A conclusione del servizio, dopo i 4 articoli nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi, non possiamo non aggiungere una nota personale: riportiamo il nostro ricordo che fu pubblicato esattamente cinque anni fa sulla “Gazzetta di Foligno” del 15 giugno 2014 insieme al “ricordo delle illustri persone che lo hanno conosciuto, affiancato, amato e ammirato”, nell’omaggio al grande conterraneo con cui il giornale della sua città volle aprire la prima pagina della seconda domenica di giugno. Non aggiungiamo nulla, le parole e i sentimenti espressi allora, nell’immediatezza della scomparsa, risuonano ancora nel nostro animo, e lo faranno sempre.
Un
sodalizio intellettuale
Il mio ricordo di Luciano Radi è strettamente personale, dopo un rapporto affettivo e un sodalizio intellettuale durato quarantacinque anni; ma la grandezza della sua figura è tale che il ricordo si allarga fino a investire un campo quanto mai vasto, dall’economia alla politica, dalla società alla cultura. Ogni mio colloquio con lui – e in quasi mezzo secolo sono stati innumerevoli – era per me una lezione di vita, mi parlava un osservatore molto attento ai movimenti nella società, impegnato a coglierne i mutamenti profondi sul piano economico e sociale che precedeva quello politico, chiamato a risolvere i problemi evidenziati dall’analisi precisa e documentata. Era una fucina di idee e di iniziative, mi sorprendeva il suo impegno continuo nel cercare le soluzioni partendo dai dati rilevati con la precisione dello statistico, per interpretarli da economista e trarne le conseguenze da politico; impegno tradotto, oltre che nella lunga attività parlamentare, in una pubblicistica vasta e articolata. Le sue anime di statistico, economista e politico alimentavano una ricerca incessante e instancabile, volta a “conoscere per deliberare” o comunque aiutare a deliberare chi ne aveva il compito. Aveva anche l’anima dell’uomo di cultura, che si guarda dentro e sente il bisogno di rendere partecipi delle sue riflessioni personali, profonde se rivolte ai grandi temi della vita, divertenti allorché si dedicava a temi leggeri, anche qui la sua vasta pubblicistica ne è la migliore testimonianza. E aveva l’anima dell’uomo di fede – il fondamento della sua vita – che si è espressa pubblicamente nell’attenzione alle vite dei santi, cui ha dedicato scritti intensi e devoti. Questa dimensione pubblica del parlamentare e scrittore Radi non sovrasta la dimensione privata del mio rapporto con l’uomo Luciano. Il sodalizio intellettuale nel condividere con me le sue riflessioni sulla società fa sì che le due dimensioni fossero strettamente intrecciate e in questo esprimeva un’umanità profonda, con il suo spirito aperto alla curiosità, che faceva mettere in luce particolari destinati a passare inosservati, ma che diventavano paradigmatici nelle sue riflessioni: ne sono testimoni i suoi libri e non solo, ricordo la sua trasmissione radiofonica del mattino che allietava il risveglio. Ma nulla di tutto questo può sovrapporsi nel mio ricordo alle manifestazioni d’affetto di una persona raffinata e gentile, che sapeva esprimere sentimenti personali con la stessa sensibilità con cui esprimeva sentimenti collettivi. Gli uni e gli altri li ha manifestati fino all’ultimo, con l’amabilità e l’affettuosa fiducia con cui mi ha confidato le sue riflessioni anche in tempi recenti, pronto a tradurle ancora una volta in scritti documentati. Grazie, Luciano carissimo, per quanto mi hai dato e per quanto hai dato a tutti con la tua dedizione al bene comune e alla cultura. Sei stato un protagonista del ‘900, ma per me sei e resterai sempre il grande indimenticabile amico di una vita.
Info
Con il ricordo dell’amico concludiamo la rievocazione, nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi, del politico e dello studioso, dell’uomo delle istituzioni e dello scrittore. Cfr. i nostri quattro articoli precedenti, usciti in questo sito: “Luciano Radi ricordato con una sua opera, l’incontro tra ‘Francesco e il Sultano ‘ 800 anni fa” 6 giugno 2019; “Luciano Radi, ‘potere democratico e forze economiche’” 9 giugno; “Luciano Radi, ‘’i libri dell’anima’, l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” 11 giugno; “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo” 13 giugno.
Foto
L”immagine in apertura è stata tratta da Twitter, è l’omaggio di Gabriele Benedetti (@gabdetti) a Luciano Radi nel giugno 2015, un anno dopo la scomparsa, con le parole: “Luciano Radi, il volto sereno della politica onesta”. Lo ringraziamo per averci consentito di unire una fotografia che ne mostra l’amabilità e l’umanità, nell’espressione autorevole e dignitosa, come lo ricordiamo sempre e lo sentiamo vicino.
A cinque anni dalla scomparsa di Luciano Radi abbiamo ricordato, dopo una breve introduzione sulla sua figura, una sua opera sulla vita dei Santi, “Francesco e il Sultano”, presentata a Foligno il 30 maggio 2019 a 800 anni dallo storico incontro; poi una sua opera di politica economica, “Potere democratico e forze economiche”, che a 50 anni dalla pubblicazione mantiene una viva attualità di analisi e di proposte, quindi abbiamo ripercorso l’itinerario spirituale dei suoi “libri dell’anima”, da “Nati due volte” e “Sotto la brace” a “Non sono solo”, fino alla “trilogia dell’anima”, “Anime e voci”, Luci del tramonto”, “I giorni del silenzio”, l’ultimo a quattro anni dalla morte. Completiamo questo ricordo con il profilo del politico e dello studioso, dell’’intellettuale e dell’uomo di fede, che ha saputo tradurre il frutto della sua attività nelle istituzioni e delle sue ricerche culturali in testimonianze preziose data l’attualità del suo pensiero rispetto ai problemi di oggi e di sempre. Tale profilo è contenuto nello scritto, distribuito all’incontro di Foligno citato nel primo servizio: Romano Maria Levante, “Luciano Radi. Protagonista e testimone del nostro tempo”, come estratto dalla pubblicazione nel “Bollettino Storico della Città di Foligno XXXVIII-XLII (2015-2019)”. Lo riproduciamo integralmente con l’aggiunta di fotografie che mostrano Luciano Radi in alcuni momenti della sua lunga vita politica, le poche che abbiamo trovato per la sua riservatezza; sono intervallate da immagini della sua Foligno, che ha rappresentato in Parlamento per trentacinque anni. In tal modo cerchiamo di far rivivere le due vite, nelle istituzioni e nella sua terra, di una “personalità limpida”, come lo ha definito Pierferdinando Casini alla sua scomparsa; tanto apprezzata per la sua azione instancabile e illuminata nelle istituzioni nazionali e locali da rappresentare un esempio, e anche una fonte di insegnamenti con i suoi molteplici scritti istruttivi e profondamente umani.
La figura di Luciano Radi è tale da superare alcuni luoghi comuni, da quello contro i “professionisti della politica” a quello speculare al contrario sulla “politica come servizio” per ciò stesso esclusivo. E’ stato un politico a tutto tondo, ma non un professionista della politica, avendo avuto un proprio rilevante profilo professionale; e il suo servizio politico per il bene pubblico non è stato esclusivo, tanto ampia e variegata risulta la gamma degli interessi coltivati assiduamente fino all’ultimo.
Ripercorrendo idealmente un’esistenza vissuta in
modo intenso su questi versanti diversi ma collegati, si possono trarre
preziosi insegnamenti sui valori che la classe politica dovrebbe perseguire
sotto la spinta delle sollecitazioni provenienti dal proprio retroterra
culturale e umano.
Ed è questa la lezione imperitura soprattutto per le giovani generazioni che viene da un politico di razza che ha saputo coniugare diverse vite all’insegna di un’alta qualità intellettuale e culturale.
L’unicità
della sua figura di politico e uomo di
cultura
Come osservatore attento della realtà del suo paese
e della sua terra ne traeva alimento non soltanto per la sua azione politica ma
anche per le sue narrazioni ricolme di umanità e di saggezza. La competenza
tecnica di economista e di statistico gli consentiva di far seguire
all’osservazione l’analisi, cosicché dopo l’interpretazione veniva la proposta,
poi l’azione, ciò che si attende da un politico vero. E quanto più la riflessione era approfondita,
spaziando sul versante storico e culturale, tanto più diventava convincente la
traduzione in comportamenti politici conseguenti.
In questa contaminazione di visioni diverse e convergenti sta la straordinaria specificità, si dovrebbe dire anzi l’unicità della sua figura di politico e di uomo di cultura: chi può vantare nove legislature, per oltre 35 anni di vita parlamentare, e al contempo più di 35 pubblicazioni, dalla politica economica alla narrativa, dalla storia alla sociologia, ai bozzetti di costume? E se si aggiungono le originali grafiche artistiche e le conversazioni mattutine alla radio il quadro è ancora più ricco.
Ala base di questa visione e azione poliedrica c’è stata una curiosità insaziabile, l’attenzione ai particolari apparentemente secondari della realtà osservata, che diventavano paradigmi; e soprattutto un animo aperto alla comprensione di ciò che si muove nella società, l’identificazione nei bisogni dei più deboli, uno spirito con forti radici nella religiosità della sua terra, l’Umbria di san Francesco, che è stato per lui un alimento inesauribile nell’intero corso della sua vita.
Neppure questo basterebbe per spiegare il fervore instancabile delle sue iniziative culturali e umane se non fosse accompagnato da una vitalità straordinaria che lo portava a cogliere gli spunti anche occasionali per costruirvi sopra una riflessione sempre più profonda; non solo, .ma si aggiungeva il desiderio, altrettanto irrefrenabile, di renderne partecipi gli altri, di qui la sua produzione editoriale quanto mai feconda sui più diversi campi nei quali si spostava la sua attenzione: dai grandi temi politico-sociali e storici alle osservazioni più minute e ai quadretti bozzettistici, dai ritratti di personaggi alle vite dei santi, fino alle riflessioni personali più intime e raccolte, in qualche caso sofferte, una continua apertura di sé a chi voleva condividerne le scoperte e le emozioni, anzi a chi vuole farlo anche ora perché mantengono una validità e una freschezza sorprendenti.
Il tutto con un’amabilità personale perfino
disarmante in un portamento di per sé autorevole che ispirava rispetto ma non
soggezione. Giulio Andreotti, nell’introduzione al libro “Gli scarabocchi
dell’onorevole”, ha parlato dell’”amicizia per un collega del quale ammiro
particolarmente la dedizione al lavoro, la serenità di spirito, la comunicativa
umana”, aggiungendo che “la calma, tutta umbra, di Luciano Radi, contribuisce a
distendere il nostro complesso mondo di lavoro”.
Non si tratta soltanto di temperamento, bensì dell’istintiva apertura al dialogo, con una capacità di ascolto e di comprensione delle ragioni degli altri che, pur nella saldezza dei suoi convincimenti, lo portava alla riflessione, consapevole che con il confronto si possono cogliere spunti meritevoli di essere approfonditi per allargare la propria visione e quindi arricchirla e perfezionarla. E soprattutto, lo ripetiamo, l’attitudine a ricevere nuove sollecitazioni per ulteriori analisi e riflessioni da condividere per farne partecipi quanti potessero trarne elementi positivi anche per sé stessi.
Ed è in questa apertura, anche del proprio più
intimo e riposto sentire, l’unicità di una figura che ha dato tanto agli altri
fino all’ultimo, pur nello strettissimo legame con la propria famiglia: la
moglie Lucia per la quale vale quanto mai la constatazione che “dietro un
grande uomo c’è sempre una grande donna”, la figlia Chiara, i nipoti Tommaso e
Sebastiano, il genero Alfredo de Poi, politico e dirigente con inclinazioni
poetiche e artistiche prematuramente
scomparso, per non parlare dei fratelli Lamberto e Leonello direttore di banca
a lui particolarmente vicino. E non si può dimenticare Luciano Nieri,
l’assistente di una vita, fedele e premuroso quanto bravo ed efficiente.
Una
vita nella politica, un impegno continuo e una testimonianza preziosa
In Parlamento ininterrottamente dalla III all’XI legislatura, vale a dire dal 1958 al 1994, con 405 progetti di legge presentati, 104 atti di indirizzo e controllo, 256 interventi, 2 incarichi parlamentari e 8 incarichi di governo, come autorevole esponente della Democrazia cristiana, ha segnato con la sua iniziativa politica tanti momenti cruciali nella storia del Paese, e li ha raccontati fornendo una testimonianza preziosa che li documenta direttamente e fedelmente.
A partire dalla
corrente “Nuove Cronache” , che portava nella vita del partito, intorno
ad Amintore Fanfani, le spinte innovative della omonima rivista, in contrasto
con la linea conservatrice.Per questo la corrente fanfaniana “Iniziativa
democratica” si scisse nei due gruppi, “Nuove Cronache” e “Dorotei”, il promo
si proponeva di superare la pur feconda stagione del centrismo per una maggiore
sensibilità e apertura ai temi sociali che premevano nella società e Luciano
Radi ne fu tra i più attivi esponenti. Ed ebbe un ruolo fondamentale nella svolta del
partito, altro che “radi, storti e malfatti” come venivano scherzosamente
sottolineati i nomi dei componenti più noti!
E’ stata questa l’ispirazione costante del suo pensiero politico, nata dal contatto diretto nella sua terra con realtà scottanti come quella dei contadini, che ha conosciuto da vicino e a cui ha dedicato il suo secondo libro nel 1962, I mezzadri: le lotte contadine nell’Italia centrale dall’Umbria al 1960. Che fosse molto di più di un saggio di politica economica ma esprimesse la propria partecipazione personale a un cambiamento epocale lo dimostra il fatto che otto anni dopo, nel 1970, è tornato sul tema da un angolo di visuale diverso, nella sua poliedrica visione della realtà, con Nati due volte, non più analisi socio-economiche ma un insieme di bozzetti sulla “vita tormentata e dura delle popolazioni contadine dell’Umbria”, che Carlo Carretto ha definito “un impressionante documento capace di far nascere romanzi e destare inchieste su una realtà che anche se non esiste più nel suo complesso, travolta dalle trasformazioni veloci del nostro tempo, è ancora attaccata a brandelli alle nostre carni e ci fa soffrire quasi come se fossimo attori e responsabili”. Lui stesso parla di “sofferta esperienza personale”, che lo ha egnato per sempre.
Così il primo incarico parlamentare, affidatogli dal
presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, fu di responsabile dell’ufficio
“Aree depresse” e il suo primo impegno
di governo fu di Sottosegretario all’agricoltura. Ma la sua presenza nelle istituzioni viene molto prima
del suo ingresso in Parlamento nel 1958 a 36 anni. Inizia come dirigente di
partito nella sua città, Foligno, con l’elezione a 24 anni, nel 1946, nel
Consiglio comunale. E poi, sempre in sede locale, negli anni ’60 è stato
presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto professionale di
Foligno che divenne tra i più importanti d’Italia e presidente dell’ospedale
san Giovanni Battista.
Non solo politica, dunque, ma impegno nei campi in cui poteva svolgere un servizio utile alla sua terra a cui è rimasto sempre legato quando la politica lo ha portato ad operare nella capitale. La sua docenza di economia e statistica all’Università di Camerino gli ha assicurato una vita professionale oltre la politica ma in costante sinergia con il suo impegno nelle istituzioni, perché sull’economia si basa la gran parte delle decisioni che incidono sulla vita delle persone mentre la statistica fornisce ulteriori strumenti tecnici per l’analisi dei fenomeni e dei movimenti nella società.
La sua ampia produzione pubblicistica nel campo della politica economica e sociale dimostra come sia riuscito a mettere a frutto tale positiva convergenza per cogliere i movimenti sottesi nella società con i sensori dati dalla scienza economica e statistica oltre che dalla sensibilità politica per definire interventi appropriati: Il motto einaudiano “conoscere per deliberare” ispirava la sua azione, né approfondimenti fini a sè stessi né improvvisazioni del momento, attento com’era a distinguere i semplici atteggiamenti, che potevano essere transitori, dalle modifiche dei modelli di comportamento che invece erano persistenti e andavano affrontate in modo adeguato.
Nella sua formazione troviamo il ruolo pedagogico di sacerdoti come Don Consalvo Battenti, suo parroco dal 1932 al 1941, poi di don Guglielmo Spuntarelli, dal 1941 al 1953. Don Dante Cesarini ricorda questo suo giudizio verso di loro: “Mentre Don Consalvo aveva rappresentato il parroco di alta dignità intellettuale e di estrema severità, il nuovo arrivato portava nel lavoro sacerdotale uno stile diverso: cordiale, bonario, fratello tra i fratelli, non capo ma umile servitore della comunità”. Ne troviamo evidenti riflessi nel suo libro “Un grappolo di tonache”, del 1981, gustosi, eloquenti bozzetti, in qualche caso impertinenti, da don Obeso a don Marzio a don Giulio.
A questo riguardo Manlio Marini – sindaco di Foligno
nel 2006 nel 60° anniversario dell’ingresso nelle istituzioni locali di Radi –
ricorda, come prova della sua versatilità, la sua bravura di attore dilettante nella
filodrammatica del San Carlo, in ruoli leggeri, e la sua risposta alla signora
che gli chiedeva “Ma perché lei che è così bravo nel fare l’attore comico si è
invece dato alla politica?”, fu “Ma perché, forse i politici non fanno ridere?”:
espressione eloquente del suo spirito alieno da enfatizzazioni di un ruolo che
poteva anche essere dissacrato per restare con i piedi per terra. Lui stesso
ricorderà, in un suo scritto, con una certa soddisfazione, questa giovanile “vis comica”.
Riguardo ai Vescovi della sua diocesi, giudizi rispettosi quanto acuti: di Stefano Corbini, vescovo fino al 1946, apprezzava “la paternità bonaria, sempre pronta alla battuta ironica”, di Siro Silvestri, dal 1955 al 1975, “rimanemmo imbarazzati, incuteva soggezione, sembrava stabilire , senza volerlo, una invalicabile distanza da noi fedeli”. Ma se questa fu l’impressione iniziale alla vista di “un personaggio tanto diverso, alto, diritto, distinto”, ogni timore di ingerenza di chi nello stesso 1955 era diventato segretario provinciale della Democrazia Cristiana, svanì decisamente: “Mai il Vescovo osò interferire e mettere in discussione la mia autonoma responsabilità di cristiano impegnato in politica”. L’ultimo vescovo, Giovanni Benedetti, dal 1976 al 1992, ricorda sempre don Cesarini, “dava molta importanza ai laici cattolici impegnati in politica e, in generale, nella vita sociale”, per cui gli incontri e la collaborazione furono intensi e fecondi. La religione poteva entrare in campo nelle questioni di “alto valore etico”, mentre la dottrina sociale della Chiesa poteva dare un indirizzo in campo economico; ma al pari di altre sollecitazioni culturali, l’azione politica era del tutto separata dalla credenza religiosa pur se ispirata ai suoi valori nell’indipendenza più assoluta .
Dopo l’esperienza di governo nel Ministero dell’agricoltura, da sottosegretario alle Partecipazioni statali dal 1968 al 1970 l’ottica si allarga, nella prospettiva della grande concentrazione industriale dei grandi gruppi come l’Iri, l’Eni e l’Efim, in settori chiave per lo sviluppo industriale e la crescita economica del Paese. Ma la sua visione pone sempre al centro la persona umana, investita dei profondi cambiamenti in atto, ora nell’industria come prima nell’agricoltura con la crisi della mezzadria.
E come dedicò ai mezzadri l’analisi approfondita che abbiamo ricordato, così fece a livello più generale con il libro Potere democratico e forze economiche in cui forniva “Idee per una moderna politica economica nazionale” partendo dall’analisi delle ”attuali strutture del potere economico e politico” per delineare le “possibili modifiche all’assetto istituzionale, considerando la partecipazione dei gruppi sociali e l’organizzazione della classe politica nei partiti”, il tutto in considerazione della “posizione dell’uomo nella società contemporanea”, visto “come individuo, come cittadino e come lavoratore”, rispetto alle “esigenze autentiche dell’uomo”. Il libro è del 1969, ma sono temi che restano attuali come lo sono le proposte avanzate a largo raggio.
Seguirono incarichi di governo sempre più prestigiosi, sottosegretario ai ministeri della Difesa e degli Esteri, poi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Arnaldo Forlani, di cui era definito “il braccio destro”. Forlani aveva preso la guida della corrente “Nuove Cronache”, con lui c’era una stretta comunanza non solo nell’impostazione ma anche nell’azione politica. Ha scritto che “Forlani ha la virtù della prudenza, della pazienza, della moderazione, e l’autocontrollo e l’arte di scegliere i tempi giusti”; e come persona “ha una solida formazione cristiana, ha il culto della famiglia, considera la libertà un valore irrinunciabile, la condizione per realizzare una sicura e progressiva elevazione umana”. Fu tuttavia il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, del Partito Repubblicano Italiano, a farlo Ministro per i rapporti con il Parlamento, dove poté far valere la propria collaudata esperienza parlamentare oltre alla sensibilità politica e alla considerazione di cui godeva. Per queste sue doti ha ricoperto il ruolo delicato di Questore della Camera.
E’ stato anche presidente della Commissione bicamerale di vigilanza sulla Rai, tra il 1992 e il 1994, promuovendo importanti innovazioni; tale nomina è legata alla sua competenza nel settore, l’anno prima aveva pubblicato il libro La grande maestra, la tv tra politica e società, era responsabile dei problemi radiotelevisivi per il partito. Tra gli altri incarichi che ha avuto nella DC ricordiamo che nel 1980 è stato Direttore dell’organo ufficiale, il quotidiano “Il Popolo”.
Piuttosto che rievocare le iniziative politiche,
tante in una vita parlamentare così lunga e intensa, ci piace tornare sulla visione di osservatore
dall’interno della vita dei partiti oltre che delle istituzioni, di cui, come
sempre, rende partecipi i suoi lettori. Ricordiamo La talpa rossa, del 1979, sulla
penetrazione sotterranea del Partito comunista nel corpo del paese, al di là
del suo ruolo di maggiore partito di opposizione, ritenuto per ciò stesso al di
fuori delle stanze del potere. Ma non era così per il potere reale, nel quale
l’egemonia gramsciana veniva messa in atto con spregiudicatezza e abilità. Nella
sua gustosa presentazione Leone Piccioni citava le varie accezioni della
“talpa”, dal piccolo animale al grande escavatore di gallerie fino alla spia; la
copertina del libro, un riquadro giallo e rosso e il formato tascabile facevano
pensare a un libro giallo, ci si divertiva a immaginare la sorpresa
dell’acquirente alla scoperta che invece era un libro di politica, riemergeva
lo spirito comico del giovane attore dilettante nella filodrammatica di
Foligno.
Ma nell’analisi politica era estremamente serio e documentato, anche sulla base delle proprie esperienze dirette. Lo sottolinea Gaetano Quagliariello nell’introduzione a La DC da De Gasperi a Fanfani, il libro con cui nel 2005 lui ha ricostruito in dettaglio una vicenda politica di profondi cambiamenti, fondamentali per gli sviluppi futuri: “La tecnica utilizzata dall’autore è quella del graffito. Egli, infatti, su una ricostruzione storica fatta per lo più utilizzando fonti bibliografiche edite, apre di tanto in tanto squarci di ricordi personali che servono a puntellare la tesi sostenuta. Sono queste le parti più interessanti del volume, al punto da spingere il lettore a rammaricarsi che le proporzioni tra storia e memoria non risultino invertite. Sono anche le parti che fanno di questo libro un contributo originale”. Fonti precise e testimonianza diretta, dunque, sono i requisiti di un approccio rigoroso anche alla politica, in genere oggetto di valutazioni approssimative ed estemporanee, ma non per un docente e studioso come lui, osservatore attento della politica e della società.
Così per gli altri libri di analisi socio-politica, dal primo che risale al 1957, anteriore all’ingresso in Parlamento, La crisi della pianificazione rigida e centralizzata, al libro che ha seguito “I mezzadri” e “Potere democratico e forze economiche” approfondendo ulteriormente quest’ultimo tema, Partiti e classi in Italia del 1975, seguito dal citato “La talpa rossa” e da altri come Il voto dei giovani del 1977, e due analisi dei risultati elettorali del suo partito, Riflessioni su una sconfitta e Riflessioni su una vittoria. Non è soltanto socio-politica ma socio-culturale e di costume, la visione di “La grande maestra: la tv tra politica e società” del 1991, anche questo già citato, un’analisi dall’interno del “grande fratello”. Vi abbiamo trovato, tra l’altro, che protettrice della Televisione è Santa Chiara perché, impossibilitata ad assistere alla messa di Natale celebrata da Francesco, ne ebbe la visione miracolosa sulle pareti della stanza dove giaceva a letto ammalata, un piccolo scampolo di un libro di notevole interesse.
Sempre in campo politico abbiamo anche ritratti di personaggi molto diversi: Tambroni, trent’anni dopo, del 1990, il trentennio è dall’agitata breve stagione della sua presidenza del Consiglio, Gli anni giovanili di Giorgio La Pira, del 2001, il “sindaco santo” negli anni della sua formazione, fino a Gerardo Bruni e la questione cattolica, del 2005, dalla persona al grande tema. Non manca la rievocazione a livello locale: Foligno 1946. Ricordo di Italo Fittaioli e Benedetto Pasquini in occasione del sessantesimo della prima elezione democratica al Consiglio comunale, 2006.
Il suo sguardo è anche andato oltre l’ambito nazionale con La macchina planetaria, del 2000, “Quali regole per la corsa alla globalizzazione” è il sottotitolo: fu tra i primi ad analizzare gli effetti positivi ma anche i rischi conseguenti a un processo inevitabile ma da controllare. parlava della “difficile conciliazione tra azione del mercato e valori individuali e collettivi”, spiegava “come superare i fattori di debolezza e le distorsioni a livello internazionale”, avendo attenzione all’“instabilità finanziaria” e alla “grande questione dello sviluppo sostenibile” avvalendosi delle “opportunità offerte dalle nuove tecnologie” dinanzi ai “complessi problemi di inflazione, disoccupazione, crisi valutarie”. Con realismo indicava “le soluzioni più probabili e quelle auspicabili”, non nascondendosi le difficoltà di introdurre “un sistema globale di regole e decisioni politiche”.
Le sue conclusioni suonano profetiche: “ Nell’attesa che ciò avvenga non è da escludere che si aggravi lo squilibrio tra sfera politica e sfera economica, e che il capitale internazionale continui a sfuggire a un incisivo controllo”. Con l’avvertimento finale: “Se il sistema capitalistico non si orienterà in questa nuova direzione, mettendo alla prova, ancora una volta, la sua capacità di adattamento e non favorirà il processo di coordinamento a livello globale, rischierà di generare pericolosi e sempre nuovi rischi di disintegrazione a livello planetario”. I rigurgiti protezionistici in corso nelle maggiori economie, USA in testa, da un lato, l’insostenibile degrado economico che genera correnti migratorie inarrestabili dall’altro, mostrano come fosse lungimirante tale avvertimento.
Questo studio approfondito è stato preceduto nel 1998 da Il futuro è tra noi. Anche qui il sottotitolo “Dalla sfida globale al dialogo interreligioso” è eloquente, si tratta di valutazioni iniziali degli aspetti economici e sociali della globalizzazione con le conseguenze in campo religioso.
La narrativa, con l’introspezione più intima e accorata
Dalla vita politica siamo passati logicamente alla
testimonianza dello studioso che dall’analisi dei fenomeni trae proposte per
l’azione concreta. Un osservatore attento che già a 26 anni, nel 1948,
pubblicava Il pendolo composto e le sue
leggi, ristampato in anastatica nel 2010.
Ma la sua poliedricità va ben oltre, incontriamo la ricostruzione storica 20 giugno 1859: l’insurrezione e il sacrificio di Perugia, 1998, e Il mantello di Garibaldi, 1911; la serie di vite di Santi aperta da Chiara di Assisi, del 1994, a lui particolarmente cara, seguita da Angela da Foligno nel 1996 e da Santa Veronica Giuliani nel 1997, San Nicola da Tolentino e Margherita da Cortona nel 2004, fino a Francesco e il Sultano nel 2006; nel 1999 aveva curato San Francesco e gli animali nel quale sono riportati episodi tratti dalla vita del santo secondo il Celano e san Bonaventura che “fanno comprendere come sarà l’armonia rigenerata dall’Amore” in tutto il creato. Diario di un cane del 1993 – commentato da Carlo Bo e Sergio Quinzio – e Memorie di una lumaca del 2002, esprimono l’umanizzazione degli animali, creature di Dio che comunicano con noi: “Gli uomini e gli animali si scambiano messaggi, si trasmettono sentimenti ed emozioni”.
Sulla religiosità della sua regione abbiamo Umbria santa, del 2001, inoltre nel già citato “Angela da Foligno” descrive, oltre alla vita della santa, “l’Umbria mistica del XIII secolo”.
Fin qui sono evidenti i collegamenti con il suo retroterra culturale e ideologico, anzi ideale, se pensiamo a queste ultime espressioni della sua fervente religiosità in uno spirito libero e aperto. Come sono evidenti nella più fortunata delle sue pubblicazioni, Buongiorno onorevole, del 1973, 4 edizioni, seguita, nel 1996, da Buonanotte, onorevole, tra loro, nel 1978, Gli scarabocchi dell’onorevole,” Cento appunti grafici di Luciano Radi”:una scherzosa “trilogia”, cui si aggiunge Il taccuino dell’onorevole del 1985, notazioni penetranti da osservatore, anzi testimone attento..
La “trilogia dell’onorevole” inizia con i bozzetti di vita del parlamentare, nei quali descrive in modo gustoso i colleghi deputati, anche i più autorevoli, nonché altri soggetti protagonisti di episodi insoliti, termina con situazioni ben diverse 23 anni dopo, in mezzo una sorta di trasposizione grafica di queste sensazioni, come afferma Antonello Trombadori, dicendo che “appartengono all’area tipica dei disegni degli ‘scrittori’” e cita quelli di Goethe e Belli, Pascarella, Cecchi e Pasolini, con la particolarità che nei ritratti scarabocchiati, “sia nell’ossequio che nella confidenza formicola sempre la medesima ironia folignate, pacata, ma, se è necessario, senza far male, pungente”. Le punture colpiscono “i monsignori” e “gli onorevoli colleghi”, “monache e frati” e “gli animali”, “i mezzadri” e “i barboni”, fino a “i carabinieri”. Un vero “en plein”!
Ed ora cambia tutto, passiamo agli scritti più intimi e personali, in cui l’osservatore attento della realtà esterna guarda invece se stesso, si scruta dentro e si analizza, torna sulla propria vita senza temere le inevitabili reazioni emotive. Del resto, Sotto la brace del novembre 1999, reca l’epigrafe tratta dagli “Epigrammi” di Marziale, ”Saper rivivere con piacere il passato è vivere due volte”- Forse perché è la vigilia del nuovo millennio ci riesce benissimo, rievoca l’infanzia con “il mistero della stanza proibita” e “il primo giorno di scuola”, e poi le immagini di vita contadina come la “vendemmia con parto”, “la raccolta delle olive” e la “maialatura”, “la villeggiatura” e “le mie cotte”; poi, andando avanti nel tempo, il clima muta, la cartolina-precetto del richiamo alle armi nella “Caserma Castro Pretorio” e quindi “la clandestinità”, con ampi squarci di religiosità e di vita familiare, fino alla conclusione: “La nostra vita appare capricciosa, con le sue contraddizioni, i suoi tradimenti, le sue incertezze. Ci sembra di precipitare, ma poi un soffio ci solleva fino alle vette più alte”. Come le “foglie esposte al vento che Altro governa. All’innalzamento può seguire il precipitare improvviso sul prato delle erbe morte per ridare vigore alla vita”.
Abbiamo parlato di “trilogia dell’onorevole”, concludiamo con la “trilogia dell’anima” in cui questa visione viene approfondita in un processo interiore sempre più intenso, passando da “Anime e voci” a “Luci del tramonto”, e infine a “I giorni del silenzio”.
Ma prima c’è Non sono solo, del 1984, presentato come il taccuino di un vecchio sacerdote che gli ha dato “un vero godimento spirituale” per cui ha voluto trasmetterlo con la pubblicazione, c’è comunque una totale coincidenza con i suoi sentimenti che abbiamo già trovato espressi, come quello sull’amore: “ Il nostro fine è amare, amare l’Amore. Il tumulto delle nostre esplosioni interne, che è la ragione della nostra avventura umana, ha una risultante positiva solo se irradia amore. Ognuno di noi è un piccolo sole”. E ancora: “Se ti trovi dunque chiuso in te stesso, costretto ad attraversare la notte dell’incomunicabilità, non disperare, ma attendi che il sole risorga”. Fino alla conclusione: “Il figlio dell’Amore, credente o non credente, non muore, vive in eterno”.
Ed ora la trilogia, con i racconti di Anime e voci del 1900, in cui c’è il pensiero dominante della morte partendo dalla solitudine della vecchiaia, che fa dire a Leone Piccioni: “Forse c’è in Radi una minore serenità forse dovuta ai fatti della vita, ma per noi lettori quanto successo a Radi è un bene, perché, appunto, la sua pagina ha preso un altro spessore, una diversa profondità, uno struggente attaccamento al paesaggio, una dimensione poetica più intensa”.
Nel 2005, con“Luci del tramonto”, 15 anni dopo secondo lo stesso Piccioni, “Radi guarda alla vita e alla morte con più distacco ma certi dubbi risorgono e Radi non li nasconde anche se li risolve in una rinnovata fede”. Si tratta di 52 riflessioni in cui sono racchiusi i suoi pensieri dinanzi alle sollecitazioni di una quotidianità con “l’impressione di vivere una vita aggiunta” nella quale, mentre “il corpo perde elasticità ed efficienza e si trasforma in un cumulo di acciacchi, l’anima che ne è prigioniera, scalpita per conquistare l’arcano. Le energie spirituali assumono una nuova vitalità, la Fede penetra come non mai tutte le apparenze, attraversa il muro del dubbio, appare una vittoria della volontà”. E in primo piano torna l’amore: “L’amore è un mistero che nessuno riuscirà mai a svelare; lo cerco, lo possiedo, ma non so proprio cosa sia… Ma noi uomini sentiamo che tutti i suoi gradi non sono sufficienti per saziarci; che siamo chiamati ad un amore più alto, a partecipare all’amore increato. Un amore che inizia quaggiù e si compie al di là del tempo”. Per concludere: “La vita non è il dipanarsi di un rimpianto. ‘Il tempo che passa è Dio che viene’”.
La “trilogia dell’anima”, vent’anni dopo “Anime e voci”, si conclude nel 2010 con I giorni del silenzio, il più accorato e insieme il più sereno, basato sulla premessa che “l’anima ha bisogno del silenzio, del raccoglimento, per ritrovare se stessa dopo la dispersione provocata dal dinamismo, spesso convulso ma inevitabile, che caratterizza i giorni nostri. Ma ha anche bisogno di essere sottoposta a un esame severo, al fine di verificare la concordanza del suo operato con i principi delle fede e dell’amore, con quel patto sancito con l’Assoluto al quale non una sola volta ci si accorge di aver derogato”. Per questa meditazione si è deciso a bussare alle porte del convento di Ravo chiedendo di trascorrervi alcuni giorni per “rinfrescarsi spiritualmente”. Ebbene, il racconto di questi inusuali esercizi spirituali, è avvincente quanto istruttivo per ciò che ha appreso dalle meditazioni al suo interno e a contatto con la natura e dai colloqui con padre Jacopo, che sull’essere superiore gli dice: “Più l’anima è sgombra da superbia intellettuale e meglio può avvertire la Sua presenza. Le parole e la cultura vengono dopo, prima c’è l’amore. Ogni espressione di amore rivela la presenza del Signore, è la Sua epifania”. Nei “giorni del silenzio” riesce a superare le angosce, a rinnovare le speranze che sembravano svanite, a sentire di nuovo l’amore vero, non quello fallace che ci rende “vittime di una fata morgana nello sconfinato deserto dell’anima nostra”. Così può esclamare: “Mi sembrò che una ignota mano avesse aperto una breccia nel muro della mia inquietudine”. Tante sono le espressioni quanto mai intense che punteggiano le sue meditazioni. Ma ci piace citare la conclusione, una sorta di “addio monti…”: “Lasciavo alle mie spalle le belle colline: i grappoli pendevano turgidi dai tralci, gli ulivi facevano danzare le loro chiome d’argento. Le messi esprimevano nella loro ricchezza la promessa di una nuova primavera. Il pensiero volava ancora ai fugaci giorni del mio ritiro. Sia pur teso, avvertivo di aver ritrovato me stesso.
Così lo giudica Attilio Turrioni: “Un libro di rara composizione che, mentre puntualizza momenti significativi del cammino umano e spirituale dell’autore, sollecita nel lettore una risposta personale altrettanto perentoria di fronte ai problemi dell’esistenza, alle ragioni ultime della fede, all’esperienza storica che ciascuno è chiamato a percorrere hic et nunc nel rapporto con gli altri, nel contributo, offerto o omesso, alla costruzione di una società più umana”.
Il suo messaggio politico e umano
A questa finalità superiore, del resto, è stata rivolta anche l’attività politica di una vita nelle istituzioni, alimentata dal profondo senso religioso che pervade le sue intense pagine di introspezione. La costruzione di una società più umana può avvenire, come scrive in “La talpa rossa”, in opposizione all’ideologia marxista basata su una “egemonia totalizzante”: “L’unico moto autenticamente rivoluzionario è suscitato dalla libertà. La libertà è la forza sempre nuova che, con la scienza e la tecnica e la coscienza della crescente complessità delle relazioni sociali, trasforma la società fondata sul potere come dominio in una società consapevole fondata sul potere come servizio, come funzione dirigente”. Non si tratta di un processo automatico e semplice, va costruito: “Ciò implica, come si è osservato, coordinamento e finalizzazione dei comportamenti, dei programmi, delle iniziative. Ma lo stesso coordinamento e la stessa finalizzazione hanno un limite nell’autonomia e nella libertà stessa. Come la libertà ha un limite nel coordinamento per perseguire un fine di interesse generale, è un delicato, difficile equilibrio che è facile compromettere”.
Quindi va preservato da ogni possibile forzatura e
manomissione, ieri dall’egemonia totalizzante marxista, oggi – aggiungiamo noi
– dalle altre possibili minacce sempre incombenti: “Per questo la collettività
e i singoli cittadini non possono fare a meno di un preciso sistema di
garanzie, ed una delle conquiste fondamentali dell’esperienza
liberaldemocratica è lo Stato di diritto al quale non possiamo rinunciare e che
la nostra Costituzione ha definito in un complesso sistema di autonomie, di
articolazione e divisione di poteri, anche per salvaguardare la società civile
da possibili arbitri della società politica”.
E’ anche questo il messaggio che lascia, con quello di natura spirituale, entrambi convergenti sulla “costruzione di una società più umana”: si tratta dell’obiettivo primario sorretto da una forte tensione morale cui ha mirato l’impegno instancabile di tutta la sua vita.
Info
Romano Maria Levante, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, Estratto dal ”Bollettino Storico della Città di Foligno XXXVIII-XLII (2015-2019)”, pp. 12, in corso di pubblicazione. L’estratto è stato distribuito a tutti i partecipanti all’incontro svoltosi il 30 aprile 2019 a Foligno, nel Palazzo Giusti Orfini, per celebrare “Luciano Radi studioso. A cinque anni dalla scomparsa”. Su tale incontro, nel quale è stato anche presentato un suo libro, e sugli altri aspetti della pubblicistica di Radi, v. i nostri articoli in questo sito: “Luciano Radi ricordato con una sua opera, l’incontro tra ‘Francesco e il Sultano 800 anni fa” 6 giugno 2009; “Luciano Radi, ‘potere democratico e forze economiche’” 9 giugno; “Luciano Radi, ‘’i libri dell’anima’, l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” 11 giugno. Chiuderà la nostra personale celebrazione dei cinque anni dalla scomparsa, “Luciano Radi, il mio ricordo” 15 giugno.
Foto
Sono alternate immagini della vita politica di Luciano Radi e immagini di Foligno, la sua città. Le prime sono tratte dai siti web di pubblico dominio che verranno di seguito indicati, le seconde sono state riprese a Foligno da Romano Maria Levante il 30 maggio 2019, prima dell’incontro celebrativo. Si ringraziano i titolari dei siti web per l’opportunità offerta, precisando che non vi è alcun intento pubblicitario né tanto meno economico nell’inserimento di immagini a solo scopo illustrativo, ci si dichiara pronti a eliminare immediatamente, su semplice richiesta, quelle per i quali i titolari non gradiscano la pubblicazione. Ecco i siti delle immagini d’epoca con Luciano Radi: Foto n. 1, apertura , umbriadomani.it; foto n. 2 e 8 digitalsturzo.it; foto n. 4 futur.ism.it; foto n. 6 centrostudivanoni.org; foto n. 10, 12, 14, 18, 22 tuttoggi.it; foto n. 16 corriereumbria.corriere.it; foto n. 20 spellooggi.it; foto n. 21 umbriadomani.it. La foto n. 22, in chiusura, è stata presa dall’ultima pagina dell’Estratto citato; tutte le altre sono di Romano Maria Levante. In apertura, “Luciano Radi; seguono, “Con Scelba, Fanfani e Rumor” e “Foligno, un lato di Piazza della Repubblica”; poi, “Con Fanfani, in visita a Dottori”, e “Un altro lato di Piazza della Repubblica”; quindi, “Con Forlani e Malfatti, Spitella e De Poi”, e “Il lato di Piazza della Repubblica con il palazzo del Comune”; inoltre, “Con Gava e Scalfaro”, e “Il palazzo del Comune con l’alta torre al centro”; ancora, “Con Fanfani e Pertini”, e “La facciata di Palazzo Trinci con il Museo, in fondo a Piazza della Repubblica“; seguono, “Con Pertini all’inaugurazione della mostra per il centenario di Garibaldi”, e “Palazzo Trinci, il cortile interno con a dx la scala d’ingresso al Museo”; poi, “Con la presidente della Camera Nilde Iotti nella cerimonia del “ventaglio”, e “Museo, un lato affrescato della Sala degli Imperatori”; quindi, “Con una delegazione tedesca da Questore della Camera”, e “Un altro lato affrescato della Sala degli Imperatori”; inoltre, “Alla visita del presidente australiano” e “Una sala del Museo, rilievo scultoreo e pittura”; ancora, “Un momento di vita parlamentare” e “Due opere simbolo di fede del Museo, Crocifissione e Madonna della Misericordia”; infine, “La cordialità dei suoi incontri ufficiali in Parlamento” e “Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Forlani, la presentazione” ; in chiusura, l’immagine posta al termine dell’estratto del “Bollettino” di cui si è riportato il testo, “Luciano Radi (Foligno 19-9-1922 – Foligno 1-6-2014), Lucia Radi Antiseri (Spello 29-11-1921- Foligno 27-2-2006).
Nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi , abbiamo ricordato in precedenza la sua figura e rievocato il libro “Francesco e il Sultano” a 800 anni dallo storico incontro avvenuto nel 1219, come esempio dei suoi libri sui santi, e il libro “Potere democratico e forze economiche”, a 50 anni dalla pubblicazione, particolarmente significativo dei suoi libri di politica e di politica economica, per la sua attualità sebbene il quadro sia radicalmente mutato. Questa volta, nel concludere la nostra rievocazione delle sue opere, piuttosto che concentrarci su una di esse abbiamo voluto fare una carrellata della sua narrativa con quelli che definiamo “libri dell’anima”, perché contengono introspezioni e riflessioni colme di umanità, il cui valore resta perenne e universale. Nella loro successione cronologica seguono i moti dell’anima dell’autore nelle varie fasi della sua vita. Fanno parte del filone “narrativa” nel quale sono compresi anche “Diario di un cane” e “Memorie di una lumaca”, il cui contenuto va ben oltre i titoli apparentemente disimpegnati.
Ricordi personali fonte di profonde riflessioni
Iniziamo con “Nati
due volte”, siamo nel 1970, con
bozzetti di vita quotidiana ispirati dai suoi ricordi ripercorre la vita
tormentata dei contadini della sua regione, l’Umbria, nel periodo critico in
cui si è avuta la pratica scomparsa della civiltà contadina. Già nei suoi libri
politici sui “Mezzadri” aveva affrontato questo evento epocale, in questo libro
di narrativa invece si cala tra quella gente, come uno di loro, seguendone da
vicino la vita che deve cambiare radicalmente, per questo sono “nati due
volte”. Le definisce “pagine scritte
senza alcuna pretesa letteraria, umile e devoto omaggio agli uomini incontrati
lungo la strada di una sofferta esperienza personale”.
Ma Carlo Carretto lo corregge, per lui è “un
documento, un impressionante documento capace di far nascere romanzi e destare inchieste su una realtà che
anche se non esiste più nel suo complesso, travolta dalle veloci trasformazioni
del nostro tempo, è ancora attaccata a brandelli sulle nostre carni e ci fa
soffrire come se fossimo attori e responsabili… chi volesse e sapesse
potrebbe trovarvi materiali per romanzi
ambientali come ?Il Gattopardo’ e ‘Il mulino del Po’ capaci di portarci di peso
in un’epoca passata eppure presente in ciascuno di noi. Mutatis mutandis è una visione che si potrebbe applicare a molti
altri cambiamenti epocali, vissuti e sofferti. Carretto vi trova anche un
motivo preciso che dà al libro un valore attuale, pur se riguarda eventi
superarti. Mostra l’incapacità dell’uomo a risolvere i suoi più vitali
problemi: “Tutti hanno tradito queste povere popolazioni: lo Stato con le tasse
e la sua lontananza, i padroni con la loro cocciutaggine avara e la Chiesa con
il suo immobilismo…che sarebbe costato facilitare la vita a questa popolazioni
di montagna prima che giungessero al limite
della loro sopportazione?”. E, per finire: “Le generazioni passate non
hanno saputo risolvere i problemi della povera gente. Ma le nostre ci
riescono?”.
Il pensiero va alla rigorosa analisi politico-economica del l libro “Potere democratico e forze economiche” pubblicato nel giugno 1969, quindi poco prima di “Nati due volte”: lo abbiamo rievocato di recente, denuncia i guasti provocati dal consumismo cui le comunità sono soggette per l’azione interessata delle forze economiche che appaiono dominanti, mentre lo Stato dovrebbe far prevalere i consumi pubblici per soddisfare esigenze collettive e i bisogni individuali più autentici.
Nella stessa logica della rievocazione dei tempi passati, questa volta in un’ottica prettamente personale, “Sotto la brace”, del 1999, introdotto dall’epigramma o di Marziale “saper vivere con piacere il passato è vivere due volte” . Queste due vite diventano paradossalmente contemporanee, perché vengono evocate dalle fotografie pescate nella scatola posta in un angolo della biblioteca: “Metterci dentro le mani, confida, non mi capita di frequente, ma talvolta la tentazione di tuffarmi nel passato mi prende irresistibile. Nel vedermi nello stesso istante giovane e vecchio, sorridente e pensieroso, con l’abito della prima comunione e quello del matrimonio, mi fa rivivere velocemente, come in un frullatore, i nomi, i sapori, gli odori, le emozioni, le angosce della mia vita.
E in che modo li rivive? Rievocandoli come se li sentisse nel momento
in cui li fa riemergere dalla memoria, e proprio per questo provando di nuovo i
sentimenti di allora. Ma soprattutto riflettendo, perché il confronto della
realtà di ieri che torna nel ricordo, con la realtà di oggi presenta in modo
prepotente il mistero della vita, che Radi vede nel segno della speranza.
Dal “primo giorno di scuola” a “un incontro” con un
compagno di allora dal “viso segnato da rughe
invecchiato da grosse verruche”,
la “stanza proibita” dell’infanzia e il funerale dell’”ultimo
amico”, “i vicoli” e la “paura del temporale”, la “vendemmia con parto” e “la raccolta delle olive”, i vicoli” e “la vecchia ciminiera”, “la
settimana santa” e “ letizia
francescana”, “le mie cotte” da adolescente e
“ritorno a Varco”, “la caserma
Castro Pretorio“ e “la clandestinità” dopo l’8 settembre 1943, le suore “cappellone” e “il matto di
Foligno”, “un uomo solo” e “la coppia misteriosa”., e altro ancora. Si conclude la carrellata nei tanti momenti della
vita con la meditazione finale, “cadono le foglie”.
Come aveva descritto con cura le situazioni e i personaggi confusamente tornati alla ribalta della memoria, così si concentra sulle foglie del suo giardino: “Osservo foglie rotonde, oblunghe, ellittiche, cuneiformi, lanceolate, : una fantasia inesauribile”. Di qui una notazione che colpisce per la sua semplicità non scontata: “La natura, contrariamente a quanto facciamo noi, all’approssimarsi del freddo si spoglia e gli alberi perdono rapidamente i loro multicolori mantelli”. Con questo effetto su chi li guarda: “Gli alberi nudi mettono nell’anima un senso di malinconia”. Segue “lo spogliarello” degli alberi con attenzione crescente, osserva la caduta della foglia che “segue i capricci del vento: sale, sale, poi precipita improvvisamente per riprendersi e volteggiare più in alto”. La logica del ricercatore lo porta a queste considerazioni meditate: “Siamo anche noi foglie in balia del vento? Nessuno può prevedere l’itinerario che sarà chiamato a percorrere. La nostra vita appare capricciosa, con le sue contraddizioni e suoi tradimenti, le sue incertezze. Ci sembra di precipitare, ma poi un soffio ci solleva fino alle vette più alte”. Un vento “che Altro governa”.
Dalla
finzione narrativa del taccuino di un
sacerdote la risposta ai misteri della vita
E qui ci piace rievocare “Non sono solo”, del 1983, presentato
dall’autore come il taccuino di un
sacerdote umbro che nella vecchiaia aveva voluto scrivere le riflessioni della
sua vita pastorale. Negli ultimi anni “era riuscito a scendere nella profondità
del suo io, alla ricerca della radice del suo essere, a scavare nel suo spirito
per ascoltare la voce della storia dell’intera umanità che è dentro ciascuno di
noi. Il Signore gli aveva finalmente rivelato il suo segreto”.
Nelle finzione letteraria Radi si immagina vicino “a varcare il muro di
cinta della propria esistenza”, e per questo ripensa all’itinerario “per rivisitarlo con la mente e il cuore”, in
modo meditato e sofferto, mentre nello
scorrere le fotografie con i
ricordi “sotto la brace” c’erano
pulsioni ma non interrogativi assillanti come quelli del nuovo libro.
Si interroga sul senso della vita e della morte, sui
senso del dolore e dell’amore, per giungere alle domande fondamentali: “ Chi è
l’uomo e chi è Dio?. Siamo soli nel nostro
cammino e che senso ha la realtà intorno a noi?
Ha scritto mons. Ferdinando Castelli su “Civiltà Cattolica: “In realtà
il prete di Radi, nel suo lavoro di scavo alla luce della fede, non soltanto
incontra e scopre se stesso, ma aiuta tutti
noi a incontrarci e scoprirci nella
nostra verità fondamentale. Si trasforma in tal modo in simbolo di
umanità, indicatore di strade, dispensatore di verità essenziali”.
Quali sono queste verità? Per rispondere
alla domanda “chi sono?”, “scende nella
profondità del suo io, alla ricerca delle radici del suo essere, a scavare nel
suo spirito per ascoltare la voce
dell’intera umanità che è dentro ciascuno di noi”. La risposta è questa: “Quando
scavi per ritrovare il tuo io, in fondo al pozzo del tuo essere trovi, senza volerlo, Dio”.. Ma
viene dopo aver provato il brivido del vuoto, superato quando è dato di vedere
la luce divina. A questo conduce anche
la natura: “Il silenzio della terra è pieno di parole non dette e ciò che non è
espresso agisce con forza rivelatrice della certezza dell’invisibile”.
Soltanto nascondendosi dietro il vecchio prete Radi
ha potuto aprire completamente il suo animo di credente. E può abbozzare anche
un itinerario ascetico , la “nudità
spirituale” che si raggiunge liberandosi
da tutto ciò che è zavorra e impedimento, come l’orgoglio e la cupidigia del potere, dei sensi e del piacere; ma qui, commentiamo noi, siamo ai confini
della santità, del resto sentiamo san Francesco come presenza invisibile quanto
salvifica. .
L’invocazione
“Dio è amore, Dio è amore”, che il vecchio
parroco declama ”come un ritornello” –
commenta mons. Castelli – ”gli rinverdisce l’anima, gli rischiara la mente, gli
trasfigura i giorni”. E allontana ogni
paura, anche la paura della morte. “Siamo
stati creati a immagine di Dio, perché in noi egli si specchia, abita in noi. Ed è vero per un cristiano, ma anche per un buddista, un
mussulmano, un miscredente”. E’ un
pensiero profondamente umano che supera i confini della religione, e gli fa esclamare “non sono solo”, nessuno
deve sentirsi solo.
Mons Castelli ne ricava “un messaggio per l’uomo
d’oggi”, questo: “La solitudine e la vecchiaia possono, volendolo, trasformarsi
in una vera ricchezza. Ci permettono di ritrovare noi stessi e scoprire mondi inesplorati, di comprendere
e trascendere la realtà materiale e guardare al di la delle cose”. Non si cancella il carattere drammatico
dell’esistenza, ma ci si apre alla speranza, anzi alla fiducia proprio perché non ci si deve sentire soli,
non si è soli. La nostra salvezza non
dipende neppure dalle nostre opere, ma dal nostro essere, identificato nelle
parole: “chi sono”.
Il libro,
conclude il monsignore, “fa amare la
vita” perché mostra “che anche un tramonto
può trasformarsi in un’alba. Il prete che si avvia all’eternità rappresenta ognuno di noi. Tutti, come lui,
pellegrini che ci lasciamo alle spalle un mondo che deperisce. Dove siamo diretti, su quali sentieri avviati
per non smarrirci nel buio? E’ possibile trasformare le ombre in luci, la tomba
in culla? La risposta d che ci dà (il
prete di) Radi ci fa amare la vita. E ci riconcilia con la morte, anche”
Se questa è il significato profondo del libro, che mons. Castelli da par suo pone in evidenza, la forma narrativa da cui emerge è quanto mai semplice e accessibile, sono 70 brevi quadretti di vita filtrati dai ricordi del sacerdote, con tante descrizioni deliziose, come quella degli uccellini; di quando in quando si inseriscono i temi più elevati di cui abbiamo parlato. Allora il vecchio sacerdote si rivolge direttamente all’essere superiore in un dialogo intenso, ma nel momento conclusivo della vita le sue parole sono quelle di ogni essere umano: “Si può credere o non credere, ma ciò che non si può è sottrarsi a questo passaggio. Chi crede ha il dono di assaporare subito la letizia dell’Assoluto, chi è convinto di non credere, invece vedrà, quando avrà chiuso l’uscio alle sue spalle. Il figlio dell’Amore, credente o non credente, non muore, vive in eterno”.
La
“trilogia dell’anima”
Pochi anni
dopo, nel 1990. il primo libro di quella che abbiamo definito “la trilogia
dell’anima”, ”Anime e voci”, alla base di
tutto i ricordi personali:come in “Nati due volte” e “Sotto la brace”, tante
storie di persone che ha incontrato sin dalla
fanciullezza, l’ambiente è quello paesano in cui si è formato, decritto con la
particolare maestria dell’autore che riesce a comporre bozzetti deliziosi.
Si affollano i ricordi, il lavoro in uno zuccherificio che spandeva
un odore dolciastro nella vecchia
Foligno e la solitudine del pensionato nella casa di riposo alleviata dalla
presenza del cappellano, la corrispondenza tra due preti, il vecchio e il
giovane, tra preoccupazioni e speranze, e la fede intemerata di un vecchio contadino. Bozzetti
di vita ai quali l’ambiente e la natura forniscono una cornice suggestiva,
mentre le voci scuotono l’anima. Qualche scampolo: “Il latrato dei cani mi
faceva vibrare l’anima come la voce di chi era rimasto al buio nei campi.
Dentro sentivo turgida la vita. Ora sono sazio di anni, morso dalla nostalgia…
Ho sempre fretta ma non so dove sto andando. La vita mi fugge tra le dita”. Una
profonda umanità pervade gli incontri non solo con le persone, ma con quanto le
circonda, e circonda l’autore, al quale la rievocazione
del tempo che fu infonde malinconia, perché “non c’è il cielo, non ci sono i
fiori, i sassi lisci e rotondi della mia strada”.
Non solo malinconia, ma
spiritualità, senso religioso ma non confessionale, anche quando c’è l’incontro
con dei sacerdoti, sullo sfondo c’è sempre l’amore che per Radi è il valore
centrale della vita. Diventa chiesa ogni casa, diventa campanile ogni camino se
vi arde l’amore.
Così lo ha giudicato un commentatore, Davide Piserà: “’Anime e voci’ è un libro che vi entrerà nel cuore; metterà in dubbio le vostre credenze e rispolvererà un po’ di umanità sopita nel vostro animo; quando avrete letto l’ultima pagina vi sentirete persi perché vi mancherà già parecchio”.
E’ mancato pure a Radi che non poteva fermarsi nella sua introspezione intima e accorata, tanto che cinque anni dopo ha colmato il vuoto con il secondo libro della “trilogia dell’anima”, il cui titolo è già un programma, “Luci del tramonto”, siamo giunti al 1995.
Anche qui i ricordi del
passato sono l’alimento delle meditazioni sul presente con l’aggiunta del
ripiegamento interiore che avviene nell’età avanzata allorché il presente ha
più valore del futuro e si sente la presenza di Dio, mentre il senso della morte è addolcito dalla fede
in una nuova vita. La felicità non deriva dagli eventi esterni ma dalla
spiritualità che si raggiunge all’interno dell’anima.
La memoria assume un ruolo
importante nel dare testimonianza del passato, perché ci si aggrappa ai
ricordi. Invece lo scorrere agitato
della vita tende a far concentrare sulle cose concrete piuttosto che sulle
emozioni legate a ciò che è percepibile ma non afferrabile. Il passato oggi sembra avere meno valore di
ieri, mentre anche i singoli momenti tendono ad essere annullati nelle giornate
convulse.
Il consumismo esasperato, al
centro del libro di politica economica del 1969 “Potere democratico e forze
economiche”, torna anche in questa
introspezione rivelandosi comunque incapace a dare una vera soddisfazione
proprio allorché sembrerebbe soddisfare bisogni che sono solo fittizi perché
indotti e non genuinamente sentiti dai consumatori, cui servirebbero di più i
beni collettivi.
Stando così le cose, Radi
si chiede: “Mi domando perché abbiamo dentro di noi tanta fame di
infinito, perché non siamo soddisfatti e ci consideriamo prigionieri di una
capsula lanciata nel tempo”. La risposta che si dà riporta all’assunto iniziale, sulla felicità
che non viene dall’esterno di noi anche se siamo capaci di far tesoro delle
esperienze, cosa che di solito non
avviene. Quando siamo presi dall’insoddisfazione nell’incapacità di comprendere
il senso della vita, “rivolgendo lo sguardo altrove, notiamo quasi con invidia
che chi coltiva un barlume di fede, non difficilmente sa scorgere il bene anche
negli anfratti del male, dove esso sa celarsi come un seme nella fessura della
terra arida”. Il richiamo alla natura
non è episodico, Radi compie tanti accostamenti, come la capacità di
adattamento dell’albero e l’amore che anima la fatica delle cicale, sempre nel
misterioso itinerario nascita-vita-morte che hanno in comune con l’essere
umano, in cui tutto ha un valore.
Ma risulta essenziale la
consapevolezza di ciò che siamo nell’intimità dello spirito, la capacità di
capire che ci illudiamo se pensiamo di
“avere il controllo della situazione, fissare i tempi e i modi del nostro
futuro, presumere di poter dare una risposta ad ogni interrogativo”. D’altro
canto, se avessimo queste capacità e non vi fossero misteri verrebbero meno
tanti stimoli della vita, anzi “gli errori commessi aiutano a vivere” e
“l’insoddisfazione genera le energie necessarie per risollevarsi”. Questo non
vuol dire che la memoria è sempre salvifica, anzi spesso lascia delle ferite
che non si rimarginano; soprattutto quando non riusciamo a resistere alle
lusinghe del “male” ma anche in questo caso la memoria ci aiuta a restare
“desti: “l’indifferenza porta alla perdizione, la sofferenza al pentimento e
alla redenzione”..
Non si deve perdere la fiducia
anche nei momenti più bui, “se imparassimo a distaccarci dalle cose che ci
tengono prigionieri scopriremmo di essere capaci di volare verso orizzonti più vasti”; per fare questo dobbiamo restare legati alle
nostre radici, senza mai fuggire da noi stessi. Una intensa vita interiore ci
preserva dalla noia, da cui tanti giovani sono oppressi vedendo intorno a loro
“il nulla”; gli amori, gli affetti, le
emozioni rimaste nella memoria salvano
dalla disperazione. Finché il tempo li fa tacere, perché “’Altro’ deve parlare”.
A quel punto “non rimane che spegnere la lampada del leggio e chiudere la porta”. In questo
saluto alla vita non c’è timore e
neppure rassegnazione,
tutt’altro. Maria Giulia Giulino conclude
il suo commento: con “un’esortazione, estrapolata dalle righe delle Luci, da rivolgere a chi legge e a chi
ha posto nel proprio cuore un posto per scampare dalla propria prigione. ‘Sii
come l’uccello che, pur sentendo tremare il ramo continua a cantare sapendo di
avere le ali’”.
Nel libro appena commentato c’è l’elogio del silenzio come presupposto necessario per quel raccoglimento e ripiegamento interiore da cui nasce la meditazione che dà serenità e fiducia.
Quindici anni dopo, nel 2010, il silenzio non è più evocato ma vissuto, il raccoglimento non più auspicato ma voluto e raggiunto. Radi scrive “I giorni del silenzio” come diario di un’esperienza vissuta nel ritiro in un convento per isolarsi dal mondo alla ricerca del raccoglimento dato dal silenzio in un ambiente molto particolare, dove soprattutto si vive il contatto con la vita semplice e la natura, oltre che con sé stessi.
E’
il convento di Rovo, dove si ritira per qualche giorno per fuggire dalla
quotidianità convulsa spinto dal “desiderio di ascoltare la voce dello spirito,
di ritrovare nell’interiorità il senso vero della vita”. Il diario di quelle giornate si sviluppa nei tipici
bozzetti dell’autore, brevi e densi di contenuto, nei quali l’immersione nella
natura insieme alla vita semplice dei frati che si trova a condividere crea il
terreno propizio per far rinascere la spiritualità e la fede che si erano
assopite. Su trenta bozzetti soltanto
in cinque troviamo le esortazioni di Padre Jacopo, negli altri le
sollecitazioni spirituali vengono dalle cose semplici che lo circondano, il
bosco con i suoi piccoli abitanti, ritroviamo anche la lumaca e il cane, non
quelli delle memorie e del diario – i due libri loro dedicati – ma sempre ispiratori di pensieri distesi.
Delle
suggestive descrizioni dell’ambiente eccone alcune che mostrano l’attenzione
alle piccole cose.
All’esterno:
“In mezzo al vialetto vidi un grumo di formiche nere che trascinava la carcassa
di un calabrone. La processione, dietro quei miseri resti, aveva più che l’aria di un rito funebre quella di un corteo festante e godereccio.
Mentre osservavo le formiche nella loro
avida fatica, le api delle arnie del convento mi danzavano intorno per poi volare sul ciuffo di margherite
bianche e gialle poco distante da me. L’aria rarefatta e calda
saliva richiamando quella più pesante e
il movimento faceva tremolare le
immagini, sollevava le foglie cadute, trascinandole in un vortice che mulinava oltre il muro. Vidi il guscio di una
lumaca, lo raccolsi e lo avvicinai all’orecchio credendo di udire le voci dell’orto
come nelle conchiglie si odono quelle del
mare”. Nel quadro successivo: “Al di là delle querce e dei lecci
splendevano i colori dell’arcobaleno. Qualche ora prima un temporale aveva
colpito le colture, fatto strage dei frutti: l’uva martoriata, le mele
ammaccate e le prugne cadute sulla terra
intrisa d’acqua. Solo le lumache [ancora loro! N.d.R.] erano contente,
strisciavano sull’erba alzando le loro antenne”.
E
all’interno: “Tutto era lindo e ordinato, gli ambienti, nella loro nudità,
avevano un’anima, rivelavano uno stile di vita… lo spazio era freddo, esprimeva
con forza una fede esigente”. Vive questo
stile anche lui, nella sua cella,
assistendo alla messa e visitando la biblioteca, nel giardino e “alla
fonte dei frati”, incontrando gente semplice, come il vecchio il quale gli dice che Dio non ha mai “avuto bisogno di
cercarlo” perché è “vissuto in un mondo
che vive
alla sua presenza, che non lo mette in dubbio . Il mio Dio ha il volto
delle, stagioni, il volto dei chicchi pregni di vita del mio grano” Non così per l’autore, “il mio è un Dio che non ha volto. E’ una
Presenza misteriosa nell’anima”, perciò deve cercarlo, il vecchio lo esorta a dargli un volto, perché si trova
dovunque: “dietro la maschera di ogni uomo si cela il Signore”.
Di
questo gli parla anche Padre Jacopo in modo diverso: “E’ il Signore a cercarci”,
e precisa: “Non siamo noi a stabilire quando e dove incontrarlo. Noi dobbiamo
coltivare il desiderio. Nella vita spirituale l’attesa, spesso lunga e
tormentata, è ineludibile. Un colpo di fulmine della Grazia è raro. Ma
talvolta, quando ci sembra di essere nella solitudine più gelida, l’incontro
con il Signore è dietro l’angolo”.
La
solitudine ha due facce, può essere invidiata, come da lui e da Padre Jacopo,
mentre per il pastore che incontrano “l’inferno è la solitudine infinita”, “il
Dio che cerchiamo sono gli altri, perché sono gli altri a comunicarci l’amore”. E questo fa dire al Padre: “Credevi di essere solo, invece lo Spirito è
sceso in te e si è manifestato nella tua anima. Chi ama non è solo: chi ama ha
la pienezza che sazia”.
In
chiesa lo ripeterà all’ospite in ritiro: “Le parole e la cultura vengono dopo, prima c’è l’amore.
Ogni espressione di amore rivela la presenza del Signore, la sua epifania”, al di là delle
fedi religiose: “I simboli sono differenti, ma lo Spirito dell’amore è sempre lo stesso, uno, infinito… io credo
che le religioni siano un multiforme cammino dell’uomo verso Dio”. Ma non è
facile amare: “Qualche volta riteniamo di amare e l’illusione è così forte da
trasalire nella gioia di una falsa estasi… quando ci sembra di ghermire la felicità,
improvvisamente scopriamo di essere
soli. E’ difficile imparare ad amare, ma non temere”. E spiega perché: “Va’
tranquillo, fratello mio, Il Signore è con te”.
Finisce
così il singolare ritiro spirituale con pochi colloqui e tanta immersione nella natura, ecco le
parole conclusive, un “addio monti…” che
segna il ritorno alla vita di sempre: “Lasciavo alle mie spalle le belle
colline: i grappoli pendevano turgidi dai tralci, gli ulivi facevano danzare le
loro chiome d’argento, le messi esprimevano nella loro ricchezza la promessa di
una nuova primavera. Il pensiero volava
ancora ai fugaci giorni del mio ritiro. Sia pur teso, avvertivo di aver
ritrovato me stesso”.
E termina anche la nostra carrellata nei “libri dell’anima” con il pensiero rivolto all’autore, scomparso quattro anni dopo “I giorni del silenzio”. Ricorderemo sempre Luciano Radi, per la spiritualità che ha saputo far emergere dall’aridità della politica, praticata da protagonista e testimone autorevole: è un fiore che spunta dalla roccia, anzi una fioritura coprendo queste sue opere un ampio itinerario di vita. I suoi libri trasmettono al cuore di tutti il messaggio prezioso di una “personalità limpida” – come lo ha definito Pierferdinando Casini alla notizia della sua scomparsa – che lascia insegnamenti preziosi e attuali in diversi campi, in una tensione morale continua alimentata da una profonda umanità.
Info
Luciano Radi: “Nati due volte”, A.v.e., dicembre 1970. pp. 102; “Sotto la brace”, Edizioni Ares, novembre 1999, pp. 136; “Non sono solo”, Rusconi, dicembre 1983, pp. 122; “Anime e voci”, Rusconi, 1990, pp. 110; “Le luci del tramonto”, Rubbettino, gennaio 2005, pp. 69; “I giorni del silenzio”, Minerva Editrice Assisi, 2010, pp. 87. Sono tratte da tali volumi le citazioni del testo, a parte quelle di alcuni commentatori prese da fonti diverse. Sono di narrativa anche”Diario di un cane”, Bompiani, giugno 1993, pp, 121, e “Memorie di una lumaca”, Rubbettino, settembre 2002, pp. 194, in qualche modo avvicinabili a questo filone; mentre i libri sugli “onorevoli colleghi”, in quanto legati alla politica li abbiamo citati nel servizio precedente, insieme ai libri più propriamente in materia politica e politica-economica; e quelli sulle vite dei santi nel primo servizio sulla manifestazione di Foligno per “San Francesco e il Sultano”. I due precedenti articoli sono stati pubblicati in questo sito il 6 giugno 2019, “Luciano Radi ricordato con una sua opera, l’incontro tra Francesco e il Sultano 800 anni fa”, e l’8 giugno “Luciano Radi, potere democratico e forze economiche, ieri e oggi”; i tre ultimi articoli usciranno il 13 giugno, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”. e il 15 giugno, “Luciano Radi, il mio ricordo”.
Foto
Le copertine dei libri commentati sono nell’ordine in cui vengono citati nel testo. In apertura, “Nati due volte”, 1970; seguono, “Sotto la brace”, 1999 e “Non sono solo”, 1983; poi la “trilogia dell’anima”, “Anime e voci”, 1990, “Luci del tramonto”, 2005, e “I giorni del silenzio””, 2010; infine, Luciano Radi ( secondo da sin.) alla presentazione di un suo libro a Foligno; in chiusura, un’immagine di Luciano Radi. Le ultime due immagini sono state tratte dai siti web di pubblico dominio, rispettivamente spoletoonline.com e perugiatoday.it, si ringraziano i titolari dei siti.
Nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi la manifestazione di Foligno del 30 maggio sulla sua figura e sul suo libro “Francesco e il Sultano” ad 800 anni dallo storico incontro, ha consentito di delineare qualche tratto del suo modo, documentato e insieme appassionato, di trattare le vite dei Santi, uno dei filoni della sua vasta produzione pubblicistica, con 8 opere, oltre che di ricordarlo come “protagonista e testimone del nostro tempo”. Nel rendere conto della manifestazione abbiamo preannunciato che avremmo celebrato un altro anniversario, i 50 anni dalla pubblicazione del suo “Potere democratico e forze economiche”, uscito nel giugno 1969. Lo facciamo ora per la sua attualità anche in tempi così mutati.
Il libro appartiene al filone legato alla politica in generale, dalla quale Radi trae ispirazione in diverse direzioni tra loro collegate: politica economica e Partiti, personaggi politici e scherzosi bozzetti sugli “onorevoli colleghi”.
Radi era diventato sottosegretario alle Partecipazioni statali e, nella sua responsabilità istituzionale e sensibilità civile, sentì di dover approfondire i temi legati al confronto tra le forze politiche, espressione della vita democratica, e i grandi gruppi che influenzano l’andamento del sistema economico spesso in contrasto con le esigenze più sentite da parte della comunità.
Luciano Radi è stato sempre aperto alle novità e
intento a scoprire i movimenti più nascosti della società per prevenire gli
sviluppi con un’adeguata azione
politica. Come esponente della corrente
“Nuove Cronache” aveva contribuito a innestare nella tradizionale politica
centrista della DC luna maggiore apertura ai temi sociali assecondando la spinta che veniva dalla
società in profonda trasformazione.
Aveva già pubblicato uno studio approfondito sulla questione mezzadrile,
particolarmente avvertita nella sua Umbria, ed ora si trovava ad affrontare il
confronto con i potenti gruppi economici, in un clima reso incandescente dalla
contestazione re giovanile, Così nacque “Potere democratico e forze
economiche”, uno dei 9 libri in tema politico, cui vanno aggiunti 4 libri dedicati a grandi personaggi sempre della politica.
L’esigenza
di un rinnovamento nelle scelte di politica economica
Perché riteniamo che “Potere democratico e forze
economiche” sia di grande attualità anche oggi? Lo vediamo dalle accese
critiche all’Europa per aver trascurato la questione sociale ed essersi
immiserita in un ruolo burocratico e anche oppressivo; e lo vediamo dai
tentativi di dare delle risposte all’interno alla questione sociale con misure
discusse come il reddito di cittadinanza e la fornitura di materiali di consumo
alle giovani madri per alleggerire il peso economico della natalità e
rilanciarla; lo vediamo dai timori che suscitano le azioni dei grandi gruppi
internazionali; lo vediamo dallo strapotere dei mercati ; lo vediamo dalla pretesa di una crescita senza
fine dei consumi alla cui stagnazione si
attribuisce la crisi. Tutto questo avviene, però, in modo parcellizzato e confuso, senza una
visione d’insieme del modello di società cui tendere e degli interventi da
operare per muoversi nella direzione ritenuta idonea alle esigenze del paese.
Ebbene, il libro di Luciano Radi presenta invece un
quadro organico di come si dovrebbe procedere
e molte delle sue indicazioni di merito, e non solo di metodo, sono
illuminanti e istruttive. Lui coglieva “i fermenti di profondo rinnovamento che
agitano la società contemporanea”, e non si può dire che oggi non ci siano, la
rivoluzione digitale, la robotica sempre più invasiva sono soltanto alcuni fermenti, e che
fermenti! Inoltre la globalizzazione ha
reso ben più invasiva di allora la pressione sulla vita della comunità
nazionale. Se allora, come scriveva
Radi, l’impegno per far fronte ai
radicali mutamenti nella società, non
doveva risultare “da ‘improvvisazioni sul tema’ di cui la grande
complessità della materia farebbe rapidamente giustizia”, questo è ancor più
validi oggi, quando la complessità si è
moltiplicata.
Le sue “idee per una moderna politica economica
nazionale” prendono l’avvio dalla constatazione che l’impostazione tradizionale della politica
economica è inadeguata rispetto alle
nuove esigenze ed ai fermenti della società e alla modificazioni strutturali
del sistema economico. Oggi non sono qulle
di 50 anni fa con il passaggio dall’economia agricola a quella
industriale, ma “mutati mutandis”, la società postindustriale con la rivoluzione
epocale in tanti campi la rende ancora più inadeguata.
Allora “i grandi problemi aperti dalla società”
riguardavano “i rapporti tra classe politica e classe economica, le grandi
scelte della società e la loro attuazione nella condotta pratica ei gruppi
sociali, i rapporti – nell’ambito de sistema produttivo – tra grande e piccola
impresa”. La stessa vita democratica ne è fortemente influenzata.
Radi poneva
come primo problema quello dei rapporti tra potere politico e potere economico
, dovuto al fatto che “le grandi concentrazioni economiche riescono ad eludere
le scelte del potere politico in quanto quest’ultimo non dispone di strumenti
adeguati a controllare che l’evoluzione del sistema economico avvenga secondo
le linee direttrici determinate dalla
classe politica”. Oggi a questo
problema si è aggiunto quello posto dalle istituzioni europee, portatrici di
interessi spesso antagonisti rispetto ai nostri per la concorrenza tra Stati ,
che di fatto possono commissariare la nostra economia e la nostra politica.
Anche qui si reagisce in modo scomposto ed episodico, senza una riflessione di
fondo che vada al di là delel opportunità contingenti.
Naturalmente, nei tempi così mutati non si può
riproporre una nuova programmazione
economica, dopo la sostanziale inefficacia dei tentativi esperiti in
un’epoca con meno variabili fuori
controllo di quella attuale. Però non si possono lasciare senza risposta
interrogativi che risuonano sempre più forti.
Abbiamo
accennato al problema dei consumi interni , che si vorrebbero in costante
crescita per alimentare la produzione;
oggi si evoca l’economia
keynesiana sul finanziamento in deficit per mettere in moro il moltiplicatore
del reddito e l’acceleratore degli
investimenti, e far ripartire il sistema che continua a manifestare una
notevole capacità di accumulazione, con un risparmio privato quattro volte il
famigerato debito pubblico. Ma non si considera che nelle economie opulente
come la nostra, pur nelel sue notevoli disparità reddituali, i consumi sono saturi.
“Il tema di
fondo su cui la nostra società dovrà decisamente impegnarsi nel futuro riguarda
la correzione degli eccessi della società consumistica e l’orientamento dello sviluppo del Paese
verso le più autentiche finalità che una comunità sana ed ordinata non può
certo trascurare”. E questo non mediante improponibili interventi autoritari ma
modificando la scala di valori e incidendo sula destinazione del processo di
accumulazione che già vediamo restio a indirizzare sui consumi privati: “La
correzione deve partire dal processo di accumulazione , che va sempre più
inteso come una funzione pubblica, quindi finalizzato agli obiettivi che la
società si propone”. In effetti oggi l’accumulazione non è distorta, va
correttamente indirizzata non in modo dirigistico ma rendendo vantaggioso l’impiego
per finalità pubbliche e sociali. E deve riguardare i consumi indotti, che non
corrispondono a bisogni ma alla manipolazione dei produttori.
Ne deriva è un’affermazione di Radi che diventa di grande attualità, anche in
senso divisivo: “ La correzione deve riguardare anche i consumi”, dato che le
scelte dei consumatori non sono frutto
di scelte individuali coerenti, ma di tale manipolazione: “Il consumatore, in
effetti, è travolto da una spirale dei consumi” che riguarda sol,o in parte “il
soddisfacimento di autentici bisogni, dato che per lo più sono il riflesso
della scala di valori che presiede alla
nostra società consumistica. L’effetto imitazione porta comprendere nei bilanci
familiari voci sempre nuove cui hanno avuto accesso altre categorie sociali; e
quanto più si è manifestata la mobilità per le categorie suddette, tanto più
tumultuoso è risltato tale processo”.
Pensiamo alla levata di scudi in atto sul ventilato
aumento dell’Iva sui consumi, per le clausole di salvaguardia, mentre
escludendo quelli necessari potrebbe essere un modo di correggere il consumismo
esasperato destinando tali risorse a impieghi più utili alla società, ma
nessuno ha il coraggio di parlarne, salvo un timido accenno del ministro Tria,
subito rientrato. . Quali impieghi?
E qui Radi
getta il suo asso, “il soddisfacimento dei bisogni collettivi”, che dovrebbe
essere una risposta al “rincorrersi dei bisogni indotti”: “Le carenze nei
servizi sociali – dalla sicurezza
sociale alla scuola, all’abitazione, al sistema ospedaliero, alla sistemazione
delle infrastrutture urbane ed extraurbane, alla razionalizzazione dello
sviluppo urbanistico e dell’assetto territoriale, alla sistemazione del suolo –
nonché gli squilibri esistenti nello sviluppo economico sono gravi lacune che
soltanto il disordinato sviluppo della società consumistica ha potuto
determinare”. Il vice presidente del Consiglio Salvini nei suoi recenti
interventi ha sostenuto l’esigenza indifferibile di procedere in questa direzione,
sia pure in modo che è sembrato apodittico e privo di una motivazione coerente
in un quadro organico di risorse e impieghi. Se manca il quadro di
compatibilità si presta ad essere contrastata come idea velleitaria e
propagandistica.
Il libro invece
affronta il tema della distribuzione delle risorse perché è avvenuta
“senza alcun rispetto per le opzioni prioritarie della collettività ma tenendo
conto soltanto delle tendenze meno genuine
e più condizionate di un certo processo di sviluppo dominato dalla
produzione”. E va anche oltre: “La
società del benessere è divenuta la società del consumo individuale, che è
tanto più lontana dal benessere autentico quanto più priva i cittadini di
quelle condizioni di civiltà e di progresso – che si riassumono nelle dotazioni
sociali che danno sicurezza al cittadino ed ordine al progredire della società
– e di quella autonomia dal mondo della produzione , la quale rappresenta la
sola garanzia contro il pericolo dell’alienazione che minaccia le grandi
società industriali”. Contrastare tutto
questo vuol dire “correggere gli eccessi della società consumistica e
promuovere il generale sviluppo della società”. E lo si può fare . senza
eccessi dirigisti in una società come la nostra, anzi è proprio della
democrazia far prevalere i diritti collettivi sugli interessi di pochi, facendo
prevalere il potere democratico sulle manipolazioni delle forze
economiche.
“Ed è questo il compito che la classe politica deve
assumere senza cedimenti né compromessi,
consapevole che dovrà incidere sugli interessi che alla società
consumistica sono legati ma nello stesso tempo con la convinzione di avere
dalla sua parte la maggioranza del Paese”.
Il sistema democratico, in sostanza, affida “agli organi rappresentativi
le opzioni di fondo”, ma deve dare loro
anche gli strumenti necessari.
Si potrebbe obiettare che destinando
prioritariamente le risorse agli impieghi sociali si compromette l’efficienza
del sistema. Radi ha subito la risposta:
“L’efficienza viene potenziata con una più razionale strutturazione delle
attività economiche e con un più equilibrato assetto territoriale, come con le
altre realizzazioni di ordine sociale”. Non è questione di numeri e numeretti,
va riconsiderato interamente l’assetto economico e sociale per un vero
cambiamento, già evocato 50 anni fa in termini così attuali, .e lo si può fare:
“Il mondo della produzione dovrà essere portato ad
orientarsi verso quei settori più legati ai bisogni primari della società che
sono definiti dalle opzioni di fondo del Paese. L’attività in tali settori
dovrà essere caratterizzata dallo stesso
grado di efficienza raggiunto nelle
attività volte al soddisfacimento dei bisogni individuali, in quanto anche in
questo caso vi sarà la verifica continua e stimolante della concorrenza estera,
nonché dells competizione interna”.
La valorizzazione del “primato dei consumi
collettivi” rispetto a quelli individuali indotti dalla produzione determinerà
una “profonda razionalizzazione del comportamento del consumatore” che
va difeso dalle suggestioni consumistiche rispettandone la libertà di scelta,
ma facendone una scelta informata.
A questo punto Radi pone il problema della “portata
comunitaria delle scelte” rispetto all’idea europea, facendone addirittura il
motore del rilancio di un’adesione popolare già allora affievolita: “L’idea
ispiratrice centrale che potrebbe rappresentare
la fiaccola di un nuovo e avanzato movimento europeo potrbbe essere proprio questa visione degli
alti fini di civiltà che i paesi membri [allora erano sei] devono sentirsi
impegnati rifuggendo dai falsi miti della società consumistica”. Non è un
“vaste programme” alla De Gaulle, non lo era ieri, pur se non ha avuto seguito,
non lo è oggi, anzi può essere la soluzione per la crisi di ideali e il
distacco dalla società civile portata dalla visione miope e ottusa dei burocrati europei, legata ai “numeretti2
del deficit e dei parametri, e non alla realtà economica e sociale che
giustamente va in direzione opposta.
Radi così
conclude: “L’intero discorso sulla politica economica potrà diventare così da
nazionale , europeo; e porre le basi concrete e nel contempo permeate dei più
elevati ideali, di quella idea europea che fino ad ora non ha ricevuto nuova
linfa, dopo i romantici fervori degli anni cinquanta”, Sono parole di
cinquant’anni fa, Il presidente Conte e il ministro Tria potrebbero farle
proprie negli imminenti contatti con la Commissione europea, dando una
prospettiva nuova alle istituzioni europee profondamente rinnovate dopo le
recenti elezioni, che dovranno dare un seguito alle spinte al cambiamento
dall’opinione pubblica europea.
Ostacoli
e difficoltà sulla strada del rinnovamento
Non è un processo indolore, l’autore non si nasconde
le difficoltà. L’incessante evoluzione tecnologica, se è fonte di incremento di
produttività può avere anche “un significato regressivo sullo sviluppo civile
della società, qualora non venga opportunamente inquadrato in un più vasto contesto di obiettivi e di vincoli”. Ne parlava Radi 50 anni fa, il tema è attualissimo oggi, ad
esempio con la robotizzazione che può ridurre drasticamente la domanda di
lavoro richiedendo misure compensative, lo sostiene De Masi che a questo
fenomeno riferisce un eventuale reddito di cittadinanza strutturale e
allargato.
D’altra parte il cittadino è inerme dinanzi a tali
eventi perché come consumatore non ha autonomia nelle sue scelte indotte da
quelle dei produttori, a loro volta condizionate dalla competizione oggi a
livello globale. Il circuito “produzione-consumi indotti” riguarda il consumismo individuale del tutto
sganciato dalla razionalità relativa ai bisogni autentici, per cui il consumatore sacrifica “implicitamente,
e spesso inconsapevolmente, bisogni più profondi che non possono emergere a
livello individuale in quanto riguardano
la comunità nel suo insieme”.
A ciò si
aggiunga che a dominare non sono neppure
i “mercati” nell’accezione di Adam Smith
con una “mano invisibile” con una propria razionalità intrinseca; ma gruppi
oligopolistici dominati da tecnostrutture , come le definì Galbraith, “le cui
finalità divergono inevitabilmente sia
da quelle dei singoli consumatori che da quelle della collettività”. Ad entrambi i livelli “le dotazioni di servizi
sociali occupano uno dei primi posti nella graduatoria dei bisogni che una
società non può soddisfare”.; si pensi che la carenza di strutture di
assistenza alla maternità determina addirittura
il drastico calo della natalità che affligge il nostro paese con
diminuzione della popolazione e quindi della sua stessa proiezione nel futuro,
eppure non si provvede. A ciò si aggiungono “le dotazioni infrastrutturali e e
quanto altro attiene alal vita intesa nel suo contenuto più autentico ed
essenziale, quale è possibile definire una volta distaccati dai miti
persistenti e in continuo rincorrersi
che propone la civiltà industriale”.
Le forze politiche, che dovrebbero operare assicurando
questi servizi e queste dotazioni indispensabili nell’interesse della collettività, sono
bloccate dal contrasto con il potere
economico che le sovrasta per cui devono trascurare il soddisfacimento di quei
bisogni che “costituiscono precise necessità della comunità nel suo complesso.
Sono bisogni che rappresentano l’autentico contenuto di una convivenza civile e
ordinata: e costituiscono il vero contraltare delle suggestioni alienanti che
provengono dalla società del benessere”.
A questo punto Radi denuncia l’arretratezza
dell’organizzazione politica, nella sua staticità e inadeguatezza, rispetto alle trasformazioni economiche e
sociali, e si riferiva a una politica
organizzata in partiti con programmi e ideologie radicate su dei principi,,
mentre oggi prevalgono le forme volatili di aggregazione spesso intorno a
leadership effimere. E “la crisi degli organismi rappresentativi” che si è
aggravata con un Parlamento sempre più svuotato , mentre deve essere “adeguatamente rivalutato rappresentando la
più autentica garanzia di vita democratica”.
In effetti
l’uomo come cittadino è privo di partecipazione effettiva ieri e ancora di più
oggi che è venuta meno la possibilità di far sentire la sua voce nelle
strutture dei partiti politici e delle forze sindacali, già radi ne denunciava
la crisi 50 anni fa. Oggi si sono
rarefatte non solo nella sostanza ma anche nella mera apparenza, fino ad evaporare del tutto in forme definite liquide, ma ci sembrano
piuttosto gassose.
Se il potere sovrano teoricamente è stato trasferito
al popolo, la solenne proclamazione in tale senso da parte della Costituzione
“trova di regola un limite – osserva Radi – nell’effettività di tale
trasferimento… il divario esistente tra democrazia formale e democrazia
sostanziale segna la misura dell’opera di costituzione di uno Stato
effettivamente democratico”.
La crescita culturale fa sì che cresca la
consapevolezza di questi condizionamenti sopportati dall’uomo come cittadino
senza adeguata partecipazione e senza possibilità di soddisfare i bisogni più
autentici, e come lavoratore subordinato
alle esigenze della produzione fino a calpestare i suoi diritti e la sua
dignità.
Questo faceva sperare Radi anche se le sue speranze
non sono state esaudite finora: “E’ solamente per l’attuale migliorata
preparazione culturale che la comunità può darsi un assetto politico autenticamente democratico.
L’arricchimento culturale della comunità e il maggior impegno sul piano
politico che ne deriva rende il processo suddetto irreversibile.
Esso si alimenta costantemente con i nuovo apporti
che provengono dalle forze emergenti nel paese:in particolare l’impulso dei
giovani, quali forze vive che la cultura rende maggiormente consapevoli ed
impegnate, determina una accelerazione
del processo suddetto anche al di là dei tempi che regolano tali fenomeni”.
Scriveva nel 1969, sull’onda della contestazione studentesca del 1968 che aveva portato alla ribalta i
giovani con il loro protagonismo pur tra tante contraddizioni.
Attribuiva la contestazione verso il sistema all’impossibilità di trasmettere e far valere le esigenze più sentite, che la
crescita culturale poneva all’attenzione di tutti. Forse quella del ’68 fu una
spinta eccessiva, se si è avuto un contraccolpo così forte nella totale
astrazione dalla politica, le riflessioni fatte nel 50° anniversario del 1968,
lo hanno registrato, e lo slogan “68, la
battaglia continua”, cui si è intitolata una mostra rievocativa alla
Galleria Nazionale d’Arte Moderna di
Roma resta vuoto di contenuti.
La situazione di oggi è l’opposto con il
ripiegamento dei giovani sul personale e la totale indifferenza rispetto ai
grandi problemi, né possiamo considerare una ripresa il movimento ambientalista
dei ragazzini mobilitati intorno a
“Greta”, che sembra una parodia di una consapevolezza motivata e matura.
Gli
strumenti, la classe politica, l’assetto istituzionale
L’ultima parte del libro riguarda proposte concrete che evocano un
fatto molto recente, il tentativo di ammodernare l’assetto istituzionale con le modifiche costituzionali
bocciate dal referendum con il 60% di voti contrari. Ma le sue proposte si
inserivano in un quadro organico e coerente a tutti i livelli, non erano i
parziali e per molti versi contraddittori e del tutto insufficienti interventi che sono stati respinti.
Radi parte dal superamento delle rigidità
nell’organizzazione statuale “con una maggiore articolazione dei gruppi, e deve
promuoversi una maggiore partecipazione dei cittadini per dare alla vita democratica un contenuto
effettivo e concreto. In tale azione è
necessario dar prova di coraggio e decisione
per fornire un autentico contenuto rivoluzionario ”ad iniziative
riformistiche prese nell’ambito del sistema”. E precisa: “Il contenuto
rivoluzionario riguarda la scala di valori che presiedono alle attuali scelte
della società, scala di valori che deve essere rovesciata perché profondamente
distorta”.
Nell’organizzazione dello Stato deve essere
assicurato “un effettivo pluralismo, che sia pluralismo di gruppi e nel
contempo pluralismo di poteri e di funzioni. In questo senso vanno esaltate al
massimo le autonomie locali, quali forme di espressione di quel pluralismo di
poteri che riflette la molteplicità di esigenze e di istanze emergenti da una
società articolata e composita”. Risuonano molto attuali dinanzi alle istanze
di maggiore decentramento di poteri e funzioni ad alcune regioni che ne hanno
fatto richiesta, ma senza inserire questo intervento in un quadro organico –
come quello delineato dal libro – sono inevitabili gli scontri e le polemiche a
cui stiamo assistendo tar le stesse forze della maggioranza di governo.
Radi a questo collega “le autonomie funzionali di
altri gruppi in cui si compongono le esigenze della collettività e che non
possono essere rappresentate da organismi statali”. Una rete di questi gruppi
potrebbe svolgere un ruolo fondamentale garantendo un costante collegamento con
le funzioni statuali, perché potrebbe favorire “la rispondenza ai bisogni
effettivi della comunità che trovano
appunto nei corpi intermedi la sede più genuina ove manifestarsi”, che non è di
certo la struttura monolitica dello Stato centrale.
Naturalmente questi organismi intermedi devono
assicurare la partecipazione dei cittadini; e delle loro istanze vanno portate
avanti quelle che non si esauriscono in interessi particolaristici ma concorrono ad un
autentico progresso civile e umano
dell’intera collettività verso le
sue finalità superiori. Appositi organismi di consultazione potranno garantire
il contatto continuo tra rappresentanti e rappresentati.
Anche gli enti locali possono essere riformati in
questa direzione, con una sburocratizzazione
e la creazione di contatti diretti con la base attraverso adeguati
organismi assembleari. Ciè sarebbe ancora più importante oggi che si è perduta
la volontà di partecipazione, mentre va rilanciata dando forme e strutture
adeguate.
La classe politica deve assumere “una nuova funzione
nel contesto delle scelte di fondo della società, che sono scelte collettive in
relazione ad istanze comuni a tutti,
anche se profondamente diverse dalle scelte che operano i singoli nell’attuale
contesto socioeconomico che si è visto essere profondamente distorto”. Non deve
assolutamente assumere una “funzione educativa del cittadino”, sarebbe in
contrasto con l’essenza stessa della vita democratica, “ma non può abdicare
alla sua primaria funzione di salvaguardare i valori della civile convivenza da
ogni attentato, sia esso palese od occulto”. Come quello dei pifferai del
consumismo.
“In definitiva, il primo problema è quello di assicurare autentici
contenuti umani e civile all’uomo come lavoratore e come cittadino, perché la
sua vita possa essere rispondente ai contenuti culturali e alle esigenze
spirituali che la sua stessa inalienabile natura postula. Inoltre – ed è questo
un aspetto consequenziale delle medesima realtà – bisogna garantire l’uomo come consumatore in
modo che vengano soddisfatti i suoi più sentiti bisogni e che le sue scelte non
siano distorte da suggestioni più o meno palesi
che privano di una effettiva libertà rendendolo strumento inconsapevole
di un sistema che non è a dimensione di uomo”. L’insistente ritornello che “non
lo permettono i mercati” – e non permetterebbe di soddisfare esigenze pressanti
della comunità – al quale non si dà una risposta adeguata, mostra come queste affermazioni di 50 anni fa
oggi siano ancora più valide e suonino
come forte ammonizione, anzi come una premonizione. Come lo è quest’ultima
affermazione: “E’ sul contesto istituzionale che bisogna operare per rendere
effettive le riforme specifiche che verrebbero invece svuotate da ogni portata
concreta qualora avulse dal quadro di fondo che si è delineato”.
Ed è quello che manca del tutto oggi, come se Radi
lo avesse previsto mettendo in guardia sin da allora. Gli interventi
parziali privi del quadro di fondo che
ne assicura la coerenza e insieme la necessità hanno poco respiro, come si vede
tutti i giorni. Ma si potrà mai avere un disegno organico per soddisfare i
bisogni più autentici della comunità?
La fine delle ideologie ha tolto
ogni possibile riferimento ad impostazioni di carattere generale, per
quanto vaghe e generiche, nulla è stato sostituito, neppure un sano pragmatismo
però inserito in un quadro coerente di
obiettivi e strategie, interventi e risorse, per le ineludibili finalità collettive.
Nel quinto anniversario della scomparsa Luciano
Radi ci ammonisce con la sua analisi
premonitrice di 50 anni fa. Una guida per i governanti ma soprattutto un
richiamo perché siano soddisfatti i
bisogni più autentici della comunità nazionale con una rivoluzione copernicana
che potrebbe rilanciare anche l’ideale europeo.
Ci sembra che ce ne sia proprio bisogno, dati i tempi che stiamo
attraversando.
Info
Luciano Radi, “Potere democratico e forse economiche”, Edizioni Cinque Lune, collana “Economia e Diritto”, giugno 1969, pp. 98, ”; dal libro sono tratte le citazioni del testo. Sui temi politico-economici ha pubblicato anche: “La risi della pianificazione rigida e centralizzata”, 1957 e “I mezzadri: le lotte contadine nell’Italia centrale dall’Unità al 1960”, 1962, “Partiti e classi in Italia”, 1975, “La grande maestra, la tv tra politica e società”, 1991, “La macchina planetaria, quali regole per la corsa alla globalizzazione”, 2000. Sui Partiti, “Il voto dei giovani”, 1977 “La talpa rossa”, 1979 , fino a “Riflessioni su una sconfitta” e il successivo “Riflessioni su una vittoria”. Sui personaggi politici: nazionali, “Tambroni, trent’anni dopo”, 1990, e “Gli anni giovanili di Giorgio La Pira”, 2001, “La Dc da De Gasperi a Fanfani” e “Gerardo Bruni e la questionefino a cattolica”, 2005; locali, “Foligno 1946. Ricordo di Italo Fiattaioli e Benedetto Pasquini in occasione del sessantennio della prima elezione democratica al Consiglio Comunale”, 2006; storici, “Il mantello di Garibaldi”“, 2011. Sugli “onorevoli colleghi” e non solo: .”Buongiorno onorevole”, 1973, e “Gli scarabocchi dell’onorevole”, 1978, “Il taccuino dell’onorevole”, 1985, e “Buonanotte, onorevole”, 1996, fino a “Un grappolo di tonache”, 1981. Cfr. il nostro articolo uscito in questo sito il 6 gennaio, “Luciano Radi, ricordato con una sua opera, l’incontro tra Francesco e il Sultano 800 anni fa” dove sono citati i suoi libri su tema religioso, e i servizi che usciranno l’11 giugno, “Luciano Radi e i “‘libri dell’anima’ , l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” con i suoi libri di introspezione e riflessione personale, e il 13 giugno,”Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo” sulla sua figura, fino al 15 giugno “Luciano Radi, il mio ricordo”.
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In apertura, la copertina del libro di Luciano Radi, “Potere democratico e forze economiche”, 1969; in chiusura, un’immagine di Luciano Radi (da spellooggi.it, si ringraziano i titolari del sito).
Il 30 maggio 2019 si è tenuto il convegno “Luciano Radi studioso, a cinque anni dalla scomparsa”, nel corso del quale è stato presentato il suo libro del 2006, “Francesco e il Sultano”, insieme al suo profilo “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, a Foligno, la sua città che ha rappresentato in Parlamento per 35 anni, in una vita da protagonista che ha voluto anche testimoniare con una intensa attività pubblicistica. La manifestazione si è svolta al Palazzo Giusti Orfini, relatori i docenti dell’Università di Perugia, moderatore Stefano Brufani, Mario Tosti per la figura di Luciano Radi e, per il suo libro, Maria Grazia Nico, su Riforma e Crociate, inoltre frate Felice Autieri , storico, sull’incontro tra san Francesco e il Sultano; in conclusione momento musicale di “Assisi Suono Sacro”, al flauto Andrea Ceccomori, preceduto dalle riflessioni di Katia Ciancabilla sul mondo islamico. La sala affrescata del Palazzo, sede degli incontri di “Nemetria”, affollatissima, con la figlia Chiara cui va il merito dell’organizzazione e gli altri familiari. Inoltre una serie di presenze illustri, il Sindaco di Perugia Andrea Romizi e il Rettore dell’Università, Sandro Moriconi; presente l’ex suo assistente all’Università di Camerino Odoardo Bussini, e i moltissimi amici ed estimatori di chi ha fatto tanto per la sua terra e il suo paese.
Ricordare Luciano Radi e rendergli omaggio a cinque anni dalla scomparsa avvenuta il 1° giugno 2014, alla vigilia della festa della Repubblica, vuol dire anche sottolinearne la coincidenza simbolica, in quanto la sua figura riassume alcuni dei più nobili valori della democrazia repubblicana nel suo 73° anniversario: la milizia politica e il servizio nelle istituzioni, l’impegno professionale di docente universitario e l’attività intellettuale intensa e profonda, l’ispirazione religiosa e il valore umano.
La figura di Luciano Radi
La definizione di “protagonista e testimone del nostro tempo” riassume queste sue vite: ha voluto rendersi utile alla sua terra e alla nazione con un’azione politica nel partito e nelle istituzioni sorretta da uno spirito di ricerca che evidenziava i problemi e prospettava le soluzioni, alimentato a sua volta dalla solida preparazione di economista e statistico, portata ai massimi livelli con la parallela docenza universitaria in cui realizzava il coinvolgimento dei giovani.
E non si è accontentato del ruolo di protagonista, si è anche reso testimone di quanto si muoveva nel paese con un’attività parallela, altrettanto instancabile e inesausta, di pubblicistica politico-economica per condividere i risultati delle sue ricerche dando forma concreta all’enaudiano “conoscere per deliberare”.
Ma non basta, ha dato testimonianza dell’ispirazione religiosa con le vite dei Santi, anche qui per condividere, coinvolgere e, ripetiamo, testimoniare; e ‘è ancora di più, la testimonianza e il coinvolgimento si sono estesi alla parte più intima e personale del suo sentire, con accorati libri-confessione. “Non sono solo” è uno dei tanti titoli, ma ci sembra riveli la matrice prima del suo modo di essere e di agire.
Quindi, “protagonista e testimone”,
ma non del mondo di ieri, bensì “del nostro tempo”, tanto sono
attuali le sue analisi e le sue proposte in campo politico-economico, come le
sue riflessioni sui temi religiosi evocati dalle vite dei Santi, e le sue
spontanee confessioni dei moti più riposti dell’animo dinanzi ai turbamenti
prodotti dalla vita.
Non si pensi, però, alla visione pessimistica di una figura dominata da inquietudini, tutt’altro, lo dimostra un altro filone della sua inesauribile galleria editoriale, quanto mai scherzoso, non solo sugli animali, amici dell’uomo, ma anche sugli onorevoli deputati e persino sul “grappolo di tonache” dei sacerdoti: il tocco dissacrante dell’ironia come parentesi rigeneratrice nella severità dell’impegno quotidiano, di chi aveva anche recitato in ruoli comici in gioventù.
Un equilibrio esistenziale evidente nella sua persona: portamento autorevole unito ad un’amabilità disarmante, con il risultato di suscitare rispetto ma anche comunicativa spontanea che dissipava ogni soggezione. E apertura al confronto, ad ogni livello, sempre pronto a cogliere nuovi spunti da approfondire e poi condividere con tutti coloro che avessero la sua stessa ansia di conoscere e di capire i movimenti della società e i moti dell’animo umano.
A queste conclusioni perviene il profilo della sua figura e della sua azione, presentato nella manifestazione, in un nostro ricordo scritto e nell’appassionata relazione orale del prof. Mario Tosti, che ha ripercorso i momenti principale della vita di Luciano Radi e le principali espressioni del suo pensiero nella ricca galleria editoriale di opere che spaziano su tanti temi.
La sintesi finale è stata che l’intera sua azione e la sua testimonianza svolta a livelli e su campi così diversi, dalla politica all’economia, dalla religiosità alla interiorità, hanno avuto un motivo comune alla base della sua ricerca inesausta: la costruzione di una società più umana.
Il ricordo di Luciano Radi è stato il momento culminante della manifestazione, preceduto dalle due dotte relazioni sul suo libro, di grande attualità per quanto si muove nella Chiesa rispetto al dialogo interreligioso e nella società rispetto ai rapporti con fedi così diverse dalla nostra. Ci è sembrato di dover parlare prima della sua figura, ben nota a tutti i presenti nella sala del palazzo di Foligno, mentre ad altri che conoscono il politico potrebbe sfuggire lo studioso e il testimone.
Le
Crociate, pellegrinaggi armati poi degenerati
“Francesco e il Sultano” si inserisce in uno dei filoni della sua vasta produzione pubblicistica alimentata da interessi molteplici: le vite dei Santi, con almeno altri 7 titoli. Conferma i grandi pregi di Luciano Radi: rigore di analisi, e non potrebbe essere altrimenti per un economista e statistico che fa i conti con le evidenze reali; assoluta libertà da pregiudizi. Si basa sulle fonti più sicure per rievocare l’incontro, riportate in Appendice, e lo inquadra in una ricostruzione storica lontana dai luoghi comuni ponendo una serie di interrogativi e dando risposte aperte alla riflessione e alla valutazione del lettore.
Al centro c’è quanto di più dibattuto, la storia delle Crociate. divisiva tra la visione positiva di pellegrinaggi, necessariamente armati per difendere la fede, e quella negativa di segno opposto per la loro degenerazione. Ne ha fatto una ricostruzione dotta la prof. Maria Grazia Nico, partendo dai rapporti tra Papato e Impero, in linea con la rievocazione fatta dall’autore.
I tradizionali pellegrinaggi in Terrasanta assunsero necessariamente una forma ben diversa quando i Luoghi santi furono occupati dai seguaci dell’Islam i quali non solo aggredivano i pellegrini, ma perseguitavano i cristiani indigeni. La situazione fu aggravata dal fatto che dopo l’avvento dei turchi Selgiucidi nel 1076 e le persecuzioni dei cristiani, ci fu nel 1099 la restaurazione del regno latino di Gerusalemme con i Franchi, vessatoria contro gli “infedeli”, cui seguì la riscossa islamica del Saladino con la conquista di Gerusalemme nel 1187, dopo 84 anni di dominio cristiano.
Una profonda costernazione colpi il mondo cristiano, in particolare ad Assisi, senza distinzione di censo e di posizione; nelle chiese aperte giorno e notte si intonavano lugubri salmi, quel dramma religioso diventava dramma personale di tutti con sensi di colpa individuali e collettivi, mentre montava l’odio per gli infedeli e la volontà di riscatto. Era cresciuta una classe di cavalieri che non vedeva l’ora di battersi, ma la mobilitazione fu generale anche da parte del popolo.
D’altra parte, la Chiesa stessa sollecitava a cercare la redenzione dai propri peccati nelle missioni a difesa della fede, che iniziarono anche prima contro i mori in Spagna e lungo le vie percorse dai pellegrini per raggiungere Santiago di Compostela, e in Sicilia nella conquista normanna. Era un periodo turbolento, e la nuova sfida della liberazione dei Luoghi santi poteva avere anche il risultato positivo di porre termine alle lotte intestine, unificando le chiese locali.
Nacque così la prima Crociata indetta da papa Urbano II, seguita da altre tre, tutte con esito negativo, finché papa Innocenzo III lanciò la quinta crociata nel 1219, cui partecipò Francesco che, nato nel 1182, aveva 37 anni; morirà 7 anni dopo, nel 1226; aveva vissuto all’età di 5 anni lo shock della perdita da parte dei cristiani di Gerusalemme conquistata dai turchi di Saladino, evento che aveva suscitato la costernazione popolare e la voglia di riscossa di cui si è detto in precedenza; e c’erano stati già tentativi di Francesco di andare in missione in terra di infedeli.
Radi cita la testimonianza di Tommaso da Celano sui precedenti tentativi di raggiungere la Terrasanta. Ci provò via mare, su una nave che lo portò in Dalmazia, ma poi non essendovi partenze per la Siria tornò indietro imbarcandosi di nascosto fino ad Ancona; e tentò via terra, attraversando le coste mediterranee di Italia e Francia per raggiungere la Spagna e poi il Marocco, ma si ammalò e dovette tornare indietro. Così quando fu indetta la 5^ Crociata era spiritualmente pronto alla missione in Terrasanta, nei luoghi della passione di Cristo dove anelava di giungere.
Aveva fondato l’ordine francescano dei Frati minori, che andavano in
missione per annunciare il Vangelo, nella riproposizione di un apostolato di
testimonianza e di esempio. In Francia e Germania, Grecia e Tunisia, i frati
francescani compivano la loro opera di evangelizzazione pur tra forti ostilità,
venendo maltrattati e spesso malmenati, fino al rischio della vita. Il tentativo
di convertire il Sultano del Marocco da parte di cinque di loro, dopo
l’iniziale comprensione del sovrano islamico che li aveva rimandati indietro
liberi, si concluse con la loro decapitazione per essere tornati clandestinamente e aver insistito
nella predicazione volta ad ottenere conversioni.
Una missione di evangelizzare così convinta e coraggiosa doveva necessariamente vedere nella Terrasanta una potente calamita, trattandosi della terra dove si era consumata la vita di Cristo.
La presenza di Francesco nella 5^ Crociata
Per cercare di raggiungere i Luoghi santi per Francesco c’era un modo, offerto dalla Chiesa: aggregarsi alla 5^ Crociata, bandita nel 1213, e svoltasi tra il 1217 e il 1221. Così, nel giugno 1219, si imbarca ad Ancona con 12 frati che gli vengono indicati a caso da un fanciullo, come da lui richiesto dovendo selezionarli per i pochi posti disponibili senza far torto a nessuno. Prima tappa Cipro, poi in un viaggio di 4-5 settimane San Giovanni d’Acri, dove si trovavano da due anni dei correligionari, che erano arrivati con le avanguardie della 5^ Crociata. Dopo qualche giorno eccolo imbarcarsi, con la sua piccola squadra, per Damietta, fortezza islamica assediata dai Crociati
Gli scontri furono sanguinosi, con crudeltà inenarrabili da parte sia dei
Saraceni islamici che dei
cristiani; in mezzo ai massacri i
francescani predicavano per la conversione degli infedeli, suscitando la loro
ammirazione e il loro aiuto nel provvederli del necessario, quasi incredibile!
E qui Radi risponde alla prima domanda, veramente cruciale: come potesse trovarsi una persona mite quale era Francesco nell’inferno di Damietta agli antipodi rispetto al suo desiderio di pace? Aveva cercato invano di convincere i crociati a rinunciare all’uso delle armi – “ma non a deporle”, ci tiene a precisare – e anche questo poteva essere un motivo sufficiente, pur se non riuscì nel suo intento, e lo si capisce dalla storia delle Crociate.
Almeno nell’impostazione iniziale, e ideale, erano dei pellegrinaggi, necessariamente armati per difendersi dalle imboscate e dalle persecuzioni degli infedeli, non delle campagne di conquista, i Luoghi santi si potevano riprendere ostentando, non usando la forza. Erano però degenerate, e non soltanto per l’uso indiscriminato delle armi, ma per lo scatenarsi dei peggiori istinti che albergano nell’essere umano: sopraffazioni e violenze di ogni tipo, spietati saccheggi anche verso le popolazioni ignare e incolpevoli incontrate lungo il cammino. Ma non poteva essere questo un motivo per astenersi, anzi era una ragione in più per farne parte svolgendo un ruolo missionario anche nei confronti dei partecipanti per riportarli sulla retta via.
Inoltre alle Crociate veniva riconosciuto un alto valore religioso. Ogni partecipante si fregiava della croce sull’abito e l’armatura, il corredo veniva benedetto alla partenza, con le armi, che aveva a differenza dei normali pellegrini; riceveva dalla Chiesa privilegi spirituali come speciali indulgenze per i peccati, e materiali, addirittura il diritto al bottino, e una protezione estesa alla propria famiglia e ai beni finché non scioglieva il suo voto; erano previste anche sanzioni nel caso di rottura del voto senza giustificato motivo. Il Papa ne era l’altissimo promotore, nominava il legato pontificio e i predicatori, nelle ultime crociate anche il capo della spedizione.
Non si pensi che tutto filasse liscio, tutt’altro, la qualità dei partecipanti, reclutati nei modi più diversi, era scadente e minacciava di far fallire le spedizioni, per cui la Chiesa creò Ordini religioso-militari specializzati per contrastare gli abusi e difendere i Luoghi santi: sorsero così i Templari, gli Ospedalieri di san Giovanni – sarà il futuro Ordine di Malta – e i Cavalieri teutonici.
Furono tante le degenerazioni che si perdette lo spirito originario, tuttavia l’importanza delle Crociate fu notevole in quanto ricomposero l’unità del mondo cristiano, fermarono l’espansione dell’Islam nel Mediterraneo e contribuirono all’allargamento degli orizzonti nel mondo occidentale promuovendo anche lo sviluppo dei traffici.
Torniamo a Damietta, Francesco approfitta di una tregua, tra il 29 agosto e il 5 novembre sempre del 2019, per dare corso alla sua missione impossibile: incontrare il Sultano per convertirlo al Cristianesimo, proposito che farebbe pensare a un gesto suicida nella ricerca del martirio.
Radi, però, si sente di escludere che fosse questo il fine, anche se non era escluso, anzi più che probabile, che avvenisse. Lo scopo era l’evangelizzazione nella consapevolezza del rischio che veniva accettato per seguire la volontà di Dio, ma non era voluto nè provocato. Un coraggio intemerato, rischiare accettando il martirio se necessario ma per un fine più alto, “l’avvicinarsi il più possibile all’esempio di Cristo”. Oltre questa motivazione superiore, aveva il desiderio di aprire un dialogo con il capo dell’Islam, nella consapevolezza che quella era la via maestra, non la guerra sanguinosa di cui a Damietta aveva conosciuto gli orrori inenarrabili.
L’incontro di Francesco con il
Sultano
Ed ecco, finalmente, l’incontro con il Sultano al-Malik-al Kamil, la cui verità storica è documentata dalla cronaca del suo consigliere, il teologo e giurista egiziano Fakhz-ad-in-al-Faix, il quale nella sua biografia parla di una discussione con un monaco cristiano alla presenza del Sultano. Sappiamo che Francesco era stato autorizzato all’ardita missione dal delegato pontificio Pelagio, sebbene questi fosse contrariato dal fatto che il frate, più che mostrare interesse per la Crociata, voleva ad ogni costo risolvere la guerra convertendo il Sultano; come si svolse l’incontro lo racconta Ernoul, scudiero di Erbelino, che sembra partecipasse solamente alla fase preliminare, ma poi raccolse la testimonianza di chi fu presente effettivamente.
Vide personalmente come Francesco, accompagnato da frate Illuminato da Rieti, affrontò gli uomini a guardia della corte del Sultano nel palazzo sul delta del Nilo, subendo le loro percosse pur di essere portato al cospetto del sovrano. Rivela che il Sultano, sorpreso di vederli senza armi, laceri e inermi, ebbe questa risposta alla sua domanda del motivo della visita: “Saraceni non ci faremo giammai, ma messaggeri siamo in verità da parte di Dio per salvare l’anima vostra. Se voi crederete in lui noi consegneremo la vostra anima a Dio”. Per aggiungere: “”E vi diciamo in verità che, se morrete nella legge in cui adesso siete, voi siete perduto e Dio non avrà l’anima vostra. Per questo siamo venuti a voi”. E con un coraggio senza pari: “Se vorrete ascoltarci e intenderci, vi dimostreremo sicuramente che la vostra legge è falsa”.
La sfida va anche oltre, perché alla risposta del Sultano che avrebbe chiamato i consiglieri prima di ascoltare “quanto oserete dirmi”, fa seguire la replica: “Saremo di questo molto contenti, anzi era nostro proposito suggerirvelo. Mandate pure a cercarli e se non sapremo dimostrare che quello che affermiamo è vero, fateci subito decapitare”. Ed è quello che chiedono i consiglieri sacerdoti accorsi, la loro decapitazione, dato che la legge, data da Dio e Maometto, “vieta persino che si ascolti qualunque cosa venga detta contro di essa”; perciò non accettano alcun confronto sulla fede.
E qui avviene il miracolo, il Sultano invece di farli decapitare come avevano richiesto i consiglieri teologici per ossequio alla legge divina, li grazia per l’alto valore umano della loro offerta, “perché sarebbe una assurda ricompensa a voi che vi siete esposti al rischio di morire per salvare la mia anima”, e nel dire questo invita insistentemente Francesco a restare con lui.
Secondo Bonaventura da Bagnoregio ottiene come risposta dal frate che lo farebbe solo se lui e il suo popolo si convertissero a Cristo; altrimenti sfida i suoi sacerdoti ad entrare con lui nel fuoco, chi supererà la prova avrà ragione; e al diniego e alla fuga di un sacerdote spaventato, Francesco si offre di entrare solo lui nel fuoco, se sarà bruciato sarà per i propri peccati, se uscirà illeso sarà merito della potenza di Dio e in tal caso il Sultano dovrà passare al Cristianesimo con tutto il suo popolo.
Il Sultano non accetta la sfida – e come avrebbe potuto? – ma ammirato del suo coraggio e della sua dedizione voleva coprirlo di doni, subito rifiutati, riproponendoli perché fossero distribuiti ai poveri della sua terra; ma non furono accettati neppure così da Francesco “poichè voleva restare libero dal peso del denaro e poiché non vedeva nell’animo del Soldano la radice della vera pietà”, sempre parole di Bonaventura.
Tornando alla testimonianza dello scudiero, per qualche giorno Francesco e il frate che era con lui furono ospitati nella sontuosa casa del Sultano, tra fiori e bellezze fiabesche e potettero meditare sull’assurdità della guerra sanguinosa tra cristiani e mussulmani. Rifiutarono ancora i doni preziosi offerti loro, per cui “dinanzi al totale disinteresse per le cose terrene il Sultano rimase esterrefatto. Non aveva mai incontrato uomini mossi da così grande amore e da così assoluto distacco dalle cose terrene. Rimase pensoso, intricato in pensieri che gli aprivano nuovi orizzonti”.
Forse, commenta Radi, il racconto dello scudiero non rispecchia il pensiero di Francesco, più intento a unire che a dividere, non trova convincente la sfida né la negazione dell’altra fede, piuttosto avrebbe sottolineato gli elementi comuni tra cristiani e mussulmani: credono nel Dio unico, riconoscono entrambi e venerano, pur se in modo diverso, la grandezza di Gesù e della Madonna. “E avrà concluso che era giunto il momento di spogliare la contesa dagli interessi di dominio e di potenza per conquistare la pace non sulla base della spartizione della Terrasanta, ma in nome dell’amore di Dio e della libera venerazione dei Luoghi santi”. C’è tutta l’umanità di Radi in queste parole.
Il presepio di Greccio e gli ultimi anni di vita
Come “La tregua” viene dopo “Se questo è un uomo” – il ritorno tormentato dopo l’inferno di
Auschwitz – nell’evocazione di Primo
Levi, così qui “il viaggio di ritorno” viene dopo l’inferno di Damietta con la
parentesi di altissimo valore morale oltre che religioso dell’incontro con il
Sultano.
Dopo la tregua in cui si era svolto l’incontro, il 5 novembre 1219 Damietta fu conquistata dai Crociati a prezzo di stragi spaventose dai due schieramenti, nello scatenarsi dei peggiori istinti. Era una città fortificata, con doppia e tripla cinta di mura, 22 torri, 11 porte e 42 fortilizi, ai vincitori si presentò un cumulo di rovine e di cadaveri, con teste mozzate prese a trofei. sempre da entrambe le parti: nella parte cristiana, insieme a coloro che erano animati da ideali, c’erano avventurieri di ogni risma e spietati assassini, per i mussulmani c’era addirittura un premio in oro per ogni testa di cristiano.
Forse dinanzi a questo orrori nacque l’idea del Presepio di Greccio, che Radi definisce “un sostituto significativo e popolare della stessa idea di crociata che per troppo tempo aveva assopito nella Chiesa l’autentico insegnamento di Gesù”. Non serviva andare nei Luoghi santi, tanto meno con le armi e la guerra, per ritrovare lo spirito della Natività e i valori che si possono “possedere e venerare nell’anima”, nella propria terra.
Anche papa Francesco nel Giubileo della Misericordia ha dato analoga indicazione, in ogni località si può trovare la Porta santa senza dover venire a Roma.
Il viaggio di ritorno fa ripiombare Francesco nei problemi dell’Ordine, in sua assenza i due vicari hanno violato la regola in senso pauperistico, come nei catari, non accettando mai il cibo per sottoporsi al digiuno, mentre per Francesco non poteva esserci tale finalità, il povero deve sempre accogliere i doni della Provvidenza anche se è disposto a sopportare ogni privazione. Ed è proprio la fiducia nella Provvidenza, alla base della sua spiritualità, che lo aveva portato ad accettare il cibo dal Sultano, pur rifiutandone i doni preziosi, secondo la “qualità della moderazione e del realismo”.
La crisi temporanea dovuta alla sua assenza lo portò a chiedere il rafforzamento dell’Ordine a papa Onorio III, che incontrò di persona a Viterbo, mediante l’istituzionalizzazione di quella che era diventata una vasta comunità anche con una Regola “più ricca e stimolante”. Poi Francesco nel 1220, pochi mesi dopo la fine della sua “crociata” con visita al Sultano, passa la mano al successore restando come esempio vivente e collaborando alla stesura della nuova Regola approvata con Bolla papale nel 1223; morirà tre anni dopo, nel 1226.
“Dopo le dimissioni – osserva Radi – il Serafico si comportò come aveva promesso: visse gli ultimi anni da semplice frate, povero tra i poveri, emarginato tra gli emarginati”. E’ l’immagine conclusiva di una figura per tanti versi complessa, che attraverso il suo libro abbiamo rivissuto in un suo momento così significativo, celebrandone l’anniversario 800 anni dopo, 1219-2019.
Ma, “si parva licet…”, c’è un altro anniversario che coincide con l’incontro di Foligno del 30 maggio, i 50 anni dalla pubblicazione di un saggio, sempre di Luciano Radi, questa volta di politica economica, “Potere democratico e forze economiche”, avvenuta nel giugno 1969; ne parleremo prossimamente per la sua forte attualità pur in tempi così profondamente mutati.
Info
Luciano Radi, “Francesco e il Sultano”, Cittadella Editrice, settembre 2006, pp. 90. Per le vite dei Santi, dello stesso autore: “Chiara di Assisi” 1994 e “Angela da Foligno” 1996, “Santa Veronica Giuliani” 1997 e “San Francesco e gli animali” 1999, “Margherita da Cortona” e “San Nicola da Tolentino” 2004; inoltre “Umbria santa” 2001. Nell’incontro è stato distribuito l’Estratto dal Bollettino storico della città di Foligno XXXVIII-XVII (2015-2019)”, Foligno 2019: Romano Maria Levante, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, pp. 12. Pubblicheremo in questo sito altri 4 articoli sulla sua figura. “Luciano Radi, ‘potere democratico e forze economiche’” il 9 giugno; “Luciano Radi, ‘’i libri dell’anima’, l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” l’11 giugno, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo” il 13 giugno; infine, “Luciano Radi, il mio ricordo” il 15 giugno.
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Le prime 7 immagini, della sala e degli oratori, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Giusti Orfini durante il convegno; le 4 immagini successive, con gli affreschi di Giotto e Benozzo Gozzoli, sono tratte dal libro di Luciano Radi, le 2 immagini seguenti sono state riprese nel Museo di Palazzo Trizzi. In apertura, la sala del Convegno; seguono, il prof. Mario Tosti sulla figura di Radi, alla sua dx il moderatore prof. Stefano Brufani, e la prof. Maria Grazia Nico su Riforme e Crociate; poi, frate Felice Autieri sull’incontro tra Francesco e il Sultano, e Katia Canciabilla sul mondo islamico; quindi, Andrea Ceccomori al flauto e un’altra immagine della sala; inoltre, Giotto, “La prova del fuoco”, Assisi, Basilica superiore, e Benozzo Gozzoli, “La prova del fuoco davanti al Sultano”, Montefalco; ancora, Giotto, “Il presepio di Greccio”, Assisi, Basilica superiore, e Benozzo Gozzoli, “Istituzione del presepio a Greccio”, Montefalco; prosegue, Crocifissione, nel riquadro inferiore san Francesco, Foligno, Museo di Palazzo Trinci, e Il santo riceve le stimmate, Museo di Palazzo Trinci; infine, Giotto, “San Francesco predica agli uccelli”, Assisi, Basilica superiore, e l’ immagine di san Francesco; in chiusura, la Copertina del libro di Luciano Radi.
Visitiamo la mostra “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza”, che celebrando i 500 anni dalla sua morte, presentadal 13 marzo al 30 giugno 2019 oltre 200 opere – tra modelli di macchine, manoscritti e disegni, volumi rari e stampe – inquadrate nella temperie dell’epoca, che vedeva il fiorire di iniziative e invenzioni nell’ingegneria e nella tecnica. La mostra, organizzata dalle Scuderie con il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ‘Leonardo da Vinci’ e la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è curata da Claudio Giorgione, curatore del Museo citato. Nel periodo della mostra 5 incontri con il curatore e una serie di esperti, e laboratori per i visitatori. Catalogo “Arte,m L’Erma”.
Abbiamo introdotto la figura di Leonardo da Vinci partendo dall’obiettivo che dichiara il curatore di “smontare il mito dell’inventore e profeta del futuro” per contrapporre a questa visione ritenuta superata quella di “riconsiderarne invece la grandezza nello stretto dialogo con il contesto storico, le fonti, i contemporanei, ma anche la sua eredità nella cultura tecnica del Rinascimento”.
In questa prospettiva abbiamo ricostruito la formazione del “mito” di Leonardo nelle sue radici più antiche, addirittura coeve, giungendo alla conclusione che la qualifica di “genio” è più che meritata. Poi abbiamo esplorato i contenuti e significati del disegno come base estremamente originale ed elaborata delle sue creazioni ispirate dall’attenta osservazione della realtà, e infine abbiamo parlato del “Codice Atlantico” dal quale derivano i fogli manoscritti che introducono le 10 sezioni tematiche nelle quali sono esposti documenti, plastici e modelli di macchine che ricorderemo pur nella necessaria sintesi. Per ogni modello è indicata l’origine nelle fonti leonardesche, o altre, e sono precisate le caratteristiche specifiche: sono in legno, ferro e altri materiali, per lo più realizzati nel 1953 per il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, inseriti in mostra con gigantografie nelle pareti che evocano l’ambiente dell’epoca. Un allestimento magistrale che fa tornare al ‘500 come portati dalla macchina del tempo.
Le
prime 5 sezioni, dalla formazione alle “macchine produttive”
La 1^ sezione, intitolata “Ingegneri toscani”, riguarda la formazione di Leonardo a Firenze nella bottega del Verrocchio, come pittore con annessi scultorei, ma evoca soprattutto l’impegno della bottega di collocare nella sommità del Duomo di Firenze una grande sfera di bronzo dorato sopra la lanterna, che gli fece conoscere la grande “gru” ideata da Brunelleschi molti anni prima nei lavori per la Cupola. Al riguardo lui stesso scrive nel Codice: “Ricordati delle saldature con che si saldò la palla di Santa Maria del Fiore”. E’ esposto sia il suo disegno di tale Gru contrappesata sia un modello in legno e metallo, disegno e modello anche per l’Argano a leva; inoltre un Argano solleva colonne.
Inoltre sono esposti i disegni dei trattati di macchine e architetture di ingegneri del ‘400 toscano: vediamo i disegni di un argano e un elevatore, una gru girevole e una sega idraulica, una noria e un fregio, una fortificazione e un riparo da bombarda, di tutti autore Francesco di Giorgio Martini; inoltre, di Mariano di Iacopo detto il Taccola un elevatore d’acqua, di Roberto Valturio una ruota idraulica a scomparti, di Giulio da Sangallo navi multi remi, sempre come disegni.
Francesco di Giorgio Martini lo troviamo anche nella 2^ sezione,“Lo studio dell’antico”, perché è esposto il suo “Trattato di Architettura civile e militare” della Biblioteca Laurenziana, che riporta le concezioni di Vittruvo sulle proporzioni tra gli edifici e il corpo umano. Leonardo per il suo “Uomo Vitruviano” si deve essere riferito proprio a questo trattato, l’unico che ha fatto parte certamente della sua biblioteca, come certificato dalle note scritte di suo pugno nelle pagine del libro. Nelle pagine esposte si vedono dei disegni inframmezzati al testo, nello stile leonardesco, ma più semplici e schematici del solito, più che altro indicativi senza intento progettuale. Una schematizzazione dell’Uomo Vitruvianola vediamo nelle pagine, anch’esse esposte, del “De Architectura” di Vitruvio tradotto in volgare da Cesare Cesaruano, siamo nel 1511, vent’anni anni dopo la perfetta rappresentazione di Leonardo.
Dopo la formazione fiorentina, nel 1482 va a Milano, dove conosce anche il “Trattato di Architettura” di Filarete, di cui vediamo il frontespizio, con edifici a pianta centrale raffrontati al “Pantheon” di Roma, descritto nel trattato dell’epoca di Andrea Palladio. Ebbene, Leonardo non manca di disegnare questi edifici, e in mostra vediamo i progetti e i modelli realizzati nel 1953 di una Chiesa a pianta centrale, una Chiesa su due livelli, una Chiesa con quattro campanili, e un modello del Pantheon, inizi XX secolo, veramente spettacolare.
Nella riscoperta dell’antico c’è una Tavola dedicatoria dalla Raccolta dei tempi antichj diPiranesi, del 1780; inoltre, ricordano un mito evocato dagli umanisti dell’epoca, le Navi dell’imperatore Caligola affondate nel lago di Nemi, un modello sezionato di Nave di Nemi con Protome a testa di lupoe Decorazione a forma di elmo, 1932-33, e un acquerello di Ranieri Arcaini del 1991, che ne ha fatto una spettacolare “ricostruzione archeologica” con templi e monumenti sulla tolda della grande imbarcazione usata per sontuose feste e cerimonie.
Siamo alla 3^ sezione, dedicata a “Disegno e prospettiva”. Nel “Codice Atlantico” Leonardo scrive che “tutti i casi di prospettiva sono intesi mediante i cinque termini de’ matematici, cioè punto, linia, angolo, superficie e corpo”. Era un tema molto sentito nel Rinascimento, alla base anche dell’arte pittorica. Leonardo non solo utilizza la prospettiva geometrica nella superficie piana, ma la applica ai solidi con la stereometria. Così ha illustrato nel 1498 il “De Divina Proportione” di Luca Pacioli, del quale era molto amico. Vediamo esposto il Trattato di ottica e geometriadi John Peckham, “Perspectiva Communis” che aveva nella sua biblioteca e tre testi dell’inizio del XVII sec. di Barozzi, Niceron e Accolti. Jean Francois Niceron fu il teorico dell’anamorfismo, che applicò a una serie di immagini appositamente deformate, come si è visto nella mostra a Palazzo Barberini nel 2018.
In uno schizzo Leonardo riproduce lo spettrografo, lo strumento per riportare gli oggetti nella giusta prospettiva, mentre un artista lo sta adoperando, disegno esposto in mostra insieme a uno studio di ruota dentata; e a disegni di spettrografidi Durer, Keser, Vignola; non manca un modellino in legno di prospettografo a vetro di Durer, con uno strumento musicale. Sono esposte le pagine del libro di Albrecht Durerdove è spiegato l’uso dello “spettrografo a vetro e a sportello” con relativi disegni. Poi i fogli del “Divina Proportione” di Luca Pacioli con disegnati dei solidi, e un modello ligneo del 1976 di Icosaedro elevato vacuo.
Dal disegno prospettico in generale alle “Città ideali e vie d’acqua” nella 4^ sezione, ci si riferisce a Milano alla cui planimetria e non solo Leonardo si dedicò sin dal suo arrivo in città nel 1482. Si disponeva di piante quattrocentesche, alcune esposte in mostra: in particolare quella del 1472 di Pietro del Massaio, nella “Cosmografia di Tolomeo”, una struttura urbana in forma circolare con i corsi d’acqua; quella di Cristoforo de’ Predis, nel “Leggendario Sforza-Savoia”, con la Piazza del Duomo di allora.
Leonardo interviene con la proposta di una struttura urbana alternativa, ortogonale su due livelli, ispirata alle visioni dell’epoca di “città ideale”, è esposto un Plastico urbanistico di città ideale realizzato nel 1956 in base ai progetti di Leonardo: si vedono due edifici con delle arcate, nella sua visione c’è anche un sistema viario che si avvale delle sue conoscenze idrauliche.
Ma non si limita alla struttura urbana, si impegna in progetti di miglioramento del sistema di conche, esposti in mostra, fino alle Chiuse a porte battenti, di cui è esposto un modellino ligneo del 1956 insieme al disegno di Leonardo che riproduce fedelmente; c’è anche un Modello di pavimentazione di conche di canali del 1956; non solo, vediamo dei Portelli lignei, non modelli ma esemplari veri in legno e metallo, grandi paratie in uso dal ‘500 all’800, un “Mose” ante litteram, però funzionante, per riferirci a un sistema attuale di controllo delle acque molto contestato
Un quadro dell’800 di Cornienti in cui “Leonardo mostra a Ludovico il Moro le chiuse dei Navigli” illustra in modo pittoresco questo intervento nei canali milanesi. Le sue parole, molto pratiche: ”Trova un maestro d’acqua e fatti dire i ripari d’essa e quello che costa”. Altro modello esposto, un Battipalo, del 1953, con il sistema di percussione per conficcare i pali nel terreno.
Si entra ancora di più nel vivo dei lavori pratici di Leonardo nella 5^ sezione, intitolata appunto “L’ingegno del fare”. Comincia con il disegnare macchine tipiche delle botteghe artigianali di allora per poi approfondire l’analisi delle componenti meccaniche, fino a sistemi automatici innovativi che dal lavoro manuale fanno passare alla meccanizzazione dei processi produttivi: le principali componenti sono ruota dentata e pignone accoppiati, l’abbinamento tra biella e manovella, la novità rivoluzionaria è la vite senza fine. Vediamo esposti due modelli molto diversi di Sega idraulica,realizzati tra il 1953 e il 1956.
Da queste componenti meccaniche a complessi sistemi di “macchine produttive” il passo è breve, per il genio leonardesco. Lo vediamo dai due modelli di macchine per la metallurgia esposti, entrambi del 1953, la Macchina per intagliare e la Macchina per filettare le viti; e per il tessile il bellissimo disegno e relativo modello conforme del Filatoio con fuso ad alette mobili realizzato nel 1933. Nello stesso anno i modelli del Torcitoio per corde e della Garzatrice orizzontale nei quali vi sono i filati e le garze della lavorazione, sembra di entrare nelle botteghe di fine ‘400. La cosa straordinaria è che disegna queste componenti meccaniche e queste macchine negli stessi anni, 1495-97, in cui dipinge il “Cenacolo”.
Completano il corredo iconografico della sezione splendide pagine miniate del manoscritto membranaceo “Libre d’ore all’uso cistercense”, e i calchi del Capitello delle Arti meccaniche di Palazzo Ducale, a Venezia, con 6 formelle sui mestieri di fabbro e falegname, agricoltore misuratore o vagliatore di cereali e legumi.
Le
ultime 5 sezioni, dalle “macchine teatrali”
al mito di Leonardo
Ma le macchine di Leonardo non erano soltanto una rivisitazione meccanica con congegni più avanzati di sistemi esistenti, abbiamo anche le macchine a fine ludico, ideate e realizzate per le celebrazioni e le feste, sbizzarrendo tutta la sua creatività in invenzioni fantasiose.
A queste è dedicata la 6^ sezione,“Teatri di macchine”, la sede è la corte degli Sforza, dove per il matrimonio di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona realizzò una grande macchina scenica che evocava il Paradiso con una volta stellata in cui ruotavano i pianeti. Non sono pervenuti disegni, ma Bernardo Bellincioni nelle sue “Rime” la descrisse così: “Et chiamasi Paradiso però che v’era fabbricato con grande ingegno ed arte di Maestro Leonardo Vinci fiorentino il Paradiso con tutti li setti pianeti che girava”.
Nel ‘500 l’impiego di queste macchine teatrali si estese, con ampio uso di accorgimenti tecnici: la mostra presenta pagine dei “Theatri Machinarum”, tomi con incisioni di Agricola – dal “De Re Metallica” una pompa a catena azionata da ruota calcatoria – e Ramelli – da “Le diverse et artificiose machine del Capitano Augusto Ramelli”, un elevatore d’acqua a corde multiple.
Il “Fregio per il trionfo dell’imperatore Massimiliano I”, di Burgkmair tra il ‘400 e il ‘500 mostra i disegni di 6 carri trionfali di diverse guerre, tra cui quella veneziana e quella austriaca, sono molto elaborati e spettacolari. In base a questi disegni è stato realizzato nel 1954 un modello di Carro meccanico trionfale esposto in mostra, si notano ruote dentate a ingranaggi.
Ci sono anche due modelli di Carro automotore realizzati negli anni ’50 sui disegni di Valturio, fine ‘400, e Fontana, primi tre decenni del ‘400, sono tratti da libri sull’arte militare. E Leonardo? Finora abbiamo assistito alla sfilata di altri “progettisti meccanici” dell’epoca, che conferma la vivace temperie innovativa e inventiva in cui si colloca Leonardo. Ma anche lui disegna un Carro automotore che vediamo fedelmente riprodotto in un modello degli anni ’50, come gli altri due.
Solo carri meccanici per i trionfi militari? No di certo, di Cremosano, fine ‘600, un manoscritto cartaceo celebrativo con armigeri a piedi e a cavallo nella tradizione romana, mentre le nuove macchine da parata fanno leva sull’introduzione dei più avanzati congegni meccanici, come si è appena visto.
Non ci dovrebbero essere modelli nella 7^ sezione, tratttandosi della “Biblioteca di Leonardo”, lui la cita sostanzialmente quando scrive “ricordo de’ libri ch’io lascio nel cassone”, abbiamo già detto che erano circa 150, un numero elevato per un non letterato di quei tempi; soltanto di uno di essi, con le sue annotazioni, siamo sicuri che gli appartenesse, è il “Manoscritto Laurenziano” esposto in mostra. Invece c’è un modello del 1932-33, ad opera dei Laboratori del CNR, del Teatro Anatomico realizzato a Padova da Girolamo Fabrizio d’Acquapendente, nel 1595, di visione panottica, il primo Teatro anatomico stabile di Padova è del 1584, dopo Leonardo, le sue idee in campo ottico avevano fatto presa.
Ricordiamo ancora che nonostante la sua propensione per l’osservazione diretta dei fenomeni e il disdegno della mentalità libresca – nell’autodefinizione di “omo sanza lettere” c’era anche questo – cercava d acquisire il sapere fino ad allora conosciuto leggendo i trattati disponibili tradotti in volgare, dato che non conosceva il latino e il greco. Cercò anche si imparare il latino in cui si erano espressi i grandi classici, frequentò addirittura una scuola di latino e matematica, tale era la sua sete di conoscenza.
Una conoscenza interdisciplinare, non limitata a scienza e tecnica, neppure solo all’arte, lesse la Divina Commedia e le traduzioni di Ovidio e Plinio. Lo aiutò l’amico Luca Pacioli, che abbiamo già citato, il qule nel 1494 pubblicò “Summa de Arithmetica”, ovviamente conosciuto da Leonardo.
Come presenta tutto questo la mostra? Ha cercato di immaginare quali libri potesse contenere, o meglio di ricostruirlo anche sulla scia delle indicazioni del “Codice Atlantico” e di altri manoscritti leonardeschi. Nella mostra del 2018 “La biblioteca del Principe”, si trattava del Torlonia della Casina delle Civette, invece fu vera finzione, allora furono presentati i “libri d’artista” , creazioni fantasiose di libri di materiali disparati in carattere con il personaggio e il suo ambiente.
Qui nulla di così estroso, vengono presentate, seguendo le citazioni o altri indizi, le pagine di famosi trattati , con austeri disegni e anche vivaci miniature a colori. Introduce uno scritto di Girolamo D’Adda, “Leonardo da Vinci e la sua libreria: note di un bibliofilo”, del 1873, edizione privata di poche copie, si parla dei libri del “Codice Atlantico”.
Ci sono la “Naturalis Historia” di Plinio il vecchio e “Aristotelis stagirita opera” di Aristotele, il “Liber Elementorum” di Euclide e la “Geografia di Caudio Tolomeo Alessandrino” di Tolomeo, “Ex ludis rerum mathematicarum”di Leon Battista Alberti e “Libri quinque de mensuris et ponderibus” di GeorgAgricola, naturalmente “Summa d”arithmetica, geometria, proporzioni et ptoportionalità”dell’amico Luca Pacioli, due libri sulla “Sphaera” di De Predis, manoscritto a colori, e De Sacrobosco, fino al “Mappamondo o planisfero tolemaico allargato” di Rosselli.
Colpisce in modo particolare il “Libro tertio delo anmansore chimato cibaldone”, l’autore ha il nome abbreviato in Rhasis o Rhases, 864-923 o 932, un trattato di medicina arabo citato nel “Codice Atlantico”, di cui è esposta una pagina con una figura umana in piedi e nel corpo presenze che ricordano gli “Archeologi “ di Giorgio de Chirico, questo è del 1500 circa.
Srprende altrettanto di trovare qui il libro di “Favole” di Esopo, nella versione in volgare del 1485, è citato nel “Codice Atlantico” , ma si spiega con il fatto che si è ispirato alle favole in diversi momenti, in particolare alla favola della scimmia: vediamo il libro aperto alla favola “De lupo et grue”, con relativa immagine, forse un’allusione spiritosa degli organizzatori alla “gru” – ma quella meccanica – di Brunelleschi nel suo esordio fiorentino.
Abbiamo visto le destinazioni delle macchine di Leonardo ad impieghi produttivi, come quelle per la metallurgia e il tessile, nonché a finalità ludiche, come quelle teatrali per cerimonie, feste e celebrazioni; e i congegni meccanici per trasmettere il moto e renderle automatiche. Ma quello che usava come biglietto da visita nei primi contatti con le Corti e i potenti era la sua maestria nelle macchine riguardanti “L’arte della guerra”.
Così si intitola l’8^ sezione, cui attiene la sua lettera al duca Ludovico Maria Sforza, poco dopo l’arrivo a Milano nel 1482, sebbene sia ancora poco esperto di arte militare “Ho modi di ponti leggerissimi e forti” per inseguire i nemici o fuggire, “et altri securi et inoffensivi da foco e battaglia”, facili da montare e smontare, “ho anchora modi de bombarde comodissime et facile ad portare” per scagliare una tempesta di sassi sul nemico.
Ma con il tempo si specializzò muovendosi in due direzioni: studiando il testo “De Re Militari” di Valturio, tradotto in volgare da Ramusio nel 1483, che riportava anche le concezioni di Archimede, Frontino e Vegesio; studiando le fortificazioni a Milano e in Romagna e rappresentandole con prospettive, sezioni e altre vedute particolarmente efficaci.
Le macchine che progetta sembrano sudiate soprattutto per fare colpo sui potenti, Ludovico il Moro in testa, cerca più l’effetto spettacolare con un grafica curata e fantasiosa che l’efficacia bellica, spesso tali macchine non sono realizzabili.
Vediamo esposti disegni di macchine nelle pagine del testo di Valturio nel volgare di Ramusio, di Vegezio, di Antonio da Sangallo il giovane, disegno di un bastione, e ovviamente di Leonardo: precisamente “Studio di due mortai che lanciano proiettili esplosivi” e “Balestra gigante”.
Altri modelli traducono i disegni di macchine di Leonardo: Agano per sollevare le artiglieriee Affusto di cannone a code divaricabili, Mitragliera a organo e Balestra gigante, Balista e Carro ricoperto da guerra, tutti realizzati nel 1953 da Giovenale Argan.
Nello stesso anno Raffaele Menichetti ha realizzato i modelli esposti di Ponte mobile d’assedio, Rocca di montagna, Difesa angolare con fiancheggiamento. Ci sono anche modelli del Museo del Genio Militare che mostrano un Ponte sul Reno di Giulio Cesare e l’Assedio di Alesia.
Di grande effetto questa galleria di modelli che riporta ai tempi di Leonardo, forse anche allora come si è verificato nei tempi moderni, l’arte della guerra stimolava la forza innovativa i cui benefici si trasmettono anche alla vita civile, si è visto per gli usi pacifici dell’energia atomica.
Con la 9^ sezione ci si eleva più in alto, non solo perché si lascia la guerra, ma perché vengono presentate le “Macchine per il volo”. Leonardo annetteva grande valore ai risultati che si proponeva di ottenere con i suoi studi sul volo umano e ci contava, tanto che scrive: “Piglierà il primo volo il grande uccello… empiendo l’universo di stupore”, e in particolare “empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco ove nacque”: fama universale per lui e per la sua terra. Del resto, il mito di Icaro, che conosceva avendo letto Ovidio, esprimeva il sogno eterno dell’uomo.
Per un trentennio si impegnò con questo obiettivo, nel periodo trascorso a Milano dal 1482 al 1999 approfondì soprattutto la parte meccanica, mirava al “volo strumentale”; nel primo decennio del’500 si concentra sul trasferimento all’uomo delle osservazioni sul volo degli uccelli con le ali aperte senza batterle; fino al volo favorito dalle correnti ascensionali.
Come nell’anatomia, così nel volo lo studio della natura fornisce elementi preziosi, mentre per i congegni delle ali utilizza i ritrovati più avanzati dell’ingegneria meccanica, dalle ruote dentate alla vite senza fine. Arriva a progettare anche un aliante con le ali mobili, del quale è esposto un suo disegno annotato e un Modello di aliante di Alberto Maria Soldatini del 1953, anno in cui lo stesso Soldatini ha realizzato altri 5 modelli per il volo: Ala battente e Ala ad inclinazione variabile, Vite aerea e Meccanismo per il volo a vite e madrevite, fino a un Paracadute. Leonardo, nel disegnarlo con una figura umana appesa, scrive che “potrà gettarsi d’ogni grande altezza senza danno di sé”.
Il passaggio dal volo al “Mito di Leonardo”, della 10^ e ultima sezione, è naturale, abbiamo iniziato il nostro commento alla mostra con questo tema, e lo ritroviamo in chiusura anche perché è cruciale. Non ripetiamo quanto già detto sul fatto che il mito è coevo a lui, tanto da far dire a Vasari “il nome e la fama sua non si spegneranno già mai”; in epoca moderna l’accurata ricognizione di Venturi sui manoscritti razziati da Napoleone ha posto in evidenza la genialità in campo scientifico e tecnico, che si aggiunse al riconosciuto talento artistico dopo il “Trattato della pittura” e il “Cenacolo”.
Poi, nell’’800, con la pubblicazione dei suoi manoscritti la fama dilaga. Fino all’esaltazione del primato del “genio italico” identificato nella sua figura con la “Mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane”. del 1939. Esposizione definita “retorica”, ma del resto non poteva fare eccezione alla mistica di regime che permeava il fascismo come, dal lato opposto, il comunismo, e abbiamo citato i “Realismi socialisti” con le loro espressioni nell’arte.
L’ampia iconografia di questa sezione comprende edizioni dei Codici di Leonardo – dell’Institut de Frnce, di Leicester e il Codice degli uccelli – e le maggiori opere citate: dalle “Vite”di Vasari all’ “Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci” di Venturi, agli scritti di Giuseppe Bossi sul “Cenacolo” e sulla “simmetria dei corpi umani” E un dipinto con la testa di “Cristo” ripresa dal Cenacolo di Leonardo da Luigi Ferrari nel 1896. Soprattutto una ricca documentazione visiva sulla mostra del 1939 foto delle sale e articoli di giornale, medaglie e biglietti di ingresso, fino alla “tessera di libero accesso” firmata da Badoglio quando era nella gerarchia fascista. Fino al manifesto di Giorgio Muggiani con l’appello agli “industriali e “inventori” a partecipare alla mostra, la fiaccola tricolore protesa verso l’alto.
Può essere una bella chiusura anche oggi, nella celebrazione di 500 anni dalla morte, unita alla locandina attuale, con la sua testa di profilo che reca l’aureola della scienza. Dalla fiaccola tricolore all’aureola, dopo 80 anni non è una deminutio, tutt’altro. Se l’obiettivo del curatore è stato “sfatate un mito”, con quell’aureola di fatto lo ha sublimato. E giustamente!
Info
Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel. 06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo: “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza”, a cura di Claudio Giorgione, Editore “arte,m L’ERMA”, marzo 2019, pp. 256, formato 24 x 29,50; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno u.s. Cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com: nel 2018, su Niceron, “Anamorfosi, la magia delle immagini “‘ricostruite’ a Palazzo Barberini” 18 aprile; nel 2017, per il recupero delle opere requisite da Napoleone, sul “Museo Universale” 9 gennaio, 21 febbraio, 5 marzo; nel 2012, su “Deineka” 26 novembre, 1° e 16 dicembre; in cultura.inabruzzo.it: nel 2012, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto”6 febbraio; nel 2011, “Il ‘Musico’ di Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio, i “Realismi socialisti” 3 articoli tutti il 31 dicembre; nel 2010, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio; nel 2009, “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia” 6 luglio, ”’Leonardo e l’infinito’, “trenta macchine funzionanti” 30 settembre (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia la direzione di Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Cristoforo de Paoli, “De Sphaera”, Luna, 1460; seguono, modello di Carro automotore da G. Fontana e modello di Carro automotore da R. Valturio anni ’50 (G. Canestrini); poi, Georg Agricola, “De Re Metallica“, Pompa a catena azionata da ruota calcatoria 1556, e modello di Carro automotore da Leonardo 1956 (G. Canestrini); quindi, Carro meccanico trionfale dal disegno di Hans Burkmair 1954 (G. Canestrini), e Hans Burgkmair, “Fregio per il trionfo dell’imperatore Massimiliano I, Carri trionfali 1516-19; inoltre, modello in scala del Teatro anatomico di Girolamo Fabriano d’Acquapendente 1932-33 (laboratori CNR), e modello di Guerra di Giulio Cesare nelle Gallie, assedio di Avaricum 1932-33 (Museo Genio Militare); ancora, Luca Pacioli, “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità” 1494, e modello di Ponte di circostanza su cavalletti da Leonardo 1953 (M. Lombardi) con modello di Ponte sul Reno di Giulio Cesare 1932-33 (Museo Genio Militare); continua, modello di Rocca di montagna da Leonardo 1953 (E. Menichetti), e Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura di Lionardo da Vinci… con la vita dell’istesso autore scritta da Rafaelle du Fresne” 1651; prosegue, modello di Balista e modello di Argano per sollevare artiglierie entrambi da Leonardo 1953 (Giovenale Argan); poi, Mariano di Iacopo (detto il Taccola), “De machinis“ XV sec., e modello di Affusto di cannone a code divaricabili con modello di Mitragliera a organo entrambi da Leonardo 1953 (Giovenale Argan); quindi, modello di Carro coperto da guerra da Leonardo, 1953 (Giovenale Argan) e Johannes de Ketham, “Fasciculus Medicinae. Similitudo complexionum & elementorum” 1491; inoltre, modello di Vite aerea e modello di Ala battente entrambi da Leonardo,1953 (A. M. Soldatini); infine, “Leggendario Sforza Savoia” manoscritto 1475, in chiusura, Giorgio Muggiani, “Mostra di Leonardo e delle Invenzioni Italiane” 1939, manifesto pubblicitario, e “Leonardo. La scienza sopra la scienza” 2019, locandina mostra.
Nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica, questa volta a Palazzo Corsini, la mostra “Robert Mapplethorpe. L’obiettivo sensibile”, dal 15 marzo al 30 giugno 2019 espone 45 opere fotografiche in parte ispirate all’antico, veri e propri studi di statuaria classica e nature morte, paesaggi e composizioni anche trasgressive. La mostra è stata prorogata al 6 ottobre 2019 per il grande successo di pubblico che ha fatto raddoppiare le visite a Palazzo Corsini.
Il passato accostato al presente, come nel 2017 il Sipario di “Parade” di Picasso e nel 2018 “Eco e Narciso” a Palazzo Barberini; nel 2019 il passato sono le opere della Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini, il presente l’arte fotografica di Mapplethorpe. Curatrice della mostra – realizzata in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation di New York – la direttrice delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica Flaminia Gennari Sartori. Sono stati organizzati appositi incontri per approfondire l’arte fotografica, anche trasgressiva, insolita per una Galleria Nazionale d’Arte Antica, del grande fotografo nel 30° anniversario della morte, che vede anche una mostra a Napoli e una al Guggenheim di New York.
Le ragioni di una mostra insolita
Un’altra sorpresa da parte della direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, di segno ancora diverso dalle precedenti. Lo spirito innovativo non manca alla direttrice Flaminia Gennari Sartori , lo aveva espresso finora attraverso mostre con pochi dipinti concentrati su temi ristretti approfonditi con un apposito lavoro di ricerca, come “Mattia e Gregorio Preti” e “La stanza di Mantegna”, “Venezia scarlatta”, “Il pittore e il gran Signore” e “Mediterraneo in chiaroscuro”; mentre con “Eco e Narciso” ha celebrato il recupero delle sale sottratte per decenni alla sede espositiva inserendovi temporaneamente opere di arte contemporanea.
Ora fa entrare nel tempio dell’Arte Antica la fotografia, e che fotografia! Quella trasgressiva di Robert Mapplethorpe che negli anni ’80 ha addirittura scandalizzato con le pose estreme, anche di sesso esibito. Aver curato la mostra accompagnandola con un ampio saggio esplicativo indica che il suo impegno è stato personale e diretto, espresso anche nella sua conversazione del 15 maggio su Mapplethorpe come curatrice, con Jonathan K. Nelson, docente alla Syracuse University di Firenze e Andrea Villani , direttore del Museo Madre di Napoli.
Ma come si possono inserire fotografie moderne nella Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini? E qui c’è l’idea portante dell’esposizione: non angoli riservati per le fotografie, che salvo un’enclave finale sono collocate, diremmo incastonate, tra le opere antiche, soprattutto dipinti ma anche sculture, accostandole a quelle con cui è possibile istituire delle assonanze e dei rimandi. Non è la prima volta che questo avviene, ma finora si era trattato di riferimenti sporadici, soprattutto per le sue fotografie scultoree accostate a Michelangelo e Rodin; ora invece sono collocate nella Quadreria settecentesca con il loro bianco e nero che si trova a dialogare con il colore delle pitture.
La Gennari Sartori ricorda che le quadrerie settecentesche erano ispirate a criteri di “simmetria, euritmia e varietà compositiva che stimolavano il visitatore ad individuare assonanze e differenze tra le opere, addestrandone lo sguardo”. Anche Mapplethorpe si è ispirato a questi criteri, e l’inserimento delle sue opere, definite “magneti in bianco e nero nel tessuto colorato di quadri che ricopre le pareti”, é considerato un ulteriore stimolo al visitatore per questa ricerca.
Mapplethorpe
e la sua arte fotografica
Ma chi è Robert Mapplethorpe, e perché’ il suo viene definito “obiettivo sensibile”? Oltre che grande fotografo era appassionato collezionista, non solo di fotografie storiche, anche di ceramiche scandinave e vetri italiani, stampe e mobilio artes and craft, se ne può avere un’idea dal servizio fotografico in cui ritrae le pareti del proprio studio con molti pezzi della sua collezione, i cui spazi e le cui sistemazioni “compongono una specie di autoritratto ideale”. Lo fece nel 1988, pochi mesi prima di morire, un’immagine di quotidianità che ne delinea l’’“orizzonte estetico ed intellettuale”.
Eccentrico fin da quando descrive il quartiere del suburbio newyorkese in cui nacque nel 1946, “un buon posto in cui nascere perchè era molto sicuro, allo stesso tempo era un buon posto da cui andarsene”. Inizia il suo percorso artistico ispirandosi a Duchamp, con collages, dal 1970 vi inserisce fotografie da una “polaroid” acquistata in quell’anno, ma presto le rende autonome, nel 1973 la prima personale fotografica alla Light Gallery di New York.
In questo stesso anno comincia ad interessarsi al collezionismo di foto storiche, dopo aver visto la raccolta del Metropolitan Museum e soprattutto una mostra di fotografi pittoralisti, tra cui Stieglitz; lo abbraccia definitivamente allorché in soli due anni il compagno Sam Wagstaff diviene uno dei maggiori collezionisti al mondo di fotografie: soprattutto ritratti, figure e paesaggi, sempre studi.
Nel 1970 in un viaggio in Europa aveva fotografato la statuaria classica, Michelangelo in particolare, ha la vocazione dello scultore e trova nella fotografia il mezzo più rapido per realizzare “sculture”, non solo i gruppi di nudi che ritrae, ma anche fiori e nature morte.
Il regalo di una macchina fotografica Hassemblad da parte di Wagstaff nel 1975 contribuisce a fargli abbracciare la fotografia, iniziando con ritratti nel giro di conoscenti e di celebrità, realizza copertine di album ritratti e servizi per “Interview Magazine”, poi questa diviene la sua esclusiva forma di espressione artistica con i criteri classici cui si è appena accennato: composizioni realizzate soprattutto in studio curando tutti i dettagli nell’organizzare i soggetti, con la luce che delinea i margini e i contorni, come avviene nella celebre “Canestra di frutta” di Caravaggio segnalata a lui sempre da Wagstaff proprio per questo aspetto.
Un altro artista americano, Lachapelle, concepisce la fotografia quale composizione preordinata di cui preparare le componenti come in un teatro di posa, ma è molto diverso da Mapplethorpe: non solo perché punta sul colore e non sul bianco e nero, ma per forma e contenuti lontani dalla classicità; piuttosto qualche assonanza si può trovare con Helmut Newton, per i nudi, e forse con qualche bianco e nero di fotografi di moda, come Lagerfeld, fino a De Antonis in alcune immagini di studio prima di passare all’astrazione fotografica, l’opposto della pulita figurazione di Mapplethorpe.
Nessun riferimento invece ai grandi fotografi proiettati sulle istantanee come i grandi reporter, da Cartier Bresson a Mc Curry, o ricercatori dell’esotico e remoto, come Nomachi e Salgado.
Mapplethorpe ci presenta soggetti scelti e organizzati con una acuta sensibilità personale che poi si trasferisce all’“obiettivo sensibile”, così definita dalla Gennari Sartori: “L’incanto del decadimento e della morte e il tema della vanitas, o l’allegoria della caducità della vita, scorrono nel suo lavoro accanto alla tensione verso una simmetria a un tempo classica e contemporanea”. Il pensiero va alla premonizione della fine a soli 43 anni per Aids, due anni dopo la morte del compagno-mecenate Wagstaff, espressa nell’autoritratto, il viso e la mano che sbucano dal buio.
A parte questo motivo che nasce dalla sua sensibilità colpisce l’andare controcorrente rispetto alle avanguardie senza risultare retrogrado, suscitò più scandalo con le sue composizioni “ordinate” che tanti innovatori con le loro stravaganze.
In un’intervista del 1988, a un anno dalla morte, così definì le proprie trasgressioni: “Non mi piace la parola ‘scioccante’. Sono alla ricerca dell’inaspettato, di cose che non ho mai visto, ero in grado di fare quelle foto, sentivo l’obbligo di farle”. Inaspettato anche il suo interesse per la campionessa mondiale di bodybuilding Lisa Lyon, oltre a farle centinaia di fotografie – alcune esposte in questa mostra – le dedicò un film e il libro “Lady, Lisa Lyon”.
La sua arte fotografica spazia dai nudi maschili e femminili alle nature morte, ai fiori e ai ritratti in una classicità che convive con la trasgressione, impiegando diverse tecniche, comprese Polaroid e fotoincisioni, stampe platino su carta e lino, fino al “clye transfer color prints”. Realizza fotografie anche per un poema di Rimbaud e per un libro su 50 artisti di New York.
Nel 1988 la prima retrospettiva al Whitney Museum of American Art, da due anni gli era stato diagnosticato l’Aids, ma non aveva rallentato la sua attività, tutt’altro. L’anno successivo, alla sua scomparsa, John Didion lo celebrò con queste parole: “L’origine della sua potenza derivava non tanto dallo shock del nuovo ma dallo shock dell’antico, con la rischiosa imposizione dell’ordine sul caos, del classico su immagini impensabili. Alla fine l’oggetto del suo lavoro era quella stessa simmetria con cui disponeva ogni cosa”.
Anche la Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini risponde a un concetto di simmetria sia pure ben diverso da quello di Mapplethorpe che organizzò la parete del suo studio – il ritratto “autobiografico” del collezionista – come una quadreria con i quadri fino al soffitto. Non conosceva le opere della collezione di Palazzo Corsini; ciononostante la classicità dell’artista, con la sua memoria dell’arte e della pittura del passato, ha portato di per sé espressioni fotografiche che trovano assonanze con quelle pittoriche della Quadreria settecentesca.
Ed è proprio su queste assonanze che è stata costruita la mostra, disseminando i bianco-.neri di Mapplethorpe tra i cromatismi dei dipinti alle pareti sulla base di parallelismi spesso sorprendenti che hanno come denominatore comune il classicismo nella forma e nel contenuto.
Le sue opere fotografiche sono presenti in molte gallerie negli Stati Uniti, Sudamerica ed Europa, e nei principali musei del mondo, mentre la Robert Mapplethorpe Foundation è impegnata nella missione che lui stesso le assegnò, fondandola nel 1988: promozione della fotografia, sostegno ai musei che espongono fotografie artistiche, finanziamento della ricerca medica per sconfiggere l’Aids e l’Hiv. Così la sua parabola di arte e di vita si è nobilitata.
Dall’Anticamera
alla Camera del Trono
La visita alla mostra diventa una sorta di “caccia al tesoro”, stanza dopo stanza, per individuare le piccole fotografie di Mapplethorpe collocate per lo più singolarmente nel panorama pittorico delle varie pareti; ma è un tesoro tra tesori, perché nella ricerca si passa in rassegna l’intera collezione.
Si inizia dall’ Anticamera, “Winter Landscape”, 1979, rappresenta in una rara inquadratura lo scorcio di un grande albero spoglio, con una sagoma scura alla base, una persona seduta, e un grigiore tutt’intorno, tristezza e desolazione; Vicino vediamo il “Paesaggio conRinaldo e Armida” di Gaspard Dughet, con il verde cupo degli alberi dalle chiome folte e fronzute, anche qui c’è solitudine, ma l’opposto della desolazione, vediamo l’esuberanza della natura.
Nella Prima Galleria “Ken and Lydia and Tyler”, 1985, richiamano con assoluta evidenza le “Tre Grazie”, ma qui solo la figura centrale è femminile, in posizione frontale, ai lati due figure maschili di profilo, un bianco e un “colored” che con le mani le fanno da foglia di fico, c’è un che di provocatorio in questi nudi che rompe la classicità nella posa e nell’ispirazione.
Classiche e statuarie le 4 inquadrature di “Ajitto”, 1981, due di prospetto, due di profilo, anche qui un “colored” rannicchiato su uno sgabello, raccolto con le braccia intorno alle ginocchia. L’accostamento ai bronzetti della Collezione di Palazzo Corsini è evidente, anzi fa sì che non passino inosservati come di solito avviene a fronte della più appariscente esposizione pittorica.
Ma l’attrazione magnetica è data dal “Self Portrait”, 1988, un autoritratto fotografico in cui si riprende con l’autoscatto mentre il suo volto diafano sembra emergere dal buio che si confonde con la casacca nera, mentre la mano, altrettanto diafana, si protende stringendo un bastone dal pomo a forma di teschio.
La foto è stata scattata pochi mesi prima della morte, gli occhi penetranti sembrano sfidare l’al di là che ormai si avvicina, forse nella Fondazione che ha creato vede la prosecuzione virtuale della sua vita artistica, per cui può guardare lontano senza abbassare gli occhi, non si sente sconfitto, tutt’altro, del resto ha lavorato fino all’ultimo: è un’immagine impressionante nella sua drammaticità autobiografica.
Dello stesso 1988 “Italian Devil”, un ritratto demoniaco che evoca, oltre alla sua passione per il collezionismo di busti oltre che stampe e foto storiche, la sua attrazione per angeli e demoni testimoniata dalla personale “quadreria” nelle pareti del suo studio.
L’accostamento tra foto di Mapplethorpe e dipinti della Quadreria è molto evidente nella Galleria del Cardinale, in particolare tra “Puerto Rico, Woman” 1981, il viso di una donna dai capelli bianchi che richiama il “Ritratto di vecchia” di un seguace di Jan Van Scorel: sono entrambi di piccole dimensioni, collocati ai lati opposti di un grande dipinto, il collegamento viene spontaneo.
Molto diversa “Lisa Lyon”, 1980, un corpo femminile che si intravede disteso tra due grandi rocce grigie, come sono molto diversi da questa immagine i due dipinti di Francesco Albani, “Giove invia Mercurio ad Apollo” e “Venere e amorini”, accomunati dall’abbandono alla natura, pur se con connotati quasi opposti. Come è opposto rispetto al lirismo mitologico il violento “Dominick and Elliott”, 1979, un uomo nudo appeso per i piedi con le braccia aperte come un crocifisso, mentre un uomo in piedi a torso nudo lo tiene in pugno, è la prima di una serie di foto trasgressive.
In forte contrasto, nella stanza successiva, la Camera del Camino (o Sala del Trono Corsini), 3 fotografie di grande compostezza: due figure femminili, “Samia”, 1978, e “Catherin Ollm”, 1982, una ragazza seduta con la veste bianca che spicca nell’ambiente oscuro e una giovane signora in piedi; e “una figura maschile, “Marcus Leatherdale”, 1978, un giovane in piedi a torso nudo con un animale, forse una lepre, sulla spalla, come dopo la cacciagione. Tutte con espressioni intense. Il rapporto con l’antico riguarda, per le due figure femminili i quadri di due grandi maestri, Guido Reni e il suo “ Salomè con latesta del Battista”, Pieter Paul Rubens con la “Testa di vecchio”; per il giovane i bronzetti di Adone e Diana Caccatrice di Antonio Montauti, con il comune riferimento alla caccia.
Dall’Alcova di
Maria Cristina alla Camera V erde
Siamo giunti così nella stanza denominata “Alcova di Cristina di Svezia”, la camera da letto della regina che abitò per trent’anni a Palazzo Corsini dopo aver abdicato nel 1654, passando dal luteranesimo al cattolicesimo e trasferendosi in Italia, nel palazzo dove riunì intorno a sé un cenacolo di intellettuali e artisti, fu un simbolo di coraggio e di anelito di libertà. La fotografia “Bernine”, 1978, il volto di profilo con un filo di perle nei capelli e un vago sorriso, ne evoca l’immagine, vicino ai ritratti di Lorenzo Lotto e dei maestri lombardi del Cinquecento.
Altri due accostamenti sono significativi. Vicino alla scritta con il motto della regina “Nacqui libera, vissi libera e morirò liberata” vediamo la fotografia “Lisa Lyon”,1981, con la culturista in piedi mentre gonfia i muscoli, nel torace ci sono delle cinghie, quasi ad esprimere la ribellione ad ogni legame e nello stesso senso la ricerca di un ideale di bellezza che superi la distinzione dei sessi, nella concezione di Mapplethorpe; del resto per la stessa Cristina, forse perché restò nubile, si parlava di ermafroditismo. Ma c’è un altro riferimento, oltre ai ritratti e la scritta simbolo di libertà, quello alla scelta del cattolicesimo, evocata dai tre ovali: la “Vergine Addolorata”, il “Cristo coronato di spine” e il “San Giovanni Evangelista”, tutti di Guido Reni, come di parte dei ritratti prima citati.
Dopo la trasgressione dell’uomo fotografato appeso nella Galleria del Cardinale abbiamo avuto immagini composte nella Galleria del Camino, così dopo la ben più moderata trasgressione della culturista, nel Gabinetto Verde abbiamo la compostezza di “Guy Neville”, 1975, e “Harry Lunn”, 1976: due figure maschili, più che busti, la prima con la tuba, la seconda senza cappello, entrambi in posizione di profilo con giacca e cravatta. La corrispondenza a questo punto è molto precisa, il primo è un simbolo di eleganza al pari del “Cardinal Neri Corsini senior” nel dipinto di Giovan Battista Gaulli del 1666, il secondo ha addirittura una certa somiglianza con il cardinale “Ferdinando de’ Medici”, ritratto da Alessandro Allori.
Passando dal Gabinetto Verde alla Camera Verde una doppia esposizione fotografica inconsueta, che segna due temi di Mapplethorne, Qui sono esposte le nature morte e le immagini di sculture umane Tra le prime, “Flowers Arrangement”, composizione floreale compatta, mentre “Flowers”, 1983, mostra un’immagine molto diversa, leggera e aerea con una sorta di aureola di rametti e fiori sottili, quasi impalpabili. “ Apple and Urn”, 1987, è una foto plastica, un vaso a coppa con 3 pomi, altri 3 sulla tovaglia e il tavolo. Fanno da “pendant” a queste diverse forme fotografiche le Nature morte di Christian Berentz, che esprime la pittura del ‘600 cui il nostro fotografo artista si sentiva particolarmente vicino.
Le sculture fotografiche rappresentano il profilo di un “colored”, “Black Bust”, affiancato a quello di “Apollo”, dello stesso1988, con una straordinanza somiglianza fisognomica e analoghe tonalità nei volti segnati dalla luce che spiccano sullo sfondo scuro con un rilievo veramente scultoreo.”Noblesse oblige”, troviamo in questa parte della Quadreria due dei maggiori artisti della Collezione, Caravaggio con “San Giovanni Battista” e Jusepe de Ribera con “Venere e Adone”.
La “Sala Rossa”
e la “Saletta” con le immagini più trasgressive
Nella Sala Rossa, dai “magneti” disseminati nella Quadreria si passa all’esposizione di tipo tradizionale di 17 fotografie di Mapplethorpe senza riferimenti alle opere della Collezione Corsini. Ma se l’allestimento della sala è tradizionale non lo è il contenuto, e lo vedremo presto.
Si inizia con alcune immagini ancora più insolite di quelle fin qui commentate: “Texas Gallery”, 1980 e “New Orleans Interior”, 1982, che sconfinano nell’astrazione, in “Orchid and Haad”, 1983, si vede una mano che si protende verso l’orchidea su fondo nero.
Poi si passa ad alcune foto improntate alla
classicità, come altre prima commentate: siamo al nudo femminile, ritroviamo la
culturista “Lina Lyon”, che abbiamo
già visto ripresa mentre mostrava i muscoli come per liberarsi delle cinghie
che le stringevano il busto; qui i 2
nudi del 1980 e 1982, non sono più totali ma parziali, ad evidenziare due parti
“sensibili” del corpo femminile dalla cintola in giù, posteriore e anteriore.
Il loro carattere scultoreo, da statue antiche è evidenziato ulteriormente in “Female Torso”, in cui due anni prima,
nel 1978, aveva fotografato un vero busto femminile classico, mutilo di testa,
braccia e gambe sotto il ginocchio.
E qui inizia la galleria che culmina nella trasgressione, vediamo “Lily”, 1986, e “Phillip”, 1979, due gambe con i piedi eretti sulle punte nella posa da ballo classico. Dai nudi femminili di Lina Lyon si passa a due nudi maschili, “Allstair Butler”, 1980, profilo laterale muscoloso di parte del corpo e “Dennis Speight”, posizione acrobatica che tramuta il corpo in un originale arco sormontato dal viso. La “Bronze Sculpture”, 1978, mostra un reperto statuario con la parte centrale del corpo maschile ben più mutila del “Female Torso”, e prepara l’immagine trasgressiva di un nudo maschile a figura intera, questa volta senza positure e riferimenti classici. Non è ripreso come in “Ajtto”, scultoreo e composto, bensì con esplicita esposizione del sesso, in “Marty Gibson”, 1982, mentre tira con l’arco davanti a uno sfondo di grattacieli.
Poi immagini floreali allusive, “Orchid”, 1985, e “Calla Lily”, 1988; mentre “Holly Salomon”, 1976, e “Carol Overby”, 1979, ci riportano a figure del tipo di quelle esposte nella “Camera del Camino”, anche se la prima è sdraiata a letto mentre fuma e non ha lo sfondo nero ma una carta da parati a fiori, la seconda tiene la mano a mo’ di visiera davanti agli occhi come per ripararli dal sole e guardare lontano.
“Milton White”, 1983, una figura maschile chinata vista da tergo, ci riporta alla trasgressione, che esplode nella Saletta, dove, quasi per renderne più riservata la vista – come avvenuto ad esempio per i fumetti erotici nella mostra “Mangasia” – sono riunite le tre fotografie più esplicite, che non possono definirsi pornografiche perché senza scene essuali, il contenuto è nei titoli, “Cock and knee”, 1978,“Peeing in Glass”, 1977, e “Cock and Devil”, 1982: in “Marty Gibson” il “cock” faceva parte dell’intero nudo maschile – perciò questa foto poteva essere messa nella “Saletta”- mentre nelle tre immagini ora citate è il soggetto esclusivo, protagonista assoluto. Comprendibile lo sconcerto e lo scandalo che suscitarono, tanto più che si tratta di quarant’anni fa. Con “Poppy”, 1988, e “Jack in the Pulpit” vediamo immagini allusive di tipo floreale.
Che dire, in conclusione? Il coraggio è contagioso, lo è stato quello di Mapplethorpe con le sue trasgressioni, lo è quello della Gennari Sartosri non solo nell’accoglierle nelle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, nello storico e austero Palazzo Corsini, ma nel curare lei stessa la mostra e nel dedicarle gli approfondimenti citati all’inizio. Anzi, per l’inaugurazione ha curato anche l’ambientazione sonora scegliendo lei stessa, in collaborazione con Alberto Salini, i brani di Philip Glass, compositore e musicista statunitense amico di Mapplethorpe e come lui minimalista, la cui musica pur innovativa nella spinta verso l’astrazione, è legata al classicismo come la fotografia dell’amico.
In questo spirito la Gennari Sartori chiude il suo saggio introduttivo con le parole del compagno di Mapplethorpe, Sam Wagstaff, sull’amore per la fotografia: “La gioia assume molte forme nella fotografia: la gioia della tristezza, dell’oblio, della sfacciataggine, la gioia persino della morte”. Effettivamente ci sono tutte queste componenti della vita, in un “memento” difficile da dimenticare; e anche questo è uno dei meriti di una mostra così insolita e intrigante.
Info
Palazzo Corsini, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Via della Lungara, 10. Dal mercoledì al lunedì (martedì chiuso), ore 8,30-19, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12, ridotto euro 2 (giovani 18-26 anni), gratuito per scuole e insegnanti, studenti e docenti di architettura e lettere orientamento storico e artistico, Beni culturali, Accademie Belle Arti, Icom, con handicap accompagnati, guide e giornalisti. Biglietto valido 10 giorni in entrambe le sedi, Barberini e Corsini. www.barberinicorsini.org. Catalogo brochure: Galleria Corsini, “Robert Mapplethorpe, l’obiettivo sensibile”, Barberini Corsini Gallerie Nazionali, 2019, pp. 24, formato 16,5 x 23,5; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli in ww.arteculturaoggi.com: per le mostre tematiche a Palazzo Barberini, nel 2019 “Mattia e Gregorio Preti” 24 febbraio; nel 2018 “La stanza di Mantegna” 7 novembre, “Eco e Narciso” 25 e 30 settembre; nel 2017 “II pittore e il gran Signore’ e ”Mediterraneo’ in chiaroscuro” 22 marzo, “Venezia scarlatta” 15 marzo. Per i fotografi, nel 2017, “De Antonis” 19 e 29 dicembre; nel 2014 “Cartier Bresson” 24 dicembre, “Nomachi” 17 marzo; nel 2012 “Berengo Gardin e Giacomelli” , “Doisneau” 2 novembr. Altri riferimenti, nel 2017, “Picasso e il “Sipario” 25 dicembre, “Mangasia” 6 novembre; nel 2014 , “Duchamp” 16 gennaio. In “fotografia.guidaconsumatore.it”: per i fotografi, nel 2013, “”Salgado” agosto, “Newton” luglio; nel 2012, “Doisneau” e “Berengo Gardin” novembre; nel 2011, “Rodecenko” dicembre, “Lagerfeld” novembre, “McCurry” marzo (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, disponibili su richiesta).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Corsini alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Nelle didascalie vengono indicati soltanto i nomi delle sale e i titoli delle fotografie di Mapplethorpe, in bianco e nero, quelli delle opere della Quadreria del ‘700 che sono vicine quando le foto non sono riprese in primo piano, non sono indicati, per lo più vengono citati nel testo. In apertura, Prima Galleria, “Self portrait” 1988; seguono, Anticamera, “Winter Landscape” 1979, e Prima Galleria, “Ken and Lydia and Taylor”” 1985; poi, “Ajitto” 1981 di profilo e “ “Ajitto” 1981 di spalle e frontale, quindi, “Italian Devil” 1988, e Galleria del Cardinale, “Lisa Lyon” 1980; inoltre, “Lisa Lyon” 1980 primo piano, e “Puerto Rico, Woman” 1981; ancora, “Dominick and Elliot” 1979, e “Samia” 1978; continua, “Catherine Olim” 1982, e “Marcus Leatherdale” 1978; prosegue, Camera dell’Alcova, “Bernine” 1974, e “Lisa Lyon” 1981; poi, Gabinetto Verde, “Guy Neville” 1975, e “Harry Lunn” 1976; quindi, Camera Verde, “Flower Arrangement” 1984, e “Flowers” 1983; inoltre, “Apples and Urn” 1987, e “Apples and Urn” 1987; continua, “Black Bust” 1988, e “Phillip” 1979; di nuovo, Sala Rossa, “Allstair Butler” 1980, e “Holly Salomon” 1976; infine, “Calla Lily” 1988, e la “Saletta” ; in chiusura, “Mapplethorpe’s Apartment” 1988.
Nel 5° centenario della morte di Leonardo da Vinci alle Scuderie del Quirinale la mostra “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza” espone dal 13 marzo al 30 giugno 2019 oltre 200 opere in campo scientifico – modelli di macchine, manoscritti e disegni, volumi rari e stampe – in una interpretazione della sua figura che la inserisce nella trama di relazioni culturali nel campo dell’ingegneria e della tecnica della sua epoca. E’ organizzata dalle Scuderie del Quirinale insieme al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ‘Leonardo da Vinci’ e alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano ed è curata da Claudio Giorgione, curatore del Museo organizzatore. Nel periodo della mostra 5 incontri con il curatore e una serie di esperti, al Teatro Argentina il 23 marzo, alla Biblioteca Angelica il 10 aprile, a Villa Medici il 17 aprile, al Liceo Visconti il 14 maggio, all’Accademia San Luca il 23 maggio. E una serie di laboratori per le scuole e i visitatori, di ogni età. Catalogo “Arte,m L’Erma”.
Lo
confessiamo subito, ci ha sconcertato
l’affermazione iniziale del curatore Claudio
Giorgione – che cura il Museo nel quale sono esposte stabilmente le
macchine leonardesche – il quale ha
trovato arduo ”approfondirne l’attività di ingegnere e umanista”, cosa
comprensibile, ma “ancora di più, nell’obiettivo di smontare il mito di
Leonardo inventore e profeta del
futuro”.
Non ci è sembrato l’obiettivo più appropriato per la celebrazione del quinto centenario “smontare il mito di Leonardo” inventore, pur se ci si propone “di riconsiderarne invece la grandezza nello stretto dialogo con il contesto storico, le fonti, i contemporanei ma anche la sua eredità nella cultura tecnica del Rinascimento”. Come un lago, dunque, immissari che lo alimentano ed emissari che ne sono alimentati.
Il
mito di Leonardo, genio universale
La mitizzazione operata dal regime fascista nella mostra del 1939 come archetipo del genio italico soprattutto in periodo di “inique sanzioni” può indubbiamente suscitare dei legittimi dubbi. Che hanno trovato espressione nelle due mostre, espressamente ricordate, curate da Paolo Galluzzi: in quella del 1991 venivano presentati gli ingegneri e le fonti precedenti e contemporanee con cui Leonardo era in rapporto; nella mostra del 1996 c’era il raffronto tra la sua opera e quella di altri dell’epoca.
Naturalmente le ricerche condotte negli ultimi decenni consentono di mettere a fuoco in modo molto più preciso e appropriato l’entità del suo apporto al progresso della tecnica nei campi da lui così intensamente esplorati, e i risultati non vanno sottovalutati. E’ tuttavia evidente che, se alcune enfatizzazioni della portata rivoluzionaria delle sue invenzioni in campo meccanico e tecnologico possone essere ridimensionate, la sua figura resta intatta nella sua straordinaria “unicità” se la si considera a tutto campo.
La sua grandezza va ben al di là delle macchine ideate o semplicemente rappresentate, come vengono definite spesso in modo troppo riduttivo; i suoi studi sul corpo umano, nell’anatomia e funzionalità, raffrontate alle macchine, c sui fenomeni naturali come il volo degli uccelli a sua volta ispiratore del volo umano, i suoi studi sull’architettura e sulla pittura, tradotto in progetti da un lato e in capolavori pittorici dall’altro compongono un insieme che più unico non potrebbe essere; come lo sono il “Cenacolo” e il “Musico”, la “Dama con l’ermellino” e la “Gioconda”.
Perché dire, allora che non è stato un “genio isolato”, quindi non unico, in quanto inserito nella “temperie culturale di un’epoca in cui arte e tecnica, filosofia e architettura si compenetravano l’una con l’altra”? Appunto perché si inserisce in questo contesto spicca per come si eleva al di sopra di tutti gli altri nella compresenza dei campi più disparati in cui eccelle.
Fino alla grandezza nella capacità di rappresentare questo mondo variegato e intrigante, unica anch’essa nei Codici ricchi di disegni insuperati oltre che di analisi e trattazioni frutto di osservazioni sperimentali unite a speculazioni teoriche profonde, da parte di chi, come lui, si proclamava “omo sanza lettere”.
D’altra parte, non ci sembra doversi neppure enfatizzare la mitizzazione nella mostra “fascista” del 1939; nella mistica di regime rientrava la valorizzazione dei nostri grandi, in Unione Sovietica il “Realismo socialista”, in testa Alecsander Deineka, lo faceva con “l’uomo nuovo” che eccelleva nel lavoro e nello sport per un radioso avvenire. Esaltare Leonardo era ed è ancora oggi appropriato, se non doveroso.
E questo perché il suo mito nasce già nel ‘500, tra i suoi contemporanei, lo ricostruisce Simone Bertelli premettendo che è “l’artista più famoso e più studiato di tutti i tempi”, e parla di artista, non di ingegnere e inventore. Prima di Vasari una “Leonardi Vincii vita” fu inserita, con gli “Elogi degli artisti”, in appendice ai “Dialogi de viris et foeminis aetate nostra florentibus” di Paolo Giovio, con la sua le vite di Michelangelo e Raffaello, come “triade ideale dei grandi dell’arte rinascimentale”, di lui anche rari particolari sull’aspetto fisico. Poi, Giorgio Vasari, nelle “Vite”, tra il 1550 e il 1568, “ce ne consegna già un ritratto leggendario e misterioso”.
Ma c’è dell’altro, sempre nel ‘500, che rafforza il mito: il celebre ritratto con capelli lunghi e barba fluente che ne fa una figura ieratica; e una biografia di metà ‘500, di Giovan Paolo Lomazzo in forma di racconto dello stesso Leonardo, sulla traccia della “Vita” di Vasari, seguita dal suo ritratto, nella “Idea del tempio della pittura”, in cui è uno dei “sette governatori dell’Arte “ visti come colonne che sorreggono il tempio. Un riconoscimento quanto mai significativo nella sua epoca, sebbene “nemo profeta in patria”.
Questo sulla sua figura vista dai contemporanei, che si lega alla sua presenza di grande valore in campo artistico, con i dipinti, particolarmente esaltato il “Cenacolo”, e il ”Trattato della pittura”. La fama si proietta nel tempo, e nel 1634 abbiamo l’edizione a stampa del mecenate Cassiano dal Pozzo.
C’è un lungo periodo di oblio, rotto allorché con la “razzia” dei francesi di Napoleone delle maggiori opere d’arte del nostro paese, furono requisiti anche gli scritti leonardeschi della Biblioteca Ambrosiana. Giambattista Venturi ne fece uno studio approfondito pubblicato nel 1797, che mise in evidenza l’alto livello scientifico e tecnico di Leonardo in aggiunta alla figura di artista e teorico della pittura.
Il mito di Leonardo cresce anche sotto il profilo artistico, addirittura un architetto napoleonico vorrebbe “staccare” il suo “Cenacolo” dal refettorio di Santa Maria delle Grazie per portarlo all’Accademia di Brera, ma viene bloccato dal Commissario per le Belle Arti del Regno fresco di nomina, idea velleitaria che aveva avuto anche Luigi XII, come racconta il Giovio.
Siamo agli inizi dell’800, al pittore Giuseppe Bossi l’incarico di farne una copia fedele, cosa che avviene regolarmente, prepara i cartoni, poi la espone al pubblico; si aggiunge l’incarico a Giacomo Raffaelli di riprodurne le pennellate con la tecnica del micro-mosaico, la copia viene acquistata dall’imperatore d’Austria Francesco II e portata a Vienna; gli studi grafici di Bossi sono acquistati da un granduca austriaco e consentono a Goethe di studiarli e produrre un saggio sul “Cenacolo” che aveva visto in una visita il 25 maggio 1788, al termine del suo viaggio in Italia iniziato nel 1786.
Tornando alle opere scientifiche, la loro riscoperta avvenne mezzo secolo dopo gli studi di Venturi, nel periodo 1841-44 ad opera di Guglielmo Libri – un matematico segretario di una commissione per la catalogazione dei manoscritti delle biblioteche francesi – che li analizza nell’Institut de France e ne esalta l’elevato livello nella sua “Histoire des sciences matmatique in Italie”; addirittura ne trafuga e vende alcune pagine.
Bertelli descrive le vicissitudini romanzesche dei suoi trattati fino alla pubblicazione dei manoscritti, tra il 1880 e il 1890, due secoli dopo quella del “Trattato della Pittura”. Seguono altre pubblicazioni finché a Milano l’architetto Luca Beltrami “pubblica il regesto di tutti i documenti noti relativi alla vita e alle opere di Leonardo, uno strumento fondamentale per gli studiosi utilizzato proficuamente almeno fino all’aggiornamento datone nel 1999. Siamo alla vigilia del nuovo secolo, gli anni 2000.
In mezzo c’è la “Mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane” del 1939, all’insegna della “superiorità della stirpe italica”, che Bertelli ricorda così: “Per il regime ciò che doveva risultare più evidente era la continuità del genio inventivo italiano, da Leonardo da Vinci a Guglielmo Marconi, nuovo vanto dell’Italia autarchica guidata da Benito Mussolini”. In presenza di dipinti artistici, non i maggiori, era esaltata la parte scientifica con esposti grandi modelli di macchine funzionanti. Anche in seguito, i modelli di macchine basati sui disegni dei manoscritti hanno contribuito a esaltarne l’immagine di inventore.
Bertelli conclude: “Un processo che esalta la componente scientifica e speculativa dell’attività del Vinciano facendone emergere le ricadute sull’opera artistica, ma che alimenta al tempo stesso il nuovo mito del genio universale precorritore dei tempi, un tema delicato che ancora oggi si apre facilmente ad interpretazioni anacronistiche e strumentalizzate”.
L’attuale curatore della mostra celebrativa dei 500 anni, più che “precorritore dei tempi” sembra considerarlo figlio del suo tempo, quindi autentica quanto qualificata espressione della vivace temperie culturale, scientifica e tecnologica, che è riuscito a interpretare.
Ma a noi sembra sia stato molto di più, non foss’altro perché alla componente tecnica, comunque si voglia giudicare, va aggiunta quella artistica sulla quale non c’è alcun distinguo. E chi ai disegni di macchine più o meno originali, e ai trattati, allo studio del corpo umano e della natura fino a escogitare macchine per volare, aggiunge opere d’arte insuperabili, dal Cenacolo al Musico, dalla Dama con l’Ermellino alla Gioconda – ci piace ripeterlo – non si può dire che non sia un genio, un genio universale. Del resto, una mostra del 2010 a Palazzo Venezia su Caravaggio si intitolava “La bottega del genio”, ci sarebbe piaciuto trovare questa parola anche nella celebrazione dei 500 anni di Leonardo.
Il
disegno di Leonardo
Premessa questa precisazione iniziale sulla figura
nella sua interezza ci concentriamo sull’aspetto al quale è dedicata la mostra,
Leonardo “esperto di macchine”, come “artista
inventore”.
Cristiano Zanetti spiega come questi termini all’epoca di Leonardo corrispondevano alla qualifica di “artigiano” implicando l’appartenenza a una corporazione e la formazione in una bottega, per lui fu quella del Verrocchio, nella pittura e scultura da cui cercò di spaziare ad altri campi come l’architettura e non solo. E ci riuscì, tanto che fu definito “pictor et ingeniarius ducalis” dal Moro, “architecto et ingegnero generale” da Cesare Borgia , fino a”peintre et ingegneur et architecte du Roy, meschanicien d’estat” dalla corte di Francia.
Così qualificato, osserva lo studioso, “Leonardo sembra dunque posizionarsi con i suoi disegni, tra i due campi, quello assai pratico della rappresentazione di congegni possibili, resi con una tecnica eccelsa, veri e propri ‘trattati di macchine’, ed esplorazioni meccanicistiche puramente intellettuali nella tradizione di trattati di artifici tecnici, anche se con importanti sperimentazioni di integrazione tra il pensiero scritto e il ‘visibile parlare’ dello schizzo”. Parole che descrivono le sue inimitabili pagine dei Codici.
In lui si avverte un’inesausta volontà di progredire anche mediante lo studio in un’epoca in cui l’umanesimo promuoveva l’integrazione tra scienza, filosofia e arte come base del progresso individuale e collettivo.
Ne fa fede la sua biblioteca, ritenuta particolarmente vasta per l’epoca, e le opere da lui ben conosciute nonostante non comprendesse né il greco né il latino, che pure cercò di imparare, che vanno da Euclide, Talete ed Aristotele molto utili per l’arte di costruire le macchine, a Plinio il Vecchio sui fenomeni naturali, a Vitruvio sull’architetto come costruttore-inventore.
Nonostante cercasse di affinare la sua formazione con i testi che “cercò accanitamente”, si basava sull’osservazione diretta della natura, a differenza dei contemporanei legati al “sapere libresco”. Ne ricavava elementi sperimentali e speculativi anche di tipo matematico, il tutto tradotto nei 50 volumi manoscritti contenenti anche i disegni di macchine. Si esprime così nei taccuini : “La meccanica è il paradiso delle scienze matematiche, perché con quella si perviene al frutto matematico”.
La sua forma espressiva sono i disegni, di per sé a carattere innovativo. Così Pietro C. Marani apre l’introduzione sul suo “disegno scientifico”: “Leonardo elabora una serie di nuovi strumenti rappresentativi che vanno dalla sezione in orizzontale, agli spaccati, alle vedute esplose alla veduta simultanea degli argani ‘per tre diversi aspetti’, al fine di poterli collocare (in prospettiva) nel loro giusto luogo e per averne notizia integrale, alla presentazione degli organi e dei vari elementi in un corpo ‘trasparente’, oltre che alla loro schematizzazione attraverso filamenti di linee”.
Questo qualifica l’aggettivo “scientifico” dato al disegno leonardesco, nel quale non c’è alcuna concessione, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, all’aspetto artistico. Il disegno è utilizzato come “parola” e come “linguaggio”, termini usati rispettivamente da Venturi e da Pedretti, “ al punto che – scrive Marani – i testi che spesso lo accompagnano svolgono, nella quasi totalità dei casi, una funzione puramente ancillare, e Leonardo sembra esprimersi, attraverso il disegno, nel migliore e nel più chiarificante a sua disposizione”.
Il suo disegno, ripetiamo, nasce dall’osservazione diretta dei singoli fenomeni, ma fa qualcosa di più: la trasposizione trasversale dall’uno all’altro campo, come avviene tra il corpo umano ed elementi naturali, come le acque, fino alle macchine nella similitudine del funzionamento dei diversi organi rispetto alle loro funzioni: “L’ottica e la meccanica, l’anatomia e l’idraulica, la balistica e l’architettura militare si prestano a campi di studio e di analisi i cui fenomeni sono tutti ugualmente raffigurabili come diagrammi fra loro intercambiabili”.
Ne è diretta espressione lo stretto collegamento tra il funzionamento del sistema sanguigno nel corpo umano e quello dei moti delle acque che si manifesta con un reticolo di linee, i cosiddetti “liniamenti”, per i relativi disegni.
Per quelli meccanici Brivio dice: “I disegni di macchine di Leonardo sono bellissimi, animati da un senso organico degli ingranaggi e dei moti, quasi esseri mostruosi”. Ciò vale soprattutto per i congegni bellici, di cui Leonardo si serviva per accreditarsi presso i potenti.
La differenza che viene sottolineata rispetto ai trattati quattrocenteschi, da Taccola a Ghiberti, da Di Giorgio Martini a Giuliano da Sangallo, è che quelli di Leonardo descrivono in dettaglio ogni elemento, laddove le rappresentazioni precedenti erano molto sommarie fino a nasconderli. I suoi sono definiti “ritratti di macchina”, in tutti i particolari, come i ritratti umani, e anche le ombreggiature contribuiscono a collocarli nello spazio in una rappresentazione che diviene artistica.
Riguardo al disegno di Leonardo non si può non citare “L’uomo Vitruviano”, per la sua efficacia icastica e per il processo realizzativo rispetto alla fonte da cui ricava gli elementi di base. “Lo studio delle proporzioni di Leonardo – osserva Frank Zollner, non si limita soltanto a formalizzare l’idea vitruviana di homo ad circulum e homo ad quadratum. Il disegno testimonia infatti una teoria ben sviluppata, a sua volta frutto dei suoi studi antropologici, ossia della misura programmatica del corpo umano”.
Infatti si basa su osservazioni e misurazioni che, nel caso dell’”Uomo Vitruviano”, gli consentirono di correggere alcuni parametri del canone originario non rispondenti all’evidenza empirica dei suoi studi antropometrici.
E’ un archetipo di come – anche quando nei suoi disegni, di macchine od altro, descrive cose già presenti – non mancano innovazioni spesso decisive per la soluzione di problemi insoluti. Lo afferma lo stesso curatore mitigando l’impressione diversa data da altre sue affermazioni: “Leonardo utilizza spesso il disegno per studiare la tecnologia esistente del suo tempo o per riprendere repertori consolidati che nei decenni precedenti si erano diffusi anche grazie alle numerose copie manoscritte… di cui Leonardo avrebbe posseduto una copia. E’ tuttavia sorprendente come la rappresentazione grafica della macchina sia in Leonardo spesso estremamente innovativa”.
Le copie sono dei trattati del Taccola sulle macchine e di Francesco di Giorgio Martini sull’architettura militare, presenti in mostra con i riferimenti ai disegni e alle macchine esposti.
Il Codice Atlantico, sigillo delle 10 sezioni della msotra
La mostra è articolata in 10 Sezioni tematiche, imperniate sulle pagine manoscritte di Leonardo dal “Codice Atlantico”, sigillo ai singoli temi affrontati a livello teorico e pratico con l’esposizione dei modelli della macchine leonardesche realizzati in epoca moderna per dare corpo ai suoi disegni, con riferimento agli scritti coevi a dimostrazione della temperie dell’epoca di cui abbiamo detto all’inizio.
Marco Navoni, Vice Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, lo definisce “la più ampia e stupefacente collezione al mondo di fogli autografi del grande genio da Vinci; per la precisione sono 1119 fogli , di argomento vario, che spaziano dalla meccanica all’idraulica, dall’ingegneria all’architettura, dall’ottica alla progettazione di macchine, di armi e di utensili, fino all’anatomia, per un totale di circa 1750 disegni”.
Ma non basta: “Ai disegni si aggiungono poi i testi letterari, i calcoli aritmetici, le proiezioni e gli studi geometrici, talvolta semplici schizzi; senza dimenticare le preziose annotazioni di carattere autobiografico”.
Copre un arco molto ampio della vita di Leonardo, dal 1478, quando era ancora in Toscana, al lungo periodo milanese, fino alla morte in Francia nel 1519. Navoni commenta: “Dunque, il Codice Atlantico ci consegna, come in un compendio caleidoscopico, fatto di disegni, di progetti, di annotazioni e di studi tutta la vita di Leonardo come artista, scienziato e ingegnere”. E conclude: “Non siamo lontani dal vero dunque se diciamo che questo autentico tesoro può essere considerato tra le testimonianze più significative della scienza e dell’arte del Rinascimento italiano”.
Le vicissitudini del Codice sono ripercorse dallo studioso fino all’origine del suo nome. Leonardo lasciò i 1119 fogli, insieme a tutti gli altri manoscritti, con un testamento redatto pochi giorni prima della morte, a Francesco Melzi, nobile lombardo entrato nella sua bottega a 15 anni, che lo seguì anche quando lasciò Milano per Roma, fino alla Francia. A Melzi, dunque, va il merito di aver portato i manoscritti in Italia, come attesta Giorgio Vasari li conservava come preziose “reliquie”.
Invece i suoi eredi se ne disinteressarono, i fogli del Codice si dispersero per poi ricomporsi almeno in parte, dopo confusi passaggi, nelle mani dell’artista milanese Pompeo Leoni il quale li incollò su grandi fogli standard, inserendo anche parecchi foglietti leonardeschi, fino a 10, ogni foglio; quei fogli erano definiti di “formato atlantico”, di qui la denominazione rimasta poi immutata. Risultato, i fogli furono preservati, ma assemblati nelle grandi pagine in modo confuso, anche le materie mescolate.
Le vicende continuano anche dopo la sistemazione dei manoscritti nel “Codice Atlantico”, finisce in Spagna alla corte di Filippo IV di Castiglia, ma poi torna in Lombardia alla corte del conte Galeazzo Arconati, che nel 1637 con mecenatismo meritorio lo donò alla Biblioteca Ambrosiana che era stata istituita nel 1609 dal cardinale Federico Borromeo.
Sembrerebbe la fine delle peripezie, perché è la sede attuale del prezioso manoscritto. Neppure per sogno, la “razzia” napoleonica delle opere d’arte in Italia nel 1796 non risparmia quanto custodito dalla Biblioteca Ambrosiana, anzi il “Codice Atlantico” era indicato espressamente nella lista dei sequestratori con le parole “le cartones ouvrages de Leonardo d’avinci” (sic!).
Alla sconfitta di Napoleone, 20 anni dopo, il Congresso di Vienna del 1816 imposte alla Francia la restituzione delle opere prelevate, la mostra “Il Museo Universale” alle stesse Scuderie del Quirinale ha celebrato tre anni fa il centenario della restituzione esponendo una selezione di tali opere tornate in Italia. Del recupero delle opere prese in Lombardia fu incaricato un barone austriaco il quale, scambiando la grafia inversa di Leonardo per caratteri cinesi, quindi non di sua competenza, aveva rinunciato a recuperare il Codice ma per fortuna Antonio Canova, inviato dal papa per le opere della Chiesa, si accorse dell’errore e convinse il barone a richiedere anche tale codice, altri minori non furono rivendicati.
Non finisce neppure qui la storia del Codice, negli anni ’60 del secolo scorso fu sottoposto a un accurato restauro a Grottaferrata, da monaci specialisti, che rilegarono i fogli in 12 volumi; come per l’opera di Leoni fu positiva la cura per la conservazione, ma negativo il risultato per l’utilizzazione, che non consentiva di esporre singoli fogli se non aprendo i volumi in una pagina, l’unica visibile.
Per questo, nel 2009, alla celebrazione del quarto centenario dell’apertura della Biblioteca Ambrosiana, come ricorda Navoni, “i dodici volumi vennero ‘sfascicolati’ e così i più di mille fogli di Leonardo vennero per così dire ‘liberati’ da quella specie di ‘gabbia’ che per più di quarant’anni li aveva ‘sequestrati’”. Con l’effetto positivo che molti fogli singoli sono stati presentati nelle mostre, come avviene nella celebrazione dei 500 anni, in particolare nella mostra attuale nella quale introducono le 10 sezioni tematiche in modo altamente evocativo.
Prossimamente daremo conto della visita alle 10 sezioni con tanti documenti preziosi, plastici e modelli di macchine, in legno, ferro e quant’altro necessario, del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, realizzati da vari artigiani soprattutto nel 1953, sui disegni di Leonardo.
Info
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel. 06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo: “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza”, a cura di Claudio Giorgione, Editore “arte,m L’ERMA”, marzo 2019, pp. 256, formato 24 x 29,50; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 4 giugno p. v. Cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com nel 2017, sul recupero delle opere requisite da Napoleone, nella mostra “Museo Universale” 9 gennaio, 21 febbraio, 5 marzo; nel 2012, su “Deineka” 26 novembre, 1° e 16 dicembre; in cultura.inabruzzo.it: nel 2012, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto”6 febbraio; nel 2011, “Il ‘Musico’ di Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio, i “Realismi socialisti” 3 articoli tutti il 31 dicembre; nel 2010, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio; nel 2009, “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia” 6 luglio, ”’Leonardo e l’infinito’, trenta macchine funzionanti” 30 settembre. in fotografia.guidaconsumatore.it per il citato “Caravaggio, la bottega del genio”” 13 aprile 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili).
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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia la direzione di Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riportate nella sequenza dell’ esposizione nelle sezioni citate e commentate nel secondo articolo sulla mostra. In apertura, “Ritratto” di Leonardo, dal libro del 1811 con il discorso del pittore Giuseppe Bossi su Leonardo; seguono, “Calco del fregio dell’arte della Guerra”, Ambrogio Barocci da notizie II metà XV sec. “Trattato di Architettura” di Francesco di Giorgio Martini (sega idraulica, riparo piramidale da bombarda, gru girevole), e modello di Argano a leva da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini); poi, Roberto Valturio, “De Re Militari” 1462, ruota idraulica a scomparti, e modello di Macchina per innalzare colonne da Leonardo, 1953; quindi, Cesare Cesariano, ”Raffigurazione dell’Uomo Vitruviano” 1521, da Marco Vitruvio Pollione I sec. a. C., e modello di Trivella a doppio movimento da Leonardo, 1953; inoltre, Francesco di Giorgio Martini, “Studi proporzionali” 1530, e modelli di Chiesa a pianta centrale con Chiesa a due livelli da Leonardo, 1953 (Fornace Curti); ancora, modello del Pantheon veduta longitudinale 1891 (Beaux-Arts de Paris), e modello sezionato di Nave di Nemi con Protome a testa di lupo e Decorazione a forma di elmo 1932-33; continua, Ranieri Arcaini, “La nave di Caligola”, acquerello 1891, e modello di Ricostruzione dello spettografo a vetro da Durer, con strumento musicale; prosegue, modello di Pavimentazione di conche per canali da Leonardo, 1956 (A. De Rizzardi), e Plastico urbanistico di città ideale da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini); poi Plastico dell’Adda con progetto di conca di Paderno da Leonardo, 1956 (N. Rossi) e modello di Macchina per intagliare 1953 (C. Zammattio) con Macchina per filettarele viti 1956 (A. M. Soldatini), entrambe da Leonardo; quindi, Libro d’oro all’uso cistercense XV sec., e modello di Filatoio con fuso ad alette mobili da Leonardo, 1933 (G. Strobino); inoltre, modello di Torcitoio con corde 1953, e modello di Garzatrice orizzontale entrambi da Leonardo, 1953 (G. Strobino); infine, panoramica della 5^ sezione, “L’ingegneria del fare”; in chiusura, Cherubino Cornienti, “Leonardo mostra a Ludovico il Moro le chiuse dei Navigli” 1858, e Luigi Ferrari, “Testa di Cristo” 1896, oleografia su tela dal “Cenacolo” di Leonardo.
Una mostra in omaggio a “Istanbul”,dal 15 aprile al 5 giugno 2019, alla Galleria Russo, con 9 artisti – espositori in precedenti mostre nella galleria – i quali hanno creato appositamente nel 2019 una serie di opere – ne sono esposte 25 – evocatrici dei vari aspetti della città in cui l’Oriente incontra l’Occidente dal punto di vista geografico e culturale. Curatrice della mostra Maria Cecilia Vilches Riopedre, che ha curato anche il Catalogo bilingue italiano-inglese della Manfredi Edizioni.
“Non è stata causale – premette la curatrice – la scelta di una mostra dedicata alla città di Istanbul in una galleria d’arte romana”. Ma non solo per i motivi da lei indicati, cioè il fatto che Istanbul, crocevia di civiltà all’incrocio tra Oriente e Occidente, era chiamata “la nuova Roma nell’accostamento ideale con la città eterna”, per cui sono state sempre considerate “città gemelle” anche per certe similitudini nell’ubicazione su sette colli, in prossimità dei mari, per Roma attraverso il fiume Tevere, per Istanbul nel Corno d’Oro.
In aggiunta c’è un motivo che ci sembra vada sottolineato, la Galleria Russo oltre alla sede romana nei pressi di Piazza di Spagna ne ha una proprio a Istanbul; quindi il suo non è solo un riconoscimento episodico del gemellaggio, ma una realtà stabile che dà spessore ideologico e rilievo culturale a questa mostra. Anche perché i 9 artisti espositori non sono stati selezionati per l’occasione, ma fanno parte di quella che possiamo chiamare la “scuderia Russo” essendo stati protagonisti nel passato anche recente di mostre nella galleria o di eventi dalla stessa organizzati.
Anche per questo motivo l’attuale mostra non viene presentata come “unicum”, ma come l’inizio di una serie che la galleria ha annunciato voler dedicare alla “nuova Roma” in un gemellaggio prolungato.
Non ci sentiamo, invece, di dare alla mostra il significato “politico” cui si è riferito l’ambasciatore della Repubblica di Turchia a Roma, Murat Salim Esenli, allorché ha denunciato le fratture e la “divisione che si sviluppa lungo le linee etniche, culturali e religiose”, fino a denunciare che “questa mentalità piuttosto allarmante si sta diffondendo in modo particolare nell’emisfero occidentale”, nel quale ha avuto effetti tragici in passato. E’ vero che, “come una panacea per le contraddizioni e per gli scontri, l’arte è il bene più prezioso che abbiamo”, e perciò “questa straordinaria collezione di lavori assemblati dalla Galleria Russo di artisti italiani degni di nota, ci permette di costruire i necessari ponti mentali e fisici tra continenti e culture, tra etnie e religioni”. Ma occorre che questi ponti non siano bloccati da macigni come il mancato rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione che ha prima frenato, poi arrestato il processo pur avviato di integrazione nell’Unione Europea, esito auspicabile con un paese molto dinamico che fa parte della Nato e garantisce la frontiera dell’Europa verso un mondo ancora più lontano e insidioso.
Detto questo, i 9 artisti, ciascuno con la propria cifra stilistica e la peculiare visione, ci mostrano l’Istanbul multiforme e cosmopolita – la città che lascia nel visitatore un’impronta indelebile e la volontà di tornarci – in una serie di opere, tutte del 2019, che costituiscono le tessere di un mosaico evocativo di forti suggestioni.
Visioni
dell’esterno
Le immagini forse più dirette e immediate sono quelle di Tommaso Ottieri, nella sua inconfondibile visione notturna, monumentale e misteriosa. Ai grandi raccordi autostradali e alle piazze, agli interni delle basiliche e dei teatri della sua ben nota produzione artistica, aggiunge ora “Istanbul C”, che rappresenta l’interno della “Cisterna basilica” con le colonne che emergono dall’acqua riflettendosi su di essa, e un titolo criptico, quasi volesse riassumere l’intera città in una delle sue attrazioni; e due torri che spiccano nel buio “Istanbul Stabat Mater” e “Galata blu”, facendoci entrare subito nella città monumentale. Sono le caratteristiche creazioni di Ottieri, che – nelle parole della curatrice citate in seguito anche per gli altri artisti – “ritraggono edifici e paesaggi urbani opulenti , moderni e allo stesso tempo storici, dipinti nei toni del rosso, del blu e del giallo oro. Il suo lavoro cerca di esprimere una qualità espressiva ed emotiva”.
Un altro tipo di esterno è quello di Manuel Felisi, che intitola “Istanbul” due sue tipiche composizioni su legno in resina, la prima con gli alberi le cui cime convergono verso l’alto, la seconda quasi topografica, mentre in altre due, intitolate “Istanbul di Vedat Turkali” e “Hep Kahir”, “attraverso gli alberi che potrebbero far parte di una ‘ottoman promenade’ l’artista stampa le parole che raccontano le meraviglie della città”. Il tempo è il protagonista silenzioso delle sue opere: “Il tempo con il suo passare cambia le cose, le preserva e le fa dimenticare. Utilizza la fotografia per esprimere un tempo che immobilizza e misura luoghi, oggetti, persone e sentimenti”. E lo fa anche con strati di materiali sovrapposti in un ordine predeterminato che li unifica.
Michael Gambino con “Istanbul”, “The tourists’ Istanbul”e soprattutto “Districts of Istanbul” mostra i contorni geografici o gli elementi identitari di Istanbul, “le farfalle di carta sono accostate con una spiccata sensibilità cromatica, abbinando le varie ombre. La città è un punto di riferimento incommensurabile e duraturo che ha forgiato un’alleanza di civiltà”. E “le farfalle sono simbolo di trasformazione e del continuo rinnovo energetico dell’universo” che, nella circostanza, diventano di una città dinamica e vitale.
Una sottolineatura topografica in “Manine” di Luca Di Luzio, che evoca le antiche lapidi romane poste a memoria delle esondazioni del Tevere con una “manina” a indicare il livello raggiunto. Istanbul viene accomunata a Roma: “La sedimentazione – osserva la curatrice – è una traccia del passaggio del tempo sulle cose che lentamente le modifica e le modella, come i sedimenti trasportati dall’acqua di un fiume che, depositandosi, ne modificano il suo corso”. Ed ecco il riferimento all’opera: “Un grande corso d’acqua immaginario, realizzato a matita per rendere visibile il segno, la traccia divide in due sponde la superficie pittorica, evocando l’idea del movimento e del mutevole, del tempo che scorre come un fiume”.
Visioni
dell’interno
Finora è l’Istanbul vista dall’esterno, ma con Simafra cominciamo a entrare nella sua matrice intrinseca di natura orientale che si confronta con le manifestazioni di natura occidentale. Riccardo Prosperi, questo il suo nome, è un artista di respiro internazionale, con mostre oltre che in Italia, a Londra, in Finlandia e negli Stati Uniti, e opere dedicate alle rispettive aree geografiche. Per Istanbul si concentra sui tappeti, con “Tappeto fiorito” con geroglifici dell’”altra” cultura, e il “Tappeto del tè” con altri motivi originali di tipo decorativo, mentre “Un antico tappeto” e “Tappeto ritrovato” si presentano come due grandi fiori, il primo contornato da orli come cuspidi.
Un tappeto nel caratteristico multistrato con maglie di rete metalliche sovrapposte di Giorgio Tentolini, intitolato “Wire rug” , che con le sue sottili volute evoca gli eleganti arazzi, e un esterno come “Topkapi” nello stesso materiale, un angolo raccolto piuttosto che una visione spettacolare del famoso palazzo orientale; mentre utilizza strati sovrapposti di carta pergamena per “Nomaz”, tre ragazzi accoccolati a terra visti di spalle. “Come un ragno che crea la sua tela, Tentolini è paziente e persistente, tesse il suo stesso mondo artistico attraverso una calcolata precisione… Ci porta a credere che la semplicità dei materiali greggi impiegati possa avere implicazioni uguali al loro significato”, questo il commento della curatrice.
Elementi identitari ben precisi, dopo i tappeti di Simafra, nelle due opere in tecnica mista su tela di Veronica Montanino, intitolate “Graffito Ottomano # 1 e 2”,“una trama di segni che diventa metamorfosi e orientamento” con serie di “impronte” in una contaminazione tra modernità e tradizione intrigante e spettacolare: “Dervisci rotanti, guerrieri turchi, le odalische immaginate da pittori orientalisti e i manifestanti del Gezi Park si fondono e si confondono coi cavalieri delle antiche miniature nei pittoreschi e grandi palazzi turchi”. L’artista, che si segnala per un “uso esuberante e originalissimo del colore”, oltre che per le installazioni, in queste opere sceglie la strada della tradizione, nella tela e nel cromatismo discreto e delicato su cui spicca una moltitudine di figure bianche.
La commistione tra Oriente ed Occidente è resa plasticamente dall’acciaio bronzato e il cristallo di Murano di Enrico Benetta, nel suo “Occidentalmente orientale”,un libro che si sfoglia nella unione culturale tra Est e Ovest con le sue caratteristiche lettere che cadono dalle due pagine aperte quasi a dare l’avvio a storie affidate alla fantasia dell’osservatore, fino alla fusione nelle acque del Corno d’Oro. E’ un’opera che esprime la sua personalità “traboccante di desiderio di comunicare, in cui si fondono insieme fonti culturali lontane tra di loro” ma accostabili, come in questo caso. Inserisce costantemente i caratteri di stampa Bodoni che rappresentano il suo sigillo: “E’ come se la lettera per Benetta non fosse l’elemento primario della parola, ma vada contemplata in sé, come pensiero costitutivo dell’opera stessa”. E il materiale bronzeo “trasmette alle opere quella patina del passato che evoca in pieno il fascino dei grandi volumi di storia”.
Non sono ancora apparse figure umane, nelle evocazioni di Istanbul da parte degli artisti. Provvede al riguardo Diego Cerero Molina con tre delle sue caratteristiche “Figure” in rappresentazioni sempre più ravvicinate in una “zoomata” quasi cinematografica: “Figura con Narguille”, “Figura con gatto” e “Figura con troje de rayas”,nei primi due la persona è vista con elementi caratteristici dell’oriente, l’apparecchiatura per il fumo e il tappeto, nel terzo il primissimo piano del volto severo con un occhio chiuso. Non c’è la deformazione spesso caricaturale delle opere dell’artista, ma indubbiamente la terza immagine ci riporta alle sue caratteristiche enfatizzazioni fisiognomiche.
Con la figura non sappiamo se minacciosa o ammiccante dell’artista Molina chiudiamo la galleria dei 9 artisti della “scuderia Russo” che si sono cimentati nell’omaggio a Istanbul, fornendo ciascuno la propria visione della città nei suoi molteplici aspetti cosmopoliti e spettacolari. Che restano impressi nella memoria in chiunque abbia avuto la ventura di visitarla, come è accaduto a noi stessi allorché siamo andati alla ricerca delle vestigia dell’antica Costantinopoli restando presi dal fascino delle sue moschee e reperti storici nel dinamismo di una società giovane proiettata verso il futuro.
Info
Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, Catalogo “”Istanbul”, a cura di Maria Cecilia Vilches Riopedre, Manfredi Edizioni, maggio 2019, ottobre 2018, pp. 88, bilingue italiano-inglese, formato 22,5 x 22,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli, su altre mostre della Galleria Russo con questi artisti: in questo sito il prossimo articolo su Molina il 20 giugno 2019, per la mostra che ha seguito questa su “Istanbul”; in www.arteculturaoggi.com, sulla mostra “Shakespare in Rome” con Ottieri, Molina, Felisi, Benetta, Gambino, il 25 aprile 2016; su Felisi 5 novembre 2018, su Tentolini e Gambino 6 giugno 2018, su Ottieri 11 maggio 2015; infine il “reportage” dopo il nostro viaggio negli articoli “Istanbul, viaggio nella nuova Roma” , “Istanbul, il negoziato con l’UE e la storica visita del Papa” , “Istanbul, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.
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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella galleria Russo alla presentazione della mostra, le prime 9 riportano un’opera per ciascuno dei nove artisti nella successione con cui sono citati nel testo, le 6 successive una seconda opera per sei di loro, tutte le opere sono del 2019. In apertura, Tommaso Ottieri, “Istanbul Stabat Mater”; seguono, Manuel Felisi, “Istanbul” e Manuel Gambino, “Istanbul”; poi, Luca di Luzio, “Manine” e Simafra, “Il tappeto da tè”; quindi, Giorgio Tentolini, “Topkapi” e Veronica Montanino, “Graffito Ottomano # 2″”, inoltre, Enrico Benetta, “Occidentalmente orientale” e Diego Cerero Molina, “Figura con gato“; ancora , le 6 finali, Tommaso Ottieri, “Istanbul C” e Manuel Felisi, “HEP KAHIR di Nazin Hikmet”; continua, Simafra, “Tappeto fiorito” e Giorgio Tentolini, “Wire rug”; infine, Diego Cerero Molina, “Figura con traje de rayas” e, in chiusura, Veronica Montanino,” Graffito Ottomano # 1.
Di fronte agli ultimi eventi – la scomparsa di Massimo Bordin e il rischio della chiusura di Radio Radicale – il nostro primo impulso è stato di partecipare alle due manifestazioni: il funerale laico la mattina del venerdì santo alla Facoltà Valdese Teologica e il raduno di solidarietà per la radio la mattina di Pasqua. E’ stato un impulso spontaneo, poi abbiamo scritto anche l’articolo pubblicato il 24 aprile su www.arteculturaoggi.com per debito di riconoscenza di quanto Bordin e la radio ci hanno dato in tanti anni di ascolto delle rassegne stampa e delle altre trasmissioni. Un legame divenuto affettivo, come per molti intervenuti con il loro sostegno alla radio.
Ma alla riconoscenza personale nello scrivere l’articolo è subentrata la valutazione giornalistica, ed è questa che conta, una valutazione asettica, obiettiva. L’articolo era doveroso per il sito dove è stato pubblicato, che come questo sito ha la cultura nel titolo, a prescindere dal moto dell’animo. Perché Radio Radicale è una fonte continua, persistente, inesauribile di cultura politica interna e cultura internazionale, cultura economica e cultura sociale, cultura giudiziaria e cultura istituzionale, cultura civile, in definitiva di cultura senza aggettivi e senza confini.
Basta ricordare soltanto alcune delle principali trasmissioni in cui ciò si sostanzia: i congressi di tutti i partiti e lo “speciale giustizia” con i principali processi, i convegni economici e letterari, le interviste a personaggi e quelle per strada alla gente comune senza selezioni interessate, le corrispondenze e rassegne stampa dalle varie aree del mondo, e le tante altre rubriche, non solo le dirette dal Parlamento oggetto della Convenzione che non si vorrebbe rinnovare.
Il servizio pubblico
Questo servizio pubblico nessuno lo ha negato, lo ha ammesso esplicitamente anche il presidente del Consiglio Conte, anche se poi si è contraddetto dicendo che deve trovare le risorse sul mercato, cosa improponibile perché il servizio pubblico copre proprio quello che non viene dato dal mercato.
Dopo Conte ha parlato di mercato anche Marco Travaglio che se ne differenzia perché non considera che Radio Radicale svolge da sempre un vero servizio pubblico: lo ignora volutamente, dato che non può negarlo, sarebbe come non ammettere l’evidenza. Quindi le sue proposte provocatorie sono palesemente illogiche basandosi su una sorta di sillogismo con la premessa sbagliata, tanto che paragona la Radio al “Fatto Quotidiano”. Se avesse parlato di servizio pubblico non sarebbe potuto arrivare a quelle conclusioni, dal momento che tiene tanto al rigore delle proprie argomentazioni.
Un servizio pubblico articolato e completo, svolto in gran parte senza corrispettivo essendo remunerate solo le dirette parlamentari attraverso la Convenzione. Ricordiamo in termini molto sommari le argomentazioni esposte diffusamente nel precedente articolo – dopo il ricordo di Massimo Bordin – sulla necessità di rinnovare la Convenzione per la vita di Radio Radicale.
Il punto chiave è che da qui dobbiamo partire, da questo elemento di verità acquisito, Radio Radicale svolge il servizio pubblico della completezza dell’informazione e della cultura.
Ma allora non si deve restare sulle generali e parlare in astratto, ci si deve riferire a questo servizio pubblico come definito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 155 del 2002 quale unica ragione del finanziamento alla Rai con il canone. Tralasciando le basi normative dalle legge del 1938 alle successive, ricordiamo che la sentenza del 2002 modificò la precedente pronuncia in cui veniva giustificata la devoluzione della tassa per il servizio radiotelevisivo alla Rai perchè lo forniva in esclusiva, di qui il “canone”. Poi, essendosi moltiplicati i soggetti con la fine del monopolio sancita dalla stessa Corte Costituzionale, cadeva tale motivazione. Divenne imposta di possesso degli apparecchi riceventi e la devoluzione fu motivata dalla fornitura di un servizio pubblico “per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, al fine di ampliare la partecipazione dei cittadini a concorrere alla crescita civile e culturale del paese”. Viene richiesta esplicitamente una “informazione completa”.
Le risorse per tale servizio pubblico
“Diritto dei cittadini all’informazione”, così simile al “diritto alla conoscenza” propugnato dai radicali che vi hanno dedicato l’intera programmazione della loro radio; a soddisfare tale diritto, che richiede sia garantita un’ “informazione completa” è destinato il gettito dell’imposta citata, per l’80% devoluto alla Rai per fornire tale servizio pubblico, sono oltre 1,6 miliardi di euro l’anno sui 2 miliardi di gettito. Non potrebbero trovarsi in tale gettito anche le modeste risorse per il servizio pubblico fornito compitamente da Radio Radicale, che riceve solo 10 milioni di euro l’anno per la Convenzione e 4 per l’editoria, mentre la Rai ben 1,6 miliardi di euro l’anno? Se non si vuole attingere sulla parte destinata alla Rai c’è la parte restante, oltre 400 milioni di euro destinati alla “riduzione del debito”, cosa singolare per un’imposta di scopo, anche se non tassa, ma comunque prelevando i 10 milioni di euro sarebbe come togliere solo una goccia.
Sia detto per inciso, sempre alla Rai “Che tempo che fa” costa oltre 18 milioni di euro l’anno, è la trasmissione di Fabio Fazio preso di mira dal ministro Salvini che vorrebbe fossero ridotti compensi come il suo invece di chiudere le voci che fanno informazione; si riferisce ai 2 milioni 240 mila euro l’anno per 4 anni, in più Fazio partecipa al 50% con “Magnolia” alla proprietà della società ‘”Officina S.r.l.” che produce il programma, cui vanno 10.644.400 euro a copertura dei costi, compresi 704 mila euro per diritti del “format”, i restanti 5,4 milioni, sempre annui, sono i costi sostenuti dalla Rai per diritti e filmati, costumi e quant’altro. Stupisce che “Il Fatto Quotidiano”, dopo aver reso noto un anno fa i termini di questo contratto del luglio 2017 – i 10.644.400 euro di costi di produzione esterni si riferiscono al primo anno – sottolineandone gli aspetti sorprendenti, ora si accanisca su Radio Radicale, che costa poco più della metà di questa trasmissione Rai bisettimanale, pur con tutte le sue trasmissioni quotidiane di servizio pubblico.
Perché proprio al tipo di servizio pubblico svolto da Radio Radicale per un DNA insopprimibile la Corte ha destinato con la sentenza del 2002 il gettito dell’imposta sul possesso degli apparecchi riceventi – non ci stanchiamo di ricordarlo – non più tassa per il servizio televisivo, chiamato “canone Rai” dato che alla Rai viene devoluta la parte preponderante a fronte dell’impegno per un servizio che non ha fornito neppure per le sedute parlamentari ignorate contro l’obbligo di legge, lo ha fatto tardivamente, in parte e con insufficienti frequenze.
Quanti congressi dei partiti ha trasmesso la Rai, quanti convegni, quante visioni delle aree del mondo, quanti processi importanti in modo integrale? Solo scampoli per lo più filtrati che non rispettano il diritto all’ “informazione completa”, si potrebbe provare ciò confrontando il suo archivio con quello di Radio Radicale relativamente alle trasmissioni riconducibili al servizio pubblico: per quest’ultima oltre 430.000 registrazioni, 200.000 oratori, 19.000 sedute parlamentari e 21.000 udienze giudiziarie, 3.000 convegni e 85.000 interviste, 26.000 dibattiti e 19.000 conferenze stampa, tutto perfettamente schedato, classificato con precisione e quindi immediatamente raggiungibile. Una miniera preziosa e unica, storica, informativa e culturale!
E allora è a quel gettito fiscale, e non canone Rai, che si può attingere per fornire le risorse necessarie a chi assicura questo servizio completo, magari con apposite gare; ma solo Radio Radicale ne ha la memoria storica nello sterminato archivio ora citato che costituisce l’indispensabile fondamento di una conoscenza radicata nel tempo e non estemporanea.
Venga pure l’analisi costi-benefici tanto evocata in altri casi, sia applicata a questo servizio, si confrontino i risultati tra il servizio della Rai e quello di Radio Radicale, con il suo archivio storico di oltre 430 mila documenti sonori di servizio pubblico – va sottolineato con forza – perfettamente schedati e reperibili. E se ne traggano le conclusioni su dove reperire le risorse.
La “segnalazione urgente” dell’Agcom e l’ “ircocervo” della radio di partito
Per questo motivo la “segnalazione urgente” al governo dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sull’obbligo di attuare la legge del 1998 riformando il sistema e intanto prorogare la Convenzione a Radio Radicale, diventa ineludibile anche per il sottosegretario all’informazione Crimi che ha annunciato l’intenzione di non rinnovarla. Ma senza rinnovo né proroga rischia di incorrere in una indebita interruzione i pubblico servizio, avendolo definito così anche l’Agcom, perchè gli utenti se ne vedrebbero privati dopo tanti anni: non è un rischio teorico, si è visto dagli appelli lanciati da ogni comunità politica e sociale, culturale e professionale, dal mondo della scuola fino a quello della giustizia, come tale servizio pubblico sia sentito da tutti, pronti all’occorrenza a difenderlo.
C’è chi obietta che è una radio di partito, in contrasto con la neutralità del servizio pubblico. Ma va considerato che ha avuto, da sempre, lo status di “soggetto autonomo” – come ha ricordato l’intervento di Massimo Bordin riproposto al raduno pasquale davanti al Vittoriano – anche perché il “diritto alla conoscenza”, e senza filtri, è l’istanza suprema dei radicali, di qui deriva il diritto all’ “informazione completa” sancito dalla Corte Costituzionale. E poi il partito di cui figura “organo ufficiale”, cioè la “lista Marco Pannella” non opera più da decenni, né i radicali presentano loro liste alle elezioni, tra l’altro fu la battaglia contro il finanziamento pubblico ai partiti a richiedere tale riferimento per devolverlo al servizio pubblico, non potendo rifiutarlo né distribuirlo ai cittadini quale “restituzione” come fu tentato all’inizio.
Inoltre l’apparente “ircocervo” – servizio pubblico a una radio organo ufficiale di un partito – potrebbe essere normalizzato anche formalmente, e in tal caso la convenzione andrebbe aggiornata per coprire anche ciò che finora è stato coperto dal finanziamento della legge per l’editoria, cioè 4 milioni di euro che si aggiungono ai 10 milioni della Convenzione per le sedute parlamentari. Così Radio Radicale sarebbe anche nella forma, che spesso è sostanza, ciò che è nei fatti, ”La radio di tutti fondata da Marco Pannella”, e l’aggettivo “radicale” evocherebbe, più che la matrice ideologica originaria, l’intransigenza e il rigore informativo e culturale. Tra l’altro i radicali sono stati contro il finanziamento ai partiti ben prima dei “5 Stelle”, tanto da farlo abolire con un proprio referendum, poi svuotato dalla classe politica, anzi dalla “casta”, quindi….
Si potrebbe arrivare così a un “disarmo bilanciato” da ambo le parti, e Bordin da lassù potrà ritirare la definizione di “gerarca minore” se il sottosegretario, cui l’ha affibbiata, non farà valere il potere irragionevole da piccolo gerarca ma la forza della ragione da politico illuminato.
L’esortazione di Giordano Bruno Guerri
Vogliamo aggiungere una citazione di prima mano, inedita, e non crediamo di violare la privacy condividendo un fatto di carattere personale. Abbiamo ricevuto la seguente e mail di risposta di Giordano Bruno Guerri al quale avevamo trasmesso il nostro precedente articolo dopo aver ascoltato il suo intervento a Radio Radicale: “Caro Levante, sono lieto di dividere con lei, oltre alle letture e alla passione per il Comandante, l’amore per Radio Radicale. Un bene di libertà prezioso, e in quanto tale non amato da chi del bene – e della libertà, ha visioni elementari. Brutti segni, brutti segni, sì, ma non si cede ai segni. Con molti grati saluti. Gbg”.
Ci sembra il coronamento di quanto sostenuto, una esortazione per tutti: non cedere ai segni, quindi impegnarsi attivamente per difendere il “bene di libertà prezioso” che è Radio Radicale.
Aggiornamento dopo l’audizione del 15 maggio del sottosegretario Crimi
Il sottosegretario con delega all’editoria Vito Claudio Crimi è stato sentito in audizione la mattina del 15 maggio dalla Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radio-televisivi, e la pubblicazione “on line” ci consente di aggiungere un aggiornamento quanto mai necessario. Abbiamo ascoltato l’audizione in diretta alle 8 di mattina, ovviamente su Radio Radicale; gli interventi dei parlamentari lo hanno incalzato tutti sul rinnovo della Convenzione, criticandolo per non averne fatto parola nella sua relazione mentre è un atto necessario divenuto urgente.
Crimi ha replicato affermando che il tema della Convenzione era stato omesso nella relazione da lui svolta perchè non rientra nelle sue funzioni, bensì in quelle del Ministero per lo sviluppo economico. Ma ha aggiunto di voler esprimere il suo pensiero ribadendo la posizione assunta in precedenza, e ha rotto così il “silenzio assordante” rispetto alla miriade di appelli da ogni parte, politica e istituzionale, culturale e civile al rinnovo della Convenzione, vitale per la radio.
Ha detto, in sostanza, che la Convenzione riguarda soltanto le sedute parlamentari, quindi tutte le altre attività svolte da Radio Radicale, considerate di servizio pubblico, non c’entrano; anzi provano che le trasmissioni parlamentari sono state pagate in eccesso non rivedendo mai la Convenzione sebbene i costi fossero diminuiti. E ha aggiunto che la trasmissione di tali sedute ora viene svolta dalla Rai, quindi è una duplicazione di spesa ingiustificata. L’archivio, secondo Crimi, rientra in tutt’altro campo e se ne può discutere: è di proprietà di una società privata ed è stato costituito con i finanziamenti pubblici, quindi se ne dovrà tener conto nella eventuale valorizzazione; è un argomento, peraltro, che va trattato a parte senza particolare urgenza.
Mentre sul resto, oltre a lamentare che a dicembre 2018 Radio Radicale non ha accettato il rinnovo per un anno a 5 milioni di euro, ha parlato di presunte anomalie di una Convenzione datata venti anni con un decreto reiterato 17 volte e mai convertito in legge; ma sull’archivio doveva precisare che solo la registrazione delle sedute parlamentari va riferita al finanziamento della Convenzione. mentre la gran parte delle 430.000 registrazioni soddisfa il diritto all'””informazione completa” che non vi rientra, come lui stesso ha voluto sottolineare.
Ha fatto un’affermazione molto significativa dicendo che a seguito della riduzione dei costi per le innovazioni tecnologiche il finanziamento della Convenzione è stato utilizzato dalla radio per altri fini; ma poiché Radio Radicale non ha trasmissioni di intrattenimento né di evasione, bensì soltanto di informazione approfondita senza filtri e di cultura istituzionale e politica, interna ed estera, economica e sociale, giorno e notte, ed è priva di pubblicità, gli “altri fini” sono proprio il servizio pubblico nel senso più ampio definito dalla Corte Costituzionale, e non proseguendo il finanziamento verrebbe interrotto, a parte le sessioni parlamentari che possono essere trasmesse dalla Rai; perchè Radio Radicale è l’unica emittente che dedica l’intera programmazione al servizio pubblico per “il soddisfacimento dei cittadini all’informazione e alla diffusione della cultura”, informazione che si intende “informazione completa” e non scampoli parziali.
Quindi anche Crimi, come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’Agcom e le tante voci del mondo istituzionale e civile, ha “certificato” il servizio pubblico svolto da Radio Radicale con parte dei finanziamenti pubblici, e quindi la sua interruzione sarebbe frutto di un atto consapevole.
Il vice presidente del Consiglio e ministro degli interni Matteo Salvini, ha dichiarato che “Radio Radicale ha accumulato un patrimonio culturale, di archivio e di esperienza che è un peccato cancellare con un tratto di penna”, indicando significativamente: “Ci sono spazi di recupero economico sulla TV pubblica, con cui si pagherebbero metà delle radio italiane”. Aggiungiamo che questo è doveroso essenzialmente per Radio Radicale che dedica l’intera programmazione, diurna e notturna – 24 ore quotidiane senza interruzione e senza trasmissioni di evasione – al servizio pubblico cui sono destinati quei fondi, senza avvalersi minimamente della pubblicità.
E qui torniamo al contenuto di questo nostro articolo e di quello precedente citato all’inizio, secondo cui il punto di attacco per sostenere validamente le ragioni di Radio Radicale è proprio il fatto che soddisfa il diritto dei cittadini all’informazione completa e alla diffusione della cultura, servizio pubblico cui sono destinati, in base alla sentenza della Corte Costituzionale del 2002, gli oltre 2 miliardi di euro del gettito dell’imposta sul possesso di apparecchi riceventi. Ripetiamo fino alla nausea che è in gran parte versato alla Rai impropriamente, come se fosse la sola a svolgere tale servizio pubblico, invece lo fa molto parzialmente; mentre Radio Radicale lo fa in modo ben più compiuto, e questo riguarda non tanto le sedute del Parlamento, quanto tutte le altre trasmissioni dai congressi dei Partiti all’intera gamma di rubriche e dirette integrali.
Quindi è al gettito di tale imposta che dovrebbe attingersi per finanziare il servizio svolto da Radio Radicale allargando così la Convenzione: non è “canone Rai” , pur se alla Rai viene devoluto in gran parte, 80%, in una impropria identificazione. E a questo, al di là delle sue intenzioni, portano le stesse affermazioni, pur di chiusura, del sottosegretario Crimi.
Perché nessuno apre il “fronte Rai”? Crimi ha snocciolato i dati per le trasmissioni all’estero e per le minoranze linguistiche, diecine di milioni di euro, ma non ha giustificato minimamente l’1,6 miliardi di euro alla Rai per un servizio pubblico svolto solo in parte, quasi fossero dovuti senza doverli documentare, come ha fatto per le entità minori delle trasmissioni ora citate. Ed è lì che va riferita una Convenzione non rinnovata ma diversa, prelevando su quei 1,6 miliardi di euro o sui restanti 400 milioni circa destinati in modo singolare alla “riduzione del debito pubblico”; mentre se quello da noi chiamato “ircocervo” – servizio pubblico svolto dall’organo ufficiale di un partito politico peraltro desueto come la “lista Marco Pannella” – può essere di ostacolo, crediamo si possa normalizzare.
Una proroga di 6 mesi consentirebbe un mutamento di ottica radicale – usiamo questo aggettivo senza riferimenti politici – dando il tempo di definire l’accesso al finanziamento prelevato dall’imposta sul possesso degli apparecchi riceventi, con eventuali gare tra coloro che possano aspirarvi, e non vediamo quali e quanti altri, considerando che il prezioso archivio di 430.000 registrazioni integrali e l’esperienza maturata sul campo sono elementi unici e decisivi.
Ha fatto ben sperare la presentazione da parte dei deputati della Lega, primo firmatario il capogruppo alla Commissione di vigilanza sul sistema radio-televisivo Massimiliano Capitanio, di un emendamento al decreto “Crescita” con cui si destinano 3,5 milioni di euro alla proroga della Convenzione per tutto il 2019. Finalmente un’azione concreta che merita di avere successo, naturalmente dovrà superare il vaglio dell’ammissibilità, ma non possiamo credere alla volontà di impedire al Parlamento di pronunciarsi con motivazioni magari di lana caprina che mai hanno impedito di inserire materie anche diverse nelle corsie preferenziali dei decreti.
Una prima pronuncia delle presidenze delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera è stata però negativa, ma solo perchè occorreva l’unanimità dei gruppi, ed è mancata la disponibilità del gruppo del Movimento 5 Stelle, nonostante le sollecitazioni da ogni parte, a far discutere non solo l’emendamento della Lega, il partner di governo, ma quello di tutti gli altri gruppi in una convergenza trasversale che dà un’altra conferma dell’importanza e della caratura di questo servizio pubblico. Ma si potrà impedire al Parlamento di intervenire per il dissenso di un solo gruppo, quindi minoritario, su un problema per il quale c’è la mobilitazione della quasi totalità del mondo politico, economico, sociale, e anche istituzionale, a stare alle deliberazione di tanti consigli regionali e comunali e di molti altri organismi culturali e professionali? Sarebbe un “vulnus” democratico inammissibile, per questo la presidenza del Parlamento, che sarà chiamata sull’ammissibilità questa volta al voto in aula, dovrebbe doverosamente ammetterne la discussione superando ogni pretestuoso problema formale pena la sua irrimediabile squalifica venendo meno all’imparzialità. Fabrizio Cicchitto ha evocato, in caso estremo, l’intervento del Presidente della Repubblica. Subito dopo le elezioni europee e non ai posteri, l’ardua sentenza!
Giordano Bruno Guerri ha esortato a “non cedere ai segni”, esortazione che vale ancora di più quando i “segni” si sono tradotti in una chiara negazione nella sede più qualificata come la Commissione parlamentare competente.
Ma a questo punto non servono più i soli attestati delle benemerenze di Radio Radicale per l’insostituibile servizio pubblico che svolge; occorre esigere con la forza associativa e culturale che si è dispiegata finora, che il gettito dell’imposta destinata al servizio pubblico della completezza dell’informazione e diffusione della cultura” non sia pressoché monopolizzato dalla Rai che lo svolge soltanto molto parzialmente, ma vada anche a chi lo svolge compiutamente nell’intera programmazione, per di più senza pubblicità, e a costi infinitamente più ridotti.
Il tempo stringe, la mobilitazione non si dovrà fermare il 20 maggio, anche se sarà approvato l’emendamento che proroga per tutto il 2019 la Convenzione delle sedute parlamentari: il campo è ben più vasto e abbiamo cercato di dimostrarlo. E’ più vasto nei contenuti e nei soggetti interessati, impegnati a difendere, con Radio Radicale, il “diritto all’informazione e alla diffusione della cultura”, fondamentale per la vita democratica, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza sul finanziamento del servizio pubblico nel sistema radiotelevisivo.
Info
L’articolo citato è uscito su “www.arteculturaoggi.com” il 24 aprile 2019 con il titolo: “Radio Radicale dopo Bordin, una voce di civiltà da salvare per il bene di tutti”.
Foto
Le immagini sono state riprese a Roma da Romano Maria Levante, la prima davanti alla Facoltà Valdese Teologica il 19 aprile, le altre davanti al Vittoriano il 21 aprile 2019.