di Romano Maria Levante
La mostra “Frank Holliday in Rome” espone al Museo Bilotti, all’Arancera di Villa Borghese, dal 20 giugno al 13 ottobre 2019, oltre 30 dipinti di grande formato, alcuni monumentali, realizzati dall’artista americano a Roma nel 2016. Segue la mostra dell’aprile 2018 al MoMa di New York sul “Club 57”, il locale newyorkese dell’East Village nel quale dal 1978 al 1983 si sono avute le prime espressioni controcorrente di Holliday e di altri artisti nella musica e nell’arte. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale, organizzata dalla Galleria Mucciaccia di Roma con i servizi museali di Zétema Progetto Cultura, è a cura di Cesare Biasini Selvaggi, che ha accompagnato l’artista nella visita guidata di presentazione della mostra. Catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.
Una mostra intrigante, che invita ad andare “oltre”, da diversi punti di vista. Il primo è tutto interno all’esposizione, e riguarda il modo di guardare le opere e soprattutto di interpretarle; avviene di frequente ma non nella misura e con l’intensità di questa mostra. Gli altri punti di vista riguardano le opere esposte e l’itinerario artistico e di vita del protagonista.
Immaginare per interpretare
Ci troviamo dinanzi a tele a olio, l’autore dichiara che per il solvente si è ispirato alla pittura di Tiziano e aggiunge di usare “qualunque cosa che possa essermi utile per finire il lavoro”: pennelli grandi e stracci, spatole di metallo e anche le dita. Sono dipinti spettacolari accomunati dal modo personalissimo di unire una serie di colori dalle tonalità più varie in composizioni dove forme indistinte sembrano fluttuare per essere poi risucchiate nel vortice cromatico. L’osservatore è preso dalla forte sollecitazione visiva mentre cerca di dare una logica all’addensarsi e rarefarsi delle macchie di colore che sembrano in continuo movimento, come le nubi in un cielo tempestoso.
I titoli aggiungono la sfida di interpretare il significato specifico della composizione inseguendo le vaghe somiglianze delle formazioni cromatiche a forme intellegibili. Ma sono soltanto il motivo che ha sollecitato l’artista, poi l’impulso di partenza si è tradotto nella libera espressione in cui non vi è più traccia dello spunto originario, anche quando la spinta iniziale ha accompagnato l’intera creazione, cosa improbabile allorché il tempo di realizzazione si protrae nel tempo, non trattandosi dell’immediatezza dell’”action painting” che da opera d’arte vira in “performance” .
L’artista rivela come si svolge la fase creativa: “Sto lì e metto la pittura sulla tela, immagino ci sia un processo, ma non una formula. Ho l’impressione di ciò che voglio, ma devo trovarlo, guardarlo e scoprirlo nel momento stesso in cui dipingo. Ci vuole molto tempo per costruire la superficie, la luce, il tempo, il colore e lo spazio”. Quindi conferma che non c’è immediatezza ma maturazione, però sempre con spontaneità: “Vado a studio ogni giorno, ascolto i dipinti e prendo le decisioni nel momento in cui vengono alla luce. Non c’è un’unica soluzione, c’è molto da guardare e da dipingere fino a quando, a un certo punto, il dipinto ha tutto e, allora, è concluso”.
Così descrive l’effetto d’insieme il curatore Cesare Biasini Selvaggi: “La bellezza del colore controbilancia la solidità del gesto pittorico, in un susseguirsi di paradossi dove luci e ombre , cadute e ascese, assenze e presenze diventano inscindibili”.
E Carter Ratcliff analizza le onde cromatiche di singole opere con l’occhio dell’osservatore che voglia “limitarsi solamente a crogiolarsi dinanzi a questi colori sontuosi, questi ricchi impasti e le sorprendenti modulazioni”. Ma non basta, perché “il quadro ci guarda mentre noi lo osserviamo”, e nel fare così ci trasmette un’emozione; in fondo le “strisce e impennate” cromatiche sono i gesti del pittore, “ricchi strati di colore verso la medesima alta tonalità di immediatezza. E di complessità”.
Infatti è complesso, pur nell’apparente semplicità compositiva, percepire cosa c’è dietro la “miscela di elementi” che cambia ogni volta conferendo una diversa identità all’opera e rinnovando la sfida all’osservatore di prevedere quale delle masse cromatiche possa prevalere nell’alternanza dell’onda cromatica. “La tela non è soltanto un soggetto, bensì un surrogato della presenza stessa dell’artista”, quindi non è solo il racconto di un qualcosa che cerchiamo di decifrare con difficoltà dal momento che siamo nell’informale. Difficoltà anche per trasmettere solo la sua emozione, dato che è difficile la sua permanenza durante l’intero processo di creazione dell’opera.
Quindi è inutile investigare, ma si può immaginare: ”I significati di un dipinto di Holliday sono quelli che creiamo noi stessi quando osserviamo il suo mondo, impigliandoci nella sua scala, nel suo ritmo e nella grana – la consistenza della sua energia e dello stile raffinato delle sue modulazioni”. E allora ci potrà sembrare di vedere il gesto dell’autore, descritto in precedenza con le sue parole, dietro le “strisce e impennate” cromatiche.
Ratcliff non si ferma a questa sensazione, si spinge più avanti: “La presenza dell’artista affiora man mano che si percepisce che ha un suo modo di occupare questo mondo pittorico che, in fondo, egli è questo mondo. E’ proprio questa unione tra artista e opera che ci porta dichiarare che l’osservato osserva a sua volta”. E non è cosa da poco perché “evocare questa unicità vuol dire attribuire a un’opera l’incommensurabile complessità di una persona, un essere capace di sentimenti infiniti – e infinitamente sfumati”.
I titoli delle opere e l’espressione artistica
Cerchiamo di addentrarci in questa complessità cominciando dall’osservazione apparentemente più semplice e scontata: i titoli che pone alle sue opere rispetto al modo con cui dà ad essi forma visiva. E’ solo una fase della nostra esplorazione, consapevoli che nell’informale non si può cercare la corrispondenza figurativa, ma soltanto delle tracce dell’ispirazione che ha dato il titolo; qualcosa che “rimane nella memoria” e quindi può lasciare il segno nelle “strisce e impennate” cromatiche.
Guardiamo prima i cromatismi più luminosi con giallo dominante che vira nell’ocra, li troviamo in “”Settembre” e “Magical Thinking”, “Elektron” e “Faces in Golden Rays”, “Sunset Strip” e “Yellow Jacket””, fino a “Medusa“: i “raggi dorati” e le linee avvolgenti della “medusa” si possono cogliere, ma è il colore con le sue modulazioni ad esprimere il contenuto. Per gli altri titoli rinunciamo all’interpretazione.
Dal colore altrettanto deciso, ma sul rosso, “Sizzle” e “”Phoenix Rising”, non si coglie il rapporto tra il colore e lo “sfrigolio” del titolo, mentre la “resurrezione della fenice” può essere evocata dal passaggio cromatico, dal giallo e arancio al rosso finale. Alla destra del dipinto la “vampata” rossa di “Blaze” e il “rossore” di “Blush”, nel primo dopo una massa gialla e grossi filamenti ocra, nel secondo il resto ha un’intonazione neutra, pudore o vergogna? Anche in “Femme Fatale” c’è una macchia rossa a destra, vicina a una blu, poi l’intreccio compositivo può evocare la “donna fatale”. Il rosso ancora a destra, il bianco nell’angolo alto e i toni di giallo arancio in “Battle Cries and Champagne”, nell’insolito abbinamento tra “grido di battaglia e champagne” . Nell’“Electric Eye” il rosso, con le varianti arancioni e gialle incombe sulla parte del dipinto in bianco-celeste.
Le tinte chiare, tra bianco e celeste, sono più rare, le troviamo in “”Blu Angel “, due sagome vagamente antropomorfe in un colore celestiale sembrano evocare l’”angelo”, in “”F”ountain Blue”, anch’esso con evocazioni peraltro quasi impercettibili della “fontana”, e in ““Naked Doves”, i “colombi nudi” sono evocati dal biancore sulla sinistra, mentre a destra si ha un viola inconsueto.
In “White Petals” trionfa il bianco, i “petali” sono evocati ma non delineati dal viola sulla destra, c’è molto bianco anche in “Cold fire”, il “freddo” è nel celeste che trascolora nel bianco, il “fuoco” nel rosso e arancio in alto. in “Jump” il bianco-celeste sta al centro nelle figure fluttuanti nel “salto” del titolo, tra pesanti masse scure. Il “cielo geloso” di “Jealous Sky” lo vediamo solo nella parte destra in alto, il resto è in giallo-arancio e rosso. E’ in basso, tendente al verde, il cielo che si immagina in “Wind of Others”, le “ali degli altri” sono visualizzate nelle forme ondeggianti nella parte superiore.
Ed ora i più scuri. Strisce marroni intervallate da giallo e bianco-celeste in “Burning Desire”, diverso dagli altri dipinti per la verticalità delle strisce, mentre per lo più il cromatismo è circolare e avvolgente; che sia il “desiderio bruciante” a dare all’artista quest’altra direzione? Verticalità anche in “East Wind Skies”, nella perturbazione del “vento dell’Est” che sconvolge i “cieli”. In “Cowboy” la verticalità è meno spiccata, nelle forme pur confuse un qualcosa che evoca vagamente il titolo. Nelle “Cascades” è appena percepibile l’acqua che cade nei filamenti a sinistra, in “True Berry” ci sembra misterioso anche il significato del titolo. Una grande massa scura che scolora nel giallo fino a un bordo azzurro in “”Smoke and Mirrors”, l’interpretazione resta aperta, come in “Treasure Ground”, anche qui masse scure che scolorano. In “Bite and Chew” delle strisce concatenate evocano il “morso” e la “masticazione”.
Titoli molto espliciti nei due dipinti più grandi, addirittura monumentali: “Run Moon Run”, quasi 3 metri per più di 2, mostra la “corsa della luna” nel passaggio dal biancore al blu-nero: dall’alba alla notte? E “Nights of Tiber”, oltre 2,50 per 4,50 metri, evoca le “notti del Tevere” non solo con il suo blu notturno, ma con le sagome che si intravedono. Sono le notti dell’artista a Roma, nella lunga “vacanza romana” del 2016 nella quale ha prodotto tutte le esposte. Un lavoro gigantesco realizzato con una forte spinta interiore, forse è quella espressa da “Spark of Soul”, la “scintilla dell’anima” resa in una sinfonia di colori con immagini fluttuanti, quelle dalle quali evidentemente nascevano le sue ispirazioni.
Il soggiorno romano nel 2016 e lo spirito creativo
Questa esplorazione, che ci ha fatto entrare in contatto con gli enigmi di un mondo reso in un cromatismo magistrale sostitutivo della forma nell’espressione compositiva, ci porta a volerne sapere di più del suo soggiorno romano. Ci aiuta il recentissimo colloquio dell’artista con Anney Bonney nel quale, poco prima della mostra, nello scorso mese di maggio, rievocava quel periodo.
Sono le sue “vacanze romane”, in un straordinaria “residenza” personale così intensa e feconda. “Vivevo abbastanza da monaco. Lo studio era dietro una chiesa ed era stato ricavato da un vecchio box auto dalla capienza di una vettura. Era sprovvisto di finestre e io ci abitavo direttamente sopra”. Vediamo delle fotografie in mostra, compresa la bicicletta con cui si spostava, ci sembra tutto molto povero, ma l’artista esclama: “Era bellissimo”. Forse lo giudicava così perché sapeva che nelle vicinanze aveva avuto lo studio Caravaggio, per di più di lì poteva andare facilmente ad ammirare le sue opere della Cappella Contarelli “che aveva più o meno le dimensioni del mio studio. Stavo in piedi davanti ai dipinti e mi lasciavo invadere dalla loro potenza e, poi, tornavo nello studio per continuare a lavorare”.
Dal suo racconto lo vediamo come in “trance”: “Ero concentrato e assorbito mentre stavo in piedi davanti ai miei dipinti. Cercavo di intercettare la forza dell’arte che vedevo tutto intorno a me , dappertutto, nelle fontane, nelle strade e nelle chiese”. La luce che pioveva dalle vetrate delle chiese lo ha aiutato a “scoprire come illuminare dall’interno”, è rimasto ammirato dalla “grandiosità del barocco”. Così, esclama, ”lo studio cominciò a trasformarsi in un calderone”.
Ma non solo in senso cromatico ed espressivo, c’è qualcosa di più profondo. Già l’osservazione dei soffitti affrescati, in particolare da Tiepolo, con “il loro spazio infinito e senza tempo racchiuso in una cupola fisica” gli aveva dato “la sensazione di essere senza peso, di fluttuare”; in studio faceva “ruotare la tela sul muro” fino a raggiungere “ la sensazione di essere senza peso, anche se la materialità del colore lotta per ristabilire il predominio della forza di gravita”; lo stesso effetto, spiega, che Pollock raggiungeva dipingendo sulla tela posta a terra con una sorta di danza ispirata.
Di qui è venuta per lui la rivelazione: “Ho scoperto che ci sono tre zone: c’è il paradiso, che di solito è luminoso, arioso e senza peso – qualcosa che non possiamo avere, ma di cui possiamo farci un’idea. E poi c’è la terra. Quindi l’inferno. E l’inferno è la forza di gravità, che cerca sempre di aggrapparsi a noi per tirarci giù. E noi siamo incastrati tra i due”. Da Bernini viene l’aiuto decisivo, lo definisce “geniale” perché nelle sue opere “si avvertono l’attrazione del peso della terra e la ricerca della spiritualità nella pietra. Nei miei dipinti affronto questo spazio intermedio artigliandolo e gattonando. Annaspo tra l’inferno e il paradiso, nel mezzo”.
Così l’artista ricorda Roma nel colloquio avvenuto nel suo studio newyorkese. E non poteva non pensare all’inferno, quello che ha attraversato in New York dal punto di vista umano e non solo artistico, fino all’approdo nel suo “phoenix risng”, che per noi è il “paradiso romano”.
L’itinerario artistico e umano, la morte e l’inferno nella vita e nell’arte
Ma c’è un’ulteriore esplorazione che va fatta per capire come l’artista parli di inferno e paradiso in modo così personale e intenso che non sembra trattarsi di metafora, quanto di vita vissuta. Possiamo farla attingendo alla miniera di notizie contenute nella ricostruzione quanto mai dettagliata operata del curatore Biasini Sslvaggi che fa rivivere i tempi eroici e tragici delle inquiete avanguardie “underground” di cui Holliday ha fatto parte e le vie percorse dall’artista, molto diverse dalle forme espressive attuali.
Fino al 2010, allorché con “The Gold Gold” vediamo apparire un cromatismo compositivo con dominante gialla del tipo di quello che vediamo nella mostra di Roma, dopo che nel 2014, con “Rumors” ed “Ever” ha avuto altre espressioni cromatiche, culminate nell’azzurro di “Fly Away”, quando l’artista spicca il volo, se ne avverte il senso di sollievo. Il 2016, con la “total immersion” in una Roma così coinvolgente per lui, dà alla sua svolta un valore quasi liberatorio. Che risulta ormai permanente, stando alle composizioni dello stesso tipo, anche se in un cromatismo meno aereo e sfumato, realizzate dopo il ritorno a New York, nel 2017 e 2018.
Il suo percorso artistico inizia con “la spontanea celebrazione dell’attimo” per dare espressione allo “slancio vitale” nell’accezione di Bergson, che ispirò la sua visione dall’inizio degli anni ’80, quando a New York il suo studio era in una piccola stanza gelida divisa in due da una tenda nera perché lo condivideva con l’artista Carl Apfelschnitt; non potevano che derivarne dipinti neri, “minimali”, come i “Black Mirror”, lo specchio che riflette l’immagine inquietante di se stesso.
E’ l’ora del “Club 57”, aperto nel 1978 nell’interrato di una chiesa nell’East Village, culla delle avanguardie pop e delle sperimentazioni nei più diversi generi artistici con le “drag performance”. Nel 1980 la doppia personale “New Paintings by Keith Haring and Frank Holliday”, Haring era stato suo compagno in un corso di semiotica alla School of Visual Art di New York; di Holliday, “Black Mirror” e il polittico “TVC 15” ispirato alla canzone di David Bowie dello stesso titolo.
E qui irrompe la vita in tutta la sua drammaticità: “I dipinti – osserva Biasini Selvaggi – rappresentano una premonizione dell’AIDS e della sua lunga ombra, ripristinando i valori materiali della pittura, ridefinendo il disegno come parte del processo pittorico e dimostrando di guardare già al di là del postmodernismo per riacquistare la pienezza della pittura intesa come arte principale”. Questo contro “la dittatura di Clement Greesnberg” – così intitolava la sua critica Kay Larson nel 1987 – le cui concezioni sull’arte priva di ogni contenuto avevano segnato la morte della pittura negli anni ’60, la paralisi dell’arte all’inizio degli anni ’70 e la reazione postmodernista.
Holliday passa dal nero al bianco,per sentirsi circondato dalla luce, ma con la metafora della morte: “Volevo trasmettere il senso di perdita e al tempo stesso di sicurezza e di pericolo” e, nelle parole del curatore, “il senso, cioè, della morte nella vita e della vita nella morte”. Sempre nel “Club 57” si impegna nelle scenografie teatrali malvolentieri, “per me erano installazioni, ma furono liquidate come elementi scenografici”. Non era soltanto questa l’anomalia, “al ‘Club 57’ c’erano droghe e promiscuità: era una grande famiglia orgiastica” ha ammesso Kenny Scharf, così non solo non poteva durare a lungo, tanto che chiuse all’inizio del 1983, ma i suoi frequentatori furono falcidiati dall’AIDS: “Keith Haring è solo uno dei tanti artisti che morirono a causa del virus Hiv – ricorda Biasini Selvaggi – Frank Holliday ne è, invece, uno dei pochi superstiti”.
In quegli anni la sua pittura aveva toni ossessivi, “erano un teatro della crudeltà, in cui la qualità del colore era espressionista, l’atteggiamento vero l’intero piano pittorico era formale, e il proprio immaginario pervaso di morte, violenza e negatività. Scene prese dalla sua vita underground”.
Per questo forse anche ora parla di inferno, come abbiamo visto, descrivendo se stesso mentre annaspa nell’area intermedia che porta al paradiso. Allora ha raffigurato in modo metaforico nell’inferno e nella morte il crollo del suo mondo colpito dall’Hiv con la relativa riprovazione morale, e le tragedie dei tanti amici portati via dall’AIDS; ma è un sopravvissuto, quindi “la sua arte celebra tuttavia nello stesso tempo pure la vita, la gioia di vivere”.
L’artista va alla ricerca di una “poetica della pittura. Una poetica che raccogliesse argomenti ampi, come la memoria e la presenza, la morte e la vita, la dannazione e la resurrezione, la materialità e la trascendenza”, i temi che metaforicamente riaffiorano nell’evocazione di inferno e paradiso. In questa dicotomia artistica ed esistenziale convivono opere che nascono dall’“esplorazione” di grandi artisti, come Tiziano e Tiepolo, Caravaggio e Van Gogh, Manet e Rembrandt, e opere astratte come le immagini totemiche, i volti e i riflessi di “Wah-Wah”.
Alla fine degli anni ’90 “la ricerca pittorica dell’artista è inghiottita da una sorta di horror vacui compositivo”, nascono opere “claustrofobiche”, con “gli occhi degli amici morti dallo sguardo penetrante, in modo da generare una reazione psicologica inconsueta nello spettatore, agendo sul suo inconscio ed esprimendo il mondo interiore dell’artista, a partire dal suo emisfero affettivo più prossimo”.
Dal puro astrattismo agli effetti psichedelici con forme sgocciolate alla Pollock, sono gli ultimi fuochi prima della svolta che abbiamo già ricordato in precedenza citando “Gold Gold” del 2010, fino a “Fly Away” del 2014. Svolta che nelle “vacanze romane” del 2016 ha avuto la consacrazione più alta nell’arte e nella vita. Abbiamo visto l’artista illuminarsi quando gli abbiamo fatto notare come il Ninfeo dell’Aranciera di Villa Borghese – che nella mostra fa da scenario spettacolare alle due opere monumentali – dà un significato simbolico alle sue opere solari, evoca il paradiso. Ha annuito con gioia, non solo a parole, la luce dei suoi occhi era più eloquente di ogni spiegazione.
La pittura di Holliday, una cura dopo la malattia
Siamo tornati, così, alla mostra romana, e ci fa meditare la conclusione di Ratcliff: “I flussi di colore che inondano i dipinti di Holliday ricordano gli splendori che tutti riconosciamo perché, come lui, anche noi abbiamo sperimentato il senso di unione con loro. L’immediatezza e la penetrante energia con cui l’artista presenta questi colori ci aiutano a immaginare un mondo ancora più intenso, più ricco di profondi significati di quello che conosciamo”.
Il commentatore va oltre: “O forse sarebbe più esatto dire che ci dimostra, con l’esempio delle sue opere, come vivere più intensamente il nostro mondo di quanto siamo normalmente capaci”. Ma non ci indica una direzione, tutt’altro: “Se diventa proprio irrinunciabile ricavare un messaggio da uno dei suoi dipinti, potrebbe essere questo: non c’è messaggio, non c’è morale della favola. Perché non c’è una storia, perlomeno non una con un inizio, uno sviluppo e una fine; si tratta piuttosto di un campo di inesauribili possibilità”.
Ma forse un messaggio c’è, e viene da un artista la cui storia ha avuto un inizio, uno sviluppo e un lieto fine nell’approdo romano, mentre il “campo di inesauribili possibilità” aperto per tutti, e anche per lui, oltre a un messaggio è una speranza che aiuta a vivere.
Proprio per questo ci permettiamo di invitarlo a rivedere il suo motto “Painting is a disease or a curse” togliendo la “s” a “curse”, maledizione, trasformandola in “cure”, cioè cura. Ebbene, crediamo che per lui “la pittura è una malattia o una cura”, anzi è stata entrambe le cose nella successione degli eventi della sua vita. Comunque, dopo le “Roman Holliday” del 2016 ci sentiamo di dire che ha cessato di essere una maledizione. Ed ora può affermare di sentirsi “libero di essere dannato e carino quanto serve, di fluttuare, di cadere e rialzarmi allo stesso tempo”. E’ la prova che la cura è stata efficace, eccome!
Info
Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Via Fiorello la Guardia 6, Roma. Da martedì a venerdì e festivi ore 13,00-19,00 (ottobre-maggio ore 10-16), sabato e domenica 10,00-19,00; lunedì chiuso; ingresso fino a mezz’ora prima della chiusura). Info 06.06.08, www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it. Catalogo “Frank Holliday”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, giugno 2019, pp 216, formato 24,5 x 28,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sull’arte americana: in questo sito, “Lachapelle, l’artista scenografo con nuove opere, alla Galleria Mucciaccia” 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com nel 2015: “Lachapelle, la fotografia da set teatrale al Palazzo Esposizioni” 12 luglio; nel 2014: “Warhol. L’artista totale del XX secolo, alla Fondazione Roma” 15 settembre e ”Warhol. Tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma” 22 settembre; nel 2013: “Empire, l’arte americana oggi al Palazzo Esposizioni” 31 maggio; nel 2012: sul Guggenheim: “Il museo mecenate dell’avanguardia artistica americana” 22 novembre, “Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre, “Dal Minimalismo al Fotorealismo” 11 dicembre; vi si trovano inoltre molti articoli sugli artisti citati nel testo in riferimento a Holliday.
Immagini
“Le immagini delle opere di Frank Holliday, tutte del 2016, sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo Carlo Bilotti alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti – in particolare l’artista, anche per essersi fatto riprendere su nostra richiesta vicino a una sua opera – per l’opportunità offerta; la foto di chiusura del Ninfeo è tratta dal sito web “culture future.net”, si ringraziano i titolari. In apertura, “Magical Thinking”, con l’artista, Frank Holliday; seguono, “Settembre” ed “Elektron”; poi, ““Faces in Golden Rays” e “ “Sunset Strip” ; quindi, “Medusa” e “Phoenx Rising”; inoltre, “Blaze” e “Blush”; ancora, “Battleground” e ” “Femme Fatale” con “Battle Cries and Champagne”“; continua, “Bite and Chew” e “”Threasure Ground” con “East Wind Skies” ; prosegue, ”Run Moon Run”, 295 x 214 cm, e “Nights of the Tiber”, 266 x 457 cm infine.“Sweet Blindness” con “Cold Fire”, più “Wing of Others“, e un angolo dell’esposizione; in chiusura, il Ninfeo dell’Aranciera di Villa Borghese visto dall’interno del salone con le opere monumentali.