemiche politiche accese nell’estate. Un momento suggestivo di forte emozione per tutti, anche per lui  che ha detto successivamente di essersi espresso “nella rabbia della mia voce, nella tristezza del cuore” perché “l’attualità delle parole è terribile, come è terribile tutto quello che l’umanità è divenuta. Circondati da dotti medici e sapienti perdiamo di vista la nostra umanità, restiamo quindi in questo stallo, miopi al vedere avanti, reclusi nelle nostre ruote da criceto”.  Anche nel “dopo performance” c’è la declamazione appassionata con il carisma del profeta.

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Infine le fotografie, non vanno considerate secondarie, sono nel cuore della festa. In primo luogo quelle “storiche”, dove i paesani possono riconoscersi:  Vittorio Giardetti, tornato come ogni anno dalla sua residenza americana sull”Ontario – per una vita è stato tecnico del governo alle cascate del Niagara – ci indica la sua foto da bambino con la madre, “la Stella”, in una vecchia immagine ingrandita; come Aligi Bonaduce, solo lui poteva riconoscersi, si vede in parte la sua testa con la fronte fino agli occhi in una scampagnata ai Prati di Tivo, davanti al padre Francesco che suona la chitarra in un duo con Berardino Giardetti, l’autore di 4 dei libri citati all’inizio,  al mandolino, e tanti intorno, tra cui Osvaldo Trinetti, Mamung, la piccola Rina Filippi figlia del  “guardaboschi” Gianni e della “levatrice” Giuseppina di un’epoca  lontana nel tempo e nei costumi. Lo scorso anno Celestina De Luca si riconobbe in una delle due ceste in groppa a un mulo, nell’altra il fratellino, al lato i genitori, quest’anno Vittorio e poi Aligi.

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Qualcosa si deve aggiungere su Aligi, di cui abbiamo appena parlato citando la foto che ne ritrae parte del viso da bambino, è suo l'”Archivio Bonaduce” accessibile su Facebook. La parte antica dell’Archivio, ci ha confidato, è riuscito a costruirla  negli anni,  presentandosi nelle case degli anziani del paese con uno “scanner”, altrimenti per timore che le vecchie foto si perdessero o non fossero restituite per dimenticanza sarebbe stato difficile averle in prestito, le scansionava in loro presenza, mentre la parte moderna si deve alla passione unita alla maestria sua e del figlio Flavio. Vediamo esposte immagini suggestive del Gran Sasso che assume tante vesti,  e inquadrature speciali come quella in cui il paese è ripreso in una cornice di fronde cariche di neve, e un’altra in cui il “mare di nuvole” sembra la prosecuzione del pianoro innevato, fino a quella con le impronte sulla neve fresca e la montagna di sfondo, una metafisica montanara.

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Vittorio Giardetti indica la sua immagine di bambino davanti alla madre, “la Stella”

Un grande merito di Aligi – oltre al suo nome dannunziano – è la sequenza di immagini del pittore Guido Montauti ripreso al “Grottone”,   ne sono esposte tre di un’ampia serie che lo segue nella sua ascesa alla grotta e nella discesa, poi fino a Vena  Grande; un servizio fotografico il cui già elevato valore è moltiplicato dal fatto che proprio il “Grottone” dove viene immortalato – è il caso di dirlo – tre decenni dopo è crollato nella vallata distruggendo gran parte delle  “Pitture rupestri” – tre si sono salvate e sono state restaurate –  realizzate da lui con il gruppo del “Pastore bianco”,  cui diede un significato simbolico, per cui la sua figura in alto resta come nume tutelare.

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Nella foto in alto a sin. Berardino Giardetti al mandolino, davanti Francesco Bonaduce alla chitarra con, in primo piano, a sin,. la fronte del piccolo Aligi

La parte dell’esposizione fotografica in chiave paesana ci fa ripensare alle due mostre sopra citate svoltesi a Pietracamela negli anni scorsi, nel mese di agosto – con la cura appassionata di Lidia Montauti insieme a volenterose collaboratrici – abbinate all’esposizione di oggetti coevi, specchio di tradizioni secolari.

Il Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari, che si trova nella sede comunale inagibile in attesa di definitiva sistemazione, andrebbe vitalizzato e integrato con un’esposizione permanente delle fotografie presentate nelle due mostre sui matrimoni e i bambini di una volta e di quelle che potrebbero fare oggetto di altre mostre continuando la serie ora interrotta. Perché gli oggetti di una volta, pur evocativi, da soli non rendono ciò che la fotografia trasmette: il senso della vita, della vita di allora.

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Le altre fotografie, tante, fissate sulle porte soprattutto antiche del centro storico, e  sulle pareti esterne in pietra delle abitazioni, spaziano su vari temi, la montagna è presente ma non solo, alcune sono istantanee nate dall’impulso del momento, altre molto ricercate nei loro effetti pittorici.

Arte e tradizioni, musica e cultura, anche fotografica,  dunque. Ma non  poteva mancare la parte culinaria, del resto è cultura la tradizione enogastronomica, molto viva anche nell’antico “nido delle aquile”, come fu definito il borgo di Pietracamela. E non è mancata, con la tavolata nel largo che immette nel centro storico, ovviamente all’insegna della tradizione.

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Al centro Guido Montauti, a sin. una delle “Pitture rupestri” del suo gruppo pittorico “Il Pastore bianco” distrutte dalla frana del “Grottone” dove l’artista è ritratto a dx

Dal  “Borgo in Arte” una prova di vitalità e uno stimolo per il rilancio

Non finisce qui l’impatto della manifestazione, è stato  anche un momento di riflessione, che desideriamo condividere con chi ha a cuore il futuro del paese. Il borgo sta curando le ferite del terremoto, ma senza  cantieri troppo vistosi, a parte alcune ricostruzioni radicali; ci sono passaggi protetti e passaggi interdetti, nel segno dell’ordine e del decoro che trova il Comune molto attento, anche all’erba che cresce nelle aree trascurate per la quale ha emesso apposita ordinanza;  e, sul piano della pulizia stradale, l’addetto comunale Carlo, scrupoloso per formazione familiare, non vuole trascurare neppure l’erbetta ai bordi, nessuna cartaccia, nessun rifiuto, soprattutto per chi viene da Roma come noi  è un miracolo. Anche l’”isola ecologica” all’ingresso del borgo rientra in questa attenzione scrupolosa e benemerita.

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Pietracamela soffre dello spopolamento di quasi tutti i piccoli borghi montani, ma non è abbandonato come molti di essi, abbiamo già sottolineato come la Ruzzo Reti abbia installato lo scorso anno più di 800  contatori rispetto ai residenti stabili che sono poche diecine. Questo perché la nuova forma di presenza dei cittadini, gli autoctoni definiti qui “i naturali”,  è  “a rete”, dal piccolo nucleo dei residenti stabili ai cerchi concentrici che si allargano alla provincia e alla regione, alla nazione e all’estero con gli emigrati. 

Sono così affezionati che uno di loro – Gino Di Venanzo, “nick name” Geppetto – ogni anno torna  e pianta per tre mesi le bandiere di Italia ed Europa, Canada e Stati Uniti su Vena Grande, la roccia identitaria a forma di cammello che domina il paese cui sembra abbia dato  il nome, come segno del proprio attaccamento. Le avevamo criticate come “banderillas” sul  cammello quasi fosse un toro da “matare” credendole un qualcosa di stabile e istituzionale che deforma una scultura naturale, come le pale eoliche sfregiano i contorni del paesaggio in molti altri luoghi, per fortuna non in questi; ma conosciutane l’ origine, diamo atto che per i tre mesi di ritorno dell’emigrato marcano invece una  identità paesana che non si perde in una vita all’estero e viene meritoriamente riaffermata con forza. Bravo, Geppetto, il tuo Pinocchio  di bandiere è un atto d’amore che ti fa onore e rende onore a quelli che come te tornano al paese delle loro origini. Tra questi Matteo Giardetti, con i figli Matthews, Mark, Donna  e famiglie, i nostri nonni emigrarono insieme per le “lontane Americhe” nel giugno 1906 sulla nave “Sicilian Prince”, il sito di Ellis Island ci ha fornito il foglio d’imbarco.

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Si potrebbe  integrare nel Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari un Museo dell’Emigrazione con tante storie di vita e di successo, sarebbe istruttivo ed esaltante per i tanti che sono fieri del loro coraggio e della loro abnegazione. Iniziative per celebrare gli emigrati – i quali rappresentano la storia e l’anima del borgo trasferita da decenni all’estero – accogliendoli con tutti gli onori, sono altamente auspicabili. 

E allora, riprendendo l’intervento a Ponte Arno del presidente della Provincia di Teramo, Diego Di Bonaventura, il territorio dovrebbe diventare il riferimento per ogni iniziativa, né le poche diecine di residenti possono provvedere da soli a tutelarlo, occorre fare molto di più da parte delle istituzioni. E operare senza lo scarico di responsabilità, come avviene tra Parco e Comune sulla manutenzione dei sentieri, indicati da belle frecce in legno con tanto di tempi di percorrenza ma spesso impraticabili.

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I residenti sono una risorsa, un presidio minimo ma indispensabile, e vanno sostenuti nella loro scelta di restare, coraggiosa e meritevole, anche con esenzioni fiscali; da riservare, in particolare, anche alle scarse attività economiche seguendo la via milanese di aiuto ai comuni spopolati, così da creare anche le condizioni per il ripristino del “Bar del Parco” che animava la piazza del paese.

Anche in questo sta il valore dell’annuale “Borgo in Arte” di Paolo di Giosia, nell’esprimere la vitalità del borgo e nel ricordare la sua storia e le sue tradizioni, la sua cultura e la sua arte; ma non soltanto in senso rievocativo, bensì come stimolo ad operare perché torni ai fasti di un tempo nelle nuove condizioni imposte dallo spopolamento.

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Il turismo è sempre stato una leva importante per il benessere della popolazione, quando il numero di abitanti era consistente, ora deve esserlo anche per la salvaguardia del territorio, affinché da paese spopolato non decada in paese abbandonato.  Le energie ci sono e la volontà non manca, “Borgo in Arte” ne è una evidente espressione, il merito è della genialità e della cultura dell’ideatore e curatore – che continuerà ad organizzare la manifestazione sostenuta dal Comune anche dopo aver lasciato la presidenza della Pro Loco – ma anche dello “spiritus loci” che aleggia nelle persone e nelle case di pietra di questo “quarto stato montanaro”.

A Ponte Arno si è detto che non siamo  a un punto di arrivo, ma di partenza, di un nuovo inizio, proposito che ha accomunato tutte le autorità presenti, a ogni livello, anche la massima autorità religiosa. Chi vivrà vedrà, appuntamento al prossimo “Borgo in Arte” del 2020, ma andranno posti in essere programmi efficaci e concreti da parte delle istituzioni competenti  per dare corpo al “punto di partenza”, al “nuovo inizio”. Per ora ha dichiarato di volersi impegnare subito, lo ripetiamo, e speriamo concretamente, il presidente della Provincia di Teramo con i sindaci dei comuni interessati, Pietracamela (che include la frazione Intermesoli), Fano Adriano e Crognaleto, dal Gran Sasso ai Monti della Laga.

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Nell’immediato si dovrà riattare, dopo anni e anni di interruzione, la strada panoramica Fano Adriano-Intermesoli, che oltre a ripristinare il collegamento vitale tra le due località fornisce ai turisti un itinerario per Pietracamela con una spettacolare vista del Gran Sasso,  crediamo sia alla portata se si superano le pastoie che finora lo hanno impedito, come per tanti cantieri bloccati dalla burocrazia.  A livello generale si dovranno creare le condizioni, su tutti i piani, compreso quello promozionale, per il ritorno dei flussi turistici, inariditisi soprattutto dopo il sisma del 2009, nelle nuove accresciute condizioni di sicurezza del borgo dalle incomparabili attrattive naturalistiche. Negli anni ‘60 venivano a villeggiare Marina Berti e Claudio Gora, poi Peppino di Capri e Carla Gravina, perché non invitare nel borgo Andrea Giordana che da ragazzo giocava con i coetanei pretaroli?   

Il divario tra l’offerta di bellezze ambientali e la domanda turistica è troppo elevato, un paese di fiaba merita molto di più, di essere conosciuto e apprezzato come quando entrò nel club Anci dei “Borghi più belli d’Italia” per diventare due anni dopo “Borgo dell’anno”. Si era rispettivamente nel 2005 e  2007, tornare ai fasti di allora deve essere più di un obiettivo, un impegno concreto per tutti.

Il complesso “Le Galassie” nel “Belvedere Guido Montauti”, a sin. la fontana che evoca le sagome montanare del pittore locale di fama internazionale cui il luogo è dedicato

Info

I libri di autori pretaroli cui si è accennato nel testo, a parte involontarie omissioni, sono: sulla montagna, Ernesto Sivitilli, “Il Corno Piccolo. Gruppo del Gran Sasso d’Italia”,  Ricerche & Redazioni, 2013 (ristampa anastatica dal 1930), pp. 120;  “ Aquilotti del Gran Sasso. Pietracamela  1925-75” a cura della “Pro loco” di Pietracamela, 1976, pp.140  (nel cinquantenario, storie e ricordi dei pionieri, poi ristampa anastatica con integrazioni nel 2006, a cura di Lino D’Angelo e Filippo Di Donato),  Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice, Castelli (Te), 2008, pp. 112,  Lino D’Angelo, “Le alte vie di una vita”, Verdone Editore, Castelli, 2009, pp. 160; sulle memorie e storie del paese; Berardino Giardetti, “Memoria su Matteo Manodoro da Pietracamela, generale dei briganti, 1762-1812”, Solfanelli Editore, Chieti, 1981, pp. 143,  “Incontro col diavolo e altri racconti montanari”, Ponte Nuovo, Bologna, 1990, pp. 222 (ristampato), ” Le memorie di un ottuagenario qualunque. Alla ricerca della coscienza”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 368;  Clorindo Narducci, (Pjitto) “Pietracamela. Tra storia e leggenda”,  Demian Edizioni, Teramo, 2014, pp. 80; Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Andromeda Editrice, Castelli, 2006, pp. 360;  su temi generali:  storici, Berardino Giardetti, “Grandezza e miserie dell’Unità d’Italia”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 458, Gelasio Giardetti,  “I Carabinieri nella storia italiana” , Associazione Nazionale Carabinieri Editrice, Roma, 2018, pp. 394; religiosi-filosofici, Gelasio Giardetti”, “Gesù l’uomo”, Andromeda Editrice, Castelli, 2008, pp. 320, “Dio, fede e inganno”,  2013, pp. 242  e  “L’uomo, il virus di Dio”,  2014, pp. 188,   entrambi Arduino Sacco Editore, Roma;  economici, Romano M. Levante (con Luciano Radi), “La macchina planetaria. Quali regole per la corsa alla globalizzazione)”, Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 112;  d’inchiesta, con riferimenti al paese, Romano M. Levante, “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Castelli, 1998, pp. 528 (la novella dannunziana citata nel libro e ricordata nel nostro articolo,  “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola” è del  27 ottobre 1887,  da “Grotteschi e rabeschi” del “Duca Minimo” 18 ottobre – 10 novembre 1879). Cfr., in www.arteulturaoggi.com,  i nostri articoli a commento di alcuni dei libri citati: sul libro di Ernesto Sivitilli,  27 agosto 2013, sui libri di Clorindo Narducci, 3 e 7 luglio 2016,  e di Gelasio Giardetti,  4, 6, 8, 10  novembre 2018 per il libro su tema storico, 3, 10 giugno 2015 e 2 febbraio 2014 per due libri su tema religioso-filosofico.            .

Per i nostri servizi su Pietracamela, sulle feste del “Borgo in Arte”  degli scorsi anni e  le mostre sugli antichi costumi del paese, il percorso artistico del pittore Guido Montauti di cui nel 2018 si è celebrato il centenario dalla nascita e il premio “Pitture rupestri” a lui dedicato, v. Info del precedente articolo su Ponte Arno, con indicate le date di pubblicazione dei servizi sul sito www.arteculturaoggi.com e su altri siti.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione, si ringraziano gli organizzatori per l’opportunità concessa. In sequenza, dopo la locandina, 4 immagini di quadri esposti nella peculiare “street art”, seguite da 9 immagini di fotografie esposte, nell’alternanza tra foto d’epoca, per lo più dell'”Archivio Bonaduce”, e foto contemporanee di autori vari, seguite da 3 immagini dell’esibizione di prodotti di artigianato tradizionale, e 2 del complesso musicale “Le Galassie”. Ringraziamo gli autori di quadri, fotografie e coloro che hanno presentato i prodotti artigianali che non citiamo limitandoci a sottolineare con didascalie – oltre alla locandina in apertura e alle due immagini di chiusura del complesso musicale – tre immagini, per il loro valore identitario: l’immagine n. 9 in cui Vittorio Giardetti indica la sua foto da piccolo, con dietro la madre; la n. 10, che mostra alla chitarra Berardino Giardetti – l’autore di 4 dei libri citati all’inizio e in modo più specifico in Info – e al mandolino Francesco Bonaduce con davanti Aligi, la n. 12 con Guido Montauti al “Grottone” e la “Pittura rupestre” nel servizio di Aligi Bonaduce.

Complesso “Le Galassie”, un primo piano del batterista e del chitarrista

Pietracamela 2019, 1. Ponte Arno, il ricordo della mitica Luigina

di Romano Maria Levante  

Due momenti accomunati dal legame con il territorio, a Pietracamela, agli estremi del mese di agosto: in chiave nostalgica il primo, il ricordo a Ponte Arno il 6 agosto della mitica Luigina Trentini, dov’era la sua antica “stazione di posta” ora demolita;  in chiave culturale il secondo, il “Borgo in Arte”, il 17 agosto,  promosso dall’Amministrazione comunale, ideato e organizzato da Paolo di Giosa che lo cura da anni con passione chiudendo l’estate in modo spettacolare come con i botti finali degli spettacoli pirotecnici.

Ponte Arno, l’edificio ora demolito, con la “stazione di posta”, in una foto d’epoca

Tra questi due eventi e prima di loro, altri momenti  hanno reso scoppiettante l’estate 2019,  l’arrampicata a Vena Grande e ai muri di pietra delle case del borgo, una sorta di “sport diffuso”  in ogni angolo del “nido di aquile”,  spettacoli di musica e di  “teatro di strada”, laboratori con premio finale per bambini ispirati alle Pitture rupestri di Guido Montauti, nel loro scenario naturale, la festa di San Rocco con banda e processione guidata dal parroco padre Giacobbe, in testa ai fedeli il sindaco Michele Petraccia in fascia tricolore, al termine distribuzione di pani benedetti. Un borgo attrattivo anche per chi cerca momenti di evasione oltre alla bellezza incomparabile del Gran Sasso d’Italia con tutte le sue meraviglie.

La cerimonia a Ponte Arno

Nella mattinata del 6 agosto, come si è accennato, si è svolta la cerimonia  per una demolizione già avvenuta, non per la posa di una prima pietra come si fa di solito.  E non a Pietracamela ma a Ponte Arno, dove inizia la salita che in 9 Km porta al borgo e in altri 6 Km ai Prati di Tivo a contatto con il Gran Sasso, poi a Cima alta dopo ulteriori 4 Km tra i boschi sempre più verso la  montagna.       

Il mondo alla rovescia? No, è stato per ricordare una persona divenuta mitica, Luigina Trentini, che  nell’edificio demolito e nel largo antistante aveva vissuto un’esistenza aperta ai tantissimi che si fermavano in quella che era una volta la “stazione di posta” di Ponte Arno, con la sosta obbligata in attesa della coincidenza della “corriera”: offriva loro calore umano e assistenza materiale, spesso accompagnate da un bicchiere di vino che soprattutto nella stagione fredda era corroborante. Poi, pur con la fine dell’epoca della “stazione di posta”, la fermata a Ponte Arno restava immancabile per chi passava in automobile, e anche solo sporgendosi dal finestrino non mancava di intrattenersi con lei sempre presente, scambiando  qualche parola e ricevendo  notizie, informazioni, curiosità gustose. Una presenza senza tempo la sua,  con il vestito scuro,  la testa leggermente reclinata, il sorriso nel volto, aperta e disponibile.

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Altra foto d’epoca, Luigina con altre fanciulle dai finestrini di una “corriera”

E’ la stessa immagine che vediamo nella targa-ricordo scoperta nella cerimonia, negli anni ’40 davanti all’ufficio postale c’è lei giovane con la  stessa testa reclinata, uguale sorriso sul viso, soltanto l’abito nella foto è chiaro invece del vestito scuro che ha indossato nel passare del tempo;  una targa, peraltro, che risulta poco visibile né comprensibile per chi non ne conosce la genesi e il significato.

Si è ritenuta necessaria la demolizione dello storico edificio perché era pericolante e costituiva una minaccia per l’incolumità pubblica nell’incrocio tra la Statale ’80 e la via provinciale per Pietracamela, dov’era l’antica “stazione di posta”. Un intervento frettoloso per l’emergenza creatasi invece del recupero forse possibile e auspicabile? I pareri sono discordi, la polemica è stata aspra.

Dell’esigenza della demolizione considerata indifferibile hanno parlato le autorità intervenute. Il  Prefetto di Teramo,  Graziella Patrizi, ha insistito sul binomio accoglienza-sicurezza, non riguardo ai migranti ma alla montagna con i suoi pericoli; il Sindaco di Fano Adriano, Luigi Servi,  ha invitato tutti ad accettare il fatto compiuto della demolizione perché inevitabile e a porre fine alle polemiche; il Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, Tommaso Navarra,  ha  fatto balenare  la speranza di una futura utilizzazione dell’area al servizio del Parco; mentre il Presidente della Provincia, Diego Di Bonaventura, ha rotto il fronte dell’ufficialità con un “j’accuse”  perché “non si è fatto nulla negli ultimi quarant’anni”, si sono ignorati i profondi cambiamenti  che erano dinanzi agli occhi di tutti, perseverando nell’errore di avere come parametro per ogni servizio, provvidenza e quant’altro l’entità della popolazione e non il territorio che si andava sempre più spopolando nell’epocale corsa all’urbanesimo che oltre alla campagna ha coinvolto e sconvolto la montagna con lo spopolamento divenuto inarrestabile.  All’accusa ha fatto seguire  l’impegno a mobilitarsi per superare il degrado che ne è derivato e la decadenza anche in termini di attrattività, realizzando apposite iniziative per rilanciare il territorio da concordare con i sindaci di  Fano Adriano, Pietracamela, Crognaleto, presenti alla manifestazione. 

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Ponte Arno, la foto d’epoca della targa-ricordo con Luigina in abito chiaro al centro

Tutte le autorità hanno reso omaggio alla mitica Luigina, confidando anche ricordi personali. Oltre al Sindaco di Fano Adriano chi si è più immedesimato nel ricordo è stato il Vicecomandante del Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri, gen. Davide De Laurentiis, l’ha definita “il Google” di allora, perché dava a tutti le notizie e le informazioni richieste, oltre ad aiutarli concretamente a risolvere i loro problemi, e anche “la banca dati” del territorio perché possedeva la memoria storica e la condivideva con i molti che le chiedevano notizie. Con lei non mancavano di consigliarsi gli uomini del Corpo della Forestale, presidio prezioso del territorio, ai quali è stato rivolto un ringraziamento corale, i paesani li chiamavano “guardiaboschi”, è stato citato anche il maresciallo Villani di Pietracamela. Del resto, pur rientrando  nella circoscrizione amministrativa del Comune di Fano Adriano, il cui bivio è 4 Km più avanti, Ponte Arno segna il bivio con Pietracamela, e il Rio Arno è il fiume del paese, con il minore Rio della Porta, quindi quel luogo è sentito molto dai “pretaroli”. Il sindaco Petraccia ci ha detto “la nostra competenza inizia poco più su, al terzo tornante”, e noi non ci spieghiamo il “capriccio” amministrativo, gli stessi Trentini  sono tra le famiglie di antica origine pretarola.  

Ponte Arno, la targa-ricordo a destra sulla parete, a lato i resti dei cordoli dell’edificio

Per tornare alla manifestazione, un termine moderno come Google, applicato all’antico, è risuonato pure nelle parole del Vescovo di Teramo e Atri,  mons. Lorenzo Leuzzi, per il Gran Sasso definito GPS, dove G sta per i giovani che sono il futuro e devono tornare, P per la pace, in queste zone non si è mai combattuto,  S per scienza, i laboratori del Gran Sasso di livello europeo e mondiale, che prendono il posto del Posizionamento Geo Stazionario, acronimo geniale, significativo di come passato-presente-futuro possono coesistere, alla de Chirico.

Alle sue alate parole, rivolte anche a Luigina, virtuale protagonista della cerimonia,  è seguita la scoperta di un’altra targa con il tracciato planimetrico della via montana San Gabriele-San Giovanni Paolo II, di 39 Km, e della segnaletica storica “GRAN SASSO D’ITALIA m. 2921” nei grandi caratteri in maiuscole bianco e nero che erano scritti sulla parete esterna dell’edificio demolito. Ora spiccano sulla nuda roccia alla quale l’edificio si appoggiava, lasciando con la demolizione  alcuni cordoli  dell’edificio demolito che sembrano ruderi antichi, ma non sono tali, perché tenerli?

Ponte Arno, i “ruderi” rimasti dell’edificio della “stazione di posta” demolita

Le proposte di noi  pretaroli

Non è mancata la cornice di pubblico, tanti paesani commossi come quelli che assistevano alla demolizione del vecchio “Cinema Paradiso” nel film di Giuseppe Tornatore, anche se a Ponte Arno la demolizione era già avvenuta e l’area risistemata alla meglio, si spera in via provvisoria, non risultando quello attuale l’assetto migliore che sembra – lo ripetiamo essendo un elemento vistoso – un improbabile quanto inesistente rudere romano; ma  si celebrava perché tutti, autorità e gente comune, volevano rendere omaggio alla mitica Luigina, un atto sentito con intensa partecipazione.

Ai margini della manifestazione una paesana di Pietracamela, Giovanna Paglialonga, rievocando la dedizione  di Luigina nell’assistere tutti coloro che passavano nella storica “stazione di posta”  di Ponte Arno, ci ha detto che  neppure a lei sembra adeguata la targa-ricordo fotografica esposta, oltretutto con il tempo diventerà sbiadita; da parte nostra aggiungiamo che Luigina è confusa tra le donne fotografate con lei  in abito chiaro, le altre in nero, ma pochi potrebbero individuarla. La sua osservazione ci ha fatto venire una idea, che diventa una proposta alle autorità competenti, sindaco di Fano Adriano in primis, con quello di Pietracamela: alla targa-ricordo fotografica aggiungere la denominazione dell’area creata con la demolizione: “Largo LUIGINA TRENTINI”.

Il Largo – liberato dai “falsi” ruderi romani e aperto al pubblico eliminando il “guard rail” che ora preclude del tutto l’accesso impedendo oltretutto di avvicinarsi alla targa-ricordo  – potrebbe essere attrezzato intanto ad area di sosta, con sedili, tavolini in pietra e panchine, come si è fatto a Pietracamela con il “Belvedere Guido Montauti” e il “Belvedere Bruno Bartolomei”, entrambi celebrativi di due paesani da ricordare per quanto hanno fatto con amore verso il territorio, come nel caso di Luigina; altra proposta ascoltata nei commenti dei paesani  è quella di un eventuale busto commemorativo, che peraltro non appare alternativa alla nostra.  Tutto ciò conferma come Ponte Arno con la mitica Luigina sia sentito come parte della propria storia e della propria vita dai pretaroli, noi compresi. 

Chissà se avremo anche a Ponte Arno un “Nuovo Cinema Paradiso”?  Oltre al Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga anche il Prefetto di Teramo e Atri e il Sindaco di Fano Adriano hanno detto che il momento celebrativo non è un punto di arrivo ma di partenza: si intende realizzarvi una  nuova struttura per la sosta al  bivio con un servizio collettivo al passo dei tempi ? Anche in tale caso resterebbe valida la proposta del “Largo LUIGINA TRENTINI” .

Il  Presidente della Provincia ha già annunciato la  convocazione dei sindaci del territorio per iniziative di rilancio che facciano tornare i tanti che si sono allontanati dalle incomparabili bellezze naturali del Gran Sasso. Se l’omaggio a Luigina potrà dare l’impulso decisivo in questa direzione sarà un altro grande risultato della dedizione di tutta la sua vita. Non resta che attendere,  le esperienze vissute sono tutt’altro che incoraggianti, ma la  speranza è l’ultima a morire.

D’altra parte Pietracamela, tra i “borghi più belli d’Italia” dell’Anci, dopo qualche tornante si scopre in tutto il suo fascino di “nido delle aquile” immerso nel verde alle falde del Gran Sasso eretto come un altare, e mostra la sua vitalità con le iniziative cui si è accennato all’inizio, in particolare con la festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”. Ne parleremo prossimamente.

Ponte Arno, l’area dopo la demolizione, con le 3 targhe, accesso inibito dal “guard rail”

Info

Su Pietracamela, della cui storia è parte integrate Ponte Arno, cfr. i nostri articoli nel sito www.arteculturaoggi.com: per la precedente festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”, nel 2017 il 25 settembre e 1° ottobre, per  il pittore Guido Montauti  sulla mostra di  celebrazione del centenario del 2018,  il 13, 23  e 29 luglio, l’8, 11 e 19 agosto 2018;  nel 2014, il 2, 4, 9 settembre, 14 agosto, 14 e 17 luglio; nel 2013,  il  9 e 27 agosto. Inoltre nei siti  non più raggiungibili : “cultura.inabruzzo.it” il 9 settembre 2013;  “abruzzo.world it”  sulla mostra fotografica con l’artista nel “Grottone”  in relazione alle sue pitture rupestri il  3 e 14 settembre 2012, sullo stesso tema in “guidaconsumatore.fotografia.it” il 10 settembre 2012,  in “abruzzo.world.it”  22 giugno e 8 gennaio 2009 (gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono a disposizione degli eventuali interessati).

Foto

Le prime 3 immagini, tra cui la 3^ della targa-ricordo, sono fotografie d’epoca dell’ “Archivio Bonaduce”, si ringrazia Aligi Bonaduce per averle fornite cortesemente; le 4 successive sono state riprese a Ponte Arno, l’ultima delle quali, fornita da Michele Petraccia che si ringrazia, all’apertura della cerimonia.

Ponte Arno, la presentazione delle autorità intervenute: da sin. il presidente della Provincia di Teramo, il presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il Vescovo di Teramo e Atri, il Prefetto di Teramo, il vice del Comando dei Carabinieri Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari, il sindaco di Fano Adriano

Fiori e vasi, il loro potere e significato, nella mostra alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

La mostra “On Flowers Power. The Role of the Vase in the Arts, Crafts and Design”n” espone, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea dal  16 luglio  al 29 settembre   2019, una vasta serie di  opere sul potere dei fiori e il ruolo dei vasi nelle arti, nei mestieri e nel design: 300 opere pittoriche, 80 costituite da oggetti di un fine artigianato che sconfina con l’arte e affonda le radici nel costume.  Curata da Marti Guixè, artista lui stesso che ha progettato e disegnato due opere esposta in mostra. Catalogo in inglese  della Corsini Edizioni. 

In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori

Il senso della mostra

Una mostra insolita e sorprendente, come lo sono molte esposizioni del direttore Cristina Collu che da tre anni sta innovando con il trasversalismo temporale che pone a confronto, in dialogo tra loro, capolavori di ogni epoca piuttosto che limitarsi all’esibizione cronologica. Del resto, “Time is out of Joint”  con cui ha esordito,  è un messaggio permanente sulla sua originale, rivoluzionaria concezione del tempo.

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

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Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” , 1942

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

L’origine e il significato vengono riferiti, sempre dalla Collu, alla  precedente mostra “Ragione e sentimento” che, per il lungo secolo attraversato dagli incendi di due guerre mondiali faceva appello anche alla “pienezza dei sensi”  come vettore di ciò che è e di ciò che sarà.  Con il “potere dei fiori” si porta avanti la ricerca  di come si è sviluppato un processo in cui hanno un ruolo significativo l’”apertura euristica”, la “conoscenza accidentale di questa invenzione”,  l’abilità nel trovarla. Il tutto in un “working in progress” senza certezze, ma lasciando le opportune sospensioni, come nella ricerca dei  concetti “primitivi e intuitivi”  della matematica, legati all’ “esperienza sensitiva”.

Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese”, 1933

Di qui significati reconditi, allusioni, metafore,  che nascono da “vibrazioni volatili”, ma tanto intense da poter essere percepite.  Se questa è la visione escatologica che sottende alla mostra,  c’è n’è anche un’altra più aderente alla realtà quotidiana, la evoca il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Alberto Bonisoli,  osservando come i semplici oggetti  come una tazza per il brodo, una sedia per riposare, un vaso per i fiori fanno parte della nostra vita e ogni giorno siamo legati a loro; per questo rappresentano “la storia  e l’evoluzione  del nostro mondo”. Nel senso che “descrivono le condizioni sociali di coloro che li posseggono, il gusto di un’epoca, la sapienza di coloro che li hanno realizzati, la rispondenza alle loro funzioni e l’evoluzione nel tempo non solo rispetto ai cambiamenti culturali ma anche rispetto a quelli produttivi”.  Gli oggetti, quindi, in quanto riprodotti da artisti, incarnano con l’arte la storia civile e industriale, e diventano archetipi delle varie fasi storiche, perché l’attenzione degli artisti si è diretta su di  loro, senza distinguere oggetti d’arte da oggetti industriali:, portatori degli stessi valori identificativi, di qui il prestigio del “design” e dell’”haute couture”.

Il linguaggio dell’arte diventa contiguo  a quello insito in questi oggetti , e la mostra consente di approfondirne la relazione.  Ciò è importante non  solo per capre meglio il mondo presente, ma per proiettarsi  nel futuro che dovrebbe valorizzare le potenzialità attuali e quelle  di un passato glorioso.

Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie”, 1937

I fiori, fascino e significato

Con questa chiave interpretativa cominciamo dal “potere dei fiori” espresso in una galleria di oltre 30 dipinti,  “Nature morte”  , “Fiori” e “Vasi di fiori”. Le “Nature morte” sono di Mario Mafai (con peperoni), 1951, e Toti Scialoja (vaso con fiori ed altri oggetti sopra un tavolo),  1942, Arturo Tosi (con vaso di fiori e con vaso di tulipani), 1940-42,  Angelo Savelli, 1941,  Arnout Colnot, 1925,  Francesco Chiappelli “(Dalie”), 1957. I “Fiori”  di Ilario Rossi, 1940, Vincenzo Colucci, 1941, Pietro Melecchi, 1951, Domenico Caputi, 1940,  Luigi Aversano, 1938;  Felice Carena, 1930, con le specifiche ”Fiori secchi”, Filippo Agostani, 1946-50, e “Fiori di campo”, Maria Lehel, 1933,  “Fiori e frutta” di Baccio Maria Bacci, 1929, “Fiori con bicchiere, di Guido Peyron, 1940,  “Semprevivi” che ricorda la “Vita silente” di de Chirico,  di Rolando Monti, 1942, “Rose e bottiglia”, 1941, e “Garofani”, 1947, di  Mario Mafai, “Zinnie” di Mario Bacchelli, 1938,  “Mimose” di Luigi Aversano, 1939, “Rosa d’ogni mese”, di Maria Lehel, 1933,  “Rose rosse”, di Gabriella Denis-Rault , 1821, e “Rose d’inverno”,  di Enrico Lionne, 1914, “Dalie”, di Gaetano Previati, 1910, “Crisantemi”, di Ugo Bernasconi, 1931, “Rose e conchiglie”, di Pietro Martina, 1941, “Composizione con calle”, di Giuseppe Guzzi¸ 1953, i “Vasi”, da “Vaso di fiori”,  di Giorgio Morandi, 1946-48, a  “Vaso con fiori”,  di Filippo de Pisis, 1939, di Antonio Simeoni, 1938,   di Carlo Siviero (“Antera”), 1917.

Dietro i fiori ci sono spesso delle storie appassionanti, a partire da quella della celebre venditrice di George Bernard Shaw, in Pigmalione, Elisa Doolittle,  ma non solo vicende e personaggi, anche teorie come quella sul taglio del gambo visto come amputazione  di qualcosa di vivente cui si contrappone quella secondo cui sarebbero destinati a deperire sulla pianta, mentre  nel vaso sono alimentati e tenuti in vita dall’acqua, alcune specie anzi sbocciano  nel vaso dopo essere stati recisi. 

Enrico Lionne, “Rose d’inverno”, 1914

L’utilizzazione dei fiori come metafora di buoni sentimenti è stata enfatizzata soprattutto nell’epoca del  Romanticismo in modo particolare dai poeti e dai pittori oltre che nella vita di tutti i giorni. Ma neppure l’epoca moderna scherza, dal “Grazie dei fior” del primo Festival di i Sanremo anni ’50  al “Rose rosse” che lanciò il cantante Massimo Ranieri.

Naturalmente diversi significati vengono attribuiti alle tante varietà di fiori, dalle camelie, celebrate nel melodramma, alle calle della pittrice O’ Keeffe, per citare due significati  allusivi.  Anche il riferimento alle venditrici di fiori per le strade muta, dal simbolo della purezza assume toni ambigui,  con intenti seduttivi fino  al mercimonio di offrire se stesse dietro lo schermo della vendita di fiori, in una vita tormentata e di miseria.

I fiori sono mostrati nei modi più diversi, variano dalla lunghezza del gambo alle composizioni dei “bouquet” nei vasi,  inoltre l’impiego  muta in relazione  al contesto socio-culturale e all’uso rituale. Non ci sono punti di vista privilegiati nell’ammirare un mazzo di fiori, poi quando viene posto nel vaso dalla persona cui è stato donato questa compone un “bouquet” secondo le proprie preferenze.

Gaetano Previati, “Dalie”,1910

Non ispirano soltanto pittori, ma anche narratori, viene citato Le Guin il quale  si sofferma sul gesto di portare nelle abitazioni i prodotti della natura all’interno di un vaso, come per i fiori  e per gli altri frutti e cibi. Il loro significato è nella vita che esprimono  anche dopo essere stati tagliati, sono morti solo apparentemente, ma continuano a vivere ed entrano a far parte della vita familiare con i loro colori e la loro forma come componenti dell’ambiente domestico. “Se il vaso è, in questo senso, la loro tomba, questi fiori esprimono metaforicamente la sintesi di questo trasferimento”, dalla natura alla quotidianità.

I vasi, un  simbolo ancestrale

Dopo i fiori diventano protagonisti della mostra i vasi, e non solo come contenitori dei fiori ma per sè stessi. Vediamo una serie di esemplari esposti dai titoli e dalle forme più diverse, come i recentissimi, del 2019,  “Still Life” di Chiara Bettazzi e  i “Pompitu Vase” e “Anatomia Vase” di Gaetano Pesce,  i “Post digital vase”  di Coudre, e  “Forte Terra” di Nicola Filia: degli anni precedenti “Aircleaninglady”, di Aurora Sander, 2016-17,  e  “Reverie”, di Elena El Asmar, 2016, “Magic Bottles”, di Chiara Bettazzi, 2014, “See you in the Flesh” di Ursula Mayer, 2014 e “Solar Sister”, di Markus Kaiser, 2011, “Breathing “ di Sabine Delafon, 2009, e “Suber”, di Pierluigi Plu, 2009 ; ancora più indietro nel tempo, “Long Neck and Groove Bottles”, di Hella Jongeius, 2000, “Gertrude Stein” e “Nerone”, di Luigi Ontani, 1997.

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Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno”, 1946-47

La  FAD Cup Collection   pone i vasi addirittura al centro di una celebrazione rituale. Questa  associazione spagnola con sede a Barcellona riunisce professionisti e operatori  nei campi del “design” in base alla concezione che un suo uso appropriato può migliorare la vita delle persone, e per questo impiega  risorse nella ricerca dell’eccellenza in questo campo e in quelli  collegati. Dal 1917  annualmente viene creata una Coppa  che identifica il singolo anno, e ciò è avvenuto per un secolo eccettuato il quadriennio 1937-40  sconvolto dalla guerra civile spagnola. Abbiamo, quindi, una sfilata di 100 vasi, ognuno rappresentativo dell’anno in cui è stato realizzato e prescelto, in una sequenza quasi ininterrotta nella quale spiccano non solo i maestri vetrai, ma anche gli architetti progettisti di alcune forme particolarmente elaborate.

Abbiamo anche un’altra serie di 100 vasi, il “New Romantic Style”, prodotti in Germania  dalla Seltman Company of  Weiden, tra il novembre 1991 e il febbraio 1992, tutti di porcellana  e con la stessa struttura senza varianti. Mutano i disegni ornamentali nel corpo dello stesso vaso, i 100 decoratori li hanno realizzati in 100 esemplari ciascuno, è  stato “un lavoro corale”, “una costellazione di storie visive”, cento storie singole che compongono un  grande racconto collettivo, “un caleidoscopio  le cui figure globali hanno senso  solo quando gli elementi più piccoli e marginali esprimono la loro identità”.  Sono elementi distinti, ma è come se facessero parte di un unico “puzzle” nel quale il “design” crea differenze nell’identità comune. Ogni vaso reca il nome del decoratore e un numero progressivo, da 1 a 10.000.  C’è stata una seconda fase del progetto,  i vasi di decoratori  preferiti dal pubblico sono stati prodotti successivamente in serie illimitate, a un prezzo più alto di quello dei 10.000 vasi iniziali.

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Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” , 2000

Alla base di tutto ciò un’originale concezione che accosta i prodotti industriali di valore estetico alle specie naturali, agli organismi biologici. Anche loro, infatti, sono costituiti di materiali e colori, hanno pulsazioni e “segni sulla pelle”, quindi si può pensare a un meccanismo di riproduzione.

Perché è stato scelto un vaso per un’operazione industriale così ambiziosa  che sconfina nella visione filosofica  del mondo nella sua essenza primaria?  La spiegazione è semplice: il vaso è prodotto con la terra come materiale, è elementare nell’uso, è uno degli oggetti ancestrali che hanno accompagnato la vita dell’uomo dall’origine, costruito usando una ruota, strumento ancestrale anch’esso, per la sua lunga storia è contenitore di leggende e di riti. Restando al presente evoca la forma di un fiore e viene tenuto stretto dalle mani riunite per bere o per offrire, “trasmette sentimenti e sogni, ansie  e miti”, gli ornamenti trasmettono le vibrazioni della mente, nella loro circolarità non hanno né inizio né fine.  “Le decorazioni sono come pesci nel mare, esistono anche se non si vedono”.

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Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase”,1996-97

Naturalmente, per quanto si è detto, tutto questo indicato in astratto si materializza in concreto nelle diverse epoche storiche  in varie forme, tipologie e materiali su cui sono impressi i disegni secondo i tempi, “è un contenitore con o senza contenuto”, il suo ruolo può essere “funzionale, simbolico o mistico”, tutto dipende dal cotesto socio-culturale in cui si colloca.       

L’aspetto più qualificante è la sua identificazione con l’essere umano, “è un oggetto antropologico in cui è scritta la storia della nostra civilizzazione”, dell’ “uomo faber” con le sue arti e le sue tecniche. Inoltre è strettamente connesso al fiore – la solidità abbinata alla fragilità –  simbolo di bellezza e di vita che stimola i diversi sensi dalla vista all’olfatto fino al tatto. E fin qui non c’è da stupirsi, ma c’è dell’altro: il vaso di fiori viene visto anche in rapporto a una “perfetta intelligenza artificiale ideale”  in quanto basato su una “costruzione funzionale e solida ma che incorpora empatia”, nel senso di capacità di creare emozioni indipendenti dal ceto e dallo stato sociale. Ed ecco come viene motivata questa ardita equiparazione: “La sua tangibilità rispetto alla immaterialità digitale lo trasforma in un modello formale che nella sua astrazione è ideale per esprimere  o proporre in una forma sintetica tipologie  che ci aiutano a visualizzare e configurare nuovi strumenti  intangibili nel contesto della complessità dei media digitali  e dell’intelligenza artificiale”. Chi lo avrebbe creduto?

Aurora Sander, “Aircleaninglady”, 2016-17

 In termini più semplici un vaso di fiori attraversa diverse discipline, dall’artigianato al “design” all’arte, per cui può essere considerato da una serie di punti di vista che devono convergere in una visione unitaria. Ma dal punto di vista dell’osservatore è semplicemente un contenitore di fiori, quindi portatore di un elemento emozionale, e soprattutto “una presenza quotidiana nel mondo reale, un elemento di ospitalità e di conforto, di benvenuto; è una icona del mondo reale”.

Chiare e lineari, senza colore, le serie: “Trophies”, di Simone Bergamini, 2016-17, e “Una debole luce bianca”, di Marina Bolla,  2013.  Mentre vediamo  oggetti che più che vasi sembrano sculture, come la base su cui si inserisce il gambo, di Franz West, 2003, e l’albero stilizzato  di Tobias Rehberger, 2004;  “Small and yellow mountain”, di Ugo Rondinone, 2016,  rende onore al suo titolo, mentre “3-dimensional model” di Oliver Laric, 2014, è un piccolo monumento; “Rotating Pressures”, di Gabriel Orozco, 2012, è una composizione di più oggetti, e “Marble Podiums od Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma”, di Suiseki Hanagata-Ishi,  conclude la ricca galleria con un omaggio alla sede espositiva.  

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Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers
placed inside a plain white vase

La mostra espressione di modernità, trasversalità e di empatia

Sottolinea il curatore che la mostra  “rappresenta una nuova percezione di cosa un vaso di fiori rappresenta, una visione che tenta di proiettare l’oggetto con lo status di soggetto”, e quindi,  “ricontestualizzare il suo significato e porlo al culmine della contemporaneità del 21° secolo”.

Proprio per sottolineare la modernità dell’impostazione ed evitare equivoci ci tiene a sottolineare che il titolo “Il potere dei fiori” non ha alcun riferimento all’analoga intitolazione che fu data al movimento hippy tra gli anni ’60 e ’70,  una variante ecologista e pacifica della contestazione giovanile con gli “indiani metropolitani”  e altre forme che ostentavano il ritorno alla natura contro il consumismo;  per non parlare del “mettete i fiori nei vostri cannoni”, ricordiamo la mostra nella Galleria Nazionale per il cinquantennale dal ’68, con immagini e memorie sulla contestazione.

Ma va ancora oltre nell’evocare il film “2001, Odissea nello spazio”  nel quale il regista Stanley Kubrick con Arthur C. Clarke nel 1968 percorre il più lungo periodo della storia del cinema, 4 milioni di anni, dal primo “homo sapiens”  all’astronauta della navicella spaziale “Discovery”, arco di tempo in cui arte, artigianato e “design” si sono espressi nelle varie epoche nel continuo intento di passare dall’oggetto al soggetto. Conclude che in questo passaggio consiste la sfida del futuro.

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Franz West, “o. T”, 2003

Ecco alcune recenti realizzazioni in chiave moderna con al centro i fiori: nel 2014 una installazione presentata a Francoforte con ritratti di artisti e amici dell’autore, Tobias Rahberger, insieme a dei vasi di fiori, in un empatico incontro tra l’oggetto-vaso con i fiori scelti e il soggetto cui sono stati collegati; nel 2015, con “masquerade” si è trasformato un vaso da oggetto fisico a qualcosa di umanizzato e di emozionante  creando un’empatia artificiale mediante elementi artificiali con un filtro  che aggiunge elementi grafici spettacolari. Sono procedimenti complessi che applicano gli strumenti più avanzati della telematica a qualcosa di antico, anzi ancestrale come il vaso di fiori, in un mix quanto mai intrigante.

La parola “trasversale” viene utilizzata come sintesi della mostra sia perché alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna va in scena il “design”, trasversale rispetto all’arte in senso stretto, sia perché l’oggetto della mostra è trasversale per eccellenza.  Infatti i vasi segnano l’incontro tra arte come espressione, artigianato come produzione,  e “design” come mercato, e il vaso di fiori è insieme “funzionale e intellettuale”, realizza una “partecipazione emozionale, possiede empatia”.

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Gabriel Orozco, “Rotating Pressures”, 2012

Ma questo non solo per la presenza di fiori; anche quando  mancano l’empatia nasce dall’essere il vaso  “qualcosa di mistico, esoterico, rituale, intellettuale, culturale, poetico”, uno “strumento “metaforico costruito da artisti,  artigiani e designer”. E proprio “l’empatetica entità artificiale  la cui eventuale forma è in un vaso da fiori senza fiori è l’oggetto della mostra”.

Dal “potere dei fiori” all’“empatia del vaso senza fiori”, si conclude così un viaggio intrigante in un mondo che rivela aspetti inimmaginabili e potenzialità sconosciute. Non si guarderà più, dopo aver visto la mostra e averne approfondito i contenuti, un vaso di fiori come lo si faceva prima, lo si osserverà con maggiore interesse per scoprirne gli aspetti reconditi che l’esposizione ci ha rivelato.

“The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, 1992-1993

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00. Catalogo “”On Flower Power. The Role of the Vases in Arts, Crafts and Design”, Corraini Edizioni, luglio 2019, pp. 73, in inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il design cfr. in www.arteculturaoggi.com. i nostri articoli sulla mostra al Palazzo Esposizioni “La dolce vita, dal Liberty al design” 1, 14, 23 novembre 2015.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne la panoramica di apertura tratta dal sito “on line” www.cieloterradesign.com, si ringraziano l’Editore del Catalogo e il proprietario del sito, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori; seguono, Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” 1942, e Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese” ; poi, Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie” 1937, e Enrico Lionne, “Rose d’inverno” 1914; quindi, Gaetano Previati, “Dalie” 1910, e Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno” 1946-47; inoltre, Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” 2000, e Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase” 1996-97; ancora, Aurora Sander, “Aircleaninglady” 2016-17, e “Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers placed inside a plai white vase“,; continua, Franz West, “o. T” 2003, e Gabriel Orozco, “Rotating Pressures” 2012; infine, “The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 e, in chiusura, “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992.

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The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992

Fratelli Toso, mezzo secolo di “murrine” artistiche, alla “Casina delle Civette”

di Romano Maria Levante  

Alla “Casina delle Civette” , Musei di Villa Torlonia, dal  18 maggio  al 15 settembre 2019  la mostra “La Fratelli Toso: i vetri storici dal 1930 al 1980” espone oltre 50 pezzi unici o molto rari in vetro, “murrine” della collezione privata dei Fratelli Toso. Promossa da  Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, patrocinata da Associazione AIHV – Association Internationale pour l’Histoire du Verre, organizzata da  “Il mondo del vetro” , con la Fratelli Toso, curatori i rispettivi titolari,  Ivano Balestreri  e  Caterina Toso. Servizi museali di Zétema Progetto Cultura. Sono previsti laboratori didattici per i bambini  e concerti dell’A.GI.MUS di Roma nel Giardino della Casina. Catalogo di “Il mondo del vetro”.

Un angolo della mostra, 4 vetrine con sopra una foto storica e un disegno dell’Archivio

Un’altra mostra  insolita presenta vasi e piatti, non reperti dell’antichità ma opere del secolo scorso, assurte alla dignità artistica per l’elevatissimo livello raggiunto, un celebrazione di cosa può produrre il “made in Italy” portato su un piano di straordinario valore. E ancora una volta l’inserimento nell’ambiente della “Casina delle Civette” è magistrale, perché ai vetri artistici esposti nella “dependance” fanno eco le vetrate artistiche liberty di Cambellotti, grande maestro del settore. Delle precedenti mostre possiamo accostarvi quella sulle ceramiche di Annalisa Amedeo, molto diverse ma con delle affinità elettive.

Questa volta  i vetri veneziani, un vanto del nostro paese, tanto più se si tratta delle “murrine” divenute iconiche per la grande maestria artigianale sublimata dal tocco della genialità artistica. Non abbiamo la consueta  presentazione della direttrice Stefania Severi, che introduce sempre i temi delle mostre da lei organizzate e curate con un  inquadramento storico e culturale, ma vogliamo comunque premettere alcune notizie sulle “murrine” di Venezia, una particolare lavorazione vetraria di eccellenza del nostro paese.

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Le “murrine” veneziane

Risale al  61 a.C. l’introduzione  a Roma di vasi di fluorite, portati da Pompeo al ritorno delle sue missioni orientali ed esposti nel Tempio di Giove,  definiti in “murrha”, cioè “mirra”, profumo,  termine riferito al loro odore profumato, o per le resine utilizzate o per il loro contenuto; furono prodotti per imitazione anche a Roma, poi  nel medioevo la produzione cessò del tutto.

Furono i maestri vetrai di Venezia a realizzare, a partire dal XVI sec., prodotti simili ai murrini romani, ma lo sviluppo effettivo di una  produzione  regolare ci fu alla fine del XIX sec. per merito di Vincenzo Moretti della vetreria Salviati: la “murrina” identifica il prodotto vetrario ottenuto, il termine fu introdotto nel 1878 dall’abate Zanetti nell’ambito del suo rilevante impegno per  risollevare dalla crisi la vetreria di Murano. Resta l’analogia con l’antico prodotto romano, vasi e ciotole in vetro mosaico con disegni  astratti o immagini di fiori, animali, visi, come facevano i vetrai alessandrini.

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Chi ha visitato una vetreria muranese ha visto come procede la spettacolare lavorazione delel “murrine”.  Un operaio  sulla punta di un’asta di ferro prende una piccola quantità di vetro da un crogiolo, e lo ricopre con altra piccola quantità di vetro presa da un secondo crogiolo, di colore diverso dal primo, e così via in modo da sovrapporre starti di colori diversi. Il materiale così formato diventa un cilindro regolare che poi, ad opera di operai chiamati “tiracanna”, sempre con un’asta di ferro viene stirato finché  non si raggiunge la forma voluta. Così si ottiene  il materiale di  una “murrina” con disegni a cerchi concentrici  oppure, attraverso un  apposito stampo recante altri motivi, di una “murrina” con disegno floreale, a stella o a cuore.

Si tratta di  bacchette, dette “canne”  con le quali vengono prodotti piatti, ciotole, perle “mosaico”, cioè “millefiori”,  e  ciondoli. La lavorazione a questo punto è differenziata a seconda del prodotto da ottenere, più semplice per le perle “mosaico” – “millefiori”, e per i ciondoli, più complessa per piatti e ciotole perché occorre la fusione di un disco  che va raffreddato, molato e poi di nuovo portato a fusione per prendere la forma dello stampo, con l’ultima molatura per la rifinitura finale. Mediante lo stampo si ottengono oggetti uguali, altrimenti si hanno esemplari unici più  pregiati.

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Tra i primi  maestri di “murrine” Giovanni Franchini e il figlio Giacomo i quali,  tra il 1830 e il 1860, realizzarono con una speciale tecnica “murrine” con raffigurato il Ponte di Rialto e la gondola, Angelica e Cavour, tra le più note; anche Luigi Moretti,  con un’altra tecnica, nelle sue “murrine” raffigurò personaggi come Cristoforo Colombo, nel 1892, per la Compagnia Veneta Murano che nella festa a Chicago per il 4° centenario della scoperta dell’America, donò a ciascun partecipante un esemplare della “murrina”, furono 400, era presente Luigi Moretti, l’autore. Il padre Vincenzo a sua volta era autore di riproduzioni delle “murrine” romane, in piatti, coppe e altri oggetti presenti nei musei del vetro di molti paesi.

Padre e figlio, dunque, sia nei Franchini che nei Moretti. Nel “Fratelli Toso” il nome non rende la dimensione familiare che coinvolge pari e figli, nipoti e cugini, per i “designer” ma anche per i maestri vetrai. L’inizio corrisponde a quello dei Franchini e dei Moretti, anche per i Toso risale alla metà dell’800.

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Una storia di successo, una grande famiglia con designer e maestri vetrai

La  loro storia prende avvio, infatti, nel 1858, con i sei figli di Pietro, Ferdinando e Carlo Francesco Nicolò, Liberato e Angelo, Giovanni e Gregorio Toso, tutti impegnati nella prima fabbrica, ciascuno con un ruolo diverso ma con una visione comune tramandata attraverso figli e nipoti, una vera “tribù, tutta o quasi , impegnata nell’azienda di famiglia generazione dopo generazione”.

Ricorda  con queste parole la gloriosa saga familiare Caterina Toso – l’ultima “zarina” della famiglia che ne ha raccolto l’eredità e ora la celebra con questa mostra – aggiungendo con legittimo orgoglio:  “Nella tribù Toso ci sono stati infatti abilissimi maestri, tecnici, talentuosi disegnatori, dirigenti per vocazione”; con questi risultati: “una famiglia così ampia garantì una notevole diversificazione delle capacità e delle competenze. Ecco perché raramente incontriamo persone ‘estranee’ alla famiglia in ditta”.

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E’ una storia di successo che dopo l’inizio a metà dell’800 in una prima fase con vetri normali, vede la crescente affermazione della fabbrica soprattutto  a partire dagli anni ’30 del ‘900, quando divenne direttore artistico Ermanno Toso, la cui attività di designer di “murrine” artistiche diede un’impronta precisa  e vincente allo stile aziendale.

Ma Ermanno non è conservatore, tutt’altro. Nel 1948 immette Pollio Perelda, che lo affianca fino al 1964, con uno stile molto diverso dal suo, potremmo chiamarlo “pittorico”, e anche un modo diverso di declinare la forma delle “murrine”, tutt’uno con il colore. E nell’anno successivo si aggiunge Robert Wilson, molto diverso da Perelda, geometrico ed essenziale quanto l’altro era fantasioso ed elaborato, la sua W fu stilizzata nella “murrina”.

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Essenziale anche lo stile di Rosanna Toso – cugina  dei figli di Ermanno, Giusto e Renato – la quale negli anni ’60 e ’70  fece parte dei “designer” aziendali richiamandosi alla tradizione di famiglia ma portando significative innovazioni; i fu l’ultima direttrice artistica prima dello scioglimento della società nel 1980, e anche dopo continuò a lavorare nel design.

Anche Giusto e Renato Toso appena citati si sono impegnati come “designer” nella vetreria, il primo nell’illuminazione, il secondo nell’oggettistica, ma dopo la morte del padre nel 1973 hanno lasciato l’azienda continuando a lavorare all’esterno, uno come architetto, l’atro come “designer”. In  questo modo la storia della famiglia si è arricchita di una variante rispetto alla perenne dedizione familiare, ma del resto questa loro decisione ha  precorso di pochi anni lo scioglimento e la fine di una storia gloriosa.

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Una storia alla quale hanno concorso, con un apporto altrettanto importante, i maestri vetrai, integrati nella vita della fabbrica al punto di entrare nella famiglia Toso fin dall’inizio, e impegnarsi per generazioni successive nella fabbrica divenuta anche la “loro” fabbrica.

Il maestro Vittorio Zuffi aveva sposato nel 1888 una figlia di Ferdinando Tsso, il capostipite della dinastia  fondatore della fabbrica, e .i suoi figli Armando e Amleto vi lavorarono  il primo nelle moderne  murrine, il secondo nelle produzioni tradizionali di bicchieri e tipetti  orientati all’antico. Il loro nipote Vittorio Ferro, la cui nonna era una Toso,  affiancò per molti anni lo zio Amleto. Ma è il discendente Licio Zuffi ad affermarsi come il migliore maestro vetraio che traduce in oggetti vetrari di notevole caratura i disegni dei maggiori designer, da Ermanno Toso a Pollio Perelda fino a Robert Wilson che non ammetteva altri maestri nell’utilizzo dei propri disegni.

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Tutti parenti, dunque, designer e maestri? No, abbiamo già citato i designer esterni e il loro apporto innovativo nella creazione di linee diverse dai filoni tradizionali. Per i maestri vetrai ricordiamo Giuseppe Finottello, specializzato nelle murrine fino a raggiungere un livello artistico, e Bruno Fornasier, specializzato nei soffiati e lampadari, con Arnoldo Toso ha creato nuove linee di murrine. Solo loro sopravvivono dei maestri citati, mentre dei designer oltre al fondatore sono scomparsi Ermanno, come già ricordato, e Rosanna.

E’ un esempio positivo della natura familiare di parte della struttura imprenditoriale delle nostra imprese, nella quale le situazioni sono molteplici, dalla concordia e unità di intenti dei fratelli Toso a conflitti risolti con un management esterno e talvolta con finali dirompenti. Situazioni tanto intriganti da aver alimentato un filone narrativo ad opera di chi le conosce molto bene essendo stato consulente di direzione ad alti livelli, ha pubblicato  le storie fantasiose ma non troppo dei Gianselmi e dei Martini, sta per pubblicare quella dei Ferrari,omonimi del “drake” di Maranello

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Nulla di intrigante nella storia della dinastia Toso, una normalità di eccellenza che li ha portati a immettere nell’azienda grandi personalità di disegnatori e di maestri vetrai  lasciandoli liberi di esprimere la loro creatività anche al di là delle loro forme iconiche tradizionali; ma tale da suscitare interesse non meno delle storie romanzate dal maestro del genere, che abbiamo citato; qui siamo nella fucina di Vulcano dei maestri vetrai, con i capolavori grafici e pittorici dei designer, il tutto con lo sfondo incomparabile della Venezia operosa, forte delle sue tradizioni!

I risultati prestigiosi, i Fratelli Toso nella storia del vetro veneziano

Ancora non abbiamo descritto i risultati della loro attività, affascinati dallo storia familiare che  è tutt’uno con la storia aziendale. Dopo quanto abbiamo detto non serve aggiungere che dal vetro comune iniziale passarono al vetro artistico soffiato, una specializzazione particolarmente qualificata. Prima del ‘900 furono tra gli artefici del recupero della “murrina”, una tecnica antica fatta propria fino a diventare  il loro sigillo.

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Le “murrine” sono state sempre presentate alle più importanti mostre in Italia e all’estero, in particolare alle Biennali di Venezia, in una evoluzione continua.  Alle forme tradizionali si sono aggiunte altre linee, fino alle forme  nuove, negli anni ’60 e ’70, di Rosanna Toso, in cristallo e monocromatismo, semplici e  lineari come erano  elaborate le creazioni pittoriche di Perelda, dopo quelle iconiche di Ermanno Toso.

Ivano Balestrieri, curatore della mostra con Caterina Toso, definisce questo “pezzo di storia di Murano” come “il magico mondo” nel quale è entrato preso dalla passione con cui Arnoldo, il padre di Caterina, gli parlava della storia e dell’arte dei fratelli Toso  nelle sue visite all’Archivio della vetreria che lui stesso aveva creato. Ed è il titolare dei “Mondo del vetro”, l’organizzazione molto attiva nel settore del vetro artistico e delle “murrine” in particolare.

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Questo il giudizio che viene dalla sua sperimentata competenza: “L’eleganza dei colori, i colori vivaci delle opere, le tecniche innovative adottate dai maestri della Fratelli Toso, hanno aiutato la vetreria  a divenire parte integrante della storia del vetro veneziano, anticipandone e influenzandone l’evoluzione”.  Dal giudizio altamente positivo e dai contatti con l’Archivio l’idea della mostra, prontamente accettata da Caterina.

Una mostra itinerante che nel 2018 ha fatto già tappa a Pavia e a Novara, e ora approda a Roma, è di tipo cronologico, relativa al periodo 1930-80, per ricostruire la storia della vetreria, anche con i disegni, le foto e i documenti dell’archivio, collegata all’evoluzione del gusto nel mezzo secolo considerato, e con anticipazioni dell’evoluzione successiva. E’ la storia di una produzione artistica italianissima e insieme la storia di una grande famiglia nella quale ai designer più celebrati si sono aggiunti maestri vetrari che hanno dato corpo alla loro arte grafica e pittorica.

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Sono esposti pezzi unici o in serie limitate, realizzati con tecniche e impostazioni diverse a seconda dei singoli autori, con la “murrina” protagonista indiscussa. Riguardo alla compresenza di innovazione e tradizione così Balestrieri: “Nelle opere di Ermanno Toso, Pollio Pereida e Robert Wilson troviamo una nuova modernità, ma alla base delle loro ricerche  e sperimentazioni artistiche emerge sempre la tradizione della vetreria”.

Conclude così: “La mostra è uno spaccato di storia di una delle più importanti vetrerie della storia di Murano che ci permette di fare un importante viaggio nel magico mondo del vetro veneziano”. Abbiamo fatto questo viaggio nella visita guidata con lo stesso Balestrieri e Caterina Toso, cercheremo di ripercorrerne alcuni tratti salienti dando conto delle opere esposte con quello che evocano al visitatore comune.

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Una carrellata sulle rutilanti “murrine” esposte

Raggruppati nelle vetrine, sopra a due di esse delle foto d’epoca, i pezzi esposti mostrano la continua evoluzione stilistica della produzione, dalla severità classica iniziale acromatica alla vivacità crescente di Ermanno Toso e al pittoricismo cromatico di Pollio Perelda, fino allo schematismo di autografato di Robert Wilson e il classicismo in forme nuove di Rosanna Toso. Seguiamo questi quattro designer nelle opere realizzate dai maestri vetrai sui loro  disegni creativi

L’inizio è con le opere di Ermanno Toso a partire dal  1934, e  fino al 1940 vediamo vasi opachi, in qualche caso con foglie d’argento: i nomi, da “Vaso pulegoso” a “Vaso a Spire”  o “A fasce Argento”; poi,  nel 1949  il “Vaso Kiku sommerso” con le margherite dai petali bianchi, rosse al centro, su fondo blu,  introduce forme floreali e colore; nel “Vaso Terrazzo” del 1952 il fondo blu è quasi interamente preso da conformazioni chiare che richiamano le meduse, mentre nel “Vaso Nerox Stellato” nel 1953 prevale il fondo violaceo sulle pochissime  formazioni floreali sparse.

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Il 1953 è  l’anno in cui irrompe il pittoricismo cromatico di Pollio Perelda, vediamo un  “Vaso Stellato” nella tradizionale forma allungata e un altro insolitamente sferico dalla piccola apertura tonda in alto, con formazioni a raggiera che sembrano fluttuare.  La ventata cromatica non poteva non estendersi  sulle opere successive.

Con  Ermanno questo avviene gradualmente. Nel 1954, un altro “Vaso Kiku” presenta i petali bianchi che occupano l’intera superficie blu senza altri colori, e i “Vasi millerighe” sono in un bordeaux molto scuro oppure a fasce alternate. Ma dal 1955 il colore trionfa, prima nei due “Vasi Kiku Murrine Sparse” uno sul rosso l’altro sul celeste molto intensi con rare decorazioni  sempre stellate; poi in una serie di opere tipo “Vaso Kiku”, ne vediamo 3 con l’attributo “Redentore” che nel cromatismo più acceso e variegato ripropongono le  formazioni a margherita del “Vaso Kiku Sommerso” del 1949. Così il “Vaso Nerox Redentore” del 1956 è in continuità ideale con  il “Vaso Nerox Stellato” del 1953, nel fondo violaceo con rare  formazioni circolari.

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Ritroviamo Perelda  con un cromatismo diverso nei “Vasi a fasce” del 1958, tre fasce cromatiche orizzontali su fondo scuro nello stesso anno torna il suo “Vaso Stellato”  ma con formazioni artisticamente commiste rispetto alla precisione del 1953, fino al “Vaso farfalle” e al “Vaso Zebrato”, entrambi del 1962 in cui scompaiono le formazioni nel trionfo del  colore. Una eccezione il  “Vaso Cattedrale” del 1957, Perelda non si è ispirato alle vetrate policrome  e ne ha dato una versione austera con delle formazioni blu tra contorni celesti su fondo nero intenso; anche qui, come nel “Vaso Stellato”, una variante, ora semisferica nelle stesse tonalità molto scure. L’ultima sua opera esposta è del 1964, nel “Vaso Marmorino”non più commistione di colori, ma forte  dominante arancione con forme fluttuanti rosse e pochi motivi ornamentali.

La nostra staffetta continua, torna Ermanno Toso con delle sorprese: Due “Bottiglie Murina Boboli”  dal collo stretto e lungo, e un “Bicchiere Murina Boboli”, del 1959-61,  che segna un ritorno all’antico nella cristallina trasparenza del vetro ma nel contempo è un salto in avanti nella modernità con i centri concentrici quasi dei bersagli policromi.

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Nello stesso periodo, con una piccola sfasatura temporale, vediamo 5 “Vasi Foglie” del 1957-62,  3 sul rosso-arancio-verde, uno sul giallo-blu dove i motivi ornamentali ispirati alle venature e alle forme delle foglie tendono a scomporsi ma senza perdere la conformazione per dissolversi nel colore.  Questo avviene nella parte inferiore del “Vaso Kiku Liberty” del 1960 mentre nella parte superiore i motivi ornamentali, sempre a raggiera,  restano delineati con precisione.

Con la metà degli anni ’60 si arresta la sfilata di opere di Ermanno il quale nel 1962 ci dà nuove sorprese. La  “Bottiglia Nerox a Petoni”, se ha la forma simile alle “Bottiglie Murano Boboli” del 1959-61,  se ne differenzia nettamente: nessuna trasparenza, ma un cromatismo intenso e contrastato nelle formazioni di tipo geometrico che ne ricoprono la superficie. Invece cromatismo omogeneo in unico colore nei 3 “Vasi Murrine a Spirale”, con leggeri motivi circolari di colore arancio, viola  verde che spiccano sul fondo più chiao al punto di apparire monocromatici.

Ma non è un punto di arrivo: nello stesso 1962 i 2 “Vasi Nuvole”  hanno una superficie variegata ma senza colore, e, infine, nel 1964 con il “Vaso Murrine Lattino” tornano le formazioni circolari altrettanto senza colore.  E’ come se si sia voluto così chiudere il cerchio della sua vita artistica.

Resta da ricordare la presenza tra i designer di Robert Wilson, di cui sono esposti 2 “Vasi Murrine Wilson”, fondo unito verde chiaro e granata, con sparsi motivi ornamentali costituiti da W, l’iniziale del cognome è il sigillo della serie, in onore della sua collaborazione di  molti anni. E, per concludere, il segno lasciato da Rosanna Toso, di cui abbiamo già detto che fu l’ultima direttrice artistica fino allo scioglimento del 1980.

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Lo troviamo rilevante perché, sempre nelle opere esposte, non è da poco il passaggio dal “Vaso Contrasto” del 1968, molto scuro, con lo stesso effetto, pur nella forma diversa, del “Vaso Cattedrale”di Perelda,  al “Vaso Masso” e “Piatto Masso” del 1969, fondo bianco luminoso, quasi ceramica, con delicate stilizzazioni floreali dal cromatismo netto ma discreto, evocano il “mazzo” di fiori che, nel dialetto veneziano, dà il titolo a questi oggetti veramente eleganti e raffinati. Come lo sono i 2 “Vasi Foglie”, che non hanno nulla del cromatismo  intenso di quelli creati da Ermanno nel 1957-62, fondo quasi trasparente con le foglie delineate in forme dalle tinte delicate, pur se evidenti.  Siamo nel 1970, l’attività della fabbrica continuerà per un decennio, con slancio e spirito creativo.

Dalla Collezione dei vetri storici all’Archivio

Prima di approdare  a Roma, alla  “Casina delle Civette”,  questa  mostra itinerante  nel 2018 ha fatto già tappa a Pavia e a Orta san Giulio in provincia di Novara,  L’esposizione di tipo cronologico ci ha consentito di ripercorrere, attraverso le opere più significative,  l’evoluzione del gusto e della sua espressione nel periodo più significativo, il cinquantennio 1930.80. Ma per una ricostruzione completa ci sono anche i disegni, le foto e i documenti dell’archivio, con i quali si possono approfondire i particolari dell’attività creativa e produttiva, dal talento dei “designer” alla abilità dei maestri vetrai che hanno dato corpo alla loro arte grafica e pittorica.

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Nella Collezione Toso, i designer e maestri hanno lasciato il segno della loro eccellenza non solo nei prodotti finali, ma nel  ricchissimo materiale preparatorio, costituito da oltre 30.000 disegni numerati in ordine cronologico e da migliaia di fotografie, da cataloghi e altri documenti di vita aziendale  con cui si possono ricostruire le diverse fasi del processo creativo,  dall’ideazione alla progettazione fino alla realizzazione, oltre che certificarne il valore. Un archivio che si deve alla passione di Arnaldo Toso, il quale ha capito che conservando le molteplici espressioni dell’attività svolta ne veniva valorizzato il patrimonio storico e artistico 

E’ questa l’importanza degli archivi, come sostiene con forza Fabrizio Russo, titolare della gloriosa galleria romana nei pressi di piazza di Spagna, che ha contribuito e concorre tuttora all’Archivio Cambellotti, il grande artista designer e non solo; non era il vetro ma la ceramica il materiale preferito per le opere non pittoriche e grafiche, tuttavia le vetrate  realizzate sui suoi disegni, che hanno fatto diventare la “ Casina delle Civette” Museo della vetrata Liberty,  lo qualificano anche in questo campo, nel quale le sue creazioni furono di altissimo livello, oltre agli altri in cui eccelse.

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La mostra itinerante, alla sua terza tappa romana, celebra, quarant’anni dopo, la saga di una famiglia di designer, allargata ai maestri vetrai. Le loro opere danno lustro al “made in Italy” che unisce l’artigianato di eccellenza al raggiungimento di un elevato livello artistico in un campo così particolare ed evocativo come quello del vetro veneziano, Murano e le sue splendide “murrine”.

La mostra itinerante, alla sua terza tappa romana, celebra, quarant’anni dopo, la saga di una famiglia di “designer”, allargata ai maestri vetrai. Le loro opere danno lustro al “made in Italy” che unisce l’artigianato di eccellenza al raggiungimento di un elevato livello artistico in un campo così particolare ed evocativo come quello del vetro veneziano, Murano e le sue splendide “murrine”.

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Casina delle Civette,   Musei di Villa Torlonia, via Nomentana 70, Roma. : Da martedì a domenica ore 9.00-19.00, la biglietteria, presso il Casino Nobile,  chiude 45 minuti prima; lunedì chiuso.  La mostra è parte integrante della visita alla “Casina delle Civette”. Ingresso intero 6 euro, ridotto 5 euro, per i cittadini residenti a Roma  1 euro in meno.  Tel.  06.0608,  http://www.museivillatorlonia.it.  Catalogo: “La Fratelli Toso: i vetri storici dal 1930 al 1980”, “Il Mondo del Vetro”, maggio 2018, pp. 140, formato 21 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per i due artisti citati cfr.  i nostri articoli, in questo sito  Cambellotti, aprile 2019; in www.arteculturaoggi.com, “Annalia Amedeo, porcellane artistiche nelle “sinestesie” alla ‘Casina delle Civette'” 30 novembre 2017; nel sito ora citato, per i romanzi sulle imprese familiari,  “Ceccarelli. I Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita” 14 gennaio 2017.

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante nella “Casina delle Civette” alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, in particolare Caterina Toso,  per l’opportunità offerta. Nel testo le immagini delle vetrine sono state inserite cercando di rispettare in linea di massima la sequenza in cui le opere in esse contenute sono citate nel testo; tra loro, 5 immagini di opere singole, tratte dal Catalogo.  In apertura, un angolo della mostra, 4 vetrine con sopra una foto storica e un disegno dell’Archivio; seguono, Ermanno Toso, “Vaso Terrazzo” 1952, e “Vaso a Fasce Argento”” 1934, con 3 tipi di “Vaso Pulegoso” 1940; poi, Ermanno Toso, “Vaso Kiku Sommerso” 1949, con “Vaso Nerox” e “Vaso Terrazzo” 1952, e Pollio Perelda, “Vaso Stellato” 1953; quindi, Pollio Perelda, 2 tipi di “Vaso Stellato” 1953, con Ermanno Toso, 2 tipi di “Vaso Millerighe” 1954, ed Ermanno Toso, 3 tipi di “”Vaso Kiku Redentore” con un “Vaso Nerox Redentore” 1956; inoltre, Ermanno Toso, “Vaso Kiku Redentore” 1956,

e “Vaso Stellato” 1953, con “Vaso Kiku” 1954, 2 tipi di “Vaso Kiku Murrine Sparse” 1955; continua, “Vaso Foglie” 1957-62, e 5 tipi di “Vaso Foglie” 1957-62; prosegue, Robert Wilson, 2 tipi di “Vaso Murrina Wilson” 1958-59 con Ermanno Toso, Vaso Kiku Liberty” 1960 e “Bottiglia Nerox a Petoni” 1962, e “Vaso Murrina Wilson” 1958-59; poi, Pollio Perelda, “Vaso Farfalle” con“Vaso Zebrato” 1962 più Ermanno Toso, 2 tipi di “Vaso Nuvole” 1962, ed Ermanno Toso, “Vaso Kiku Redentore” 1956, e 3 tipi di “Vaso Murrina a Spirale” 1962, con 2 tipi di ““Vaso Murrine Lattimo” 1964, Pollio Perleda, “Vaso Marmorino” 1964 e Rosanna Toso, 2 tipi di “Vaso Contrasto” 1968; poi, Pollio Perelda, 2 tipi di “Vaso Cattedrale” 1957 con “Vaso a Fasce” 1958 ed Ermanno Toso, “Vaso Foglie” 1957-62; quindi, Pollio Perelda, “Vaso Stellato” 1958 con 3 tipi di “”Bottiglia Murrina Boboli” 1959-61, eRosanna Toso, “Vaso Foglie” 1970; infine, dall’Archivio un campionario per le “murrine”; come la tavolozza del pittore, in chiusura, un angolo della mostra con 4 vetrine.

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Gianni Testa, la “perfetta sinfonia” cromatica all’ “Otium Hotel” di Roma

di Romano Maria Levante

L’esposizione per un intero anno all’”Otium Hotel “di Roma, di 75 opere del nuovo ciclo di Gianni Testa, “Movimenti astratti”, con una pur ristretta selezione dei cicli precedenti nella fase iniziale, è un evento sia per la caratura dell’artista sia per la sua portata innovativa anche ai fini di facilitare l’incontro dell’arte con il pubblico fuori dai circuiti consueti. Ne abbiamo parlato in precedenza, ripercorrendo l’itinerario artistico di Testa con una prima analisi sull’attuale svolta astrattista; ora andiamo alla ricerca dei suoi motivi reconditi per dare infine una nostra interpretazione del nuovo ciclo di opere.

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Un dipinto esposto sulla terrazza dell'”Otium Hotel”, nelle immagini che seguono
(tranne la n. 11) i “movimenti astratti” esposti lungo i 5 piani dell’Hotel

Sensazioni suscitate e motivi reconditi dei “Movimenti astratti” 

Abbiamo avuto il privilegio di prendere visione diretta dei “Movimenti astratti” di Gianni Testa nel suo atelier, nei pressi di Piazza di Spagna, prima di ritrovarli all’“Otium Hotel”; un atelier, il suo, che ci è apparso all’altezza dei più celebri “Interni d’artista” presentati nella mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna del 2014.

E non è mancata un’ulteriore sorpresa in questi nuovi dipinti  rispetto ai prodromi che abbiamo segnalato: non c’è solo la svolta nei contenuti, ma un vero salto di qualità nelle modalità pittoriche che ne esaltano la resa spettacolare senza perdere la spontaneità del gesto istintivo mosso dall’impulso che si traduce nei movimenti astratti di cui al titolo. 

La superficie dei dipinti appare translucida per un trattamento che ne potenzia l’effetto, mentre anche il colore viene impresso in modo diverso, lo si vede nella delicatezza della trama, dal puntinismo alla diffusione cromatica con le modulazioni e tonalità più varie.

Non basta, sulla superficie dipinta compaiono rilievi astratti dalle configurazioni variegate che vanno da forme arabescate a richiami simbolici, a sigilli enigmatici, ed evocano segnali misteriosi. In questa innovazione, realizzata con particolare cura, i rilievi spiccano con la loro lucentezza sulla superficie traslucida del dipinto, rivestiti in modo discreto di foglia d’oro o d’argento secondo la tonalità cromatica di fondo.

Ma non vogliamo soffermarci sui particolari tecnici, ci interessa piuttosto esternare come  ci sono sembrate queste opere la prima volta, sensazione provata di nuovo e in modo forse ancora più coinvolgente nei 5 piani dell’“Otium Hotel”, proprio perché configurano un vero e proprio itinerario artistico che invita a seguirne e decifrarne la direzione. Riassumiamo la sensazione provata in  due aggettivi: affascinanti e intriganti.

Affascinanti, per la suggestione cromatica che penetra nell’intimo con l’armonia dei colori sorprendente in un artista passato dalle forti pennellate e le tinte intense degli altri cicli alle delicate armonizzazioni attuali raggiungendo effetti di straordinaria efficacia. Qui cambia tutto, e non solo permane l’efficacia cromatica, ma raggiunge il diapason toccando le corde della sensibilità come prima quelle del coinvolgimento nella scena.

Intriganti, per il significato misterioso dei rilievi che intarsiano in vario modo tutti i dipinti astratti divenendo una componente fondamentale dell’effetto d’insieme, novità nella novità della svolta astrattista che ci spinge  a ricercarne  il motivo recondito.

E’ vero che l’arte contemporanea ci presenta le soluzioni più sorprendenti e stravaganti, e questa non è  certo la più sconvolgente; ma qui siamo di fronte a un artista che non ha la spregiudicatezza delle avanguardie spesso provocatrici e si muove nel solco di un’attività artistica coerente svolta per oltre mezzo secolo, per cui ne va cercata la ragione.  

Ci sembra di averne trovato una chiave interpretativa pensando al fatto che, pur nella dimensione pittorica di gran lunga prevalente, c’è stata in lui l’incursione scultorea, “Cavalli”, “Bighe”  e altre figure in piccoli cammei, anelli, spille fusi “a cera persa”.

E allora abbiamo pensato che con questi rilievi sul fondo dipinto nel cromatismo delicato del suo nuovo astrattismo, inconsapevolmente come avviene nell’ispirazione artistica, si sia espressa la sua anima scultorea nel momento in cui quella pittorica si lanciava in una svolta.  Una ”summa” della sua arte che unita vira nell’astrazione.

Il motivo di fondo della svolta astrattista

Lungo questo percorso interpretativo non potevamo non interrogarci sul motivo che ne è alla base, sulla spinta decisiva per questa svolta; e lo abbiamo trovato nella estrema semplificazione espressiva di queste nuove opere.

Non solo per l’assenza di qualsiasi forma figurativa,  neppure in dissolvenza come altre volte in passato, sia nella superficie pittorica sia nel rilievo scultoreo; ma per il cromatismo lasciato libero di esprimersi, ripetiamo, con una modulazione  variegata e un’armonizzazione del tutto nuove

Tutto questo fa pensare alla ricerca dell’essenza, fuori da ogni impegno rappresentativo, ed è evidente che l’essenza del colore risiede nella declinazione delle più diverse espressioni e combinazioni cromatiche,  esplorando soprattutto quelle inconsuete.

Lo vediamo nella straordinario assortimento delle più varie sfumature delle tante cromie nella nutrita serie di rossi, verdi, azzurri, per citarne solo alcuni; e nel susseguirsi altrettanto straordinario delle combinazioni armoniose tra i vari colori in una delicatezza e levità, ripetiamo, inedita per un artista che predilige le “tinte forti”, per così dire.  

Mentre l’essenza nella scultura è identificabile in quei rilievi impressi con immediatezza nell’impulso del momento anch’essi senza condizionamenti né riferimenti figurativi.

Dunque sono compresenti l’essenza nella pittura e l’essenza nella scultura dei rilievi.

Ma cosa ha mosso tutto questo? C’è una ragione diretta, oltre l’evoluzione di cui abbiamo parlato, che giustifica la traversata del Rubicone?

Non si chiedono all’artista questi motivi, ma conversando con lui è emerso un motivo occasionale, del resto anche la scienza delle volte si affida al caso, la stessa scoperta della penicillina è dovuta a un fatto casuale. Un segno tracciato occasionalmente da un famigliare gli ha ispirato d’istinto il primo rilievo senza che gli attribuisse un particolare valore o significato, quasi per gioco. Invece  è stato come la palla di neve da cui nasce  la valanga in un accumulo crescente sospinto da una forza irresistibile.

Identificata l’origine,  abbiamo ricercato da dove è nata la spinta irrefrenabile che dal primo rilievo ha portato ai “Movimenti astratti”. E abbiamo visto inserirsi, sempre per caso, un personaggio che, nella nostra interpretazione, diventa il protagonista della svolta, niente meno che Dante Alighieri.

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Lo abbiamo scoperto altrettanto casualmente, vedendo con sorpresa che il primo gesto istintivo di imprimere il rilievo suggeritogli dal segno del famigliare è avvenuto su un dipinto raffigurante Dante che l’artista ci ha mostrato senza dargli peso.

Da lì la valanga artistica ha prodotto in due anni una novantina di “Movimenti astratti”  tutti con il cromatismo delicato e insieme variegato in tutte le possibili declinazioni e l’altrettanta innovativa presenza dei rilievi, anch’essi con le configurazioni più diverse.

Gianni Testa nel suo atelier mostra l’inizio della sua svolta astrattista, a sin. i primi rilievi impressi su un’immagine di Dante, a dx uno dei suoi “Movimenti astratti”

A questo punto il passo successivo, per quanto ardito possa sembrare anch’esso, considerando che l’ispirazione dell’artista è stata istintiva senza alcun riferimento consapevole. Sono una novantina i dipinti astratti dell’artista, più il rilievo sulla figura di Dante Alighieri; e sappiamo che Gianni Testa è così suggestionato dalla Divina Commedia da avervi dedicato una novantina di dipinti ispirati ai canti danteschi.

Come non pensare che nei nuovi dipinti astratti ci sia questo motivo recondito, con i rilievi scultorei a ricordare nella sintesi astratta l’essenza delle presenze e la superficie pittorica nella sua varietà cromatica ad evocare l’essenza di ambienti ultraterreni? Tanti dipinti con dominante rossa, celeste, intermedia, come non associarli nell’astrazione pittorica alle tre Cantiche dantesche, dal rosso infernale al celeste paradisiaco? Anche se non è così, ci piace pensare che potrebbe esserlo perché è l’impressione da noi avuta nell’immediato e non ci sentiamo di tacerla.

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La sublimazione nell’approdo alla “perfetta sinfonia”

Ma c’è qualcosa in più, e di conclusivo, da dire su questo approdo, al di là della nostra sensazione assolutamente personale che affianca i “Movimenti Astratti” ai suoi dipinti di pari numero realizzati nel ben noto “espressionismo onirico” sulla Divina Commedia.

In questo passo decisivo nell’astrattismo sentiamo la ricerca di qualcosa che va “oltre”, divenuta imperiosa dopo aver esplorato tante strade, pur senza abbandonarle perché, secondo l’artista, vanno mantenute sempre aperte. Una ricerca che ci riporta al percorso di Mondrian nel quale l’approdo alla semplificazione verso l’astrattismo, definitiva e irreversibile,  non nasce da questioni stilistiche ma da un’esigenza spirituale irresistibile. 

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Gianni Testa non ha avuto bisogno di un avvicinamento progressivo, perché la vicinanza c’era sin dall’inizio, e la possibilità dell’approdo all’astrattismo era insita nelle caratteristiche intrinseche della sua pittura.

Aveva tanto da esplorare, finché in una fase quanto mai matura ed avanzata della propria vita artistica e dell’esperienza personale, dopo aver trovato ciò che cercava e averlo rappresentato con la visione della realtà della sua pittura, è scattato il bisogno di andare oltre. Così è avvenuto il passaggio a  una forma d’arte legata ai sentimenti piuttosto che alla realtà, e nei sentimenti si esprime lo spirito senza forma ma con tanto contenuto interiore.

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Ripensiamo a un artista della nostra terra d’Abruzzo, Guido Montauti, del quale è stato celebrato il centenario della nascita nel giugno 2018 con una mostra antologica. Dalle caratteristiche sagome di montanari assorti tra le rocce Montauti è passato – attraverso la semplificazione delle “bande oblique” seguita dalla rarefazione del “periodo bianco” – a un astrattismo con toccanti richiami che lo ha portato addirittura a raggiungere l’Empireo, così abbiamo  definito l’approdo artistico di un quarantennio di pittura. E lo raggiunge anche Gianni Testa con le sue visioni supreme del culmine del Paradiso. 

Nel suo astrattismo sentiamo una analoga ricerca: dopo tanta esplorazione della realtà, l’immersione in mondi superiori dove regna la forza irresistibile dello spirito che non può essere limitata dalle forme ma deve potersi esprimere nella più assoluta libertà.

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Questo avviene con il colore, sempre dominante nell’artista, ma divenuto ora l’unico protagonista: si è  liberato del fardello della forma trasmutando come per magia in cromatismo  delicato, armonioso, perfino etereo.  E’ entrato nel mondo iperuranio dello spirito, e qui il riferimento dantesco venuto spontaneo non sembra affatto eccessivo. 

Come Mondrian approdò alla “perfetta armonia” con il suo astrattismo  geometrico, così Gianni Testa approda alla “perfetta sinfonia” con il suo astrattismo cromatico: la visione coloristica nella nuova modalità espressiva diviene ancora più coinvolgente perché si tratta di condividere sollecitazioni interiori profonde, e lo fa immergendosi in un cromatismo armonioso. Più dell’ armonia, la visione ci dà una vera e propria sinfonia.

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E’ una sinfonia di colori che nella successione delle 75 opere astratte impreziosite dai rilievi argentati e dorati che segnano l’itinerario all’interno dell”Otium Hotel” prende la vista come una calamita e scatena l’immaginazione: invita ad abbandonarsi al richiamo di quelle onde cromatiche che portano lontano, nei mondi iperurani evocati dallo spirito.

Ci saranno ancora – lo ripetiamo per averlo detto espressamente l’artista – le opere tradizionali nel suo “espressionismo onirico” molto personale, ma sarà compresente  la nuova espressione astrattista, ora fissata stabilmente per un anno, e non per il breve periodo delle mostre temporanee,  nella galleria che gli ospiti dell’albergo percorreranno ogni giorno.  

Altri sviluppi sono imprevedibili, con il maestro Gianni Testa le sorprese non finiscono mai.

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Info

“Otium Hotel”, via dell’Ara Coeli, 11, Roma. Il primo articolo sull’evento è uscito in questo sito l’8 giugno scorso. Cfr. i nostri precedenti articoli, in www.arteculturaoggi.com: per Gianni Testa, 3 articoli, “L’espressionismo onirico al Vittoriano”, settembre 2014,  “Gianni Testa, il tour di un anno negli Emirato arabi”, 14 marzo 2015, “Pittori di marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo”  (tra loro Gianni Testa), 31 gennaio 2016;  per gli altri artisti citati, su Picasso 3 articoli, 5 e 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, il 1° “In Italia tra cubismo e classicismo, alle Scuderie del Quirinale”, su Guido Montauti 6 articoli 13, 2, 29 luglio, 3, 11, 29 agosto 2018, il 5° “Dal Pastore bianco all’Empireo”,  su Mondrian 2 articoli 13 e 19 novembre 2012, “Il percorso d’arte e di vita” e “L’approdo nella perfetta armonia”, su De Antonis 2 articoli 19 e 29 dicembre 2016,  “Nella fotografia astratta un nuovo realismo” e  “Dai ritratti classici alla fotografia astratta”, sugli “Astrattisti italiani” 5 e 21 novembre 2012. 

Foto

Le immagini dei dipinti dei Movimenti astratti di Gianni Testa esposti nei 5 piani dell’hotel sono state riprese da Romano Maria Levante nell’”Otium Hotel” all’inaugurazione, si ringrazia la direzione dell’hotel con l’artista per l’opportunità offerta. Invece l’immagine n. 11 nella quale l’artista mostra i primi rilievi astratti impressi sulla figura di Dante è stata ripresa nel suo atelier, lo si ringrazia anche per questo.

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