Luciano Radi, 3. I libri dell’anima, l’umanità e la fede di una personalità limpida

di Romano Maria Levante

Nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi , abbiamo  ricordato in precedenza la sua  figura e  rievocato il libro “Francesco e il Sultano”  a 800 anni dallo storico incontro avvenuto nel 1219, come esempio dei suoi libri sui santi, e il libro “Potere democratico e forze economiche”, a 50 anni dalla  pubblicazione, particolarmente significativo dei suoi libri di politica e di politica  economica, per la sua attualità sebbene il quadro sia radicalmente mutato. Questa volta, nel concludere la nostra rievocazione delle sue opere, piuttosto che concentrarci su una di esse abbiamo voluto fare una carrellata della sua narrativa con quelli che  definiamo “libri dell’anima”, perché contengono introspezioni e riflessioni colme di umanità,  il cui valore resta perenne e universale. Nella loro successione cronologica seguono i moti dell’anima dell’autore nelle varie fasi della sua vita.  Fanno parte del filone “narrativa” nel quale sono compresi anche “Diario di un cane” e Memorie di una lumaca”, il cui contenuto va ben oltre i titoli apparentemente disimpegnati. 

Ricordi  personali fonte di profonde riflessioni

Iniziamo con “Nati due volte”, siamo nel 1970, con  bozzetti di vita quotidiana ispirati dai suoi ricordi ripercorre la vita tormentata dei contadini della sua regione, l’Umbria, nel periodo critico in cui si è avuta la pratica scomparsa della civiltà contadina. Già nei suoi libri politici sui “Mezzadri” aveva affrontato questo evento epocale, in questo libro di narrativa invece si cala tra quella gente, come uno di loro, seguendone da vicino la vita che deve cambiare radicalmente, per questo sono “nati due volte”.  Le definisce “pagine scritte senza alcuna pretesa letteraria, umile e devoto omaggio agli uomini incontrati lungo la strada di una sofferta esperienza personale”.

Ma Carlo Carretto lo corregge, per lui è “un documento, un impressionante documento capace di far nascere  romanzi e destare inchieste su una realtà che anche se non esiste più nel suo complesso, travolta dalle veloci trasformazioni del nostro tempo, è ancora attaccata a brandelli sulle nostre carni e ci fa soffrire come se fossimo attori e responsabili… chi volesse e sapesse potrebbe  trovarvi materiali per romanzi ambientali come ?Il Gattopardo’ e ‘Il mulino del Po’ capaci di portarci di peso in un’epoca passata eppure presente in ciascuno di noi. Mutatis mutandis è una visione che si potrebbe applicare a molti altri cambiamenti epocali, vissuti e sofferti. Carretto vi trova anche un motivo preciso che dà al libro un valore attuale, pur se riguarda eventi superarti. Mostra l’incapacità dell’uomo a risolvere i suoi più vitali problemi: “Tutti hanno tradito queste povere popolazioni: lo Stato con le tasse e la sua lontananza, i padroni con la loro cocciutaggine avara e la Chiesa con il suo immobilismo…che sarebbe costato facilitare la vita a questa popolazioni di montagna prima che giungessero al limite  della loro sopportazione?”. E, per finire: “Le generazioni passate non hanno saputo risolvere i problemi della povera gente. Ma le nostre ci riescono?”.

Il pensiero va alla rigorosa analisi politico-economica del l libro “Potere democratico e forze economiche”  pubblicato nel giugno 1969, quindi poco prima di “Nati due volte”: lo abbiamo rievocato di recente,  denuncia i guasti provocati dal consumismo cui le comunità sono soggette per l’azione interessata delle forze economiche  che appaiono dominanti, mentre lo Stato dovrebbe far prevalere i consumi pubblici per soddisfare  esigenze collettive e i bisogni individuali più autentici.  

Nella stessa logica della rievocazione dei tempi passati, questa volta in un’ottica prettamente personale, “Sotto la brace”, del 1999, introdotto dall’epigramma o di Marziale “saper vivere con piacere il passato è vivere due volte” .  Queste due vite diventano paradossalmente contemporanee, perché vengono evocate dalle fotografie pescate nella scatola posta in un angolo della biblioteca: “Metterci dentro le mani,  confida, non mi capita di frequente, ma talvolta la tentazione di tuffarmi nel passato mi prende irresistibile. Nel vedermi nello stesso istante giovane e vecchio, sorridente e pensieroso, con l’abito della prima comunione e quello del matrimonio, mi fa rivivere velocemente, come in un frullatore, i nomi, i sapori, gli odori, le emozioni, le angosce della mia vita.

E in che modo li rivive?  Rievocandoli come se li sentisse nel momento in cui li fa riemergere dalla memoria, e proprio per questo provando di nuovo i sentimenti di allora. Ma soprattutto riflettendo, perché il confronto della realtà di ieri che torna nel ricordo,  con la realtà di oggi presenta in modo prepotente il mistero della vita, che  Radi  vede nel segno della speranza.

Dal “primo giorno di scuola” a “un incontro” con un compagno di allora dal “viso segnato da rughe  invecchiato da grosse verruche”,  la “stanza proibita” dell’infanzia e il funerale dell’”ultimo amico”,   “i vicoli”  e la “paura del temporale”,  la “vendemmia con parto” e  “la raccolta delle olive”,  i vicoli” e “la vecchia ciminiera”, “la settimana santa” e  “ letizia francescana”, “le mie cotte” da adolescente e  “ritorno a Varco”,  “la caserma Castro Pretorio“ e “la clandestinità” dopo l’8 settembre 1943,  le suore “cappellone” e “il matto di Foligno”, “un uomo solo” e “la coppia misteriosa”., e altro ancora. Si  conclude la carrellata nei tanti momenti della vita con la meditazione finale, “cadono le foglie”. 

Come aveva descritto con cura le situazioni e i personaggi confusamente tornati alla ribalta della memoria, così si concentra sulle foglie del suo giardino: “Osservo  foglie rotonde, oblunghe, ellittiche,  cuneiformi, lanceolate, : una fantasia inesauribile”.  Di qui una notazione che colpisce per la sua semplicità non scontata: “La natura, contrariamente a quanto facciamo noi, all’approssimarsi del freddo si spoglia e gli alberi perdono rapidamente i loro multicolori mantelli”. Con questo effetto su chi li guarda: “Gli alberi nudi mettono nell’anima un senso di malinconia”. Segue “lo spogliarello” degli alberi con attenzione crescente, osserva la caduta della foglia che “segue i capricci del vento: sale, sale, poi precipita improvvisamente per riprendersi e volteggiare più in alto”.   La logica del ricercatore lo porta a queste considerazioni  meditate: “Siamo anche noi foglie in balia del vento? Nessuno può prevedere l’itinerario che sarà chiamato a percorrere. La nostra vita appare capricciosa, con le sue contraddizioni e suoi tradimenti, le sue incertezze. Ci sembra di precipitare, ma poi un soffio ci solleva fino alle vette più alte”. Un vento “che Altro governa”.

Dalla finzione narrativa del taccuino di  un sacerdote la risposta ai misteri della vita

E qui ci piace rievocare “Non sono solo”,  del 1983, presentato dall’autore come il taccuino  di un sacerdote umbro che nella vecchiaia aveva voluto scrivere le riflessioni della sua vita pastorale. Negli ultimi anni “era riuscito a scendere nella profondità del suo io, alla ricerca della radice del suo essere, a scavare nel suo spirito per ascoltare la voce della storia dell’intera umanità che è dentro ciascuno di noi. Il Signore gli aveva finalmente rivelato il suo segreto”.

Nelle finzione letteraria Radi  si immagina vicino “a varcare il muro di cinta della propria esistenza”, e per questo ripensa all’itinerario  “per rivisitarlo con la mente e il cuore”, in modo meditato e sofferto, mentre  nello scorrere le fotografie  con i ricordi  “sotto la brace” c’erano pulsioni ma non interrogativi assillanti come quelli del nuovo libro.

Si interroga sul senso della vita e della morte, sui senso del dolore e dell’amore, per giungere alle domande fondamentali: “ Chi è l’uomo e chi è Dio?.  Siamo soli nel nostro cammino e che senso ha la realtà intorno a noi?  Ha scritto mons. Ferdinando Castelli su “Civiltà Cattolica: “In realtà il prete di Radi, nel suo lavoro di scavo alla luce della fede, non soltanto incontra e scopre se stesso,  ma aiuta tutti noi a incontrarci e scoprirci nella  nostra verità fondamentale. Si trasforma in tal modo in simbolo di umanità, indicatore di strade, dispensatore di verità essenziali”.

Quali sono queste verità?  Per  rispondere alla domanda “chi sono?”,  “scende nella profondità del suo io, alla ricerca delle radici del suo essere, a scavare nel suo spirito per ascoltare la  voce dell’intera umanità che è dentro ciascuno di noi”. La risposta è questa: “Quando scavi per ritrovare il tuo io, in fondo al pozzo  del tuo essere trovi, senza volerlo, Dio”.. Ma viene dopo aver provato il brivido del vuoto, superato quando è dato di vedere la luce divina.  A questo conduce anche la natura: “Il silenzio della terra è pieno di parole non dette e ciò che non è espresso agisce con forza rivelatrice della certezza dell’invisibile”.

Soltanto nascondendosi dietro il vecchio prete Radi ha potuto aprire completamente il suo animo di credente. E può abbozzare anche un  itinerario ascetico , la “nudità spirituale”  che si raggiunge liberandosi da tutto ciò che è zavorra e impedimento, come l’orgoglio  e la cupidigia del potere,  dei sensi e del piacere;  ma qui, commentiamo noi, siamo ai confini della santità, del resto sentiamo san Francesco come presenza invisibile quanto salvifica. .

 L’invocazione “Dio è amore, Dio è amore”,  che il vecchio  parroco declama ”come un ritornello” – commenta mons. Castelli – ”gli rinverdisce l’anima, gli rischiara la mente, gli trasfigura i giorni”. E allontana  ogni paura, anche la paura della morte.  “Siamo stati creati a immagine di Dio, perché in noi egli si specchia,  abita in noi. Ed  è vero per  un cristiano, ma anche per un buddista, un mussulmano, un miscredente”.  E’ un pensiero profondamente umano che supera i confini della religione,  e gli fa esclamare “non sono solo”, nessuno deve sentirsi solo.

Mons Castelli ne ricava “un messaggio per l’uomo d’oggi”, questo: “La solitudine e la vecchiaia possono, volendolo, trasformarsi in una vera ricchezza. Ci permettono di ritrovare noi stessi   e scoprire mondi inesplorati, di comprendere e trascendere la realtà materiale e guardare al di la delle cose”.  Non si cancella il carattere drammatico dell’esistenza, ma ci si apre alla speranza, anzi alla fiducia  proprio perché non ci si deve sentire soli, non si è soli.  La nostra salvezza non dipende neppure dalle nostre opere, ma dal nostro essere, identificato nelle parole: “chi sono”.

Il  libro, conclude il monsignore,  “fa amare la vita” perché mostra “che anche un  tramonto può trasformarsi in un’alba. Il prete che si avvia all’eternità  rappresenta ognuno di noi. Tutti, come lui, pellegrini che ci lasciamo alle spalle un mondo che deperisce.  Dove siamo diretti, su quali sentieri avviati per non smarrirci nel buio? E’ possibile trasformare le ombre in luci, la tomba in  culla? La risposta d che ci dà (il prete di) Radi ci fa amare la vita. E ci riconcilia con la morte, anche”

Se questa è il significato profondo del libro, che mons. Castelli da par suo pone  in evidenza, la forma narrativa da cui emerge è quanto mai semplice e accessibile, sono 70 brevi quadretti di vita filtrati dai ricordi del sacerdote, con tante descrizioni deliziose,  come quella degli uccellini; di quando in quando si inseriscono i temi più elevati di cui abbiamo parlato.  Allora il vecchio sacerdote si rivolge direttamente all’essere superiore in un dialogo intenso, ma nel momento conclusivo della vita le sue parole sono quelle di ogni essere umano: “Si può credere o non credere, ma ciò che non si può è sottrarsi a questo passaggio. Chi crede ha il dono di assaporare subito la letizia dell’Assoluto, chi è convinto di non credere, invece vedrà, quando avrà chiuso l’uscio alle sue spalle. Il figlio dell’Amore, credente o non credente, non muore, vive in eterno”.

La “trilogia dell’anima”

Pochi  anni dopo, nel 1990. il primo libro di quella che abbiamo definito “la trilogia dell’anima”,  ”Anime e voci”,  alla base di tutto i ricordi personali:come in “Nati due volte” e “Sotto la brace”, tante storie di  persone che ha incontrato sin dalla fanciullezza, l’ambiente è quello paesano in cui si è formato, decritto con la particolare maestria dell’autore che riesce a comporre bozzetti deliziosi.

Si affollano i ricordi,  il lavoro in uno zuccherificio che spandeva un odore dolciastro  nella vecchia Foligno e la solitudine del pensionato nella casa di riposo alleviata dalla presenza del cappellano, la corrispondenza tra due preti, il vecchio e il giovane, tra preoccupazioni e speranze, e la fede  intemerata di un vecchio contadino. Bozzetti di vita ai quali l’ambiente e la natura forniscono una cornice suggestiva, mentre le voci scuotono l’anima. Qualche scampolo: “Il latrato dei cani mi faceva vibrare l’anima come la voce di chi era rimasto al buio nei campi. Dentro sentivo turgida la vita. Ora sono sazio di anni, morso dalla nostalgia… Ho sempre fretta ma non so dove sto andando. La vita mi fugge tra le dita”. Una profonda umanità pervade gli incontri non solo con le persone, ma con quanto le circonda,  e  circonda l’autore, al quale la rievocazione del tempo che fu infonde malinconia, perché “non c’è il cielo, non ci sono i fiori, i sassi lisci e rotondi della mia strada”.

Non solo malinconia, ma spiritualità, senso religioso ma non confessionale, anche quando c’è l’incontro con dei sacerdoti, sullo sfondo c’è sempre l’amore che per Radi è il valore centrale della vita. Diventa chiesa ogni casa, diventa campanile ogni camino se vi arde l’amore.

Così lo ha giudicato un commentatore, Davide Piserà: “’Anime e voci’ è un libro che vi entrerà nel cuore; metterà in dubbio le vostre credenze e rispolvererà un po’ di umanità sopita nel vostro animo; quando avrete letto l’ultima pagina vi sentirete persi perché vi mancherà già parecchio”.

E’ mancato pure a Radi che non poteva fermarsi nella sua introspezione intima e accorata, tanto che cinque anni dopo ha colmato il vuoto con il secondo libro della “trilogia dell’anima”, il cui titolo è già un programma, “Luci del tramonto”, siamo giunti al 1995.

Anche qui i ricordi del passato sono l’alimento delle meditazioni sul presente con l’aggiunta del ripiegamento interiore che avviene nell’età avanzata allorché il presente ha più valore del futuro e si sente la presenza di Dio, mentre  il senso della morte è addolcito dalla fede in una nuova vita. La felicità non deriva dagli eventi esterni ma dalla spiritualità che si raggiunge all’interno dell’anima.

La memoria assume un ruolo importante nel dare testimonianza del passato, perché ci si aggrappa ai ricordi.  Invece lo scorrere agitato della vita tende a far concentrare sulle cose concrete piuttosto che sulle emozioni legate a ciò che è percepibile ma non afferrabile.  Il passato oggi sembra avere meno valore di ieri, mentre anche i singoli momenti tendono ad essere annullati nelle giornate convulse.

Il consumismo esasperato, al centro del libro di politica economica del 1969 “Potere democratico e forze economiche”,  torna anche in questa introspezione rivelandosi comunque incapace a dare una vera soddisfazione proprio allorché sembrerebbe soddisfare bisogni che sono solo fittizi perché indotti e non genuinamente sentiti dai consumatori, cui servirebbero di più i beni collettivi.

Stando così le cose,  Radi  si chiede: “Mi domando perché abbiamo dentro di noi tanta fame di infinito, perché non siamo soddisfatti e ci consideriamo prigionieri di una capsula lanciata nel tempo”. La risposta che si dà  riporta all’assunto iniziale, sulla felicità che non viene dall’esterno di noi anche se siamo capaci di far tesoro delle esperienze, cosa che  di solito non avviene. Quando siamo presi dall’insoddisfazione nell’incapacità di comprendere il senso della vita, “rivolgendo lo sguardo altrove, notiamo quasi con invidia che chi coltiva un barlume di fede, non difficilmente sa scorgere il bene anche negli anfratti del male, dove esso sa celarsi come un seme nella fessura della terra arida”.  Il richiamo alla natura non è episodico, Radi compie tanti accostamenti, come la capacità di adattamento dell’albero e l’amore che anima la fatica delle cicale, sempre nel misterioso itinerario nascita-vita-morte che hanno in comune con l’essere umano, in cui tutto ha un valore.

Ma risulta essenziale la consapevolezza di ciò che siamo nell’intimità dello spirito, la capacità di capire che  ci illudiamo se pensiamo di “avere il controllo della situazione, fissare i tempi e i modi del nostro futuro, presumere di poter dare una risposta ad ogni interrogativo”. D’altro canto, se avessimo queste capacità e non vi fossero misteri verrebbero meno tanti stimoli della vita, anzi “gli errori commessi aiutano a vivere” e “l’insoddisfazione genera le energie necessarie per risollevarsi”. Questo non vuol dire che la memoria è sempre salvifica, anzi spesso lascia delle ferite che non si rimarginano; soprattutto quando non riusciamo a resistere alle lusinghe del “male” ma anche in questo caso la memoria ci aiuta a restare “desti: “l’indifferenza porta alla perdizione, la sofferenza al pentimento e alla redenzione”..

Non si deve perdere la fiducia anche nei momenti più bui, “se imparassimo a distaccarci dalle cose che ci tengono prigionieri scopriremmo di essere capaci  di volare verso orizzonti  più vasti”;  per fare questo dobbiamo restare legati alle nostre radici, senza mai fuggire da noi stessi. Una intensa vita interiore ci preserva dalla noia, da cui tanti giovani sono oppressi vedendo intorno a loro “il nulla”;  gli amori, gli affetti, le emozioni rimaste nella memoria  salvano dalla disperazione. Finché il tempo li fa tacere, perché “’Altro’ deve parlare”. A quel punto “non rimane che spegnere la lampada  del leggio e chiudere la porta”. In questo saluto alla vita non c’è timore e  neppure rassegnazione,  tutt’altro. Maria  Giulia Giulino  conclude  il suo commento: con “un’esortazione, estrapolata dalle righe delle Luci, da rivolgere a chi legge e a chi ha posto nel proprio cuore un posto per scampare dalla propria prigione. ‘Sii come l’uccello che, pur sentendo tremare il ramo continua a cantare sapendo di avere le ali’”.  

Nel libro appena commentato c’è l’elogio del silenzio come presupposto necessario per quel raccoglimento e  ripiegamento interiore da cui nasce la meditazione che dà serenità e fiducia.

Quindici anni dopo, nel 2010, il silenzio non è più evocato ma vissuto, il raccoglimento non più auspicato ma voluto e raggiunto. Radi  scrive “I giorni del silenzio” come diario di un’esperienza vissuta nel ritiro in un convento per isolarsi dal mondo alla ricerca del raccoglimento dato dal silenzio in un ambiente molto particolare, dove soprattutto si vive il contatto con la vita semplice e la natura, oltre che con sé stessi.

E’ il convento di Rovo, dove si ritira per qualche giorno per fuggire dalla quotidianità convulsa spinto dal “desiderio di ascoltare la voce dello spirito, di ritrovare nell’interiorità il senso vero della vita”.  Il diario di quelle giornate si sviluppa nei tipici bozzetti dell’autore, brevi e densi di contenuto, nei quali l’immersione nella natura insieme alla vita semplice dei frati che si trova a condividere crea il terreno propizio per far rinascere la spiritualità e la fede che si erano assopite.   Su trenta bozzetti soltanto in cinque troviamo le esortazioni di Padre Jacopo, negli altri le sollecitazioni spirituali vengono dalle cose semplici che lo circondano, il bosco con i suoi piccoli abitanti, ritroviamo anche la lumaca e il cane, non quelli delle memorie e del diario – i due libri loro dedicati –  ma sempre ispiratori di pensieri distesi.

Delle suggestive descrizioni dell’ambiente eccone alcune che mostrano l’attenzione alle piccole cose. 

All’esterno: “In mezzo al vialetto vidi un grumo di formiche nere che trascinava la carcassa di un calabrone. La processione, dietro quei miseri resti,  aveva più che l’aria di un rito funebre  quella di un corteo festante e godereccio. Mentre  osservavo le formiche nella loro avida fatica, le api delle arnie del convento mi danzavano intorno  per poi volare sul ciuffo di margherite bianche  e gialle  poco distante da me. L’aria rarefatta e calda saliva  richiamando quella più pesante e il movimento faceva tremolare  le immagini, sollevava le foglie cadute, trascinandole in un vortice che  mulinava oltre il muro. Vidi il guscio di una lumaca, lo raccolsi e lo avvicinai all’orecchio credendo di udire le voci dell’orto come nelle conchiglie si odono quelle del  mare”. Nel quadro successivo: “Al di là delle querce e dei lecci splendevano i colori dell’arcobaleno. Qualche ora prima un temporale aveva colpito le colture, fatto strage dei frutti: l’uva martoriata, le mele ammaccate e le prugne cadute  sulla terra intrisa d’acqua. Solo le lumache [ancora loro! N.d.R.] erano contente, strisciavano sull’erba alzando le loro antenne”.

E all’interno: “Tutto era lindo e ordinato, gli ambienti, nella loro nudità, avevano un’anima, rivelavano uno stile di vita… lo spazio era freddo, esprimeva con forza una fede esigente”.  Vive questo stile anche lui, nella sua cella,  assistendo alla messa e visitando la biblioteca, nel giardino e “alla fonte dei frati”, incontrando gente semplice, come il vecchio il quale gli  dice che Dio non ha mai “avuto bisogno di cercarlo”  perché è “vissuto in un mondo che  vive  alla sua presenza, che non lo mette in dubbio . Il mio Dio ha il volto delle, stagioni, il volto dei chicchi  pregni di vita del mio grano”  Non così per l’autore,  “il mio è un Dio che non ha volto. E’ una Presenza misteriosa nell’anima”, perciò deve cercarlo, il vecchio lo esorta a dargli un volto, perché si trova dovunque: “dietro la maschera di ogni uomo si cela il Signore”.

Di questo gli parla anche Padre Jacopo in modo diverso: “E’ il Signore a cercarci”, e precisa: “Non siamo noi a stabilire quando e dove incontrarlo. Noi dobbiamo coltivare il desiderio. Nella vita spirituale l’attesa, spesso lunga e tormentata, è ineludibile. Un colpo di fulmine della Grazia è raro. Ma talvolta, quando ci sembra di essere nella solitudine più gelida, l’incontro con il Signore è dietro l’angolo”.

La solitudine ha due facce, può essere invidiata, come da lui e da Padre Jacopo, mentre per il pastore che incontrano “l’inferno è la solitudine infinita”, “il Dio che cerchiamo sono gli altri, perché sono gli altri a comunicarci l’amore”.  E questo fa dire al Padre:  “Credevi di essere solo, invece lo Spirito è sceso in te e si è manifestato nella tua anima. Chi ama non è solo: chi ama ha la pienezza che sazia”.

In chiesa lo ripeterà all’ospite in ritiro: “Le parole  e la cultura vengono dopo, prima c’è l’amore. Ogni espressione di amore rivela la presenza del Signore, la sua epifania”,  al di là delle  fedi religiose: “I simboli sono differenti, ma lo Spirito dell’amore  è sempre lo stesso, uno, infinito… io credo che le religioni siano un multiforme cammino dell’uomo verso Dio”. Ma non è facile amare: “Qualche volta riteniamo di amare e l’illusione è così forte da trasalire nella gioia di una falsa estasi… quando ci sembra di ghermire la felicità, improvvisamente  scopriamo di essere soli. E’ difficile imparare ad amare, ma non temere”. E spiega perché: “Va’ tranquillo, fratello mio, Il Signore è con te”.

Finisce così il singolare ritiro spirituale con pochi colloqui  e tanta immersione nella natura, ecco le parole conclusive, un “addio monti…”  che segna il ritorno alla vita di sempre: “Lasciavo alle mie spalle le belle colline: i grappoli pendevano turgidi dai tralci, gli ulivi facevano danzare le loro chiome d’argento, le messi esprimevano nella loro ricchezza la promessa di una nuova primavera. Il pensiero  volava ancora ai fugaci giorni del mio ritiro. Sia pur teso, avvertivo di aver ritrovato me stesso”.

E termina anche la nostra carrellata nei “libri dell’anima” con il pensiero rivolto all’autore, scomparso quattro anni dopo “I giorni del silenzio”. Ricorderemo sempre Luciano Radi, per la spiritualità che ha saputo far emergere dall’aridità della politica, praticata da protagonista  e testimone autorevole: è un  fiore che spunta dalla roccia, anzi una fioritura coprendo queste sue opere un ampio itinerario di vita. I suoi libri  trasmettono al cuore di tutti il messaggio prezioso di una “personalità limpida” – come lo ha definito Pierferdinando Casini alla notizia della sua scomparsa – che  lascia  insegnamenti preziosi e attuali in diversi campi, in una tensione morale continua alimentata da una profonda umanità.

Luciano Radi (secondo da sin.) alla presentazione di un suo libro a Foligno

Info

Luciano Radi:  “Nati due volte”, A.v.e., dicembre 1970. pp. 102;  “Sotto la brace”, Edizioni Ares, novembre 1999, pp. 136;  “Non sono solo”, Rusconi, dicembre 1983, pp. 122;  “Anime  e voci”, Rusconi, 1990,  pp. 110;  “Le luci del tramonto”, Rubbettino, gennaio 2005, pp. 69; “I giorni del silenzio”, Minerva Editrice Assisi, 2010,  pp. 87. Sono tratte da tali volumi le citazioni del testo, a parte quelle di alcuni commentatori prese da fonti diverse.  Sono di narrativa anche”Diario di un cane”, Bompiani, giugno 1993, pp, 121, e “Memorie di una lumaca”, Rubbettino, settembre 2002, pp. 194, in qualche modo avvicinabili a questo filone; mentre i libri sugli “onorevoli colleghi”, in quanto legati alla politica li abbiamo citati nel servizio precedente, insieme ai libri più propriamente in materia politica e politica-economica;  e quelli sulle vite dei santi nel primo servizio sulla manifestazione di Foligno per “San Francesco e il Sultano”.  I due precedenti articoli sono stati pubblicati in questo sito il  6 giugno 2019, “Luciano Radi ricordato con una sua opera, l’incontro tra Francesco e il Sultano 800 anni fa”, e l’8 giugno “Luciano Radi, potere democratico e forze economiche, ieri e oggi”; i tre ultimi articoli usciranno il 13 giugno, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”. e il 15 giugno, “Luciano Radi, il mio ricordo”.

Foto

Le copertine dei libri commentati sono nell’ordine in cui vengono citati nel testo. In apertura, “Nati due volte”, 1970; seguono, “Sotto la brace”, 1999 e “Non sono solo”, 1983; poi la “trilogia dell’anima”, “Anime e voci”, 1990, “Luci del tramonto”, 2005, e “I giorni del silenzio””, 2010; infine, Luciano Radi ( secondo da sin.) alla presentazione di un suo libro a Foligno; in chiusura, un’immagine di Luciano Radi. Le ultime due immagini sono state tratte dai siti web di pubblico dominio, rispettivamente spoletoonline.com e perugiatoday.it, si ringraziano i titolari dei siti.

Luciano Radi

Luciano Radi, 2. Potere democratico e forze economiche, ieri e oggi

di Romano Maria Levante

Nel quinto anniversario della scomparsa di Luciano Radi la manifestazione  di Foligno del 30 maggio sulla sua figura e sul suo libro “Francesco e il Sultano” ad 800 anni dallo storico incontro, ha consentito di delineare qualche tratto del suo modo, documentato e insieme appassionato, di trattare le vite dei Santi, uno dei filoni della sua vasta produzione pubblicistica, con 8 opere, oltre che di ricordarlo come “protagonista e testimone del nostro tempo”. Nel rendere conto della manifestazione abbiamo preannunciato che avremmo celebrato un altro anniversario, i 50 anni dalla pubblicazione del suo “Potere democratico e forze economiche”, uscito nel giugno 1969. Lo facciamo ora per la sua attualità anche in tempi così  mutati.

Copertina del libro

Il libro appartiene al filone legato alla politica in generale, dalla quale Radi trae  ispirazione in diverse  direzioni tra loro collegate: politica economica e  Partiti, personaggi politici e scherzosi bozzetti  sugli “onorevoli colleghi”.

Radi era diventato sottosegretario alle Partecipazioni statali e, nella sua responsabilità istituzionale e sensibilità civile, sentì di dover approfondire i temi legati al confronto tra le forze politiche, espressione della vita democratica, e i grandi gruppi che influenzano l’andamento del sistema economico spesso in contrasto con le esigenze più sentite da parte della comunità.

Luciano Radi è stato sempre aperto alle novità e intento a scoprire i movimenti più nascosti della società per prevenire gli sviluppi  con un’adeguata azione politica.  Come esponente della corrente “Nuove Cronache” aveva contribuito a innestare nella tradizionale politica centrista della DC luna maggiore apertura ai temi sociali  assecondando la spinta che veniva dalla società in profonda trasformazione.  Aveva già pubblicato uno studio approfondito sulla questione mezzadrile, particolarmente avvertita nella sua Umbria, ed ora si trovava ad affrontare il confronto con i potenti gruppi economici, in un clima reso incandescente dalla contestazione re giovanile, Così nacque “Potere democratico e forze economiche”, uno dei 9 libri in tema politico, cui vanno aggiunti  4 libri dedicati a grandi personaggi  sempre della politica.

L’esigenza di un rinnovamento nelle scelte di politica economica

Perché riteniamo che “Potere democratico e forze economiche” sia di grande attualità anche oggi? Lo vediamo dalle accese critiche all’Europa per aver trascurato la questione sociale ed essersi immiserita in un ruolo burocratico e anche oppressivo; e lo vediamo dai tentativi di dare delle risposte all’interno alla questione sociale con misure discusse come il reddito di cittadinanza e la fornitura di materiali di consumo alle giovani madri per alleggerire il peso economico della natalità e rilanciarla; lo vediamo dai timori che suscitano le azioni dei grandi gruppi internazionali; lo vediamo dallo strapotere dei mercati ;  lo vediamo dalla pretesa di una crescita senza fine dei consumi  alla cui stagnazione si  attribuisce la crisi. Tutto questo  avviene, però,  in modo parcellizzato e confuso, senza una visione d’insieme del modello di società cui tendere e degli interventi da operare per muoversi nella direzione ritenuta idonea alle esigenze del paese.  

Ebbene, il libro di Luciano Radi presenta invece un quadro organico di come si dovrebbe procedere  e molte delle sue indicazioni di merito, e non solo di metodo, sono illuminanti e istruttive. Lui coglieva “i fermenti di profondo rinnovamento che agitano la società contemporanea”, e non si può dire che oggi non ci siano, la rivoluzione digitale, la robotica sempre più invasiva  sono soltanto alcuni fermenti, e che fermenti!  Inoltre la globalizzazione ha reso ben più invasiva di allora la pressione sulla vita della comunità nazionale.  Se allora, come scriveva Radi, l’impegno per far fronte  ai radicali mutamenti nella società, non  doveva risultare “da ‘improvvisazioni sul tema’ di cui la grande complessità della materia farebbe rapidamente giustizia”, questo è ancor più validi oggi, quando la  complessità si è moltiplicata.

Le sue “idee per una moderna politica economica nazionale” prendono l’avvio dalla constatazione che  l’impostazione tradizionale della politica economica  è inadeguata rispetto alle nuove esigenze ed ai fermenti della società e alla modificazioni strutturali del sistema economico. Oggi non sono qulle  di 50 anni fa con il passaggio dall’economia agricola a quella industriale, ma “mutati mutandis”, la società postindustriale con la rivoluzione epocale in tanti campi la rende ancora più inadeguata.

Allora “i grandi problemi aperti dalla società” riguardavano “i rapporti tra classe politica e classe economica, le grandi scelte della società e la loro attuazione nella condotta pratica ei gruppi sociali, i rapporti – nell’ambito de sistema produttivo – tra grande e piccola impresa”. La stessa vita democratica ne è fortemente influenzata.

 Radi poneva come primo problema quello dei rapporti tra potere politico e potere economico , dovuto al fatto che “le grandi concentrazioni economiche riescono ad eludere le scelte del potere politico in quanto quest’ultimo non dispone di strumenti adeguati a controllare che l’evoluzione del sistema economico avvenga secondo le linee direttrici determinate  dalla classe politica”.   Oggi a questo problema si è aggiunto quello posto dalle istituzioni europee, portatrici di interessi spesso antagonisti rispetto ai nostri per la concorrenza tra Stati , che di fatto possono commissariare la nostra economia e la nostra politica. Anche qui si reagisce in modo scomposto ed episodico, senza una riflessione di fondo che vada al di là delel opportunità contingenti.

Naturalmente, nei tempi così mutati non si può riproporre una nuova programmazione  economica, dopo la sostanziale inefficacia dei tentativi esperiti in un’epoca con meno variabili fuori  controllo di quella attuale. Però non si possono lasciare senza risposta interrogativi che risuonano sempre più forti.

 Abbiamo accennato al problema dei consumi interni , che si vorrebbero in costante crescita per alimentare la produzione;  oggi si  evoca l’economia keynesiana sul finanziamento in deficit per mettere in moro il moltiplicatore del reddito e l’acceleratore degli  investimenti, e far ripartire il sistema che continua a manifestare una notevole capacità di accumulazione, con un risparmio privato quattro volte il famigerato debito pubblico. Ma non si considera che nelle economie opulente come la nostra, pur nelel sue notevoli disparità reddituali, i consumi  sono saturi.

 “Il tema di fondo su cui la nostra società dovrà decisamente impegnarsi nel futuro riguarda la correzione degli eccessi della società consumistica  e l’orientamento dello sviluppo del Paese verso le più autentiche finalità che una comunità sana ed ordinata non può certo trascurare”. E questo non mediante improponibili interventi autoritari ma modificando la scala di valori e incidendo sula destinazione del processo di accumulazione che già vediamo restio a indirizzare sui consumi privati: “La correzione deve partire dal processo di accumulazione , che va sempre più inteso come una funzione pubblica, quindi finalizzato agli obiettivi che la società si propone”. In effetti oggi l’accumulazione non è distorta, va correttamente indirizzata non in modo dirigistico ma rendendo vantaggioso l’impiego per finalità pubbliche e sociali. E deve riguardare i consumi indotti, che non corrispondono a bisogni ma alla manipolazione dei produttori.

Ne deriva è un’affermazione di Radi  che diventa di grande attualità, anche in senso divisivo: “ La correzione deve riguardare anche i consumi”, dato che le scelte dei consumatori non sono  frutto di scelte individuali coerenti, ma di tale manipolazione: “Il consumatore, in effetti, è travolto da una spirale dei consumi” che riguarda sol,o in parte “il soddisfacimento di autentici bisogni, dato che per lo più sono il riflesso della scala di valori  che presiede alla nostra società consumistica. L’effetto imitazione porta comprendere nei bilanci familiari voci sempre nuove cui hanno avuto accesso altre categorie sociali; e quanto più si è manifestata la mobilità per le categorie suddette, tanto più tumultuoso è risltato tale processo”.

Pensiamo alla levata di scudi in atto sul ventilato aumento dell’Iva sui consumi, per le clausole di salvaguardia, mentre escludendo quelli necessari potrebbe essere un modo di correggere il consumismo esasperato destinando tali risorse a impieghi più utili alla società, ma nessuno ha il coraggio di parlarne, salvo un timido accenno del ministro Tria, subito  rientrato.  . Quali impieghi?

E qui  Radi getta il suo asso, “il soddisfacimento dei bisogni collettivi”, che dovrebbe essere una risposta al “rincorrersi dei bisogni indotti”: “Le carenze nei servizi sociali –  dalla sicurezza sociale alla scuola, all’abitazione, al sistema ospedaliero, alla sistemazione delle infrastrutture urbane ed extraurbane, alla razionalizzazione dello sviluppo urbanistico e dell’assetto territoriale, alla sistemazione del suolo – nonché gli squilibri esistenti nello sviluppo economico sono gravi lacune che soltanto il disordinato sviluppo della società consumistica ha potuto determinare”. Il vice presidente del Consiglio Salvini nei suoi recenti interventi ha sostenuto l’esigenza indifferibile di procedere in questa direzione, sia pure in modo che è sembrato apodittico e privo di una motivazione coerente in un quadro organico di risorse e impieghi. Se manca il quadro di compatibilità si presta ad essere contrastata come idea velleitaria e propagandistica.

Il libro invece  affronta il tema della distribuzione delle risorse perché è avvenuta “senza alcun rispetto per le opzioni prioritarie della collettività ma tenendo conto soltanto delle tendenze meno genuine  e più condizionate di un certo processo di sviluppo dominato dalla produzione”.  E va anche oltre: “La società del benessere è divenuta la società del consumo individuale, che è tanto più lontana dal benessere autentico quanto più priva i cittadini di quelle condizioni di civiltà e di progresso – che si riassumono nelle dotazioni sociali che danno sicurezza al cittadino ed ordine al progredire della società – e di quella autonomia dal mondo della produzione , la quale rappresenta la sola garanzia contro il pericolo dell’alienazione che minaccia le grandi società industriali”.  Contrastare tutto questo vuol dire “correggere gli eccessi della società consumistica e promuovere il generale sviluppo della società”. E lo si può fare . senza eccessi dirigisti in una società come la nostra, anzi è proprio della democrazia far prevalere i diritti collettivi sugli interessi di pochi, facendo prevalere il potere democratico sulle manipolazioni delle forze economiche. 

“Ed è questo il compito che la classe politica deve assumere senza cedimenti né compromessi,  consapevole che dovrà incidere sugli interessi che alla società consumistica sono legati ma nello stesso tempo con la convinzione di avere dalla sua parte la maggioranza del Paese”.  Il sistema democratico, in sostanza, affida “agli organi rappresentativi le opzioni di fondo”,  ma deve dare loro anche gli strumenti necessari.

Si potrebbe obiettare che destinando prioritariamente le risorse agli impieghi sociali si compromette l’efficienza del sistema.  Radi ha subito la risposta: “L’efficienza viene potenziata con una più razionale strutturazione delle attività economiche e con un più equilibrato assetto territoriale, come con le altre realizzazioni di ordine sociale”. Non è questione di numeri e numeretti, va riconsiderato interamente l’assetto economico e sociale per un vero cambiamento, già evocato 50 anni fa in termini così attuali, .e lo si può fare:

“Il mondo della produzione dovrà essere portato ad orientarsi verso quei settori più legati ai bisogni primari della società che sono definiti dalle opzioni di fondo del Paese. L’attività in tali settori dovrà  essere caratterizzata dallo stesso grado di efficienza  raggiunto nelle attività volte al soddisfacimento dei bisogni individuali, in quanto anche in questo caso vi sarà la verifica continua e stimolante della concorrenza estera, nonché dells competizione interna”.

La valorizzazione del “primato dei consumi collettivi” rispetto a quelli individuali indotti dalla produzione  determinerà  una “profonda razionalizzazione del comportamento del consumatore” che va difeso dalle suggestioni consumistiche rispettandone la libertà di scelta, ma facendone una scelta informata.

A questo punto Radi pone il problema della “portata comunitaria delle scelte” rispetto all’idea europea, facendone addirittura il motore del rilancio di un’adesione popolare già allora affievolita: “L’idea ispiratrice centrale che potrebbe rappresentare  la fiaccola di un nuovo e avanzato movimento europeo  potrbbe essere proprio questa visione degli alti fini di civiltà che i paesi membri [allora erano sei] devono sentirsi impegnati rifuggendo dai falsi miti della società consumistica”. Non è un “vaste programme” alla De Gaulle, non lo era ieri, pur se non ha avuto seguito, non lo è oggi, anzi può essere la soluzione per la crisi di ideali e il distacco dalla società civile portata dalla visione miope e ottusa  dei burocrati europei, legata ai “numeretti2 del deficit e dei parametri, e non alla realtà economica e sociale che giustamente va in direzione opposta.

 Radi così conclude: “L’intero discorso sulla politica economica potrà diventare così da nazionale , europeo; e porre le basi concrete e nel contempo permeate dei più elevati ideali, di quella idea europea che fino ad ora non ha ricevuto nuova linfa, dopo i romantici fervori degli anni cinquanta”, Sono parole di cinquant’anni fa, Il presidente Conte e il ministro Tria potrebbero farle proprie negli imminenti contatti con la Commissione europea, dando una prospettiva nuova alle istituzioni europee profondamente rinnovate dopo le recenti elezioni, che dovranno dare un seguito alle spinte al cambiamento dall’opinione pubblica europea.

Ostacoli e difficoltà sulla strada del rinnovamento

Non è un processo indolore, l’autore non si nasconde le difficoltà. L’incessante evoluzione tecnologica, se è fonte di incremento di produttività può avere anche “un significato regressivo sullo sviluppo civile della società, qualora non venga opportunamente inquadrato in un più vasto  contesto di obiettivi  e di vincoli”. Ne parlava Radi  50 anni fa, il tema è attualissimo oggi, ad esempio con la robotizzazione che può ridurre drasticamente la domanda di lavoro richiedendo misure compensative, lo sostiene De Masi che a questo fenomeno riferisce un eventuale reddito di cittadinanza strutturale e allargato.

D’altra parte il cittadino è inerme dinanzi a tali eventi perché come consumatore non ha autonomia nelle sue scelte indotte da quelle dei produttori, a loro volta condizionate dalla competizione oggi a livello globale. Il circuito “produzione-consumi indotti”  riguarda il consumismo individuale del tutto sganciato dalla razionalità relativa ai bisogni autentici,  per cui il consumatore sacrifica “implicitamente, e spesso inconsapevolmente, bisogni più profondi che non possono emergere a livello individuale  in quanto riguardano la comunità nel suo insieme”.

  A ciò si aggiunga che  a dominare non sono neppure i “mercati”  nell’accezione di Adam Smith con una “mano invisibile” con una propria razionalità intrinseca; ma gruppi oligopolistici dominati da tecnostrutture , come le definì Galbraith, “le cui finalità  divergono inevitabilmente sia da quelle dei singoli consumatori che da quelle della collettività”.  Ad entrambi i livelli “le dotazioni di servizi sociali occupano uno dei primi posti nella graduatoria dei bisogni che una società non può soddisfare”.; si pensi che la carenza di strutture di assistenza alla maternità determina addirittura  il drastico calo della natalità che affligge il nostro paese con diminuzione della popolazione e quindi della sua stessa proiezione nel futuro, eppure non si provvede. A ciò si aggiungono “le dotazioni infrastrutturali e e quanto altro attiene alal vita intesa nel suo contenuto più autentico ed essenziale, quale è possibile definire una volta distaccati dai miti persistenti e in continuo  rincorrersi che propone la civiltà industriale”. 

Le forze politiche, che dovrebbero operare assicurando questi servizi e queste dotazioni indispensabili  nell’interesse della collettività, sono bloccate dal contrasto con il  potere economico che le sovrasta per cui devono trascurare il soddisfacimento di quei bisogni che “costituiscono precise necessità della comunità nel suo complesso. Sono bisogni che rappresentano l’autentico contenuto di una convivenza civile e ordinata: e costituiscono il vero contraltare delle suggestioni alienanti che provengono dalla società del benessere”.

A questo punto Radi denuncia l’arretratezza dell’organizzazione politica, nella sua staticità e inadeguatezza,  rispetto alle trasformazioni economiche e sociali, e si riferiva a  una politica organizzata in partiti con programmi e ideologie radicate su dei principi,, mentre oggi prevalgono le forme volatili di aggregazione spesso intorno a leadership effimere. E “la crisi degli organismi rappresentativi” che si è aggravata con un Parlamento sempre più svuotato , mentre  deve essere  “adeguatamente rivalutato rappresentando la più autentica garanzia di vita democratica”.

 In effetti l’uomo come cittadino è privo di partecipazione effettiva ieri e ancora di più oggi che è venuta meno la possibilità di far sentire la sua voce nelle strutture dei partiti politici e delle forze sindacali, già radi ne denunciava la crisi 50 anni fa. Oggi  si sono rarefatte non solo nella sostanza ma anche nella mera apparenza,  fino ad evaporare del tutto  in forme definite liquide, ma ci sembrano piuttosto gassose.

Se il potere sovrano teoricamente è stato trasferito al popolo, la solenne proclamazione in tale senso da parte della Costituzione “trova di regola un limite – osserva Radi – nell’effettività di tale trasferimento… il divario esistente tra democrazia formale e democrazia sostanziale segna la misura dell’opera di costituzione di uno Stato effettivamente democratico”.

La crescita culturale fa sì che cresca la consapevolezza di questi condizionamenti sopportati dall’uomo come cittadino senza adeguata partecipazione e senza possibilità di soddisfare i bisogni più autentici, e come lavoratore  subordinato alle esigenze della produzione fino a calpestare i suoi diritti e la sua dignità. 

Questo faceva sperare Radi anche se le sue speranze non sono state esaudite finora: “E’ solamente per l’attuale migliorata preparazione culturale che la comunità può darsi un assetto  politico autenticamente democratico. L’arricchimento culturale della comunità e il maggior impegno sul piano politico che ne deriva rende il processo suddetto irreversibile.

Esso si alimenta costantemente con i nuovo apporti che provengono dalle forze emergenti nel paese:in particolare l’impulso dei giovani, quali forze vive che la cultura rende maggiormente consapevoli ed impegnate, determina  una accelerazione del processo suddetto anche al di là dei tempi che regolano tali fenomeni”. Scriveva nel 1969, sull’onda della contestazione studentesca  del 1968 che aveva portato alla ribalta i giovani con il loro protagonismo pur tra tante contraddizioni. 

Attribuiva la contestazione verso il  sistema all’impossibilità di trasmettere  e far valere le esigenze più sentite, che la crescita culturale poneva all’attenzione di tutti. Forse quella del ’68 fu una spinta eccessiva, se si è avuto un contraccolpo così forte nella totale astrazione dalla politica, le riflessioni fatte nel 50° anniversario del 1968, lo hanno registrato,  e lo slogan “68, la battaglia continua”, cui si è intitolata una mostra rievocativa alla Galleria  Nazionale d’Arte Moderna di Roma resta vuoto di contenuti.

La situazione di oggi è l’opposto con il ripiegamento dei giovani sul personale e la totale indifferenza rispetto ai grandi problemi, né possiamo considerare una ripresa il movimento ambientalista dei  ragazzini mobilitati intorno a “Greta”, che sembra una parodia di una consapevolezza motivata e matura.

Gli strumenti, la classe politica, l’assetto istituzionale

L’ultima parte del libro  riguarda proposte concrete che evocano un fatto molto recente, il tentativo di ammodernare l’assetto  istituzionale con le modifiche costituzionali bocciate dal referendum con il 60% di voti contrari. Ma le sue proposte si inserivano in un quadro organico e coerente a tutti i livelli, non erano i parziali e per molti versi contraddittori e del tutto insufficienti  interventi che sono stati respinti.

Radi parte dal superamento delle rigidità nell’organizzazione statuale “con una maggiore articolazione dei gruppi, e deve promuoversi una maggiore partecipazione dei cittadini  per dare alla vita democratica un contenuto effettivo  e concreto. In tale azione è necessario dar prova di coraggio e decisione  per fornire un autentico contenuto rivoluzionario ”ad iniziative riformistiche prese nell’ambito del sistema”. E precisa: “Il contenuto rivoluzionario riguarda la scala di valori che presiedono alle attuali scelte della società, scala di valori che deve essere rovesciata perché profondamente distorta”.

Nell’organizzazione dello Stato deve essere assicurato “un effettivo pluralismo, che sia pluralismo di gruppi e nel contempo pluralismo di poteri e di funzioni. In questo senso vanno esaltate al massimo le autonomie locali, quali forme di espressione di quel pluralismo di poteri che riflette la molteplicità di esigenze e di istanze emergenti da una società articolata e composita”. Risuonano molto attuali dinanzi alle istanze di maggiore decentramento di poteri e funzioni ad alcune regioni che ne hanno fatto richiesta, ma senza inserire questo intervento in un quadro organico – come quello delineato dal libro – sono inevitabili gli scontri e le polemiche a cui stiamo assistendo tar le stesse forze della maggioranza di governo.

Radi a questo collega “le autonomie funzionali di altri gruppi in cui si compongono le esigenze della collettività e che non possono essere rappresentate da organismi statali”. Una rete di questi gruppi potrebbe svolgere un ruolo fondamentale garantendo un costante collegamento con le funzioni statuali, perché potrebbe favorire “la rispondenza ai bisogni effettivi  della comunità che trovano appunto nei corpi intermedi la sede più genuina ove manifestarsi”, che non è di certo la struttura monolitica dello Stato centrale.

Naturalmente questi organismi intermedi devono assicurare la partecipazione dei cittadini; e delle loro istanze vanno portate avanti quelle che non si esauriscono in  interessi particolaristici ma concorrono ad un autentico progresso civile e umano  dell’intera collettività  verso le sue finalità superiori. Appositi organismi di consultazione potranno garantire il contatto continuo tra rappresentanti e rappresentati.

Anche gli enti locali possono essere riformati in questa direzione, con una sburocratizzazione  e la creazione di contatti diretti con la base attraverso adeguati organismi assembleari. Ciè sarebbe ancora più importante oggi che si è perduta la volontà di partecipazione, mentre va rilanciata dando forme e strutture adeguate.

La classe politica deve assumere “una nuova funzione nel contesto delle scelte di fondo della società, che sono scelte collettive in relazione  ad istanze comuni a tutti, anche se profondamente diverse dalle scelte che operano i singoli nell’attuale contesto socioeconomico che si è visto essere profondamente distorto”. Non deve assolutamente assumere una “funzione educativa del cittadino”, sarebbe in contrasto con l’essenza stessa della vita democratica, “ma non può abdicare alla sua primaria funzione di salvaguardare i valori della civile convivenza da ogni attentato, sia esso palese od occulto”. Come quello dei pifferai del consumismo.

“In definitiva, il primo  problema è quello di assicurare autentici contenuti umani e civile all’uomo come lavoratore e come cittadino, perché la sua vita possa essere rispondente ai contenuti culturali e alle esigenze spirituali che la sua stessa inalienabile natura postula. Inoltre – ed è questo un aspetto consequenziale delle medesima realtà –  bisogna garantire l’uomo come consumatore in modo che vengano soddisfatti i suoi più sentiti bisogni e che le sue scelte non siano distorte da suggestioni più o meno palesi  che privano di una effettiva libertà rendendolo strumento inconsapevole di un sistema che non è a dimensione di uomo”. L’insistente ritornello che “non lo permettono i mercati” – e non permetterebbe di soddisfare esigenze pressanti della comunità – al quale non si dà una risposta adeguata,  mostra come queste affermazioni di 50 anni fa oggi siano ancora più valide  e suonino come forte ammonizione, anzi come una premonizione. Come lo è quest’ultima affermazione: “E’ sul contesto istituzionale che bisogna operare per rendere effettive le riforme specifiche che verrebbero invece svuotate da ogni portata concreta qualora avulse dal quadro di fondo che si è delineato”.

Ed è quello che manca del tutto oggi, come se Radi lo avesse previsto mettendo in guardia sin da allora. Gli interventi parziali  privi del quadro di fondo che ne assicura la coerenza e insieme la necessità hanno poco respiro, come si vede tutti i giorni. Ma si potrà mai avere un disegno organico per soddisfare i bisogni più autentici della comunità?   La fine delle ideologie ha tolto  ogni possibile riferimento ad impostazioni di carattere generale, per quanto vaghe e generiche, nulla è stato sostituito, neppure un sano pragmatismo però inserito in un  quadro coerente di obiettivi e strategie, interventi e risorse, per le  ineludibili finalità collettive.

Nel quinto anniversario della scomparsa Luciano Radi  ci ammonisce con la sua analisi premonitrice di 50 anni fa. Una guida per i governanti ma soprattutto un richiamo perché siano soddisfatti  i bisogni più autentici della comunità nazionale con una rivoluzione copernicana che potrebbe rilanciare anche l’ideale europeo.  Ci sembra che ce ne sia proprio bisogno, dati i tempi che stiamo attraversando.

Info

Luciano Radi, “Potere democratico e forse economiche”, Edizioni Cinque Lune, collana “Economia e Diritto”, giugno 1969, pp. 98, ”; dal libro sono tratte le citazioni del testo. Sui temi  politico-economici ha pubblicato   anche: “La risi della pianificazione rigida e centralizzata”, 1957 e “I mezzadri:  le lotte contadine nell’Italia centrale dall’Unità al 1960”, 1962, “Partiti e classi in Italia”,  1975, “La grande maestra, la tv tra politica e società”, 1991, “La macchina planetaria, quali regole per la corsa alla globalizzazione”, 2000. Sui Partiti, “Il voto dei giovani”, 1977  “La talpa rossa”, 1979 , fino a “Riflessioni su una sconfitta”  e  il successivo “Riflessioni su una vittoria”. Sui personaggi politici: nazionali, “Tambroni, trent’anni dopo”, 1990, e “Gli anni giovanili di Giorgio La Pira”, 2001, “La Dc da De Gasperi a Fanfani”  e “Gerardo Bruni e la questione finocattolica”, 2005;  locali, “Foligno 1946. Ricordo di Italo Fiattaioli e Benedetto Pasquini in occasione del sessantennio della prima elezione democratica al Consiglio Comunale”, 2006; storici, “Il mantello di Garibaldi”“, 2011. Sugli “onorevoli colleghi” e non solo: .”Buongiorno onorevole”, 1973, e “Gli scarabocchi dell’onorevole”, 1978, “Il taccuino dell’onorevole”,  1985, e “Buonanotte,  onorevole”, 1996, fino a “Un grappolo di tonache”, 1981. Cfr. il nostro articolo uscito in questo sito il 6 gennaio,  “Luciano Radi, ricordato con una sua opera, l’incontro tra Francesco e il Sultano 800 anni fa” dove sono citati  i suoi libri su tema religioso, e i servizi che usciranno l’11  giugno, “Luciano Radi e i “‘libri dell’anima’ , l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’”  con  i suoi libri di introspezione e riflessione personale, e il 13 giugno,”Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo” sulla sua figura, fino al 15 giugno “Luciano Radi, il mio ricordo”.

Foto

In apertura, la copertina del libro di Luciano Radi, “Potere democratico e forze economiche”, 1969; in chiusura, un’immagine di Luciano Radi (da spellooggi.it, si ringraziano i titolari del sito).

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Luciano Radi, 1. L’omaggio con una sua opera, l’incontro tra “Francesco e il Sultano” 800 anni fa

di Romano Maria Levante

Il 30 maggio 2019 si è tenuto il convegno “Luciano Radi studioso, a cinque anni dalla scomparsa”, nel corso del quale è stato presentato il suo libro del 2006, “Francesco e il Sultano”, insieme al suo profilo “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, a Foligno, la sua città che ha rappresentato in Parlamento per 35 anni, in una vita da protagonista che ha voluto anche testimoniare con una intensa attività pubblicistica. La manifestazione si è svolta al Palazzo Giusti Orfini, relatori i docenti dell’Università di Perugia, moderatore  Stefano Brufani,  Mario Tosti per la figura di Luciano Radi e,  per il suo libro, Maria Grazia Nico,  su Riforma e Crociate, inoltre frate Felice  Autieri , storico, sull’incontro tra san Francesco e il Sultano; in conclusione momento musicale di “Assisi Suono Sacro”, al flauto  Andrea Ceccomori, preceduto dalle riflessioni di Katia Ciancabilla sul mondo islamico. La sala affrescata del Palazzo, sede degli incontri di “Nemetria”, affollatissima, con la figlia Chiara cui va il merito dell’organizzazione e gli altri familiari. Inoltre  una serie di presenze illustri, il Sindaco di Perugia Andrea Romizi e il Rettore dell’Università, Sandro Moriconi; presente l’ex suo assistente all’Università di Camerino Odoardo Bussini, e i moltissimi amici ed estimatori di chi ha fatto tanto per la sua terra e il suo paese.

La sala del Convegno

Ricordare Luciano Radi e rendergli omaggio a cinque anni dalla scomparsa avvenuta il 1° giugno 2014, alla vigilia della festa della Repubblica, vuol dire anche sottolinearne la coincidenza simbolica, in quanto la sua figura  riassume alcuni dei più nobili valori della democrazia repubblicana nel suo 73° anniversario: la milizia politica e il servizio nelle istituzioni, l’impegno professionale di docente universitario e l’attività intellettuale intensa e profonda, l’ispirazione religiosa e il valore umano.  

La figura di Luciano Radi

La definizione di “protagonista e testimone del nostro tempo” riassume queste sue vite: ha voluto rendersi utile alla sua terra e alla nazione con un’azione politica nel partito e nelle istituzioni sorretta da uno spirito di ricerca che evidenziava i problemi e prospettava le soluzioni, alimentato a sua volta dalla solida preparazione di economista e statistico, portata ai massimi livelli con la parallela docenza universitaria in cui realizzava il coinvolgimento dei giovani.

E non si è accontentato del ruolo di protagonista, si è anche reso testimone di quanto si muoveva nel paese con un’attività parallela, altrettanto instancabile e inesausta, di pubblicistica politico-economica per condividere i risultati delle sue ricerche dando forma concreta all’enaudiano “conoscere per deliberare”.

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Il prof. Mario Tosti sulla figura di Radi, alla sua dx il moderatore prof. Stefano Brufani

Ma non basta, ha dato testimonianza dell’ispirazione religiosa con le vite dei Santi, anche qui per condividere, coinvolgere e, ripetiamo, testimoniare; e ‘è ancora di più, la testimonianza e il coinvolgimento si sono estesi alla parte più intima e personale del suo sentire, con accorati libri-confessione. “Non sono solo” è uno dei tanti titoli, ma ci sembra riveli la matrice prima del suo modo di essere e di agire.

Quindi,  “protagonista e testimone”, ma non del mondo di ieri, bensì “del nostro tempo”, tanto sono attuali le sue analisi e le sue proposte in campo politico-economico, come le sue riflessioni sui temi religiosi evocati dalle vite dei Santi, e le sue spontanee confessioni dei moti più riposti dell’animo dinanzi ai turbamenti prodotti dalla vita.

Non si pensi, però, alla visione pessimistica di una figura dominata da inquietudini, tutt’altro, lo dimostra un altro filone della sua inesauribile galleria editoriale, quanto mai scherzoso, non solo sugli animali, amici dell’uomo, ma anche sugli onorevoli deputati e persino sul “grappolo di tonache” dei sacerdoti: il tocco dissacrante dell’ironia come parentesi rigeneratrice nella severità dell’impegno quotidiano, di chi aveva anche recitato in ruoli comici in gioventù.

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La prof. Maria Grazia Nico su Riforme e Crociate

Un equilibrio esistenziale evidente nella sua persona: portamento autorevole unito ad un’amabilità disarmante, con il risultato di suscitare rispetto ma anche comunicativa spontanea che dissipava ogni soggezione. E apertura al confronto, ad ogni livello, sempre pronto a cogliere nuovi spunti da approfondire e poi condividere con tutti coloro che avessero la sua stessa ansia di conoscere e di capire i movimenti della società e i moti dell’animo umano.

A queste conclusioni perviene il profilo della sua figura e della sua azione, presentato nella manifestazione, in un nostro ricordo  scritto e nell’appassionata relazione orale del prof. Mario Tosti, che ha ripercorso i momenti principale della vita di Luciano Radi e le principali espressioni del suo pensiero nella ricca galleria editoriale di opere che spaziano su tanti temi.  

La sintesi finale è stata che l’intera sua azione e la sua testimonianza svolta a livelli e su campi così diversi, dalla politica all’economia, dalla religiosità alla interiorità, hanno avuto un motivo comune alla base della sua ricerca inesausta: la costruzione di una società più umana.

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Frate Felice Autieri sull’incontro tra Francesco e il Sultano

Il ricordo di Luciano Radi è stato il momento culminante della manifestazione, preceduto dalle due dotte relazioni sul suo libro, di grande attualità per quanto si muove nella Chiesa rispetto al dialogo interreligioso e nella società rispetto ai rapporti con fedi così diverse dalla nostra. Ci è sembrato di dover parlare prima della sua figura, ben nota a tutti i presenti nella sala del palazzo di Foligno, mentre ad altri che conoscono il politico potrebbe sfuggire lo studioso e il testimone.

Le  Crociate, pellegrinaggi armati poi degenerati 

Francesco e il Sultano” si inserisce in uno dei filoni della sua vasta produzione pubblicistica alimentata da interessi molteplici: le vite dei Santi, con almeno altri 7 titoli. Conferma i grandi pregi di Luciano Radi: rigore di analisi, e non potrebbe essere altrimenti per un economista e statistico che fa i conti con le evidenze reali; assoluta libertà da pregiudizi. Si basa sulle fonti più sicure per rievocare l’incontro, riportate in Appendice, e lo inquadra in una ricostruzione storica lontana dai luoghi comuni ponendo una serie di  interrogativi e dando risposte  aperte alla riflessione e alla valutazione del lettore.  

Al centro c’è quanto di più dibattuto, la storia delle Crociate. divisiva tra la visione positiva di pellegrinaggi, necessariamente  armati  per difendere la fede,  e quella negativa di segno opposto per la loro degenerazione. Ne ha fatto una ricostruzione dotta la prof. Maria Grazia Nico,  partendo dai rapporti tra Papato e Impero, in linea con la rievocazione fatta dall’autore.

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Katia Ciancabilla sul mondo islamico

I tradizionali pellegrinaggi in Terrasanta assunsero necessariamente una forma ben diversa quando i Luoghi santi furono  occupati dai seguaci dell’Islam i quali non solo aggredivano i pellegrini, ma perseguitavano i cristiani indigeni. La situazione fu aggravata dal fatto che dopo l’avvento dei turchi Selgiucidi nel 1076 e le persecuzioni dei cristiani, ci fu nel 1099 la restaurazione del regno latino di Gerusalemme  con i Franchi,  vessatoria  contro gli “infedeli”, cui seguì la riscossa  islamica del Saladino con la conquista di Gerusalemme nel 1187, dopo 84 anni di dominio cristiano.

Una profonda costernazione  colpi il mondo cristiano, in particolare ad Assisi, senza distinzione di censo e di posizione;  nelle chiese aperte giorno e notte si intonavano  lugubri salmi,  quel dramma religioso diventava dramma personale di tutti con sensi di colpa individuali e collettivi, mentre montava l’odio per gli infedeli e la volontà di riscatto. Era cresciuta una classe di cavalieri che non vedeva l’ora di battersi, ma la mobilitazione fu generale anche da parte del popolo.

D’altra parte,  la Chiesa stessa sollecitava a cercare la redenzione dai propri peccati nelle missioni a difesa della fede, che iniziarono anche prima contro i mori in Spagna e lungo le vie percorse dai pellegrini per raggiungere Santiago di Compostela, e in Sicilia nella conquista normanna. Era un periodo turbolento,  e la nuova sfida della liberazione dei Luoghi santi poteva avere anche il risultato positivo di porre termine alle lotte intestine, unificando le chiese locali.

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Andrea Ceccomori al flauto

Nacque così la prima Crociata indetta da papa Urbano II, seguita da altre tre, tutte con esito negativo, finché papa Innocenzo III lanciò la quinta crociata  nel 1219, cui partecipò  Francesco che, nato nel 1182, aveva  37 anni;  morirà 7 anni dopo, nel 1226; aveva vissuto all’età di 5 anni lo shock della perdita da parte dei cristiani di Gerusalemme conquistata dai turchi di  Saladino, evento che aveva suscitato la costernazione popolare e la voglia di riscossa di cui si è detto in precedenza; e c’erano stati già tentativi di Francesco  di andare in missione in terra di infedeli.

Radi cita la testimonianza  di Tommaso da Celano  sui precedenti  tentativi di raggiungere la Terrasanta. Ci provò  via mare, su una nave che lo portò in Dalmazia, ma poi non essendovi partenze per la Siria tornò indietro imbarcandosi di nascosto fino ad Ancona; e tentò via terra, attraversando le coste mediterranee di Italia e Francia per raggiungere la Spagna e poi il Marocco, ma si ammalò e dovette tornare indietro.  Così quando fu indetta la 5^ Crociata era spiritualmente pronto alla missione in Terrasanta, nei luoghi della passione di Cristo dove anelava di giungere.

Aveva fondato l’ordine francescano dei Frati minori, che andavano in missione per annunciare il Vangelo, nella riproposizione di un apostolato di testimonianza e di esempio. In Francia e Germania, Grecia e Tunisia, i frati francescani compivano la loro opera di evangelizzazione pur tra forti ostilità, venendo maltrattati e spesso malmenati, fino al rischio della vita. Il  tentativo  di convertire il Sultano del Marocco da parte di cinque di loro, dopo l’iniziale comprensione del sovrano islamico che li aveva rimandati indietro liberi, si concluse con la loro decapitazione per essere  tornati clandestinamente e aver insistito nella predicazione volta ad ottenere conversioni.

Una missione di evangelizzare così convinta e coraggiosa doveva necessariamente vedere nella Terrasanta una potente calamita, trattandosi della terra dove si era consumata la vita di Cristo.

Un’altra immagine della sala

La presenza di Francesco nella 5^ Crociata

Per cercare di  raggiungere i Luoghi santi per Francesco  c’era un modo, offerto dalla Chiesa: aggregarsi alla 5^ Crociata, bandita nel 1213, e svoltasi tra il 1217 e il 1221. Così,  nel giugno 1219,  si imbarca ad Ancona con 12 frati che gli vengono indicati a caso da un fanciullo, come da lui richiesto dovendo selezionarli  per i pochi posti disponibili senza far torto a nessuno. Prima tappa Cipro, poi in un viaggio di 4-5 settimane San Giovanni d’Acri, dove si trovavano da due anni  dei correligionari, che erano arrivati con le avanguardie della 5^ Crociata.  Dopo qualche giorno eccolo imbarcarsi, con la sua piccola squadra, per Damietta, fortezza islamica assediata dai Crociati

Gli scontri furono sanguinosi, con crudeltà inenarrabili da parte sia dei Saraceni  islamici che dei cristiani;  in mezzo ai massacri i francescani predicavano per la conversione degli infedeli, suscitando la loro ammirazione e il loro aiuto nel provvederli del necessario, quasi incredibile!

E qui Radi risponde alla prima domanda, veramente cruciale:  come potesse trovarsi una persona mite quale era Francesco nell’inferno di Damietta agli antipodi rispetto al suo desiderio di pace? Aveva  cercato invano di convincere i crociati a rinunciare all’uso delle armi – “ma non a deporle”, ci tiene a precisare –  e anche questo poteva essere un motivo sufficiente, pur se non riuscì nel suo intento,  e lo si capisce dalla storia delle Crociate.

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Giotto, “La prova del fuoco”, Assisi, Basilica superiore

Almeno nell’impostazione iniziale, e ideale, erano dei pellegrinaggi, necessariamente armati per difendersi dalle imboscate e dalle persecuzioni degli infedeli,  non delle campagne di conquista, i Luoghi santi si potevano riprendere ostentando, non usando  la forza. Erano però degenerate, e non soltanto per l’uso indiscriminato delle armi, ma per lo scatenarsi dei peggiori istinti che albergano nell’essere umano: sopraffazioni e violenze di ogni tipo, spietati saccheggi  anche verso le popolazioni  ignare e incolpevoli  incontrate  lungo il cammino. Ma non poteva essere questo un motivo per astenersi, anzi era una ragione in più per farne parte svolgendo un ruolo missionario anche  nei confronti dei partecipanti per riportarli sulla retta via.

Inoltre alle Crociate veniva riconosciuto un alto valore religioso. Ogni partecipante si fregiava della croce sull’abito e l’armatura, il corredo veniva benedetto alla partenza, con le armi,  che aveva  a differenza dei normali pellegrini; riceveva dalla Chiesa  privilegi spirituali come  speciali indulgenze per i peccati,  e materiali, addirittura il diritto al bottino, e una protezione estesa alla propria famiglia e ai beni finché non  scioglieva il suo voto; erano previste anche sanzioni nel caso di rottura del voto senza giustificato motivo. Il  Papa ne era l’altissimo promotore,  nominava il legato pontificio e i predicatori, nelle ultime crociate anche il capo della spedizione.

Non si pensi che tutto filasse liscio, tutt’altro, la qualità dei partecipanti, reclutati nei modi più diversi,  era scadente e minacciava di far fallire le spedizioni, per cui la Chiesa creò Ordini religioso-militari specializzati per contrastare gli abusi e difendere  i Luoghi santi: sorsero così i Templari, gli Ospedalieri di san Giovanni – sarà il  futuro Ordine di Malta – e i Cavalieri teutonici.

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Benozzo Gozzoli, “La prova del fuoco davanti al Sultano”, Montefalco

Furono tante le degenerazioni che si perdette lo spirito originario, tuttavia l’importanza delle Crociate fu notevole in quanto ricomposero l’unità del mondo cristiano, fermarono l’espansione dell’Islam nel Mediterraneo e contribuirono all’allargamento degli orizzonti nel mondo occidentale promuovendo anche lo sviluppo dei traffici.

Torniamo a Damietta, Francesco approfitta di una tregua, tra il 29 agosto e il 5 novembre sempre del 2019, per dare corso alla sua missione impossibile: incontrare il Sultano per convertirlo al Cristianesimo, proposito che farebbe  pensare a un gesto suicida nella ricerca del martirio.

Radi, però, si sente di escludere che fosse questo il fine, anche se non era escluso, anzi più che probabile, che avvenisse. Lo scopo era l’evangelizzazione nella consapevolezza del rischio che veniva accettato per seguire la volontà di Dio, ma non era voluto nè provocato. Un coraggio intemerato, rischiare  accettando il martirio se necessario ma per un fine più alto, “l’avvicinarsi  il più possibile all’esempio di Cristo”. Oltre questa motivazione superiore, aveva  il desiderio di aprire un dialogo con il capo dell’Islam, nella consapevolezza che quella era la via maestra,  non la guerra sanguinosa di cui a Damietta aveva conosciuto gli orrori inenarrabili.

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Giotto, “Il presepio di Greccio”, Assisi, Basilica superiore

L’incontro di Francesco con il Sultano

Ed ecco, finalmente, l’incontro con il Sultano al-Malik-al Kamil, la cui verità storica è documentata dalla cronaca del suo consigliere, il teologo e giurista egiziano Fakhz-ad-in-al-Faix, il quale  nella sua biografia parla di una discussione con un monaco cristiano alla presenza del Sultano.  Sappiamo  che Francesco era stato  autorizzato all’ardita missione dal delegato pontificio Pelagio, sebbene questi fosse contrariato dal fatto che il frate, più che mostrare interesse per la Crociata,  voleva ad ogni costo risolvere la guerra convertendo il Sultano; come si svolse l’incontro lo racconta Ernoul, scudiero di Erbelino,  che sembra partecipasse solamente alla fase preliminare, ma poi  raccolse la testimonianza di chi fu presente effettivamente.

Vide personalmente come Francesco, accompagnato da frate Illuminato da Rieti, affrontò gli uomini a guardia della  corte del Sultano nel palazzo sul delta del Nilo,  subendo le loro percosse pur di essere portato al cospetto del sovrano. Rivela che il Sultano, sorpreso di vederli senza armi, laceri e inermi, ebbe questa risposta alla sua domanda del motivo della visita: “Saraceni non ci faremo giammai, ma messaggeri siamo in verità da parte di Dio per salvare l’anima vostra. Se voi crederete in lui noi consegneremo la vostra anima a Dio”. Per aggiungere: “”E vi diciamo in verità che, se morrete nella legge in cui adesso siete, voi siete perduto e Dio non avrà l’anima vostra. Per questo siamo venuti a voi”. E con un coraggio senza pari: “Se vorrete ascoltarci e intenderci, vi dimostreremo sicuramente che la vostra legge è falsa”.

La sfida va anche oltre, perché alla risposta del Sultano che avrebbe chiamato  i consiglieri prima di ascoltare “quanto oserete dirmi”, fa seguire la replica: “Saremo di questo molto contenti, anzi era nostro proposito suggerirvelo. Mandate pure a cercarli e se non sapremo dimostrare che quello che affermiamo è vero, fateci subito decapitare”.  Ed è quello che chiedono i consiglieri sacerdoti accorsi, la loro decapitazione, dato che la legge, data da Dio e Maometto, “vieta persino che si ascolti qualunque cosa  venga detta contro di essa”; perciò non accettano alcun confronto sulla fede.

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Benozzo Gozzoli, “Istituzione del presepio a Greccio”, Montefalco

E qui avviene il miracolo, il Sultano invece di farli decapitare  come avevano richiesto i consiglieri teologici per ossequio alla legge divina, li grazia per l’alto valore umano della loro offerta, “perché sarebbe una assurda ricompensa  a voi che vi siete esposti al rischio di morire per salvare la mia anima”, e nel dire questo invita insistentemente  Francesco a restare con lui.

Secondo Bonaventura  da Bagnoregio ottiene come risposta dal frate che lo farebbe solo se lui e il suo popolo si convertissero a Cristo; altrimenti sfida i suoi sacerdoti  ad entrare con lui nel fuoco, chi supererà la prova avrà ragione; e al diniego e alla fuga di un sacerdote spaventato, Francesco si offre di entrare solo lui nel fuoco, se sarà bruciato sarà per i propri peccati, se uscirà illeso sarà merito della potenza di Dio  e in tal caso il Sultano dovrà  passare al Cristianesimo con tutto il suo popolo.

Il Sultano non accetta la sfida – e come avrebbe potuto? – ma ammirato del suo coraggio e della sua  dedizione voleva coprirlo di doni, subito rifiutati, riproponendoli perché fossero distribuiti ai poveri della sua terra; ma non furono accettati neppure così da Francesco  “poichè voleva restare libero dal peso del denaro e poiché non vedeva nell’animo del Soldano la radice della vera pietà”, sempre parole di Bonaventura. 

Tornando alla testimonianza dello scudiero,  per qualche giorno Francesco e il frate che era con lui furono ospitati nella sontuosa casa del Sultano, tra fiori e bellezze fiabesche  e potettero meditare sull’assurdità della guerra sanguinosa  tra cristiani e mussulmani. Rifiutarono ancora i doni preziosi offerti loro, per cui   “dinanzi al totale disinteresse per le cose terrene il Sultano rimase esterrefatto. Non aveva mai incontrato uomini mossi da così grande amore e da così assoluto distacco dalle cose terrene. Rimase pensoso, intricato in pensieri che gli aprivano nuovi orizzonti”.

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Crocifissione, nel riquadro inferiore san Francesco, Foligno, Museo di Palazzo Trinci

Forse, commenta Radi, il racconto dello scudiero non rispecchia il pensiero di Francesco, più intento a unire che a dividere, non trova convincente la sfida né la negazione dell’altra fede, piuttosto avrebbe sottolineato gli elementi comuni tra  cristiani e mussulmani:  credono  nel Dio unico, riconoscono  entrambi e venerano, pur se in modo diverso, la grandezza di Gesù e della Madonna. “E avrà concluso che era giunto il momento di spogliare la contesa dagli interessi di dominio e di potenza per conquistare la pace non sulla base della spartizione della Terrasanta, ma in nome dell’amore di Dio e della libera venerazione dei Luoghi santi”. C’è tutta l’umanità di Radi in queste parole.

Il presepio di Greccio  e gli ultimi anni di vita 

Come “La tregua” viene dopo “Se questo è un uomo”  – il ritorno tormentato dopo l’inferno di Auschwitz –  nell’evocazione di Primo Levi, così qui “il viaggio di ritorno” viene dopo l’inferno di Damietta con la parentesi di altissimo valore morale oltre che religioso dell’incontro con il Sultano.  

Dopo la tregua in cui si era svolto l’incontro,  il 5 novembre 1219  Damietta fu conquistata dai Crociati a prezzo di stragi spaventose dai due schieramenti, nello scatenarsi dei peggiori istinti. Era una città fortificata, con doppia e tripla cinta di mura, 22 torri, 11 porte e 42 fortilizi, ai vincitori si presentò un cumulo di rovine e di cadaveri, con teste mozzate prese a trofei. sempre da entrambe  le parti:  nella parte cristiana, insieme a coloro che erano animati da ideali, c’erano avventurieri di ogni risma e spietati assassini, per i mussulmani c’era  addirittura un premio in oro per ogni testa di cristiano.

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Il santo riceve le stimmate, Museo Palazzo Trinci

Forse dinanzi a questo orrori nacque l’idea del Presepio di Greccio, che Radi definisce “un sostituto significativo e  popolare della stessa idea di crociata che per troppo tempo aveva assopito nella Chiesa l’autentico insegnamento di Gesù”. Non serviva andare nei Luoghi santi, tanto meno con le armi e la guerra,  per ritrovare lo spirito della Natività e i valori che si possono “possedere e venerare nell’anima”, nella propria terra.

Anche papa Francesco nel Giubileo della Misericordia ha dato analoga indicazione, in ogni località si può trovare la Porta santa senza dover venire a Roma.

Il viaggio di ritorno fa ripiombare Francesco nei problemi dell’Ordine, in sua assenza i due vicari hanno violato la regola in senso pauperistico, come nei catari, non accettando mai il cibo per sottoporsi al digiuno, mentre per Francesco non poteva esserci tale finalità, il povero deve sempre accogliere i doni della Provvidenza anche se è disposto a sopportare  ogni privazione. Ed è proprio la fiducia nella  Provvidenza, alla base della sua spiritualità, che lo aveva portato ad accettare il cibo dal Sultano, pur rifiutandone i doni preziosi, secondo la “qualità della moderazione e del realismo”.

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Giotto, “San Francesco predica agli uccelli”, Assisi, Basilica superiore

La crisi temporanea dovuta alla sua assenza lo portò a chiedere il rafforzamento dell’Ordine a papa Onorio III, che incontrò di persona a Viterbo,  mediante l’istituzionalizzazione di quella che era diventata una vasta comunità anche con una Regola “più ricca e stimolante”.  Poi Francesco nel 1220, pochi mesi dopo la fine della sua “crociata” con visita al Sultano,  passa la mano al successore restando come esempio vivente e collaborando alla stesura della nuova Regola approvata con Bolla papale nel 1223; morirà tre anni dopo, nel 1226.

“Dopo le dimissioni –  osserva Radi – il Serafico  si comportò come aveva promesso: visse gli ultimi anni da semplice frate, povero tra i poveri, emarginato tra gli emarginati”. E’ l’immagine conclusiva di una figura per tanti versi complessa, che attraverso il suo libro abbiamo rivissuto  in un suo momento così significativo,  celebrandone l’anniversario 800 anni dopo, 1219-2019.

Ma, “si parva licet…”,  c’è un altro anniversario che coincide con l’incontro di Foligno del 30 maggio, i 50 anni dalla pubblicazione di un saggio, sempre di Luciano Radi,  questa volta di politica economica, “Potere democratico e forze economiche”, avvenuta nel giugno 1969; ne parleremo prossimamente per la sua forte attualità pur in tempi così profondamente mutati.

L’immagine di san Francesco

Info

Luciano Radi, “Francesco e il Sultano”, Cittadella Editrice, settembre 2006, pp. 90. Per le vite dei Santi, dello stesso autore: “Chiara di Assisi” 1994 e “Angela da Foligno” 1996, “Santa Veronica Giuliani” 1997 e “San Francesco e gli animali” 1999, “Margherita da Cortona” e “San Nicola da Tolentino” 2004; inoltre “Umbria santa” 2001. Nell’incontro è stato distribuito l’Estratto dal Bollettino storico della città di Foligno XXXVIII-XVII (2015-2019)”, Foligno 2019: Romano Maria Levante, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, pp. 12. Pubblicheremo in questo sito altri 4 articoli sulla sua figura. “Luciano Radi, ‘potere democratico e forze economiche’” il 9 giugno;  “Luciano Radi, ‘’i libri dell’anima’, l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” l’11 giugno, “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo” il 13 giugno; infine , “Luciano Radi, il mio ricordo” il 15 giugno.

Foto

Le prime 7 immagini, della sala e degli oratori, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Giusti Orfini durante il convegno; le 4 immagini successive, con gli affreschi di Giotto e Benozzo Gozzoli, sono tratte dal libro di Luciano Radi, le 2 immagini seguenti sono state riprese nel Museo di Palazzo Trizzi. In apertura, la sala del Convegno; seguono, il prof. Mario Tosti sulla figura di Radi, alla sua dx il moderatore prof. Stefano Brufani, e la prof. Maria Grazia Nico su Riforme e Crociate; poi, frate Felice Autieri sull’incontro tra Francesco e il Sultano, e Katia Canciabilla sul mondo islamico; quindi, Andrea Ceccomori al flauto e un’altra immagine della sala; inoltre, Giotto, “La prova del fuoco”, Assisi, Basilica superiore, e Benozzo Gozzoli, “La prova del fuoco davanti al Sultano”, Montefalco; ancora, Giotto, “Il presepio di Greccio”, Assisi, Basilica superiore, e Benozzo Gozzoli, “Istituzione del presepio a Greccio”, Montefalco; prosegue, Crocifissione, nel riquadro inferiore san Francesco, Foligno, Museo di Palazzo Trinci, e Il santo riceve le stimmate, Museo di Palazzo Trinci; infine, Giotto, “San Francesco predica agli uccelli”, Assisi, Basilica superiore, e l’ immagine di san Francesco; in chiusura, la Copertina del libro di Luciano Radi.

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La Copertina del libro di Luciano Radi

Leonardo, la “scienza prima della scienza” in 10 sezioni, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza” , che celebrando i 500 anni dalla sua morte, presenta  dal 13 marzo al 30 giugno 2019 oltre 200 opere – tra modelli di macchine, manoscritti e disegni, volumi rari e stampe – inquadrate nella temperie dell’epoca, che vedeva il fiorire di iniziative e invenzioni nell’ingegneria e nella tecnica. La mostra, organizzata dalle Scuderie con il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ‘Leonardo da Vinci’ e la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, è curata da Claudio Giorgione, curatore del Museo citato.  Nel periodo della mostra 5 incontri con il curatore e una serie di esperti, e laboratori per i visitatori.  Catalogo “Arte,m L’Erma”.

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Cristoforo de Paoli, “De Sphaera”, Luna, 1460

Abbiamo introdotto la figura di Leonardo da Vinci partendo dall’obiettivo che dichiara il  curatore di “smontare il mito dell’inventore e profeta del futuro”  per contrapporre a questa visione ritenuta superata  quella di “riconsiderarne invece la grandezza nello stretto dialogo con il contesto storico, le fonti, i contemporanei, ma anche la sua eredità nella cultura tecnica del Rinascimento”. 

In questa prospettiva abbiamo ricostruito la formazione del “mito” di Leonardo nelle sue radici  più antiche, addirittura coeve, giungendo alla conclusione che la qualifica di “genio” è più che meritata. Poi abbiamo esplorato i contenuti e significati del disegno come base estremamente originale ed elaborata delle sue creazioni ispirate dall’attenta osservazione della realtà, e infine abbiamo parlato del “Codice Atlantico” dal quale derivano i fogli manoscritti che introducono le 10 sezioni tematiche  nelle quali sono esposti documenti, plastici e modelli di macchine che ricorderemo pur nella necessaria sintesi. Per ogni modello è indicata l’origine nelle fonti leonardesche, o altre, e sono precisate le caratteristiche specifiche: sono in legno, ferro e altri materiali, per lo più realizzati nel 1953 per il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, inseriti in mostra con gigantografie nelle pareti che evocano l’ambiente dell’epoca. Un allestimento magistrale che fa tornare al ‘500 come portati dalla macchina del tempo.

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Modello di Carro automotore da G. Fontana

Le prime 5 sezioni, dalla formazione alle “macchine produttive”

La 1^  sezione, intitolata  “Ingegneri toscani”, riguarda  la formazione di Leonardo a Firenze nella bottega del Verrocchio, come pittore con annessi scultorei, ma evoca soprattutto l’impegno della bottega di collocare nella sommità del Duomo di Firenze una grande sfera di bronzo dorato sopra la lanterna, che gli fece conoscere la grande “gru” ideata da Brunelleschi molti anni prima nei lavori per la Cupola. Al riguardo lui stesso scrive nel Codice: “Ricordati delle saldature  con che si saldò la palla di Santa Maria del Fiore”.  E’ esposto sia il suo disegno di tale Gru contrappesata sia un modello in legno e metallo, disegno  e modello anche  per l’Argano  a leva; inoltre un Argano solleva colonne.  

Inoltre  sono esposti i disegni dei trattati di macchine e architetture di  ingegneri del ‘400 toscano: vediamo  i disegni di un argano e un  elevatore, una gru girevole e una sega idraulica, una noria e un fregio, una  fortificazione e un riparo da bombarda, di tutti autore Francesco di Giorgio Martini; inoltre,  di Mariano di Iacopo detto il Taccola  un elevatore d’acqua, di Roberto Valturio  una ruota idraulica a scomparti, di Giulio da Sangallo navi multi remi, sempre come disegni.

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Modello di Carro automotore da R. Valturio,
anni ’50 (G. Canestrini)

Francesco di Giorgio Martini lo troviamo anche nella 2^ sezione, “Lo studio dell’antico”, perché è esposto il suo “Trattato di Architettura civile e militare”  della Biblioteca Laurenziana, che riporta le concezioni di Vittruvo sulle proporzioni tra gli edifici e il corpo umano.  Leonardo per il suo “Uomo Vitruviano” si deve essere riferito proprio a questo trattato, l’unico che ha fatto parte certamente della sua biblioteca, come certificato dalle note scritte di suo pugno nelle pagine del libro. Nelle pagine esposte si vedono dei disegni inframmezzati al testo, nello stile leonardesco, ma più semplici e  schematici del solito, più che altro indicativi senza intento progettuale. Una schematizzazione dell’Uomo Vitruviano la vediamo nelle pagine, anch’esse esposte, del  “De Architectura” di Vitruvio tradotto in volgare da Cesare Cesaruano, siamo nel 1511, vent’anni anni dopo la perfetta  rappresentazione di Leonardo.

Dopo la formazione fiorentina,  nel 1482 va a Milano, dove conosce anche il “Trattato di Architettura” di Filarete, di cui vediamo il frontespizio, con edifici a pianta centrale raffrontati al  “Pantheon” di Roma, descritto nel trattato dell’epoca di Andrea Palladio. Ebbene, Leonardo non manca di disegnare questi edifici, e in mostra vediamo i progetti e i modelli realizzati nel 1953  di una Chiesa  a pianta centrale, una Chiesa su due livelli, una Chiesa con quattro campanili,  e  un  modello del Pantheon, inizi XX secolo,  veramente spettacolare.

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Georg Agricola, “De Re Metallica“, Pompa a catena azionata da ruota calcatoria 1556

Nella riscoperta dell’antico  c’è una Tavola dedicatoria dalla Raccolta  dei tempi antichj  di Piranesi, del 1780; inoltre, ricordano un mito evocato dagli umanisti dell’epoca, le Navi dell’imperatore Caligola affondate nel lago di Nemi,  un modello sezionato di Nave di Nemi con Protome a testa di lupo e Decorazione a forma di elmo, 1932-33, e un acquerello di Ranieri Arcaini del 1991, che ne ha fatto una spettacolare “ricostruzione archeologica” con templi e monumenti sulla tolda della grande imbarcazione usata per sontuose feste  e cerimonie.

Siamo alla 3^ sezione, dedicata a “Disegno e prospettiva”. Nel “Codice Atlantico” Leonardo scrive che “tutti i casi di prospettiva sono intesi mediante i cinque termini de’ matematici, cioè punto, linia, angolo, superficie e corpo”. Era un tema molto sentito nel Rinascimento, alla base anche dell’arte pittorica. Leonardo non solo utilizza la prospettiva geometrica nella superficie piana, ma la applica ai solidi con la stereometria. Così ha illustrato nel 1498 il “De Divina Proportione” di Luca Pacioli, del quale era molto amico. Vediamo esposto il Trattato di ottica e geometria di John Peckham, “Perspectiva Communis” che aveva nella sua biblioteca e tre testi dell’inizio del XVII sec. di Barozzi, Niceron e Accolti. Jean Francois Niceron fu il  teorico dell’anamorfismo, che applicò a una serie di immagini appositamente deformate, come si è visto nella mostra a Palazzo Barberini nel 2018.

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Modello di Carro automotore da Leonardo, 1956 (G. Canestrini)

In uno schizzo Leonardo riproduce  lo spettrografo, lo  strumento  per riportare gli oggetti nella giusta prospettiva, mentre un artista lo sta adoperando, disegno esposto in mostra insieme a uno studio di ruota dentata; e a disegni di spettrografi di Durer, Keser, Vignola; non manca  un modellino in legno di prospettografo a vetro di Durer, con uno strumento musicale.  Sono esposte le pagine del libro di Albrecht Durer dove è spiegato l’uso dello “spettrografo a vetro e a sportello” con relativi disegni. Poi i fogli del “Divina Proportione” di Luca Pacioli con disegnati dei solidi, e un modello ligneo del 1976 di Icosaedro elevato vacuo.

Dal disegno prospettico in generale alle “Città ideali e vie d’acqua” nella 4^ sezione, ci si riferisce a Milano alla cui planimetria  e non solo Leonardo si dedicò sin dal suo arrivo in città nel 1482. Si disponeva di piante quattrocentesche, alcune esposte in mostra: in particolare quella del 1472 di Pietro del Massaio, nella “Cosmografia di Tolomeo”, una struttura urbana in forma circolare con i corsi d’acqua; quella di Cristoforo de’ Predis, nel “Leggendario Sforza-Savoia”, con la Piazza del Duomo di allora.

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Modello di Carro meccanico trionfale dal disegno di Hans Burkmair, 1954 (G. Canestrini)

Leonardo interviene con la proposta di una struttura urbana alternativa, ortogonale su due livelli, ispirata alle visioni dell’epoca di “città ideale”, è esposto un Plastico urbanistico di città ideale  realizzato nel 1956 in base ai progetti di Leonardo: si vedono due edifici con delle arcate, nella sua visione c’è anche un sistema viario che si avvale delle sue conoscenze idrauliche.

Ma non si limita alla struttura urbana, si impegna in  progetti di miglioramento del sistema di conche, esposti in mostra, fino alle Chiuse a porte battenti, di cui è esposto un modellino ligneo del 1956 insieme al disegno di Leonardo che riproduce fedelmente; c’è anche un Modello di pavimentazione di conche di canali del 1956; non solo, vediamo dei Portelli lignei, non modelli ma  esemplari veri in legno e metallo, grandi paratie  in uso dal ‘500 all’800, un “Mose” ante litteram, però funzionante, per riferirci a un sistema attuale di controllo delle acque molto contestato

Un quadro dell’800 di Cornienti in cui “Leonardo mostra  a Ludovico il Moro le chiuse dei Navigli illustra in modo pittoresco questo intervento nei canali milanesi. Le sue parole, molto pratiche: ”Trova un maestro d’acqua  e fatti dire i ripari d’essa e quello che costa”. Altro modello esposto, un Battipalo, del 1953, con il sistema di percussione per conficcare i pali nel terreno.

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Hans Burgkmair, “Fregio per il trionfo dell’imperatore Massimiliano I,
Carri trionfali, 1516-19

Si entra ancora di più nel vivo dei lavori pratici di Leonardo nella 5^ sezione, intitolata appunto “L’ingegno del fare”. Comincia con il disegnare macchine  tipiche delle botteghe artigianali di allora per poi approfondire l’analisi delle componenti meccaniche,  fino a sistemi automatici innovativi che dal lavoro manuale fanno passare alla meccanizzazione dei processi produttivi: le principali componenti sono ruota dentata e pignone accoppiati,  l’abbinamento tra biella e manovella, la novità rivoluzionaria è la vite senza fine. Vediamo esposti due modelli molto diversi di Sega idraulica, realizzati tra il 1953 e il 1956. 

Da queste componenti meccaniche a complessi sistemi di “macchine produttive”  il passo è breve, per il genio leonardesco. Lo vediamo dai due modelli  di macchine per la metallurgia esposti, entrambi del 1953, la Macchina per intagliare e la Macchina per filettare le viti; e per il tessile il bellissimo disegno e relativo modello conforme del Filatoio con fuso ad alette mobili realizzato nel 1933. Nello stesso anno i modelli  del  Torcitoio per corde e della Garzatrice orizzontale nei quali vi sono i filati e le garze della lavorazione, sembra di entrare nelle botteghe di fine ‘400.  La cosa straordinaria è che  disegna queste componenti meccaniche e queste macchine negli stessi anni, 1495-97,  in cui dipinge il “Cenacolo”.

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Modello in scala del Teatro anatomico di Girolamo Fabriano d’Acquapendente, 1932-33 (laboratori CNR)

Completano il corredo iconografico della sezione splendide pagine miniate del manoscritto membranaceo “Libre d’ore all’uso cistercense”, e i calchi  del Capitello delle Arti meccaniche di Palazzo Ducale, a Venezia, con 6 formelle sui  mestieri di fabbro e falegname, agricoltore  misuratore o vagliatore di cereali  e legumi.

Le ultime 5 sezioni, dalle “macchine teatrali”  al mito di Leonardo  

Ma le macchine di Leonardo non erano soltanto una rivisitazione meccanica con congegni più avanzati di sistemi esistenti, abbiamo anche le macchine a fine ludico, ideate e realizzate per le celebrazioni e le feste,  sbizzarrendo tutta la sua creatività in invenzioni fantasiose.

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Modello di Guerra di Giulio Cesare nelle Gallie, assedio di Avaricum, 1932-33
(Museo Genio Militare)

A queste è dedicata la 6^ sezione, “Teatri di macchine”, la sede è  la corte degli Sforza, dove per il matrimonio di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona realizzò una grande macchina scenica che evocava il Paradiso con una volta stellata in cui ruotavano i pianeti. Non sono pervenuti disegni, ma Bernardo Bellincioni nelle sue “Rime” la descrisse così: “Et chiamasi Paradiso però che v’era fabbricato con grande ingegno ed arte di Maestro Leonardo Vinci fiorentino il Paradiso con tutti li setti pianeti che girava”.

Nel ‘500 l’impiego di queste macchine teatrali si estese, con ampio uso di accorgimenti tecnici: la mostra presenta pagine dei “Theatri Machinarum”, tomi con incisioni di Agricola – dal “De Re Metallica” una pompa a catena azionata da ruota calcatoria –   e Ramelli –  da “Le diverse et artificiose machine del Capitano Augusto Ramelli”,  un elevatore d’acqua a corde multiple.

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Luca Pacioli, “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità” 1494

Il  “Fregio per il trionfo dell’imperatore Massimiliano I”, di Burgkmair tra il ‘400  e il ‘500 mostra i disegni di 6 carri trionfali di diverse guerre, tra cui quella veneziana e quella austriaca, sono molto elaborati e spettacolari. In base a questi disegni è stato realizzato nel 1954  un modello di Carro meccanico trionfale esposto in mostra, si notano ruote dentate a ingranaggi.

Ci sono anche due modelli di Carro automotore realizzati negli anni ’50 sui disegni  di Valturio, fine ‘400, e Fontana, primi tre decenni del ‘400, sono tratti da libri sull’arte militare. E Leonardo? Finora abbiamo assistito alla sfilata di  altri “progettisti meccanici” dell’epoca, che conferma la vivace temperie  innovativa e inventiva in cui si colloca Leonardo. Ma  anche lui disegna un Carro automotore che vediamo fedelmente riprodotto in un modello degli  anni ’50, come gli altri due.

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Modello di Ponte di circostanza  su cavalletti da Leonardo 1953 (M. Lombardi) e, dietro, modello di Ponte sul Reno di Giulio Cesare, 1932-33 (Museo Genio Militare)

Solo carri meccanici per i trionfi militari? No di certo, di Cremosano, fine ‘600,  un manoscritto cartaceo celebrativo con armigeri a piedi e a cavallo nella tradizione romana, mentre le nuove macchine da parata fanno leva sull’introduzione dei più avanzati congegni meccanici, come si è appena visto.

Non ci dovrebbero essere modelli  nella 7^ sezione, tratttandosi della “Biblioteca di Leonardo”, lui la cita sostanzialmente quando scrive “ricordo de’ libri ch’io lascio nel cassone”, abbiamo già detto che erano circa 150, un numero elevato per un non letterato di quei tempi; soltanto di uno di essi, con le sue annotazioni, siamo sicuri che gli appartenesse, è il “Manoscritto Laurenziano” esposto in mostra. Invece c’è un modello del 1932-33, ad opera dei Laboratori del CNR, del Teatro Anatomico realizzato a Padova da Girolamo Fabrizio d’Acquapendente, nel 1595, di visione panottica, il primo Teatro anatomico stabile di Padova è del 1584, dopo Leonardo, le sue idee in campo ottico avevano fatto presa.

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Modello di Rocca di montagna da Leonardo, 1953 (E. Menichetti)

Ricordiamo ancora che nonostante  la sua propensione per l’osservazione diretta dei fenomeni e il disdegno della mentalità libresca – nell’autodefinizione di “omo sanza lettere” c’era anche questo – cercava d acquisire il sapere fino ad allora conosciuto leggendo i trattati disponibili tradotti in volgare, dato che non conosceva il latino e il greco. Cercò anche si imparare il latino in cui si erano espressi i grandi classici,  frequentò addirittura una scuola di latino e matematica,  tale  era la sua sete di conoscenza.

Una conoscenza interdisciplinare, non limitata a scienza e tecnica, neppure solo all’arte, lesse la Divina Commedia e le traduzioni di Ovidio e Plinio. Lo aiutò l’amico Luca Pacioli, che abbiamo già citato, il qule nel 1494 pubblicò “Summa de Arithmetica”, ovviamente conosciuto da Leonardo. 

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Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura di Lionardo da Vinci…
con la vita dell’istesso autore scritta da Rafaelle  du Fresne“, 1651

Come presenta tutto questo la mostra? Ha cercato di immaginare quali libri potesse contenere, o meglio di ricostruirlo anche sulla scia delle indicazioni del “Codice Atlantico” e di altri manoscritti leonardeschi. Nella  mostra  del 2018 “La biblioteca del Principe”, si trattava  del Torlonia della  Casina delle Civette, invece fu vera finzione, allora  furono presentati i “libri d’artista” , creazioni fantasiose di libri di materiali disparati  in carattere con il personaggio e il suo ambiente.

Qui nulla di così estroso, vengono presentate, seguendo le citazioni o altri indizi,  le pagine di famosi trattati , con austeri disegni e anche vivaci miniature a colori. Introduce uno scritto di Girolamo D’Adda, “Leonardo da Vinci e la sua libreria: note di un bibliofilo”, del 1873, edizione privata di poche copie, si parla dei libri del “Codice Atlantico”.

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Modello di Balista da Leonardo,
1953 (Giovenale Argan)

Ci sono la Naturalis Historia di   Plinio il vecchio e  “Aristotelis stagirita opera” di Aristotele, il Liber Elementorum” di Euclide e la Geografia di Caudio Tolomeo Alessandrinodi Tolomeo, “Ex  ludis rerum mathematicarum” di Leon Battista Alberti e Libri quinque de mensuris et ponderibus di GeorgAgricola, naturalmente Summa d”arithmetica, geometria, proporzioni et ptoportionalità” dell’amico Luca Pacioli, due libri sulla “Sphaera” di De Predis, manoscritto a colori,  e De Sacrobosco, fino al  Mappamondo o planisfero tolemaico allargato” di Rosselli.

Colpisce in modo particolare il Libro tertio delo anmansore chimato cibaldone”, l’autore ha il nome abbreviato in Rhasis o Rhases, 864-923 o 932,  un trattato di medicina arabo citato nel “Codice Atlantico”, di cui è esposta una pagina con una figura umana in piedi e nel corpo presenze che ricordano gli “Archeologi “ di Giorgio de Chirico, questo è del 1500 circa.

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Modello di Argano per sollevare artiglierie
da Leonardo, 1953 (Giovenale Argan)

Srprende altrettanto  di trovare qui  il libro di “Favole” di Esopo, nella versione in volgare del 1485, è citato nel “Codice Atlantico” , ma si spiega con il fatto che si è ispirato alle favole in diversi momenti,  in particolare alla favola della scimmia: vediamo il libro aperto  alla favola “De lupo et grue”, con relativa immagine, forse un’allusione spiritosa degli organizzatori alla “gru” – ma quella meccanica – di Brunelleschi nel suo esordio fiorentino.

Abbiamo visto le destinazioni delle macchine di Leonardo  ad impieghi produttivi, come quelle per la  metallurgia e il tessile, nonché a finalità ludiche, come quelle teatrali per cerimonie, feste e celebrazioni; e i congegni meccanici per trasmettere il moto e renderle automatiche. Ma quello che usava come biglietto da visita nei primi contatti con le Corti e i potenti era la sua maestria nelle macchine riguardanti “L’arte della guerra”.

Mariano di Iacopo (detto il Taccola), “De machinis“ XV  sec.

Così si intitola l’8^ sezione, cui attiene la sua lettera al duca Ludovico Maria Sforza, poco dopo l’arrivo a Milano nel 1482, sebbene sia ancora poco esperto di arte militare “Ho modi di ponti leggerissimi e forti” per inseguire i nemici o fuggire, “et altri securi et inoffensivi da foco e  battaglia”, facili da montare e smontare, “ho anchora modi de bombarde comodissime et facile ad portare” per scagliare una tempesta di sassi sul nemico.

Ma con il tempo si specializzò muovendosi in  due direzioni: studiando il testo  “De Re Militari” di Valturio, tradotto in volgare da Ramusio nel 1483, che riportava anche le concezioni di Archimede, Frontino e Vegesio; studiando le fortificazioni a Milano e in Romagna e rappresentandole con prospettive, sezioni e altre vedute particolarmente efficaci.

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Da sin., modello di Affusto di cannone a code divaricabili e
modello di Mitragliera a organo, entrambi da Leonardo 1953 (Giovenale Argan)

Le macchine che progetta sembrano sudiate soprattutto per fare colpo sui potenti, Ludovico il Moro in testa,  cerca più l’effetto spettacolare con un grafica curata e  fantasiosa che l’efficacia bellica, spesso tali macchine non sono realizzabili.

Vediamo esposti disegni di macchine nelle pagine del testo di Valturio nel volgare di Ramusio, di Vegezio, di Antonio da Sangallo il giovane, disegno di un bastione, e ovviamente di Leonardo: precisamente “Studio di due mortai che lanciano proiettili esplosivi” e “Balestra gigante”.

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Modello di Carro coperto da guerra da Leonardo, 1953 (Giovenale Argan)

Altri modelli traducono i disegni di macchine di Leonardo: Agano per sollevare le artiglierie e  Affusto di cannone a code divaricabili, Mitragliera a organo e Balestra gigante, Balista e Carro ricoperto da guerra, tutti realizzati nel 1953 da Giovenale Argan.

Nello stesso anno Raffaele Menichetti ha realizzato i modelli esposti di Ponte mobile d’assedio, Rocca di montagna, Difesa angolare con fiancheggiamento. Ci sono anche modelli del Museo del Genio Militare che mostrano un Ponte sul Reno di Giulio Cesare e l’Assedio di Alesia.

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Johannes de Ketham, “Fasciculus Medicinae.
Similitudo complexionum  & elementorum”, 1491

Di grande effetto questa galleria di modelli che riporta ai tempi di Leonardo, forse anche allora come si è verificato nei tempi moderni, l’arte della guerra  stimolava la forza innovativa i cui benefici si trasmettono anche alla vita civile, si è visto per gli usi pacifici dell’energia atomica.

Con la 9^ sezione  ci si eleva più in alto,  non solo perché si lascia la guerra, ma perché vengono presentate le “Macchine per il volo”. Leonardo annetteva grande valore ai risultati che si proponeva di ottenere con i suoi studi sul volo umano e ci contava, tanto che  scrive: “Piglierà il primo volo il grande uccello… empiendo l’universo di stupore”, e in particolare “empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco ove nacque”: fama universale per lui e per la sua terra. Del resto, il mito di Icaro, che conosceva avendo letto Ovidio, esprimeva il sogno eterno dell’uomo.

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Modello di Vite aerea da Leonardo,
1953 (A. M. Soldatini)

Per un trentennio si impegnò con questo obiettivo, nel periodo trascorso a Milano dal 1482 al 1999 approfondì soprattutto la parte meccanica, mirava al “volo strumentale”; nel primo decennio del’500 si concentra sul trasferimento all’uomo delle osservazioni sul volo degli uccelli con le ali aperte senza batterle; fino al volo favorito dalle correnti ascensionali.  

Come nell’anatomia, così nel volo lo studio della natura fornisce elementi preziosi, mentre per i congegni delle ali utilizza i ritrovati più avanzati dell’ingegneria meccanica, dalle ruote dentate alla vite senza fine. Arriva a progettare anche un aliante con le ali mobili, del quale è esposto un suo disegno annotato e un Modello di aliante di Alberto Maria Soldatini del 1953, anno in cui lo stesso Soldatini ha realizzato altri 5 modelli per il volo: Ala battente e Ala ad inclinazione variabile, Vite aerea e Meccanismo per il volo a vite e madrevite, fino a un Paracadute. Leonardo, nel disegnarlo con una figura umana appesa, scrive che “potrà gettarsi d’ogni grande altezza senza danno di sé”.

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Modello di Ala battente da Leonardo,1953 (A. M. Soldatini)

Il passaggio dal volo al “Mito di Leonardo”, della 10^ e ultima sezione,  è naturale, abbiamo iniziato il nostro commento alla mostra con questo tema, e lo ritroviamo in chiusura anche perché è cruciale. Non ripetiamo quanto già detto sul fatto che il mito è coevo a lui, tanto da far dire a Vasari “il nome e la fama sua non si spegneranno già mai”; in epoca moderna l’accurata ricognizione di Venturi sui manoscritti razziati da Napoleone ha posto in evidenza la genialità in campo scientifico  e tecnico, che si aggiunse al riconosciuto talento artistico dopo il “Trattato della pittura” e il “Cenacolo”.

Poi, nell’’800, con la pubblicazione dei suoi manoscritti la fama dilaga. Fino all’esaltazione del primato del “genio italico” identificato nella sua figura con la “Mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane”. del 1939. Esposizione definita “retorica”, ma del resto non poteva fare eccezione alla mistica di regime che permeava il fascismo come, dal lato opposto, il comunismo, e abbiamo citato i “Realismi socialisti” con le loro espressioni nell’arte.

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“Leggendario Sforza Savoia” manoscritto, 1475

L’ampia iconografia di questa sezione comprende edizioni dei Codici di Leonardo – dell’Institut de Frnce, di Leicester e il Codice degli uccelli – e le maggiori opere citate: dalle “Vite” di Vasari all’ Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci” di Venturi, agli scritti di Giuseppe Bossi sul Cenacolo” e sulla “simmetria dei corpi umani” E un dipinto con la testa di “Cristo” ripresa dal Cenacolo di Leonardo da Luigi Ferrari nel 1896. Soprattutto una ricca documentazione visiva sulla mostra del 1939 foto delle sale e articoli di giornale, medaglie e biglietti di ingresso, fino alla “tessera di libero accesso” firmata da Badoglio quando era nella gerarchia fascista. Fino al manifesto di Giorgio Muggiani con l’appello  agli “industriali e “inventori” a partecipare alla mostra,  la fiaccola tricolore protesa verso l’alto.

Può essere una bella chiusura anche oggi, nella celebrazione di 500 anni dalla morte, unita alla locandina attuale, con la sua testa di profilo che reca l’aureola della scienza. Dalla fiaccola tricolore all’aureola, dopo 80 anni non è una deminutio, tutt’altro. Se l’obiettivo del curatore è stato “sfatate un mito”, con quell’aureola di fatto lo ha sublimato. E giustamente!

Giorgio Muggiani, “Mostra di Leonardo e delle
Invenzioni Italiane“, 1939, manifesto pubblicitario

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo: “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza”, a cura di Claudio Giorgione, Editore “arte,m L’ERMA”, marzo 2019, pp. 256, formato 24 x 29,50; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno u.s. Cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com: nel 2018, su Niceron, “Anamorfosi, la magia delle immagini “‘ricostruite’ a Palazzo Barberini” 18 aprile; nel 2017, per il recupero delle opere requisite da Napoleone, sul “Museo Universale” 9 gennaio, 21 febbraio, 5 marzo; nel 2012, su “Deineka” 26 novembre, 1° e 16 dicembre; in cultura.inabruzzo.it: nel 2012, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto”6 febbraio; nel 2011, “Il ‘Musico’ di  Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio, i “Realismi socialisti” 3 articoli tutti il 31 dicembre; nel 2010, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio; nel 2009,  “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia”  6 luglio, ”’Leonardo e l’infinito’, “trenta macchine funzionanti” 30 settembre (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia la direzione di Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Cristoforo de Paoli, “De Sphaera”, Luna, 1460; seguono, modello di Carro automotore da G. Fontana e modello di Carro automotore da R. Valturio anni ’50 (G. Canestrini); poi, Georg Agricola, “De Re Metallica“, Pompa a catena azionata da ruota calcatoria 1556, e modello di Carro automotore da Leonardo 1956 (G. Canestrini); quindi, Carro meccanico trionfale dal disegno di Hans Burkmair 1954 (G. Canestrini), e Hans Burgkmair, “Fregio per il trionfo dell’imperatore Massimiliano I, Carri trionfali 1516-19; inoltre, modello in scala del Teatro anatomico di Girolamo Fabriano d’Acquapendente 1932-33 (laboratori CNR), e modello di Guerra di Giulio Cesare nelle Gallie, assedio di Avaricum 1932-33 (Museo Genio Militare); ancora, Luca Pacioli, “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità” 1494, e modello di Ponte di circostanza  su cavalletti da Leonardo 1953 (M. Lombardi) con modello di Ponte sul Reno di Giulio Cesare 1932-33 (Museo Genio Militare); continua, modello di Rocca di montagna da Leonardo 1953 (E. Menichetti), e Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura di Lionardo da Vinci… con la vita dell’istesso autore scritta da Rafaelle  du Fresne” 1651; prosegue, modello di Balista e modello di Argano per sollevare artiglierie entrambi da Leonardo 1953 (Giovenale Argan); poi, Mariano di Iacopo (detto il Taccola), “De machinis“ XV  sec., e modello di Affusto di cannone a code divaricabili con modello di Mitragliera a organo entrambi da Leonardo 1953 (Giovenale Argan); quindi, modello di Carro coperto da guerra da Leonardo, 1953 (Giovenale Argan) e Johannes de Ketham, “Fasciculus Medicinae. Similitudo complexionum  & elementorum” 1491; inoltre, modello di Vite aerea e modello di Ala battente entrambi da Leonardo, 1953 (A. M. Soldatini); infine, “Leggendario Sforza Savoia” manoscritto 1475, in chiusura, Giorgio Muggiani, “Mostra di Leonardo e delle Invenzioni Italiane” 1939, manifesto pubblicitario, e “Leonardo. La scienza sopra la scienza” 2019, locandina mostra.

“Leonardo. La scienza sopra la scienza“,
2019, locandina mostra

Mapplethorpe, l'”obiettivo sensibile” nella Quadreria del ‘700 di Palazzo Corsini

di Romano Maria Levante

Nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica, questa volta a Palazzo Corsini, la mostra “Robert Mapplethorpe. L’obiettivo sensibile”, dal 15 marzo al 30 giugno 2019 espone 45 opere fotografiche in parte ispirate all’antico, veri e propri  studi di statuaria classica e nature morte, paesaggi e composizioni anche trasgressive. La mostra è stata prorogata al 6 ottobre 2019 per il grande successo di pubblico che ha fatto raddoppiare le visite a Palazzo Corsini.

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“Prima Galleria, “Self portrait”, 1988

Il passato accostato al presente, come  nel 2017  il Sipario di “Parade” di Picasso e nel 2018  “Eco e Narciso” a Palazzo Barberini; nel 2019 il passato sono le opere della Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini, il presente l’arte fotografica di Mapplethorpe. Curatrice della mostra – realizzata  in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation di New York – la direttrice delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica Flaminia Gennari Sartori. Sono stati organizzati appositi  incontri per approfondire  l’arte fotografica,  anche trasgressiva, insolita  per una Galleria Nazionale d’Arte Antica,  del grande fotografo nel 30° anniversario della morte, che vede anche una mostra a Napoli e una al Guggenheim di New York.

Anticamera, “Winter Landscape”, 1979, a dx

Le ragioni di una mostra insolita

Un’altra sorpresa da parte della direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, di segno ancora diverso dalle precedenti. Lo spirito innovativo non manca alla direttrice Flaminia Gennari Sartori , lo aveva espresso finora attraverso mostre con pochi dipinti concentrati su temi ristretti approfonditi con un apposito lavoro di ricerca, come “Mattia e Gregorio Preti” e “La stanza di Mantegna”, “Venezia scarlatta”, “Il pittore e il gran Signore” e “Mediterraneo in chiaroscuro”; mentre con “Eco e Narciso” ha celebrato il recupero delle sale sottratte per decenni alla sede espositiva inserendovi temporaneamente opere di arte contemporanea.

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Prima Galleria, “Ken and Lydia and Tyler”, 1985

Ora fa entrare nel tempio dell’Arte Antica la fotografia, e che fotografia! Quella trasgressiva di Robert Mapplethorpe che negli anni ’80 ha addirittura scandalizzato con le pose estreme, anche di sesso esibito. Aver curato la mostra accompagnandola con un ampio saggio esplicativo indica che il suo impegno è stato personale e diretto, espresso anche nella sua conversazione del 15 maggio su Mapplethorpe come curatrice, con Jonathan K. Nelson, docente alla Syracuse University di Firenze e Andrea Villani , direttore del Museo Madre di Napoli.

Ma come si possono inserire fotografie moderne nella Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini? E qui c’è l’idea portante dell’esposizione: non angoli riservati per le fotografie, che salvo un’enclave finale sono collocate, diremmo incastonate, tra le opere antiche, soprattutto dipinti ma anche sculture, accostandole a quelle con cui è possibile istituire delle assonanze e dei rimandi. Non è la prima volta che questo avviene, ma finora si era trattato di riferimenti sporadici, soprattutto per le sue fotografie scultoree accostate a Michelangelo e Rodin; ora invece sono collocate nella Quadreria settecentesca con il loro bianco e nero  che si trova a dialogare con il colore delle pitture.

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Prima Galleria, “Ajitto”, 1981, parete, di profilo

La Gennari Sartori ricorda che le quadrerie settecentesche erano ispirate a criteri di “simmetria,  euritmia e varietà compositiva che  stimolavano il visitatore ad individuare assonanze e differenze tra le opere, addestrandone lo sguardo”. Anche Mapplethorpe si è ispirato a questi criteri, e l’inserimento delle sue opere, definite “magneti in bianco e nero nel tessuto colorato di quadri che ricopre le pareti”, é considerato un ulteriore stimolo al visitatore per questa ricerca.

Mapplethorpe e la sua arte fotografica

Ma chi è Robert Mapplethorpe, e perché’ il suo viene definito “obiettivo sensibile”?  Oltre che grande fotografo era appassionato collezionista, non solo di fotografie storiche, anche di ceramiche scandinave e vetri italiani, stampe e mobilio artes and craft, se ne può avere un’idea dal  servizio fotografico in cui ritrae le pareti del proprio studio con molti pezzi della sua collezione, i cui spazi e le cui sistemazioni “compongono una specie di autoritratto ideale”. Lo fece nel 1988, pochi mesi prima di morire,  un’immagine di quotidianità che ne delinea l’’“orizzonte estetico ed intellettuale”.

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Prima Galleria, “Ajitto”, 1981, parete, di spalle e frontale

Eccentrico fin da quando descrive il quartiere del suburbio newyorkese in cui nacque nel 1946, “un buon posto in cui nascere perchè era molto sicuro, allo stesso tempo era un buon posto da cui andarsene”. Inizia il suo percorso artistico ispirandosi a Duchamp, con collages, dal 1970 vi inserisce fotografie da una “polaroid” acquistata in quell’anno, ma presto le rende autonome, nel 1973 la prima personale fotografica alla Light Gallery di New York.

In questo stesso anno comincia ad interessarsi al collezionismo di foto storiche, dopo aver visto la raccolta del Metropolitan Museum e soprattutto una mostra di fotografi pittoralisti, tra cui Stieglitz; lo abbraccia definitivamente allorché  in soli due anni il compagno Sam Wagstaff  diviene uno dei maggiori collezionisti al mondo di fotografie: soprattutto ritratti, figure e  paesaggi, sempre studi.

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Prima Galleria, “Italian Devil”, 1988

Nel 1970 in un viaggio in Europa aveva fotografato la statuaria classica, Michelangelo in particolare, ha la vocazione dello scultore e trova nella fotografia il mezzo più rapido per realizzare “sculture”, non solo i gruppi di nudi che ritrae, ma anche fiori e nature morte.

Il regalo di una macchina fotografica Hassemblad da parte di Wagstaff  nel 1975 contribuisce a fargli abbracciare la fotografia, iniziando con ritratti nel giro di conoscenti e di celebrità, realizza copertine di album ritratti e servizi per “Interview Magazine”, poi questa diviene la sua esclusiva forma di espressione artistica con i criteri classici cui si è appena accennato: composizioni realizzate soprattutto in studio curando tutti i dettagli  nell’organizzare i soggetti, con la luce che delinea i margini e i contorni, come avviene nella celebre “Canestra di frutta” di Caravaggio segnalata a lui sempre da Wagstaff proprio per questo aspetto.

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Galleria del Cardinale, “Lisa Lyon”, 1980, in basso

Un altro artista americano, Lachapelle,  concepisce la fotografia  quale composizione preordinata di cui preparare le componenti come in un teatro di posa, ma è molto diverso da Mapplethorpe: non solo perché punta sul colore e non sul bianco e nero, ma per forma e contenuti  lontani dalla classicità; piuttosto qualche assonanza si può trovare con Helmut Newton, per i nudi, e forse con qualche  bianco e  nero di fotografi di moda, come Lagerfeld, fino a De Antonis  in alcune immagini di studio  prima di passare all’astrazione fotografica, l’opposto della pulita figurazione di Mapplethorpe.  

Nessun riferimento invece ai grandi fotografi  proiettati sulle istantanee  come i grandi reporter, da  Cartier Bresson a Mc Curry, o ricercatori dell’esotico e remoto, come  Nomachi e Salgado.

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Galleria del Cardinale, “Lisa Lyon”, 1980, primo piano

Mapplethorpe ci presenta soggetti scelti e organizzati con una acuta sensibilità personale che poi si trasferisce all’“obiettivo sensibile”, così definita dalla Gennari Sartori: “L’incanto del decadimento e della morte e il tema della vanitas, o l’allegoria della  caducità della vita, scorrono nel suo lavoro accanto alla tensione  verso una simmetria a un tempo classica e contemporanea”. Il  pensiero va alla premonizione della fine a soli 43 anni per Aids, due anni dopo la morte del compagno-mecenate Wagstaff, espressa nell’autoritratto, il viso e la mano che sbucano dal buio.

A parte questo motivo che nasce dalla sua sensibilità colpisce l’andare  controcorrente rispetto alle avanguardie senza risultare retrogrado, suscitò più scandalo con le sue composizioni “ordinate” che tanti  innovatori con le loro stravaganze.

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Galleria del Cardinale, “Puerto Rico, Woman”, 1981, in basso a dx

In un’intervista del 1988, a un anno dalla morte, così definì le proprie trasgressioni: “Non mi piace la parola ‘scioccante’. Sono alla ricerca dell’inaspettato, di cose che non ho mai visto, ero in grado di fare quelle foto, sentivo l’obbligo di farle”. Inaspettato anche il suo interesse per la campionessa mondiale di bodybuilding Lisa Lyon, oltre a farle centinaia di fotografie – alcune esposte in questa mostra – le dedicò un film e il libro “Lady, Lisa Lyon”.

La sua arte fotografica spazia dai nudi maschili e femminili alle nature morte, ai fiori e ai ritratti in una classicità che convive con la trasgressione, impiegando diverse tecniche, comprese Polaroid e fotoincisioni, stampe platino su carta e lino, fino al “clye transfer color prints”. Realizza fotografie anche per un poema di Rimbaud e per un libro su 50 artisti di New York.

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Galleria del Cardinale, “Dominick and Elliot”, 1979, a dx

Nel 1988 la prima retrospettiva al Whitney Museum of American Art, da due anni gli era stato diagnosticato l’Aids, ma non aveva rallentato la sua attività, tutt’altro. L’anno successivo, alla sua scomparsa, John Didion lo celebrò con queste parole: “L’origine della sua potenza derivava non tanto dallo shock del nuovo ma dallo shock dell’antico, con la rischiosa imposizione dell’ordine sul caos, del classico su immagini impensabili. Alla fine l’oggetto del suo lavoro era quella stessa simmetria con cui disponeva ogni cosa”.

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Camera del Camino, “Samia”, 1978, in basso

Anche la Quadreria settecentesca di Palazzo Corsini risponde a un concetto di simmetria sia pure ben diverso da quello di Mapplethorpe che  organizzò la parete del suo studio – il ritratto  “autobiografico”  del collezionista – come una quadreria con i quadri fino al soffitto. Non conosceva  le opere della collezione di Palazzo Corsini; ciononostante  la classicità dell’artista, con la sua memoria dell’arte e della pittura del passato, ha portato di per sé  espressioni fotografiche che trovano assonanze con quelle pittoriche della Quadreria settecentesca.

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Camera del Camino, “Catherine Olim”, 1982, a sin.

Ed è proprio su queste assonanze che è stata costruita la mostra, disseminando i bianco-.neri di Mapplethorpe tra i cromatismi dei dipinti alle pareti sulla base di parallelismi spesso sorprendenti che hanno come denominatore comune il classicismo nella forma e nel contenuto.

Le sue opere fotografiche sono presenti in molte gallerie negli Stati Uniti, Sudamerica ed Europa, e nei principali musei del mondo, mentre la Robert Mapplethorpe Foundation è impegnata nella missione che lui stesso le assegnò, fondandola nel 1988: promozione della fotografia, sostegno ai musei che espongono fotografie artistiche, finanziamento della ricerca medica per sconfiggere l’Aids e l’Hiv. Così la sua parabola di arte e di vita si è nobilitata.

Camera del Camino, “Marcus Leatherdale”, 1978, al centro

Dall’Anticamera alla Camera del Trono

La visita alla mostra diventa una sorta di “caccia al tesoro”, stanza dopo stanza, per individuare le piccole fotografie di Mapplethorpe collocate per lo più singolarmente nel panorama pittorico delle varie pareti; ma è un tesoro tra tesori, perché nella ricerca si passa in rassegna l’intera collezione.

Si inizia dall’ Anticamera, “Winter Landscape”, 1979, rappresenta in una rara inquadratura lo scorcio di un grande albero spoglio, con una sagoma scura alla base,  una persona seduta, e un grigiore tutt’intorno, tristezza e desolazione;  Vicino vediamo il “Paesaggio con Rinaldo e Armida”  di Gaspard Dughet, con il verde cupo degli alberi dalle chiome folte e fronzute, anche qui c’è solitudine, ma l’opposto della desolazione, vediamo l’esuberanza della natura.

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Camera dell’Alcova, “Lisa Lyon”, 1981, al centro

Nella Prima GalleriaKen and Lydia and Tyler”, 1985, richiamano con assoluta evidenza  le “Tre Grazie”, ma qui solo la figura centrale è femminile, in posizione frontale, ai lati due figure maschili di profilo, un bianco e un “colored”  che con le mani le fanno da foglia di fico, c’è un che di provocatorio in questi nudi che rompe la classicità nella posa e nell’ispirazione.

Classiche e statuarie le 4 inquadrature di “Ajitto”, 1981, due di prospetto, due di profilo, anche qui un “colored”  rannicchiato su uno sgabello, raccolto con le braccia intorno alle ginocchia. L’accostamento ai bronzetti della Collezione di Palazzo Corsini è evidente, anzi fa sì che non passino inosservati come di solito avviene a fronte della più appariscente esposizione pittorica.

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Camera dell’Alcova, “Bernine”, 1978, a dx

Ma l’attrazione magnetica è data dal “Self Portrait”, 1988,  un autoritratto fotografico in cui si riprende con l’autoscatto mentre il suo volto diafano sembra emergere dal buio che si confonde con la casacca nera, mentre la mano, altrettanto diafana, si protende stringendo  un bastone dal pomo a forma di teschio. 

La foto è stata scattata pochi mesi prima della morte, gli occhi penetranti sembrano sfidare l’al di là che ormai si avvicina, forse nella Fondazione che ha creato vede la prosecuzione virtuale della sua vita artistica, per cui può guardare lontano senza abbassare gli occhi, non si sente sconfitto, tutt’altro, del resto ha lavorato fino all’ultimo: è un’immagine impressionante nella sua drammaticità autobiografica.

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Gabinetto Verde, “Guy Neville”, 1975″, in basso a dx

Dello stesso 1988 “Italian Devil”, un ritratto demoniaco che evoca, oltre alla sua passione per il collezionismo di busti oltre che stampe e foto storiche, la sua attrazione per angeli e demoni testimoniata dalla personale “quadreria” nelle pareti del suo studio.

L’accostamento tra foto di Mapplethorpe e dipinti della Quadreria è molto evidente nella Galleria del Cardinale, in particolare tra “Puerto Rico, Woman” 1981, il viso di una donna dai capelli bianchi che richiama il “Ritratto di vecchia”  di un seguace di Jan Van Scorel:  sono entrambi di piccole dimensioni, collocati ai lati opposti di un grande dipinto, il collegamento viene spontaneo.

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Gabinetto Verde, “Harry Lunn”, 1976, a dx

Molto diversa “Lisa Lyon”, 1980, un corpo femminile che si intravede disteso tra due grandi rocce grigie, come sono molto diversi da questa immagine i due dipinti di Francesco Albani, “Giove invia Mercurio ad Apollo”  e “Venere e amorini”, accomunati dall’abbandono alla natura, pur se con connotati quasi opposti.  Come è opposto rispetto al lirismo mitologico  il violento  “Dominick and Elliott”, 1979, un uomo nudo appeso per i piedi con le braccia aperte come un crocifisso, mentre un uomo in piedi a torso nudo lo tiene in pugno, è la prima di una serie di foto trasgressive.

In forte contrasto, nella stanza successiva, la Camera del Camino (o Sala del Trono Corsini),  3 fotografie di grande compostezza: due figure femminili, “Samia”, 1978, e “Catherin Ollm”, 1982, una ragazza seduta  con la veste bianca che spicca nell’ambiente oscuro e una giovane signora in piedi; e una figura maschile, “Marcus Leatherdale”, 1978, un giovane in piedi a torso nudo con un animale, forse una lepre, sulla spalla, come dopo la cacciagione. Tutte con espressioni intense. Il rapporto con l’antico riguarda, per le due figure femminili i quadri di due grandi maestri, Guido Reni e il suo “ Salomè con la testa del Battista”, Pieter Paul Rubens con la “Testa di vecchio”; per il giovane  i bronzetti di Adone e Diana Caccatrice di Antonio Montauti, con il comune riferimento alla caccia.

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Camera Verde, “Flower Arrangement”, 1984, a sin.

Dall’Alcova di Maria Cristina alla Camera V erde

Siamo giunti così nella stanza denominata “Alcova di Cristina di Svezia”,   la camera da letto della regina che abitò per trent’anni a Palazzo Corsini dopo aver abdicato  nel 1654, passando dal luteranesimo al cattolicesimo e trasferendosi  in Italia, nel palazzo dove riunì intorno a sé un cenacolo di intellettuali e artisti, fu un simbolo di coraggio e di anelito di libertà. La fotografia “Bernine”, 1978, il volto di profilo con un filo di perle nei capelli e un vago sorriso, ne evoca l’immagine, vicino ai ritratti di Lorenzo Lotto e dei maestri lombardi del Cinquecento.

Altri due accostamenti sono significativi. Vicino alla scritta con il motto della regina “Nacqui libera, vissi libera e morirò liberata” vediamo la fotografia “Lisa Lyon”,1981, con la culturista in piedi mentre gonfia i muscoli, nel torace ci sono delle cinghie, quasi ad esprimere la ribellione  ad ogni legame e nello stesso senso la ricerca di un ideale di bellezza che superi la distinzione dei sessi, nella concezione di Mapplethorpe; del resto per la stessa Cristina, forse perché restò nubile, si parlava di ermafroditismo.  Ma c’è un altro riferimento, oltre ai ritratti e la scritta simbolo di libertà, quello alla scelta del cattolicesimo, evocata dai tre ovali:  la “Vergine Addolorata”, il “Cristo coronato di spine” e il “San Giovanni Evangelista”, tutti  di Guido Reni, come di parte dei ritratti prima citati.

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Camera Verde, “Flowers”, 1983

Dopo la trasgressione dell’uomo fotografato appeso nella Galleria del Cardinale abbiamo avuto immagini composte nella Galleria del Camino, così dopo la ben più moderata trasgressione della culturista, nel Gabinetto Verde abbiamo la compostezza di “Guy Neville”, 1975, e “Harry Lunn”, 1976: due figure maschili, più che busti, la prima con la tuba, la seconda senza cappello, entrambi in posizione di profilo con giacca e cravatta. La corrispondenza a questo punto è molto precisa,  il primo è un simbolo di eleganza al pari del “Cardinal Neri Corsini senior” nel dipinto di  Giovan Battista Gaulli del 1666, il secondo ha addirittura una certa somiglianza con il cardinale “Ferdinando de’ Medici”, ritratto da Alessandro Allori.

Passando dal Gabinetto Verde alla Camera  Verde una doppia esposizione fotografica inconsueta, che segna due temi di Mapplethorne, Qui sono esposte le nature morte e le immagini di sculture umane  Tra le prime, “Flowers Arrangement”, composizione floreale compatta, mentre “Flowers”, 1983,  mostra un’immagine molto diversa, leggera e aerea con una sorta di aureola di rametti e fiori sottili, quasi impalpabili. “ Apple and Urn”,  1987, è una foto plastica, un vaso a coppa con 3 pomi, altri 3 sulla tovaglia e il tavolo. Fanno da “pendant” a queste diverse forme fotografiche  le Nature morte di Christian Berentz,  che esprime la pittura del ‘600 cui il nostro fotografo artista si sentiva particolarmente vicino.

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Camera Verde, “Apples and Urn”, 1987, a sin.

Le sculture fotografiche rappresentano il profilo di un “colored”,  “Black Bust”,  affiancato a quello di “Apollo”, dello stesso1988, con una straordinanza somiglianza fisognomica e  analoghe tonalità nei volti  segnati dalla luce che spiccano sullo  sfondo scuro con un rilievo veramente scultoreo.”Noblesse oblige”, troviamo in questa parte della Quadreria due dei maggiori artisti della Collezione, Caravaggio con “San Giovanni Battista” e Jusepe de Ribera  con “Venere e Adone”.

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Camera Verde, “Apples and Urn”, 1987, primo piano

La “Sala Rossa” e la “Saletta” con  le immagini più trasgressive

Nella Sala Rossa, dai “magneti” disseminati nella Quadreria si passa all’esposizione di tipo tradizionale di 17 fotografie di Mapplethorpe senza riferimenti alle opere della Collezione Corsini. Ma se l’allestimento della sala è tradizionale non lo è il contenuto, e lo vedremo presto.

Si inizia con alcune immagini ancora più insolite di quelle fin qui commentate: “Texas Gallery”, 1980 e “New Orleans Interior”, 1982, che sconfinano nell’astrazione, in “Orchid and Haad”, 1983, si vede una mano che si protende verso l’orchidea su fondo nero.

Camera Verde, “Black Bust”, 1988

Poi si passa ad alcune foto improntate alla classicità, come altre prima commentate: siamo al nudo femminile, ritroviamo la culturista “Lina Lyon”, che abbiamo già visto ripresa mentre mostrava i muscoli come per liberarsi delle cinghie che le stringevano il busto; qui i  2 nudi del 1980 e 1982, non sono più totali ma parziali, ad evidenziare due parti “sensibili” del corpo femminile dalla cintola in giù, posteriore e anteriore. Il loro carattere scultoreo, da statue antiche è evidenziato ulteriormente in “Female Torso”, in cui due anni prima, nel 1978, aveva fotografato un vero busto femminile classico, mutilo di testa, braccia  e gambe sotto il ginocchio.

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Sala Rossa, “Phillip”, 1979

E qui inizia la galleria che culmina nella trasgressione, vediamo “Lily”, 1986, e “Phillip”, 1979, due gambe con i piedi eretti sulle punte nella posa da ballo classico.  Dai nudi femminili di Lina Lyon si passa a due nudi maschili, “Allstair Butler”, 1980, profilo laterale muscoloso di parte del corpo e “Dennis Speight”, posizione acrobatica che tramuta il corpo in un originale arco sormontato dal viso.  La “Bronze Sculpture”, 1978, mostra un reperto statuario con la  parte centrale del  corpo maschile ben più mutila del “Female Torso”, e prepara l’immagine trasgressiva di un nudo maschile  a figura intera, questa volta senza positure e riferimenti classici. Non è ripreso come in “Ajtto”, scultoreo e composto, bensì con esplicita esposizione del sesso, in “Marty Gibson”, 1982, mentre tira con l’arco davanti a uno sfondo di grattacieli.

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Sala Rossa, “Allstair Butler”, 1980

Poi immagini floreali allusive, “Orchid”, 1985, e “Calla Lily”, 1988; mentre “Holly Salomon”, 1976, e “Carol Overby”, 1979, ci riportano  a figure del tipo di quelle esposte nella “Camera del Camino”, anche se la prima è sdraiata a letto mentre fuma e non ha lo sfondo nero ma una carta da parati a fiori, la seconda tiene la mano a mo’ di visiera davanti agli occhi come per ripararli dal sole e guardare lontano.

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Sala Rossa, “Holly Salomon”, 1976

“Milton White”, 1983, una figura maschile chinata vista da tergo, ci riporta alla trasgressione,  che esplode  nella Saletta, dove, quasi  per renderne più riservata la vista – come avvenuto ad esempio per i fumetti erotici nella mostra “Mangasia” – sono riunite le tre fotografie più esplicite, che non possono definirsi pornografiche perché senza scene essuali, il contenuto è nei titoli, “Cock and knee”, 1978,“Peeing in Glass”, 1977,  e “Cock and Devil”, 1982:  in “Marty Gibson” il “cock” faceva parte dell’intero nudo maschile – perciò questa foto poteva essere messa nella “Saletta”- mentre nelle tre immagini ora citate è  il soggetto esclusivo, protagonista assoluto. Comprendibile lo sconcerto e lo scandalo che suscitarono, tanto più che si tratta di quarant’anni fa. Con “Poppy”, 1988, e “Jack in the  Pulpit”  vediamo  immagini allusive di tipo floreale.

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Sala Rossa, “Calla Lily“, 1988

Che dire, in conclusione? Il coraggio è contagioso, lo è stato quello di Mapplethorpe con le sue trasgressioni, lo è quello della Gennari Sartosri non solo nell’accoglierle nelle Gallerie Nazionali d’Arte Antica,  nello storico e austero Palazzo Corsini, ma nel curare lei stessa la mostra e nel dedicarle gli approfondimenti citati all’inizio.  Anzi, per l’inaugurazione ha curato anche l’ambientazione sonora scegliendo lei stessa, in collaborazione con Alberto Salini,  i brani di Philip Glass, compositore e musicista statunitense amico di Mapplethorpe e come lui minimalista, la cui musica pur innovativa nella spinta verso l’astrazione, è legata al classicismo come la fotografia dell’amico.

In questo spirito la Gennari Sartori chiude il suo saggio introduttivo con le parole del compagno di Mapplethorpe, Sam Wagstaff, sull’amore per la fotografia: “La gioia assume molte forme nella fotografia: la gioia della tristezza, dell’oblio, della sfacciataggine, la gioia persino della morte”.  Effettivamente ci sono tutte queste componenti della vita, in un “memento” difficile da dimenticare; e anche questo è uno dei meriti di una mostra così insolita e intrigante.

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La “Saletta” con le foto trasgressive

Info

Palazzo Corsini, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Via della Lungara, 10. Dal mercoledì al lunedì (martedì chiuso), ore 8,30-19, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12, ridotto euro 2 (giovani 18-26 anni), gratuito per scuole e insegnanti, studenti e docenti di architettura e lettere orientamento storico e artistico, Beni culturali, Accademie Belle Arti, Icom, con handicap accompagnati, guide e giornalisti. Biglietto valido 10 giorni in entrambe le sedi, Barberini e Corsini. www.barberinicorsini.org. Catalogo brochure: Galleria Corsini, “Robert Mapplethorpe, l’obiettivo sensibile”, Barberini Corsini Gallerie Nazionali, 2019, pp. 24, formato 16,5 x 23,5; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli in ww.arteculturaoggi.com: per le mostre tematiche a Palazzo Barberini, nel 2019 “Mattia e Gregorio Preti” 24 febbraio; nel 2018 “La stanza di Mantegna” 7 novembre, “Eco e Narciso” 25 e 30 settembre; nel 2017 “II pittore e il gran Signore’ e ”Mediterraneo’ in chiaroscuro” 22 marzo, “Venezia scarlatta” 15 marzo. Per i fotografi, nel 2017, “De Antonis” 19 e 29 dicembre; nel 2014 “Cartier Bresson” 24 dicembre, “Nomachi” 17 marzo; nel 2012 “Berengo Gardin e Giacomelli” , “Doisneau” 2 novembr. Altri riferimenti, nel 2017, “Picasso e il “Sipario” 25 dicembre, “Mangasia” 6 novembre; nel 2014 , “Duchamp” 16 gennaio. In “fotografia.guidaconsumatore.it”: per i fotografi, nel 2013, “”Salgado” agosto, “Newton” luglio; nel 2012, “Doisneau” e “Berengo Gardin” novembre; nel 2011, “Rodecenko” dicembre, “Lagerfeld” novembre, “McCurry” marzo (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, disponibili su richiesta).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Corsini alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Nelle didascalie vengono indicati soltanto i nomi delle sale e i titoli delle fotografie di Mapplethorpe, in bianco e nero, quelli delle opere della Quadreria del ‘700 che sono vicine quando le foto non sono riprese in primo piano, non sono indicati, per lo più vengono citati nel testo. In apertura, Prima Galleria, “Self portrait” 1988; seguono, Anticamera, “Winter Landscape” 1979, e Prima Galleria, “Ken and Lydia and Taylor”” 1985; poi, “Ajitto” 1981 di profilo e Ajitto” 1981 di spalle e frontale, quindi, “Italian Devil” 1988, e Galleria del Cardinale, “Lisa Lyon” 1980; inoltre, “Lisa Lyon” 1980 primo piano, e “Puerto Rico, Woman” 1981; ancora, “Dominick and Elliot” 1979, e “Samia” 1978; continua, “Catherine Olim” 1982, e “Marcus Leatherdale” 1978; prosegue, Camera dell’Alcova, “Bernine” 1974, e “Lisa Lyon” 1981; poi, Gabinetto Verde, “Guy Neville” 1975, e “Harry Lunn” 1976; quindi, Camera Verde, “Flower Arrangement” 1984, e “Flowers” 1983; inoltre, “Apples and Urn” 1987, e “Apples and Urn” 1987; continua, “Black Bust” 1988, e “Phillip” 1979; di nuovo, Sala Rossa, “Allstair Butler” 1980, e “Holly Salomon” 1976; infine, “Calla Lily” 1988, e la “Saletta” ; in chiusura, “Mapplethorpe’s Apartment” 1988.

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Mapplethorpe’s Apartment” , 1988

Leonardo, i 500 anni del grande italiano celebrati alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Nel 5° centenario della morte di Leonardo da Vinci alle Scuderie del Quirinale la mostra “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza” espone  dal 13 marzo al 30 giugno 2019 oltre 200 opere in campo scientifico – modelli di macchine, manoscritti e disegni, volumi rari e stampe – in una interpretazione della sua figura che la inserisce nella trama di relazioni culturali nel campo dell’ingegneria e della tecnica della sua epoca. E’ organizzata dalle Scuderie del Quirinale insieme al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ‘Leonardo da Vinci’ e alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano ed è curata da Claudio Giorgione, curatore del Museo organizzatore. Nel periodo della mostra 5 incontri con il curatore e una serie di esperti, al Teatro Argentina il 23 marzo, alla Biblioteca Angelica il 10 aprile, a Villa Medici il 17 aprile, al Liceo Visconti il 14 maggio, all’Accademia San Luca il 23 maggio. E una serie di laboratori per le scuole  e i visitatori, di ogni età. Catalogo “Arte,m L’Erma”.

“Ritratto” di Leonardo, dal libro del 1811 con il discorso del pittore Giuseppe Bossi  su Leonardo

 Lo confessiamo subito, ci ha sconcertato  l’affermazione iniziale del curatore Claudio Giorgione – che cura il Museo nel quale sono esposte stabilmente le macchine leonardesche – il quale  ha trovato arduo ”approfondirne l’attività di ingegnere e umanista”, cosa comprensibile, ma “ancora di più, nell’obiettivo di smontare il mito di Leonardo inventore  e profeta del futuro”.

Non ci è sembrato l’obiettivo più appropriato per la celebrazione del quinto centenario “smontare il mito di Leonardo” inventore, pur se ci si propone “di riconsiderarne invece la grandezza nello stretto dialogo con il contesto storico, le fonti, i contemporanei ma anche la sua eredità nella cultura tecnica del Rinascimento”. Come un lago, dunque, immissari che lo alimentano ed emissari che ne sono alimentati.

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“Calco del fregio dell’arte della Guerra”, Ambrogio Barocci da notizie II metà XV sec.  “Trattato di Architettura” di Francesco di Giorgio  Martini (sega idraulica, riparo piramidale da bombarda, gru girevole)

Il mito di Leonardo, genio universale

La  mitizzazione operata dal regime fascista nella mostra del 1939 come archetipo del genio italico soprattutto in periodo di “inique sanzioni”  può indubbiamente suscitare dei legittimi dubbi. Che hanno trovato espressione nelle due mostre, espressamente ricordate,  curate da Paolo Galluzzi: in quella del  1991 venivano presentati gli ingegneri e le fonti precedenti e contemporanee con cui Leonardo era in rapporto; nella mostra del 1996 c’era il raffronto tra la sua opera e quella di altri dell’epoca.

Naturalmente le ricerche condotte  negli ultimi decenni consentono di mettere a fuoco in modo molto più preciso e appropriato l’entità del suo apporto al progresso della tecnica nei campi da lui così intensamente esplorati, e  i risultati non vanno sottovalutati.  E’ tuttavia evidente che, se alcune enfatizzazioni della portata  rivoluzionaria delle sue invenzioni in campo meccanico e tecnologico possone essere ridimensionate, la sua figura resta intatta nella sua straordinaria “unicità” se la si considera a tutto campo.

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Modello di Argano a leva  da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini)

La sua grandezza va ben al di là delle macchine ideate o semplicemente rappresentate, come vengono definite  spesso in modo troppo riduttivo; i suoi studi sul corpo umano, nell’anatomia e funzionalità, raffrontate alle macchine, c sui fenomeni naturali come il volo degli uccelli a sua volta ispiratore del volo umano, i suoi studi sull’architettura e sulla pittura, tradotto in progetti da un lato e in capolavori pittorici dall’altro compongono un insieme che più unico non potrebbe essere; come lo sono il “Cenacolo” e il “Musico”, la “Dama con l’ermellino” e la “Gioconda”.

Perché  dire, allora che non è stato un “genio isolato”, quindi non unico, in quanto inserito  nella “temperie culturale di un’epoca in cui arte  e tecnica, filosofia e architettura si compenetravano l’una con l’altra”? Appunto  perché si inserisce in questo contesto spicca per come si eleva al di sopra di tutti gli altri  nella compresenza dei  campi più disparati in cui eccelle.

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Roberto Valturio, “De Re Militari” 1462,  ruota idraulica a scomparti

Fino alla grandezza nella capacità di rappresentare questo mondo variegato e intrigante, unica anch’essa nei Codici ricchi di disegni insuperati oltre che di analisi e trattazioni frutto di osservazioni sperimentali unite a speculazioni teoriche profonde,  da parte  di chi, come lui, si proclamava “omo sanza lettere”.

D’altra parte, non ci sembra doversi neppure enfatizzare la mitizzazione nella mostra “fascista” del 1939; nella mistica di regime  rientrava la valorizzazione dei nostri grandi, in Unione Sovietica il “Realismo socialista”, in testa Alecsander Deineka, lo faceva con “l’uomo nuovo”  che eccelleva nel lavoro e nello sport per un radioso avvenire. Esaltare Leonardo era ed è ancora oggi appropriato, se non doveroso.

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Modello di Macchina per innalzare colonne da Leonardo, 1953

E questo perché il suo mito nasce già nel ‘500, tra i suoi contemporanei, lo ricostruisce Simone Bertelli premettendo che è “l’artista più famoso e più studiato di tutti i tempi”, e parla di artista, non di ingegnere e inventore. Prima di Vasari una “Leonardi Vincii vita” fu inserita, con gli “Elogi degli artisti”, in appendice ai “Dialogi de viris et  foeminis aetate nostra florentibus” di Paolo Giovio, con la sua le vite di  Michelangelo e Raffaello,  come “triade ideale dei grandi dell’arte rinascimentale”, di lui anche rari particolari sull’aspetto fisico. Poi, Giorgio Vasari, nelle “Vite”, tra il 1550 e il 1568, “ce ne consegna già un ritratto leggendario e misterioso”.

Ma c’è dell’altro, sempre nel ‘500, che rafforza il mito: il celebre ritratto con capelli lunghi e barba fluente che ne fa una figura ieratica;  e una biografia di metà ‘500, di Giovan Paolo Lomazzo in forma di racconto dello stesso Leonardo, sulla traccia della “Vita” di Vasari, seguita dal suo ritratto, nella “Idea del tempio della pittura”, in cui è uno dei “sette governatori dell’Arte “ visti come colonne che sorreggono il tempio. Un riconoscimento quanto mai significativo nella sua epoca, sebbene “nemo profeta in patria”.

Questo sulla sua figura vista dai contemporanei, che si lega alla sua presenza di grande valore in campo artistico, con i  dipinti, particolarmente esaltato il “Cenacolo”, e il ”Trattato della pittura”. La fama si proietta nel tempo, e nel 1634 abbiamo l’edizione  a stampa del mecenate Cassiano dal Pozzo.

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Cesare Cesariano, ”Raffigurazione dell’Uomo Vitruviano” 1521, da Marco Vitruvio Pollione I sec. a. C.   

C’è un lungo periodo di oblio, rotto allorché con la “razzia” dei francesi di Napoleone delle maggiori opere d’arte del  nostro paese, furono requisiti anche gli scritti leonardeschi della Biblioteca Ambrosiana.  Giambattista Venturi ne fece uno studio approfondito pubblicato nel 1797,  che mise in evidenza l’alto livello scientifico e tecnico di Leonardo in aggiunta alla figura di artista e teorico della pittura.

Il mito  di Leonardo cresce anche sotto il profilo artistico, addirittura  un architetto napoleonico  vorrebbe “staccare” il suo “Cenacolo”  dal refettorio di Santa Maria delle Grazie  per portarlo all’Accademia di Brera, ma viene bloccato dal Commissario per le Belle Arti del Regno fresco di nomina,  idea velleitaria che aveva avuto anche  Luigi XII, come racconta  il Giovio.

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Modello di Trivella a doppio movimento da Leonardo, 1953

Siamo agli inizi dell’800, al pittore Giuseppe Bossi l’incarico di farne una copia fedele, cosa che avviene regolarmente, prepara i cartoni, poi la espone al pubblico; si aggiunge l’incarico a Giacomo Raffaelli di riprodurne le pennellate con la tecnica del micro-mosaico, la copia viene acquistata dall’imperatore d’Austria Francesco II e portata a Vienna; gli studi grafici di Bossi sono acquistati da un granduca austriaco e consentono a  Goethe di studiarli e produrre un saggio sul “Cenacolo” che aveva visto in una visita il 25 maggio 1788, al termine del suo viaggio in Italia iniziato nel 1786.

Tornando alle opere scientifiche, la loro riscoperta avvenne  mezzo secolo dopo gli studi di Venturi, nel periodo 1841-44 ad opera di Guglielmo Libri –  un matematico segretario di una commissione per la catalogazione dei manoscritti delle biblioteche francesi – che li analizza  nell’Institut de France e ne esalta l’elevato livello nella sua “Histoire des sciences matmatique in Italie”; addirittura  ne trafuga e vende alcune pagine.

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Francesco di Giorgio Martini, “Studi proporzionali”, 1530  

Bertelli descrive le vicissitudini romanzesche dei suoi trattati fino alla pubblicazione dei manoscritti, tra il 1880 e il 1890, due secoli dopo quella del  “Trattato della Pittura”. Seguono altre pubblicazioni finché a Milano l’architetto Luca Beltrami “pubblica il regesto di tutti i documenti noti relativi alla vita e alle opere di Leonardo, uno strumento fondamentale per gli studiosi utilizzato proficuamente almeno fino all’aggiornamento datone nel 1999. Siamo alla vigilia del nuovo secolo, gli anni 2000.

In mezzo c’è la “Mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane”  del 1939, all’insegna della “superiorità della stirpe italica”, che  Bertelli ricorda così: “Per il regime ciò che doveva risultare più evidente era la continuità  del genio inventivo italiano, da Leonardo da Vinci a Guglielmo Marconi, nuovo vanto dell’Italia autarchica guidata da Benito Mussolini”. In presenza di dipinti artistici, non i maggiori, era esaltata la parte scientifica  con esposti grandi modelli di macchine funzionanti. Anche in seguito, i modelli di macchine basati sui disegni dei manoscritti hanno contribuito a esaltarne l’immagine di inventore. 

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Modelli di Chiesa  a pianta centrale con Chiesa a due livelli da Leonardo, 1953 (Fornace Curti) 

Bertelli conclude: “Un processo che esalta la componente scientifica e speculativa dell’attività del Vinciano facendone emergere le ricadute sull’opera artistica, ma che alimenta al tempo stesso il nuovo mito del genio universale precorritore dei tempi, un tema delicato che ancora oggi si apre facilmente ad interpretazioni anacronistiche e strumentalizzate”.

L’attuale  curatore della mostra celebrativa dei 500 anni, più che “precorritore dei tempi” sembra considerarlo figlio del suo tempo,  quindi autentica quanto qualificata espressione della vivace temperie culturale, scientifica e tecnologica, che è riuscito a interpretare.

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Modello del Pantheon veduta longitudinale, 1891 (Beaux-Arts de Paris) 

Ma a noi sembra sia stato molto di più, non foss’altro perché alla componente tecnica, comunque si voglia giudicare, va aggiunta quella artistica sulla quale non c’è alcun distinguo. E chi ai disegni di macchine più o meno originali, e ai trattati, allo studio del corpo umano e della natura fino a escogitare macchine per volare, aggiunge opere d’arte insuperabili, dal Cenacolo al Musico, dalla Dama con l’Ermellino alla Gioconda – ci piace ripeterlo – non si può dire che non sia un genio, un genio universale. Del resto, una  mostra del 2010 a Palazzo Venezia su Caravaggio si intitolava  “La bottega del genio”, ci sarebbe piaciuto trovare questa parola anche nella celebrazione dei 500 anni di Leonardo.

Il disegno  di Leonardo

Premessa questa precisazione iniziale sulla figura nella sua interezza ci concentriamo sull’aspetto al quale è dedicata la mostra, Leonardo “esperto di macchine”, come “artista  inventore”.

Cristiano Zanetti spiega come questi termini all’epoca di Leonardo corrispondevano alla qualifica di “artigiano” implicando l’appartenenza a una corporazione e la formazione in una bottega, per lui fu quella del Verrocchio, nella pittura e scultura da cui cercò di spaziare ad altri campi come l’architettura e non solo. E ci riuscì, tanto che fu definito “pictor et ingeniarius ducalis” dal Moro, “architecto et ingegnero generale” da Cesare Borgia ,  fino  a”peintre et ingegneur  et architecte du Roy, meschanicien d’estat” dalla corte di Francia.  

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Modello sezionato di Nave di Nemi con , a dx, Protome a testa di lupo (in basso) e Decorazione a forma di elmo (in alto), 1932-33

Così qualificato, osserva lo studioso, “Leonardo  sembra dunque posizionarsi con i suoi disegni, tra i due campi, quello assai pratico della rappresentazione di congegni possibili, resi con una tecnica eccelsa, veri e propri ‘trattati di macchine’, ed esplorazioni meccanicistiche puramente intellettuali  nella tradizione di  trattati di artifici tecnici, anche se con importanti sperimentazioni di integrazione tra il pensiero scritto e il ‘visibile parlare’ dello schizzo”. Parole che descrivono le sue inimitabili pagine dei Codici.

In lui si avverte un’inesausta volontà di progredire anche mediante lo studio in un’epoca in cui l’umanesimo promuoveva  l’integrazione tra scienza, filosofia e arte come base del progresso individuale e collettivo.

Ranieri Arcaini, “La nave di Caligola”, acquerello 1891

Ne fa fede la sua biblioteca, ritenuta particolarmente vasta per l’epoca, e le opere da lui ben conosciute nonostante non comprendesse né il greco né il latino, che pure cercò di imparare, che vanno da Euclide, Talete ed Aristotele molto utili per l’arte di costruire le macchine, a Plinio il Vecchio sui fenomeni naturali, a Vitruvio sull’architetto come costruttore-inventore.

Nonostante cercasse di affinare la sua formazione con i testi che “cercò accanitamente”, si basava sull’osservazione diretta della natura, a differenza dei contemporanei legati al “sapere libresco”.  Ne ricavava elementi sperimentali e speculativi anche di tipo matematico, il tutto tradotto nei 50 volumi manoscritti contenenti anche i disegni di macchine. Si esprime così nei taccuini : “La meccanica è il paradiso delle scienze matematiche, perché con quella si perviene al frutto matematico”.

Modello di Ricostruzione dello spettografo a vetro da Durer, con strumento musicale

La sua forma  espressiva sono i disegni, di per sé a carattere innovativo. Così  Pietro C. Marani apre l’introduzione sul suo “disegno scientifico”: “Leonardo elabora una serie di nuovi strumenti rappresentativi che vanno dalla sezione in orizzontale, agli spaccati, alle vedute esplose alla veduta simultanea  degli argani ‘per tre diversi aspetti’, al fine di  poterli collocare (in prospettiva) nel loro giusto luogo e per averne notizia integrale, alla presentazione degli organi e dei vari elementi in un corpo ‘trasparente’, oltre che alla loro schematizzazione attraverso filamenti di linee”.

Questo qualifica l’aggettivo “scientifico” dato al disegno leonardesco, nel quale non c’è alcuna concessione, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, all’aspetto artistico. Il disegno è utilizzato come “parola” e come “linguaggio”, termini usati rispettivamente da Venturi e da Pedretti, “ al punto che – scrive Marani – i testi che spesso lo accompagnano svolgono, nella quasi totalità dei casi,  una funzione puramente ancillare, e Leonardo sembra esprimersi, attraverso il disegno, nel migliore e nel più chiarificante a sua disposizione”.

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Modello di Pavimentazione di conche per canali da Leonardo, 1956 (A. De Rizzardi)

Il suo disegno, ripetiamo, nasce dall’osservazione diretta dei singoli fenomeni, ma fa qualcosa di più: la trasposizione trasversale dall’uno all’altro campo, come avviene tra il corpo umano ed elementi  naturali, come le acque, fino alle  macchine nella similitudine del funzionamento dei diversi organi rispetto alle loro funzioni: “L’ottica e la meccanica, l’anatomia e l’idraulica, la balistica e l’architettura militare si prestano  a campi di studio e di analisi i cui fenomeni sono tutti ugualmente raffigurabili come diagrammi fra loro intercambiabili”. 

Ne è diretta espressione  lo stretto collegamento tra il funzionamento del sistema sanguigno nel corpo umano e quello dei moti delle acque che si manifesta con un reticolo di linee, i cosiddetti “liniamenti”, per i relativi disegni.

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Plastico urbanistico di città ideale da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini)

Per quelli meccanici Brivio dice: “I disegni di macchine di Leonardo sono bellissimi, animati da un senso organico degli ingranaggi e dei moti, quasi esseri mostruosi”. Ciò vale soprattutto per i congegni bellici, di cui Leonardo si serviva per accreditarsi presso i potenti.

La differenza che viene sottolineata rispetto ai trattati quattrocenteschi, da Taccola a Ghiberti, da Di Giorgio Martini a Giuliano da Sangallo, è che quelli di Leonardo  descrivono in dettaglio ogni elemento, laddove  le rappresentazioni precedenti erano molto sommarie fino a nasconderli. I suoi sono definiti  “ritratti di macchina”, in tutti i particolari, come i ritratti umani, e anche le ombreggiature contribuiscono a collocarli nello spazio in una rappresentazione che diviene artistica.

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Plastico dell’Adda con progetto di conca di Paderno da Leonardo, 1956 (N. Rossi)

Riguardo al disegno di Leonardo non si può non citare “L’uomo Vitruviano”, per la sua efficacia icastica e per il processo realizzativo rispetto alla fonte da cui ricava gli elementi di base. “Lo studio delle proporzioni di Leonardo – osserva Frank Zollner, non si limita soltanto a formalizzare l’idea vitruviana  di homo ad circulum e homo ad quadratum. Il disegno testimonia infatti  una teoria ben sviluppata, a sua volta frutto dei suoi studi antropologici, ossia della misura programmatica del corpo umano”.

Infatti si basa su osservazioni e misurazioni che, nel caso dell’”Uomo Vitruviano”, gli consentirono di correggere alcuni parametri del canone originario non rispondenti all’evidenza empirica dei suoi studi antropometrici.

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Da sin, modello di Macchina per intagliare 1953 (C. Zammattio) e Macchina per filettare le viti 1956 (A. M. Soldatini), entrambe da Leonardo

E’ un  archetipo di come – anche quando nei suoi disegni, di macchine od altro, descrive cose già presenti – non mancano innovazioni spesso decisive per la soluzione di problemi insoluti. Lo afferma lo stesso curatore mitigando l’impressione diversa data da altre sue affermazioni:  “Leonardo utilizza spesso il disegno per studiare la tecnologia esistente del suo tempo o per riprendere repertori consolidati che nei decenni precedenti si erano diffusi anche grazie alle numerose copie manoscritte…  di cui Leonardo avrebbe posseduto una copia.  E’ tuttavia sorprendente come la rappresentazione grafica della macchina sia in Leonardo spesso estremamente innovativa”. 

Le copie sono dei trattati del Taccola sulle macchine e di Francesco di Giorgio Martini sull’architettura militare, presenti in mostra con i riferimenti ai disegni e alle macchine esposti.

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Libro d’oro all’uso cistercense XV sec.

Il  Codice Atlantico, sigillo delle 10 sezioni della msotra

La mostra è articolata in 10 Sezioni tematiche, imperniate sulle pagine manoscritte di Leonardo dal “Codice Atlantico”,  sigillo ai singoli temi affrontati a livello teorico e pratico con l’esposizione dei modelli della macchine leonardesche realizzati in epoca moderna per dare corpo ai suoi disegni,  con riferimento agli scritti coevi a dimostrazione della temperie dell’epoca di cui abbiamo detto all’inizio.

Marco Navoni, Vice Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana,  lo definisce “la più ampia e stupefacente collezione al mondo di fogli autografi del grande genio da Vinci; per la precisione sono 1119 fogli , di argomento vario, che spaziano dalla meccanica all’idraulica, dall’ingegneria all’architettura, dall’ottica alla progettazione di macchine,  di armi e di utensili, fino all’anatomia, per un totale di circa 1750 disegni”.

Ma non basta: “Ai disegni si aggiungono poi i testi letterari, i calcoli aritmetici, le proiezioni e gli studi geometrici, talvolta semplici schizzi; senza dimenticare le preziose annotazioni di carattere autobiografico”.

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Modello di Filatoio con fuso ad alette mobili da Leonardo, 1953
(G. Strobino)

Copre un arco molto ampio della vita di Leonardo, dal 1478, quando era ancora in Toscana, al lungo periodo milanese, fino alla morte in Francia nel 1519. Navoni commenta: “Dunque, il Codice Atlantico ci consegna, come in un compendio caleidoscopico, fatto di disegni, di progetti, di annotazioni e di studi tutta la vita di Leonardo come artista, scienziato e ingegnere”. E conclude: “Non siamo lontani dal vero dunque se diciamo che questo autentico tesoro può essere considerato  tra le testimonianze più significative della scienza e dell’arte del Rinascimento italiano”.

Le vicissitudini del Codice sono ripercorse dallo studioso fino all’origine del suo nome. Leonardo lasciò i 1119 fogli, insieme a tutti gli altri manoscritti, con un testamento redatto pochi giorni prima della morte, a Francesco Melzi, nobile lombardo entrato nella sua bottega a 15 anni, che lo seguì anche quando lasciò Milano per  Roma, fino alla Francia. A Melzi, dunque, va il merito di aver portato i manoscritti in Italia, come attesta Giorgio Vasari li conservava come preziose “reliquie”.

Invece i suoi  eredi se ne disinteressarono, i fogli del Codice si dispersero per poi ricomporsi almeno in parte, dopo confusi passaggi, nelle mani dell’artista milanese Pompeo Leoni il quale li incollò su grandi fogli standard, inserendo anche parecchi foglietti leonardeschi, fino a 10, ogni foglio; quei fogli erano definiti di “formato atlantico”, di qui  la denominazione rimasta poi immutata. Risultato, i fogli furono preservati, ma assemblati nelle grandi pagine in modo confuso, anche le materie mescolate.

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Modello di Torcitoio con corde, da Leonardo, 1953 (G. Strobino)

Le vicende continuano anche dopo la sistemazione dei manoscritti nel “Codice Atlantico”, finisce in Spagna alla corte di Filippo IV di Castiglia, ma poi torna in Lombardia alla corte del conte Galeazzo Arconati, che nel 1637 con mecenatismo meritorio lo donò alla Biblioteca Ambrosiana che era stata istituita nel 1609 dal cardinale Federico Borromeo.

Sembrerebbe la fine delle peripezie, perché è la sede attuale del prezioso manoscritto. Neppure per sogno, la “razzia” napoleonica delle opere d’arte in Italia nel 1796 non risparmia quanto custodito dalla Biblioteca Ambrosiana, anzi il “Codice Atlantico” era indicato espressamente nella lista dei sequestratori con le parole “le cartones ouvrages  de Leonardo d’avinci” (sic!).

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Modello di Garzatrice orizzontale, da Leonardo, 1953 (G. Strobino)

Alla sconfitta di Napoleone, 20 anni dopo, il Congresso di Vienna del 1816 imposte alla Francia la restituzione delle opere  prelevate, la mostra “Il Museo Universale” alle stesse Scuderie del Quirinale ha celebrato tre anni fa il centenario della restituzione esponendo una selezione di tali opere tornate in Italia. Del recupero delle opere prese in Lombardia fu incaricato un barone austriaco il quale, scambiando la grafia inversa di Leonardo per caratteri cinesi, quindi non di sua competenza, aveva rinunciato a recuperare il Codice ma per fortuna Antonio Canova, inviato dal papa per le opere della Chiesa, si accorse dell’errore e convinse il barone a richiedere anche tale codice, altri minori non furono rivendicati.

Non finisce neppure qui la storia del Codice,  negli anni ’60  del secolo scorso fu sottoposto a un accurato restauro a Grottaferrata, da monaci specialisti, che rilegarono i fogli in 12 volumi; come per l’opera di Leoni fu positiva la cura per la conservazione, ma negativo il risultato per l’utilizzazione, che non consentiva di esporre singoli fogli se non aprendo i volumi in una pagina, l’unica visibile.

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Panoramica della 5^ sezione, “L’ingegneria del  fare”

Per questo, nel 2009, alla celebrazione del quarto centenario dell’apertura della Biblioteca Ambrosiana, come ricorda Navoni, “i dodici volumi vennero ‘sfascicolati’ e così i più di mille fogli di Leonardo vennero per così dire ‘liberati’ da quella specie di ‘gabbia’ che per più di quarant’anni li aveva ‘sequestrati’”. Con l’effetto positivo che molti fogli singoli sono stati presentati nelle mostre, come avviene nella celebrazione dei 500 anni, in particolare nella mostra attuale nella quale introducono le 10 sezioni tematiche in modo altamente evocativo.

Prossimamente daremo conto della visita alle 10 sezioni con tanti documenti preziosi, plastici e modelli di macchine, in legno, ferro e quant’altro necessario, del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, realizzati da vari artigiani soprattutto nel 1953, sui disegni di Leonardo.

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Cherubino Cornienti, “Leonardo mostra a Ludovico il Moro le chiuse dei Navigli”, 1858,

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo: “Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza”, a cura di Claudio Giorgione, Editore “arte,m L’ERMA”, marzo 2019, pp. 256, formato 24 x 29,50; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo.  Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 4 giugno p. v. Cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com nel 2017, sul recupero delle opere requisite da Napoleone, nella mostra “Museo Universale” 9 gennaio, 21 febbraio, 5 marzo; nel 2012, su “Deineka” 26 novembre, 1° e 16 dicembre; in cultura.inabruzzo.it: nel 2012, “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto”6 febbraio; nel 2011, “Il ‘Musico’ di  Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio, i “Realismi socialisti” 3 articoli tutti il 31 dicembre; nel 2010, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio; nel 2009,  “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia”  6 luglio, ”’Leonardo e l’infinito’, trenta macchine funzionanti” 30 settembre. in fotografia.guidaconsumatore.it per il citato “Caravaggio, la bottega del genio”” 13 aprile 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia la direzione di Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riportate nella sequenza dell’ esposizione nelle sezioni citate e commentate nel secondo articolo sulla mostra. In apertura, “Ritratto” di Leonardo, dal libro del 1811 con il discorso del pittore Giuseppe Bossi  su Leonardo; seguono, “Calco del fregio dell’arte della Guerra”, Ambrogio Barocci da notizie II metà XV sec.  “Trattato di Architettura” di Francesco di Giorgio  Martini (sega idraulica, riparo piramidale da bombarda, gru girevole), e modello di Argano a leva  da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini); poi, Roberto Valturio, “De Re Militari” 1462,  ruota idraulica a scomparti, e modello di Macchina per innalzare colonne da Leonardo, 1953; quindi,  Cesare Cesariano, ”Raffigurazione dell’Uomo Vitruviano” 1521, da Marco Vitruvio Pollione I sec. a. C., e   modello di Trivella a doppio movimento da Leonardo, 1953; inoltre,   Francesco di Giorgio Martini, “Studi proporzionali” 1530, e  modelli di Chiesa  a pianta centrale con Chiesa a due livelli da Leonardo, 1953 (Fornace Curti); ancora,  modello del Pantheon veduta longitudinale  1891 (Beaux-Arts de Paris), e  modello sezionato di Nave di Nemi con Protome a testa di lupo e Decorazione a forma di elmo 1932-33; continua, Ranieri Arcaini, “La nave di Caligola”, acquerello 1891, e modello di Ricostruzione dello spettografo a vetro da Durer, con strumento musicale; prosegue, modello di Pavimentazione di conche per canali da Leonardo, 1956 (A. De Rizzardi), e Plastico urbanistico di città ideale da Leonardo, 1956 (A. M. Soldatini); poi Plastico dell’Adda con progetto di conca di Paderno da Leonardo, 1956 (N. Rossi) e modello di Macchina per intagliare 1953 (C. Zammattio) con Macchina per filettare le viti 1956 (A. M. Soldatini), entrambe da Leonardo; quindi, Libro d’oro all’uso cistercense XV sec., e modello di Filatoio con fuso ad alette mobili da Leonardo, 1933 (G. Strobino); inoltre, modello di Torcitoio con corde 1953, e modello di Garzatrice orizzontale entrambi da Leonardo, 1953 (G. Strobino); infine, panoramica della 5^ sezione, “L’ingegneria del  fare”; in chiusura, Cherubino Cornienti, “Leonardo mostra a Ludovico il Moro le chiuse dei Navigli” 1858, e Luigi Ferrari, “Testa di Cristo” 1896, oleografia su tela dal “Cenacolo” di Leonardo.

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Luigi Ferrari, “Testa di Cristo” 1896, oleografia su tela dal “Cenacolo” di Leonardo

Istanbul, l’omaggio di 9 artisti alla “nuova Roma”, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Una mostra in omaggio a “Istanbul”, dal 15 aprile al 5 giugno 2019, alla Galleria Russo, con 9 artisti –  espositori in precedenti mostre nella galleria – i quali hanno creato appositamente nel 2019 una serie di opere – ne sono esposte 25 – evocatrici dei vari aspetti della città in cui l’Oriente incontra l’Occidente dal punto di vista geografico e culturale. Curatrice della mostra Maria Cecilia Vilches Riopedre, che ha curato anche il Catalogo bilingue italiano-inglese della Manfredi Edizioni.

Tommaso Ottieri, “Istanbul Stabat Mater”

“Non è stata causale – premette la curatrice – la  scelta di una mostra dedicata alla città di Istanbul in una galleria d’arte romana”. Ma non solo per i motivi  da lei indicati, cioè il fatto che Istanbul, crocevia di civiltà all’incrocio tra Oriente e Occidente, era chiamata “la nuova Roma nell’accostamento ideale con la città eterna”, per cui sono state sempre considerate “città gemelle” anche per certe similitudini nell’ubicazione su sette colli, in prossimità dei mari, per Roma attraverso il fiume Tevere, per Istanbul nel Corno d’Oro.

Manuel Felisi, “Istanbul”

In aggiunta c’è un motivo che ci sembra vada sottolineato, la Galleria Russo oltre alla sede romana nei pressi di Piazza di Spagna ne ha una proprio a Istanbul; quindi il suo non è  solo un riconoscimento episodico del gemellaggio, ma una realtà stabile che dà spessore ideologico e rilievo culturale a questa mostra.  Anche perché i 9 artisti espositori non sono stati selezionati per l’occasione, ma fanno parte di quella che possiamo chiamare la “scuderia Russo” essendo stati protagonisti nel passato anche recente di mostre nella galleria o di eventi dalla stessa organizzati.

Anche per questo  motivo l’attuale mostra non viene presentata come “unicum”, ma come l’inizio di una serie che la galleria ha annunciato voler dedicare alla “nuova Roma” in un gemellaggio prolungato.

Manuel Gambino, “Istanbul”

Non ci sentiamo, invece, di dare alla mostra il significato “politico” cui si è riferito l’ambasciatore  della Repubblica di Turchia a Roma, Murat Salim Esenli, allorché ha denunciato  le fratture  e la “divisione che si sviluppa lungo le linee etniche, culturali e religiose”,  fino a denunciare che “questa mentalità piuttosto allarmante si sta diffondendo in modo particolare nell’emisfero occidentale”, nel quale ha avuto effetti tragici in passato.  E’ vero che, “come una  panacea per le contraddizioni  e per gli scontri, l’arte è il bene più prezioso che abbiamo”,  e perciò “questa straordinaria collezione di lavori assemblati dalla Galleria Russo di artisti italiani degni di nota, ci permette di costruire i necessari ponti mentali e fisici  tra continenti e culture, tra etnie e religioni”.  Ma occorre che questi ponti non siano bloccati da macigni come il mancato rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione  che ha prima frenato, poi arrestato il processo pur avviato di integrazione nell’Unione Europea, esito auspicabile con un paese molto dinamico che fa parte della Nato e garantisce la frontiera dell’Europa verso un mondo ancora più lontano e insidioso.

Detto questo, i 9 artisti, ciascuno con la propria cifra stilistica e la peculiare visione, ci mostrano l’Istanbul multiforme e cosmopolita – la città che lascia nel visitatore un’impronta indelebile e la volontà di tornarci –  in una serie di opere, tutte del 2019, che costituiscono le tessere di un mosaico  evocativo di forti suggestioni.

Luca di Luzio, “Manine”.

Visioni dell’esterno

Le immagini forse più dirette e immediate  sono quelle di Tommaso Ottieri, nella sua inconfondibile visione notturna,  monumentale  e misteriosa. Ai grandi raccordi autostradali e alle piazze, agli interni delle basiliche e  dei teatri della sua  ben nota produzione artistica, aggiunge ora  “Istanbul C”, che rappresenta l’interno della “Cisterna basilica” con le colonne che emergono dall’acqua riflettendosi su di essa, e un titolo  criptico, quasi volesse riassumere l’intera città  in una delle sue attrazioni; e due torri che spiccano nel buio “Istanbul Stabat Mater”  e  “Galata blu” , facendoci entrare subito nella città monumentale.  Sono le caratteristiche creazioni di Ottieri, che – nelle parole della curatrice citate in seguito anche per gli altri artisti – “ritraggono  edifici e paesaggi urbani opulenti , moderni e allo stesso tempo storici, dipinti nei toni del rosso, del blu e del giallo oro.  Il suo lavoro cerca di esprimere una qualità espressiva ed emotiva”.

Simafra, “Il tappeto da tè”

Un altro tipo  di esterno è quello  di Manuel Felisi, che intitola “Istanbul”  due sue tipiche composizioni su legno in resina, la prima  con gli alberi le cui cime convergono verso l’alto, la seconda quasi topografica, mentre in altre due, intitolate “Istanbul di Vedat Turkali” e “Hep Kahir”,  “attraverso gli alberi che potrebbero  far parte di una ‘ottoman promenade’ l’artista stampa le parole che raccontano le meraviglie della città”.  Il tempo è il protagonista silenzioso delle sue opere: “Il tempo con il suo passare cambia le cose, le preserva e le fa dimenticare. Utilizza la fotografia per esprimere un tempo che immobilizza e misura luoghi, oggetti, persone e sentimenti”. E lo fa anche con strati di materiali sovrapposti in un ordine predeterminato che li unifica.

Giorgio Tentolini, “Topkapi

 Michael Gambino con “Istanbul”, “The tourists’ Istanbul”  e soprattutto  “Districts of Istanbul”  mostra  i contorni geografici o gli elementi identitari di Istanbul, “le farfalle di carta sono accostate con una spiccata sensibilità cromatica, abbinando le varie ombre. La città è un punto di riferimento incommensurabile e duraturo che ha forgiato un’alleanza di civiltà”. E “le farfalle sono simbolo di trasformazione e del continuo rinnovo energetico dell’universo” che, nella circostanza, diventano di una città dinamica e vitale.

Veronica Montanino, “Graffito Ottomano # 2″”

Una sottolineatura topografica in “Manine” di Luca Di Luzio, che evoca le antiche lapidi romane poste a memoria delle esondazioni del Tevere con una “manina” a indicare il livello raggiunto. Istanbul viene accomunata a Roma: “La sedimentazione – osserva la curatrice – è una traccia del passaggio del tempo sulle cose che lentamente le modifica e le modella, come i sedimenti trasportati dall’acqua di un fiume  che, depositandosi, ne modificano il suo corso”. Ed ecco il riferimento all’opera: “Un grande corso d’acqua immaginario, realizzato   a matita per rendere visibile il segno, la traccia divide in due sponde la superficie pittorica, evocando l’idea del movimento e del mutevole, del tempo che scorre come un fiume”.   

Enrico Benetta, “Occidentalmente orientale”

Visioni dell’interno

Finora è l’Istanbul vista dall’esterno, ma con Simafra cominciamo a entrare nella sua matrice intrinseca di natura orientale che si confronta con le manifestazioni di natura occidentale. Riccardo Prosperi, questo il suo nome, è un artista di respiro internazionale, con mostre oltre che in Italia, a Londra, in Finlandia e negli Stati Uniti, e opere dedicate alle rispettive aree geografiche. Per Istanbul si concentra sui tappeti, con “Tappeto fiorito” con geroglifici dell’”altra”  cultura, e il “Tappeto del tè” con altri motivi originali di tipo decorativo, mentre “Un antico tappeto”  e “Tappeto ritrovato” si presentano come due grandi  fiori, il primo contornato da orli come cuspidi.

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Diego Cerero Molina, “Figura con gato

Un tappeto nel caratteristico multistrato con maglie di rete metalliche sovrapposte di Giorgio Tentolini, intitolato “Wire rug” , che con le sue sottili volute evoca gli eleganti arazzi,   e un esterno come “Topkapi” nello stesso materiale, un angolo raccolto piuttosto che una visione spettacolare del famoso palazzo orientale; mentre utilizza strati sovrapposti di carta pergamena per  “Nomaz”, tre ragazzi accoccolati a terra visti di spalle.  “Come un ragno che crea la sua tela, Tentolini è paziente e persistente, tesse il suo stesso mondo artistico attraverso una calcolata precisione… Ci porta  a credere che la semplicità dei materiali greggi impiegati possa avere implicazioni uguali al loro significato”, questo il commento della curatrice.

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, Tommaso Ottieri, “Istanbul C”

Elementi identitari ben precisi, dopo i tappeti di Simafra, nelle due  opere in tecnica mista su tela di Veronica Montanino, intitolate Graffito Ottomano # 1 e 2”, una trama di segni che diventa metamorfosi e orientamento” con serie di “impronte” in una contaminazione tra modernità e tradizione intrigante e spettacolare: “Dervisci rotanti, guerrieri turchi, le odalische immaginate da pittori orientalisti  e i manifestanti del Gezi Park si fondono e si confondono coi cavalieri  delle antiche miniature  nei pittoreschi e grandi palazzi turchi”.  L’artista, che si segnala per un “uso esuberante e originalissimo del colore”, oltre che per le installazioni, in queste opere sceglie la strada della tradizione, nella tela e nel cromatismo discreto e delicato su cui spicca una moltitudine di figure bianche.

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Manuel Felisi, “HEP KAHIR di Nazin Hikmet”

La commistione tra Oriente ed Occidente è resa plasticamente dall’acciaio bronzato e il cristallo di Murano di Enrico Benetta, nel suo “Occidentalmente orientale”, un libro che si sfoglia nella unione culturale tra Est e Ovest con le sue caratteristiche lettere  che cadono dalle due pagine aperte quasi a dare l’avvio  a storie affidate alla fantasia dell’osservatore, fino alla fusione nelle acque  del Corno d’Oro.  E’ un’opera che esprime la sua personalità  “traboccante di desiderio di comunicare, in cui si fondono insieme fonti culturali lontane tra di loro” ma accostabili, come in questo caso. Inserisce costantemente i caratteri di stampa Bodoni che rappresentano il suo sigillo: “E’ come se la lettera per Benetta non fosse l’elemento primario della parola, ma vada contemplata in sé,  come pensiero costitutivo dell’opera stessa”. E il materiale bronzeo “trasmette alle opere quella patina del passato che evoca in pieno il fascino dei grandi volumi di storia”.

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Simafra, “Tappeto fiorito

Non sono ancora apparse figure umane, nelle evocazioni di Istanbul da parte degli artisti. Provvede al riguardo Diego Cerero Molina con tre delle sue caratteristiche “Figure” in rappresentazioni sempre più ravvicinate in una “zoomata” quasi cinematografica: “Figura con Narguille”, “Figura con gatto”  e “Figura con troje de rayas”, nei primi due la persona è vista con elementi caratteristici dell’oriente, l’apparecchiatura per il fumo e il tappeto,  nel terzo il primissimo piano del volto severo con un occhio chiuso. Non c’è la deformazione spesso caricaturale delle opere dell’artista, ma indubbiamente la terza immagine ci riporta alle sue caratteristiche enfatizzazioni fisiognomiche.     

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Giorgio Tentolini, “Wire rug”

 Con la figura non sappiamo se minacciosa o ammiccante dell’artista Molina chiudiamo la galleria dei 9 artisti della “scuderia Russo” che si sono cimentati nell’omaggio a Istanbul, fornendo ciascuno la propria visione della città nei suoi molteplici aspetti cosmopoliti e spettacolari. Che restano impressi nella memoria in chiunque abbia avuto la ventura di visitarla, come è accaduto a noi stessi allorché siamo andati alla ricerca delle vestigia dell’antica Costantinopoli restando presi dal fascino  delle sue moschee e reperti storici nel dinamismo di una società giovane proiettata verso il futuro.

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Diego Cerero Molina, “Figura con traje de rayas”

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Galleria Russo, via Alibert  20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com,  Catalogo  “”Istanbul”, a cura di Maria Cecilia Vilches Riopedre, Manfredi Edizioni, maggio 2019, ottobre 2018, pp. 88, bilingue italiano-inglese, formato 22,5 x 22,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli, su altre mostre della Galleria Russo con questi artisti: in questo sito il prossimo articolo su Molina il 20 giugno 2019, per la mostra che ha seguito questa su “Istanbul”; in www.arteculturaoggi.com, sulla mostra “Shakespare in Rome” con Ottieri, Molina, Felisi, Benetta, Gambino, il 25 aprile 2016; su Felisi 5 novembre 2018, su Tentolini e Gambino 6 giugno 2018, su Ottieri 11 maggio 2015; infine il “reportage” dopo il nostro viaggio negli articoli “Istanbul, viaggio nella nuova Roma” , “Istanbul, il negoziato con l’UE e la storica visita del Papa” , “Istanbul, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella galleria Russo alla presentazione della mostra, le prime 9 riportano un’opera per ciascuno dei nove artisti nella successione con cui sono citati nel testo, le 6 successive una seconda opera per sei di loro, tutte le opere sono del 2019. In apertura, Tommaso Ottieri, “Istanbul Stabat Mater”; seguono, Manuel Felisi, “Istanbul” e Manuel Gambino, “Istanbul”; poi, Luca di Luzio, “Manine” e Simafra, “Il tappeto da tè”; quindi, Giorgio Tentolini, “Topkapi” e Veronica Montanino, “Graffito Ottomano # 2″”, inoltre, Enrico Benetta, “Occidentalmente orientale” e Diego Cerero Molina, “Figura con gato“; ancora , le 6 finali, Tommaso Ottieri, “Istanbul C” e Manuel Felisi, “HEP KAHIR di Nazin Hikmet”; continua, Simafra, “Tappeto fiorito” e Giorgio Tentolini, “Wire rug”; infine, Diego Cerero Molina, “Figura con traje de rayas” e, in chiusura, Veronica Montanino,” Graffito Ottomano # 1.

Veronica Montanino, “Graffito Ottomano # 1″

Radio Radicale, servizio pubblico per la completezza dell’informazione e la cultura

di Romano Maria Levante

Di fronte agli ultimi eventi – la scomparsa di Massimo Bordin e il rischio della chiusura di Radio Radicale – il nostro primo impulso è stato di  partecipare alle  due manifestazioni: il funerale laico la mattina del venerdì santo alla Facoltà Valdese Teologica e il raduno di solidarietà per la radio la mattina di Pasqua. E’ stato un impulso spontaneo, poi abbiamo scritto anche l’articolo pubblicato il 24 aprile su www.arteculturaoggi.com per debito di riconoscenza di quanto Bordin e la radio ci hanno dato in tanti anni di ascolto delle rassegne stampa  e delle altre trasmissioni.  Un legame divenuto affettivo, come per molti intervenuti con il loro sostegno alla radio.

La folla all’esterno della Facoltà Valdese Teologica per il funerale laico di Bordin

Ma alla riconoscenza  personale nello scrivere l’articolo  è subentrata la valutazione giornalistica, ed è questa che conta, una valutazione asettica, obiettiva. L’articolo era doveroso per il sito dove è stato pubblicato, che come questo sito ha la cultura nel titolo,  a prescindere dal moto dell’animo. Perché Radio Radicale è una fonte continua, persistente, inesauribile di cultura politica interna e cultura  internazionale, cultura economica e cultura sociale, cultura giudiziaria e cultura istituzionale,  cultura civile, in definitiva di cultura senza aggettivi e senza confini.   

Basta ricordare soltanto alcune delle principali trasmissioni in cui  ciò si sostanzia:  i congressi di tutti i partiti e lo “speciale giustizia” con i principali processi, i convegni economici e letterari,   le interviste a personaggi e quelle per strada alla gente comune senza selezioni interessate, le corrispondenze e rassegne stampa dalle varie aree del mondo,  e le tante altre rubriche, non solo le dirette dal Parlamento oggetto della Convenzione che non si vorrebbe rinnovare.

La folla alla manifestazione di Pasqua per Radio Radicale

Il servizio pubblico

Questo servizio pubblico nessuno lo ha negato, lo ha ammesso esplicitamente anche il presidente del Consiglio Conte,  anche se poi si è contraddetto dicendo che deve trovare le risorse sul mercato, cosa improponibile perché il servizio pubblico copre proprio quello che non viene dato dal mercato.

Dopo Conte ha parlato di mercato anche Marco Travaglio che se ne differenzia perché non  considera che Radio Radicale svolge da  sempre un vero servizio pubblico: lo ignora volutamente, dato che non può negarlo, sarebbe come non ammettere l’evidenza. Quindi le sue proposte provocatorie sono palesemente  illogiche basandosi su una sorta di sillogismo con la premessa sbagliata, tanto che paragona la Radio al “Fatto Quotidiano”. Se avesse parlato di servizio pubblico non sarebbe potuto arrivare a quelle conclusioni, dal momento che tiene tanto al rigore delle proprie argomentazioni.

Un servizio pubblico articolato e completo, svolto in gran parte senza corrispettivo  essendo remunerate solo le dirette parlamentari attraverso la Convenzione. Ricordiamo in termini molto sommari le argomentazioni esposte diffusamente nel precedente articolo – dopo il ricordo di Massimo Bordin – sulla necessità di rinnovare la Convenzione per la vita di Radio Radicale.

Il punto chiave è che da qui dobbiamo partire, da questo elemento di verità acquisito, Radio Radicale svolge il servizio pubblico della completezza dell’informazione e della cultura.

Ma allora non si deve restare sulle generali e parlare in astratto, ci si deve riferire a questo  servizio pubblico come definito dalla  Corte Costituzionale con la sentenza n. 155 del 2002 quale unica ragione del finanziamento alla Rai con il canone. Tralasciando le basi normative dalle legge del 1938 alle successive, ricordiamo che la sentenza del 2002 modificò la precedente pronuncia in cui veniva giustificata la devoluzione della tassa per il servizio radiotelevisivo alla Rai perchè lo forniva in esclusiva, di qui il “canone”. Poi, essendosi moltiplicati i soggetti con la fine del monopolio sancita dalla stessa Corte Costituzionale,  cadeva tale motivazione. Divenne imposta di possesso degli apparecchi riceventi e la devoluzione fu motivata dalla fornitura di un servizio pubblico “per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, al fine  di ampliare la partecipazione dei cittadini a concorrere alla crescita civile e culturale del  paese”.  Viene richiesta esplicitamente una “informazione completa”.


L’intervento di Emma Bonino alla manifestazione al Vittoriano

Le risorse per tale servizio pubblico

“Diritto dei  cittadini all’informazione”, così simile al “diritto alla conoscenza” propugnato dai radicali che vi hanno dedicato l’intera programmazione della loro radio; a soddisfare tale diritto, che richiede sia garantita un’ “informazione completa” è destinato il gettito dell’imposta citata, per l’80% devoluto alla Rai per fornire tale servizio pubblico, sono oltre 1,6 miliardi di euro l’anno sui 2 miliardi di gettito. Non potrebbero trovarsi in tale gettito anche le modeste risorse per il servizio pubblico fornito compitamente da Radio Radicale, che riceve solo 10 milioni di euro l’anno per la Convenzione e 4 per l’editoria, mentre la Rai ben 1,6 miliardi di euro l’anno? Se non si vuole attingere sulla parte destinata alla Rai c’è la parte restante, oltre 400 milioni di euro destinati alla “riduzione del debito”, cosa singolare per un’imposta di scopo, anche se non tassa, ma comunque prelevando i 10 milioni di euro sarebbe come togliere solo una goccia.

Sia detto per inciso, sempre alla Rai “Che tempo che fa” costa oltre 18 milioni di euro l’anno, è la trasmissione di Fabio Fazio preso di mira dal ministro Salvini che vorrebbe fossero ridotti compensi come il suo invece di chiudere le voci che fanno informazione; si riferisce ai 2 milioni 240 mila euro l’anno per 4 anni, in più Fazio partecipa al 50% con “Magnolia” alla proprietà della società ‘”Officina S.r.l.” che produce il programma, cui vanno 10.644.400 euro a copertura dei costi, compresi 704 mila euro per diritti del “format”, i restanti 5,4 milioni, sempre annui, sono i costi sostenuti dalla Rai per diritti e filmati, costumi e quant’altro. Stupisce che “Il Fatto Quotidiano”, dopo aver reso noto un anno fa i termini di questo contratto del luglio 2017 – i 10.644.400 euro di costi di produzione esterni si riferiscono al primo anno – sottolineandone gli aspetti sorprendenti, ora si accanisca su Radio Radicale, che costa poco più della metà di questa trasmissione Rai bisettimanale, pur con tutte le sue trasmissioni quotidiane di servizio pubblico.  

Perché proprio al  tipo di servizio pubblico svolto da Radio Radicale per un DNA insopprimibile la Corte ha destinato con la sentenza del 2002 il gettito dell’imposta sul possesso degli  apparecchi riceventi – non ci stanchiamo di ricordarlo – non più tassa per il servizio televisivo, chiamato “canone Rai” dato che alla Rai viene devoluta la parte preponderante a fronte dell’impegno per un servizio che non ha fornito neppure per le sedute parlamentari ignorate contro l’obbligo di legge, lo ha fatto tardivamente, in parte e con insufficienti frequenze.

Quanti congressi dei partiti ha trasmesso la Rai, quanti convegni,  quante visioni delle aree del mondo,  quanti processi importanti in modo integrale? Solo scampoli per lo più filtrati che non rispettano il diritto all’ “informazione completa”, si potrebbe provare ciò confrontando il suo archivio con quello di Radio Radicale relativamente alle trasmissioni riconducibili al servizio pubblico: per quest’ultima oltre 430.000 registrazioni, 200.000 oratori, 19.000 sedute parlamentari e 21.000 udienze giudiziarie, 3.000 convegni e 85.000 interviste,  26.000 dibattiti e 19.000 conferenze stampa, tutto perfettamente schedato, classificato con precisione e quindi  immediatamente raggiungibile. Una miniera preziosa e unica, storica, informativa e culturale!

E allora è a quel  gettito fiscale, e non canone Rai, che si può  attingere per fornire le  risorse necessarie a chi assicura questo servizio completo, magari con apposite gare; ma solo Radio Radicale ne ha la memoria storica nello sterminato archivio ora citato che costituisce l’indispensabile fondamento di una conoscenza radicata nel tempo e non estemporanea.

Venga pure l’analisi costi-benefici tanto evocata in altri casi, sia applicata a questo servizio, si confrontino i  risultati tra il servizio della Rai e quello di Radio Radicale, con il suo archivio storico di oltre 430 mila documenti sonori di servizio pubblico – va sottolineato con forza – perfettamente schedati e reperibili. E se ne traggano le conclusioni su dove reperire le  risorse.

La “segnalazione urgente” dell’Agcom e l’ “ircocervo” della radio di partito

Per questo motivo la “segnalazione urgente” al governo dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sull’obbligo di attuare la legge del 1998 riformando il  sistema e intanto prorogare la Convenzione a Radio Radicale, diventa ineludibile anche per il sottosegretario all’informazione Crimi che ha annunciato l’intenzione di non rinnovarla. Ma senza rinnovo né proroga rischia di incorrere in una indebita interruzione i pubblico servizio, avendolo definito così anche l’Agcom, perchè gli utenti se ne vedrebbero privati dopo tanti anni: non è un rischio teorico, si è visto dagli appelli lanciati da ogni comunità politica e sociale, culturale e professionale, dal mondo della scuola fino a quello della giustizia, come tale servizio pubblico sia sentito da tutti, pronti all’occorrenza a difenderlo.

C’è chi obietta che è una radio di partito, in contrasto con la neutralità del servizio pubblico. Ma va considerato che ha avuto, da sempre, lo status di “soggetto autonomo” – come ha ricordato l’intervento di Massimo Bordin riproposto al raduno pasquale davanti al Vittoriano – anche perché il “diritto alla conoscenza”, e senza filtri, è l’istanza suprema dei radicali, di qui deriva il diritto all’ “informazione completa” sancito dalla Corte Costituzionale.  E poi il partito di cui figura “organo ufficiale”,  cioè la “lista Marco Pannella”  non opera più da decenni, né i radicali presentano loro liste alle elezioni, tra l’altro fu la battaglia contro il  finanziamento pubblico ai partiti a richiedere tale riferimento per devolverlo al servizio pubblico, non potendo rifiutarlo né distribuirlo ai cittadini quale “restituzione” come fu tentato all’inizio.  

Inoltre l’apparente “ircocervo” – servizio pubblico a una radio organo ufficiale di un partito – potrebbe essere normalizzato anche formalmente, e in tal caso la convenzione  andrebbe aggiornata per coprire anche ciò che finora è stato coperto dal finanziamento della legge per l’editoria, cioè 4 milioni di euro che si aggiungono ai 10 milioni della Convenzione per le sedute parlamentari. Così  Radio Radicale sarebbe anche nella forma, che spesso è sostanza,  ciò che è nei fatti, ”La radio di tutti fondata da Marco Pannella”, e l’aggettivo “radicale” evocherebbe, più che la matrice ideologica originaria, l’intransigenza e il rigore informativo e culturale. Tra l’altro i radicali sono stati contro il finanziamento ai partiti ben prima dei “5 Stelle”, tanto da farlo abolire con un proprio referendum, poi  svuotato dalla  classe politica, anzi dalla “casta”, quindi….

Si potrebbe arrivare così a un “disarmo bilanciato”  da ambo le parti, e Bordin da lassù potrà ritirare  la definizione di “gerarca minore” se il sottosegretario, cui l’ha affibbiata, non farà valere il potere irragionevole da piccolo gerarca ma la forza della ragione da politico illuminato.

L’esortazione di Giordano Bruno Guerri

Vogliamo aggiungere una citazione di prima mano, inedita, e non crediamo di violare la  privacy condividendo un fatto di carattere personale. Abbiamo ricevuto la seguente e mail di risposta  di Giordano Bruno Guerri al quale avevamo  trasmesso  il nostro precedente articolo dopo aver ascoltato il suo intervento a Radio Radicale: “Caro Levante, sono lieto di dividere con lei, oltre alle letture e alla passione per il Comandante, l’amore per Radio Radicale. Un bene di libertà prezioso, e in quanto tale  non amato da chi del bene – e della libertà, ha visioni elementari. Brutti segni, brutti segni, sì, ma non si cede ai segni. Con molti grati saluti. Gbg”. 

Ci sembra il coronamento di quanto sostenuto, una esortazione per tutti: non cedere ai segni, quindi impegnarsi attivamente per difendere il “bene di libertà prezioso” che è Radio Radicale.

Aggiornamento dopo l’audizione del 15 maggio del sottosegretario Crimi

Il sottosegretario con delega all’editoria Vito Claudio Crimi è stato sentito in audizione la mattina del 15 maggio dalla Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radio-televisivi, e la pubblicazione “on line” ci consente di aggiungere un aggiornamento quanto mai necessario. Abbiamo ascoltato l’audizione in diretta alle 8 di mattina, ovviamente su Radio Radicale; gli interventi dei parlamentari lo hanno incalzato tutti sul rinnovo della Convenzione, criticandolo per non averne fatto parola nella sua relazione mentre è un atto necessario divenuto urgente.

Crimi ha replicato affermando che il tema della Convenzione era stato omesso nella relazione da lui svolta perchè non rientra nelle sue funzioni, bensì in quelle del Ministero per lo sviluppo economico. Ma ha aggiunto di voler esprimere il suo pensiero ribadendo la posizione assunta in precedenza, e ha rotto così il “silenzio assordante” rispetto alla miriade di appelli da ogni parte, politica e istituzionale, culturale e civile al rinnovo della Convenzione, vitale per la radio.

Ha detto, in sostanza, che la Convenzione riguarda soltanto le sedute parlamentari, quindi tutte le altre attività svolte da Radio Radicale, considerate di servizio pubblico, non c’entrano; anzi provano che le trasmissioni parlamentari sono state pagate in eccesso non rivedendo mai la Convenzione sebbene i costi fossero diminuiti. E ha aggiunto che la trasmissione di tali sedute ora viene svolta dalla Rai, quindi è una duplicazione di spesa ingiustificata. L’archivio, secondo Crimi, rientra in tutt’altro campo e se ne può discutere: è di proprietà di una società privata ed è stato costituito con i finanziamenti pubblici, quindi se ne dovrà tener conto nella eventuale valorizzazione; è un argomento, peraltro, che va trattato a parte senza particolare urgenza.

Mentre sul resto, oltre a lamentare che a dicembre 2018 Radio Radicale non ha accettato il rinnovo per un anno a 5 milioni di euro, ha parlato di presunte anomalie di una Convenzione datata venti anni con un decreto reiterato 17 volte e mai convertito in legge; ma sull’archivio doveva precisare che solo la registrazione delle sedute parlamentari va riferita al finanziamento della Convenzione. mentre la gran parte delle 430.000 registrazioni soddisfa il diritto all'””informazione completa” che non vi rientra, come lui stesso ha voluto sottolineare.

Ha fatto un’affermazione molto significativa dicendo che a seguito della riduzione dei costi per le innovazioni tecnologiche il finanziamento della Convenzione è stato utilizzato dalla radio per altri fini; ma poiché Radio Radicale non ha trasmissioni di intrattenimento né di evasione, bensì soltanto di informazione approfondita senza filtri e di cultura istituzionale e politica, interna ed estera, economica e sociale, giorno e notte, ed è priva di pubblicità, gli “altri fini” sono proprio il servizio pubblico nel senso più ampio definito dalla Corte Costituzionale, e non proseguendo il finanziamento verrebbe interrotto, a parte le sessioni parlamentari che possono essere trasmesse dalla Rai; perchè Radio Radicale è l’unica emittente che dedica l’intera programmazione al servizio pubblico per “il soddisfacimento dei cittadini all’informazione e alla diffusione della cultura”, informazione che si intende “informazione completa” e non scampoli parziali.

Quindi anche Crimi, come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’Agcom e le tante voci del mondo istituzionale e civile, ha “certificato” il servizio pubblico svolto da Radio Radicale con parte dei finanziamenti pubblici, e quindi la sua interruzione sarebbe frutto di un atto consapevole.

Il vice presidente del Consiglio e ministro degli interni Matteo Salvini, ha dichiarato che “Radio Radicale ha accumulato un patrimonio culturale, di archivio e di esperienza che è un peccato cancellare con un tratto di penna”, indicando significativamente: “Ci sono spazi di recupero economico sulla TV pubblica, con cui si pagherebbero metà delle radio italiane”. Aggiungiamo che questo è doveroso essenzialmente per Radio Radicale che dedica l’intera programmazione, diurna e notturna – 24 ore quotidiane senza interruzione e senza trasmissioni di evasione – al servizio pubblico cui sono destinati quei fondi, senza avvalersi minimamente della pubblicità.

E qui torniamo al contenuto di questo nostro articolo e di quello precedente citato all’inizio, secondo cui il punto di attacco per sostenere validamente le ragioni di Radio Radicale è proprio il fatto che soddisfa il diritto dei cittadini all’informazione completa e alla diffusione della cultura, servizio pubblico cui sono destinati, in base alla sentenza della Corte Costituzionale del 2002,  gli oltre 2 miliardi di euro del gettito dell’imposta sul possesso di apparecchi riceventi. Ripetiamo fino alla nausea che è in gran parte versato alla Rai impropriamente, come se fosse la sola a svolgere tale servizio pubblico, invece lo fa molto parzialmente; mentre Radio Radicale lo fa in modo ben più compiuto, e questo riguarda non tanto le sedute del Parlamento, quanto tutte le altre trasmissioni dai congressi dei Partiti  all’intera gamma di rubriche e dirette integrali.

Quindi è al gettito di tale imposta che dovrebbe attingersi per finanziare il servizio svolto da Radio Radicale allargando così la Convenzione: non è “canone Rai” , pur se alla Rai viene devoluto in gran parte, 80%, in una impropria identificazione. E a questo, al di là delle sue intenzioni, portano le stesse affermazioni, pur di chiusura, del sottosegretario Crimi.

Perché nessuno apre il “fronte Rai”? Crimi ha snocciolato i dati per le trasmissioni all’estero e per le minoranze linguistiche, diecine di milioni di euro, ma non ha giustificato minimamente l’1,6 miliardi di euro alla Rai per un servizio pubblico svolto solo in parte, quasi fossero dovuti senza doverli documentare, come ha fatto per le entità minori delle trasmissioni ora citate. Ed è lì che va riferita una Convenzione non rinnovata ma diversa, prelevando su quei 1,6 miliardi di euro o sui restanti 400 milioni circa destinati in modo singolare alla “riduzione del debito pubblico”; mentre se quello da noi chiamato “ircocervo” – servizio pubblico svolto dall’organo ufficiale di un partito politico peraltro desueto come la “lista Marco Pannella” –  può essere di ostacolo,  crediamo si possa normalizzare.

Una proroga di 6 mesi consentirebbe un mutamento di ottica radicale – usiamo questo aggettivo senza riferimenti politici – dando il tempo di definire l’accesso al finanziamento prelevato dall’imposta sul possesso degli apparecchi riceventi, con eventuali gare tra coloro che possano aspirarvi, e non vediamo quali e quanti altri, considerando che il prezioso archivio di 430.000 registrazioni integrali e l’esperienza maturata sul campo sono elementi unici e decisivi.

Ha fatto ben sperare la presentazione da parte dei deputati della Lega, primo firmatario il capogruppo alla Commissione di vigilanza sul sistema radio-televisivo Massimiliano Capitanio, di un emendamento al decreto “Crescita” con cui si destinano 3,5 milioni di euro alla proroga della Convenzione per tutto il 2019. Finalmente un’azione concreta che merita di avere successo, naturalmente dovrà superare il vaglio dell’ammissibilità, ma non possiamo credere alla volontà di impedire al Parlamento di pronunciarsi con motivazioni magari di lana caprina che mai hanno impedito di inserire materie anche diverse nelle corsie preferenziali dei decreti.

Una prima pronuncia delle presidenze delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera è stata però negativa, ma solo perchè occorreva l’unanimità dei gruppi, ed è mancata la disponibilità del gruppo del Movimento 5 Stelle, nonostante le sollecitazioni da ogni parte, a far discutere non solo l’emendamento della Lega, il partner di governo, ma quello di tutti gli altri gruppi in una convergenza trasversale che dà un’altra conferma dell’importanza e della caratura di questo servizio pubblico. Ma si potrà impedire al Parlamento di intervenire per il dissenso di un solo gruppo, quindi minoritario, su un problema per il quale c’è la mobilitazione della quasi totalità del mondo politico, economico, sociale, e anche istituzionale, a stare alle deliberazione di tanti consigli regionali e comunali e di molti altri organismi culturali e professionali? Sarebbe un “vulnus” democratico inammissibile, per questo la presidenza del Parlamento, che sarà chiamata sull’ammissibilità questa volta al voto in aula, dovrebbe doverosamente ammetterne la discussione superando ogni pretestuoso problema formale pena la sua irrimediabile squalifica venendo meno all’imparzialità. Fabrizio Cicchitto ha evocato, in caso estremo, l’intervento del Presidente della Repubblica. Subito dopo le elezioni europee e non ai posteri, l’ardua sentenza!

Giordano Bruno Guerri ha esortato a “non cedere ai segni”, esortazione che vale ancora di più quando i “segni” si sono tradotti in una chiara negazione nella sede più qualificata come la Commissione parlamentare competente.

Ma a questo punto non servono più i soli attestati delle benemerenze di Radio Radicale per l’insostituibile servizio pubblico che svolge; occorre esigere con la forza associativa e culturale che si è dispiegata finora, che il gettito dell’imposta destinata al servizio pubblico della completezza dell’informazione e diffusione della cultura” non sia pressoché monopolizzato dalla Rai che lo svolge soltanto molto parzialmente, ma vada anche a chi lo svolge compiutamente nell’intera programmazione, per di più senza pubblicità, e a costi infinitamente più ridotti.

Il tempo stringe, la mobilitazione non si dovrà fermare il 20 maggio, anche se sarà approvato l’emendamento che proroga per tutto il 2019 la Convenzione delle sedute parlamentari: il campo è ben più vasto e abbiamo cercato di dimostrarlo. E’ più vasto nei contenuti e nei soggetti interessati, impegnati a difendere, con Radio Radicale, il “diritto all’informazione e alla diffusione della cultura”, fondamentale per la vita democratica, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza sul finanziamento del servizio pubblico nel sistema radiotelevisivo.

Rita Bernardini chiude la manifestazione di Pasqua al lato del Vittoriano

Info

L’articolo citato è uscito su “www.arteculturaoggi.com” il 24 aprile 2019 con il titolo: “Radio Radicale dopo Bordin, una voce di civiltà da salvare per il bene di tutti”.

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Le immagini sono state riprese a Roma da Romano Maria Levante, la prima davanti alla Facoltà Valdese Teologica il 19 aprile, le altre davanti al Vittoriano il 21 aprile 2019.

Radio Radicale dopo Bordin, una voce di civiltà da salvare per il bene di tutti

di Romano Maria Levante

La mattina del  Venerdì santo e la mattina di Pasqua ci sono state a Roma due manifestazioni, rigorosamente laiche, ma la loro collocazione in due momenti speciali della cristianità è significativa. Si tratta delle esequie di Massimo Bordin, “celebrate” il venerdì nella Facoltà Valdese  Teologica, e della orgogliosa difesa di Radio Radicale la domenica davanti al Vittoriano: dal lutto per la perdita dolorosa  alla resurrezione della domenica pasquale. 

Massimo Bordin in sala di trasmissione a Radio Radicale

Non potevamo non andarci, per il debito di riconoscenza verso chi ci ha accompagnato ogni mattina con la magistrale lettura dei giornali, e non solo; perché gli “speciali giustizia”, i collegamenti con gli inviati all’estero, le chilometriche conversazioni domenicali con Marco Pannella per 15 anni, di cui ancora vengono trasmesse le registrazioni, sono state occasioni insostituibili di percorrere gli eventi con la guida discreta e penetrante insieme di una voce amica e affidabile. 

E non potevamo mancare neppure alla mattinata pasquale per Radio Radicale, per quanto ci ha dato l’ascolto diurno e anche notturno delle sue trasmissioni con le dirette – e le registrazioni per offrircele in altre ore se non avevamo potuto seguirle – di avvenimenti fondamentali per la vita economica e sociale, politica e istituzionale, quindi per la vita democratica di tutti noi; avvenimenti trasmessi integralmente, senza le sintesi interessate che impongono un’interpretazione precostituita.

Ci limitiamo a degli accenni su quanto  detto nelle due manifestazioni, per soffermarci sul motivo profondo che le ha unite, lo sgomento e insieme la voglia di reagire, non solo di resistere. Perché la temuta chiusura di Radio Radicale  è la minaccia concreta contro la quale Bordin ha combattuto fino all’ultimo, il suo intervento al recente Congresso radicale è una pietra miliare al riguardo. Perché ha colto il lato sul quale va prodotto il massimo sforzo, in un’azione il più possibile condivisa.  

Massimo Bordin, la dedizione per il suo pubblico di un  giornalista atipico

Ma prima di entrare in questo punto centrale ci preme dire qualcosa sulla figura di Massimo Bordin, cui sono pervenuti universali riconoscimenti, nelle due manifestazioni e da ogni altra parte, cercando di capire il perché dell’emozione che ha preso l’intero mondo politico e giornalistico, e anche tanta gente comune. Nemmeno per Indro Montanelli,  l’indiscusso numero uno del giornalismo, ricordiamo tanto spontaneo cordoglio: il Parlamento subito unito nell’omaggio; le Camere penali che istituiscono un Premio per l’informazione giudiziaria a lui intitolato, annunciato nella manifestazione pasquale dal presidente Giandomenico Caiazza; la commossa partecipazione della folla assiepata in via Pietro Cossa all’esterno della sala delle esequie laiche strapiena; gli omaggi unanimi nella carta stampata e  nei servizi radiotelevisivi; la staffetta nella rassegna stampa mattutina, iniziata il Venerdì santo delle esequie, di grandi giornalisti come Francesco Merlo e Paolo Mieli per una settimana ciascuno, che vuol dire “Repubblica” e “Corriere della Sera”,  seguiti dalla settimana della “Stampa”, con il direttore Maurizio Molinari e Mattia Feltri; l’annunciata pubblicazione da parte di “Il Foglio” di un libro con lui e su di lui. e  altro ancora. A onorarlo nella celebrazione delle esequie ci sono stati tanti giornalisti di cui leggeva e commentava gli articoli nelle rassegne stampa, ma anche i semplici cittadini che lo ascoltavano e come noi hanno provato e provano ancora una stretta al cuore non sentendo più la sua voce spesso roca ma  modulata e accattivante al risveglio ogni mattina.  

Il funerale laico all’interno della Facoltà Valdese Teologica 

Forse sentiamo, come tanti,  che c’è stato in lui un sacrificio per tutti noi, vent’anni di rassegne stampa mattutine, dalle 7,30 alle 9,  vogliono dire levatacce quotidiane alle cinque per essere in redazione alle 6; e averlo fatto fino all’ultimo, con la rassegna del 1° aprile, due settimane prima della fine, che ha colto di sorpresa come quella di Marchionne, anch’egli impegnato fino all’ultimo  provato dalla malattia, la medesima malattia che Francesco Merlo, nella rassegna stampa in suo omaggio lo stesso Venerdì santo delle esequie laiche ha attribuito al fumo, “di fumo si muore”, accomunandolo anche a Pannella scomparso a 85 anni mentre per Bordin l’irreparabile è avvenuto a soli 67 anni.

Ma torniamo alle levatacce mattutine per avere il tempo necessario a comporre, e poi regalare ogni giorno ai suoi ascoltatori, quello che Furio Colombo ha chiamato “il giornale dei giornali”, ma a noi –  lettori nei lontani anni bolognesi del “pastone politico” di Enrico Mattei sul “Giornale dell’Emilia” e poi sul “Resto del Carlino”, quando recuperò l’antica denominazione – ci piace chiamare “pastone giornalistico”. Una lettura meditata degli articoli magistralmente assemblati per assonanze e dissonanze, in una visione non partigiana ma neppure asettica, come certe litanie da mattinale burocratico di cui nelle sue rassegne non c’era neppure l’ombra. La straordinaria cultura politica, e non solo, sorretta da una memoria prodigiosa, gli consentiva di inserire riferimenti e connessioni dalle quali veniva spiazzato o confermato il commento di turno; il tutto con un grado di umiltà tale che se traspariva la propria posizione ne dichiarava subito l’opinabilità. Il “pastone giornalistico” diventava “pastone politico” resuscitando così un genere da tempo sparito sulla carta stampata,  un modo di collocare le singole tessere in un mosaico organico che era la sua visione definibile con un ossimoro, obiettiva ma non neutrale.    

Lo scorcio di una parte della sala della Facoltà Valdese Teologica, in fondo a dx al microfono Fabrizio Cicchitto 

Perché abbiamo detto “un sacrificio per tutti noi”?  E’ evidente che con le allettanti offerte ricevute nel riconoscimento della sua indiscussa valentia avrebbe potuto togliersi di dosso un simile peso quotidiano e  scalare posizioni di assoluto prestigio nel “gotha” giornalistico; invece è rimasto a Radio Radicale per la rassegna stampa, rinunciando anche alla direzione tenuta per vent’anni, e accettando solo il corsivo giornaliero “Bordinline” sul “Foglio”, un modo per essere presente sulla carta stampata quanto mai discreto e modesto.  Noi ascoltatori lo abbiamo capito e  apprezzato, perciò continuiamo a  ringraziarlo. 

Ma attenzione, abbiamo accennato agli altri fronti su cui era impegnato a Radio Radicale, quello dell’amata giustizia in primo luogo, con gli “speciali” in cui accompagnava in modo diverso dalla lettura dei giornali, ms altrettanto coinvolgente, alla lettura dei processi, trasmessi integralmente. Anche qui collegamenti e riferimenti, connessioni e rimandi dall’alto di una conoscenza infallibile, e al riguardo dobbiamo fare ancora riferimento alla memoria. Massimo Teodori, nel saluto funebre del Venerdì santo – nel quale, come persona particolarmente vicina allo scomparso, ha presentato gli intervenuti – ha ricordato come fosse un archivio vivente che, a differenza di Filippo Ceccarelli, grande schedatore di notizie in una sterminata raccolta di ritagli donata alla Camera dei Deputati,  le custodiva nella propria memoria; tirandole fuori alla bisogna con una grande capacità di collegare e interloquire in modo appropriato. Eppure non andava mai in televisione, rifiutando le continue offerte negli infiniti “talk show” politici e non solo, nei quali i giornalisti sembrano fare a gara per andare e apparire. Lui no, umiltà e dedizione, spirito di sacrificio, è stato detto da Alessio Falconio che gli è succeduto ormai molti anni fa nella direzione di Radio Radicale – ma ha continuato a chiamarlo Direttore – che era il primo ad arrivare in redazione la mattina presto, e l’ultimo a uscire nella serata. Che altro dire?  

La folla assiepata all’esterno della Facoltà Valdese Teologica 

Rita Bernardini ha sostenuto la centralità del suo rapporto con Pannella, che abbiamo potuto vivere in diretta per 15 anni nelle conversazioni domenicali di due ore, nelle riproposizioni notturne, ricordiamo i momenti di confronto franco  e leale, come quello delle sue dimissioni da direttore, che Pannella non voleva accettare, e quelli in cui riprendeva Pannella quando citava la “zona Cesarini”, metafora calcistica incomprensibile nell’epoca della normalità dei goal nei minuti di recupero, o lo riportava sul tema dal quale usciva  spesso e volentieri per le sue proverbiali divagazioni; riammentiamo quando lo incalzò all’incirca con le parole “ci dobbiamo sbrigare, al termine mancano solo 45 minuti”, l’episodio è stato citato dal giornalista di “TV 7” che invece, ha detto candidamente, si agita quando l’intervento nel “talk show”  supera i 45 secondi.  

Fiamma Niserstein ha ricordato a sua volta l’interlocuzione intensa e feconda per i collegamenti da Israele nei quali cercava di trarre dal corrispondente tutti gli elementi importanti applicandosi intensamente. 

Tutto questo per gli ascoltatori, i suoi ascoltatori, per loro si sacrificava aiutandoli a conoscere, e quindi a capire. Un impegno culturale, non solo giornalistico, l’informazione era la base, indubbiamente, ma andava oltre, ben oltre, in un approfondimento che trasmetteva con un tono accattivante, ottenendo un risultato di tipo pedagogico. 

La commozione dei radicali storici è stata toccante, da Angelo Bandinelli, il grande intellettuale, al radicale della prima ora  Cicciomessere, a Marco Taradash la prima voce di “Stampa e regime”, sempre alla Facoltà Valdese Teologica; mentre alla manifestazione pasquale dal pacato e autorevole Maurizio Turco al combattivo Maurizio Bolognetti, oltre il 50° giorno di sciopero della fame, da Paolo Vigevano, editore suo malgrado che rifiutò di fare da scultura vivente senza veli,  a  Rita Bernardini che invece fece parte del gruppo “scultoreo”,  all’epoca nei fili diretti “Toni da Roma” la chiamava “voce bella” – ha dimostrato ancora una volta il rispetto della legge e dell’ordine da parte dei radicali chiudendo la manifestazione alle ore 13 in punto, per mantenere l’impegno con la questura, sebbene dovessero parlare ancora autorevoli radicali come Sergio D’Elia, e anche Taradash –  fino al polemico e appassionato  Walter Vecellio, che si è tolto dei sassolini dalla scarpa, ricordiamo il suo saluto al termine della rubrica mattuttina passato dal poco augurale “buona giornata se potete” a “buona giornata e buona fortuna”, fino all’attuale “buona giornata e in bocca al lupo”, è direttore di “Notizie Radicali”.. 

I parlamentari di un vasto schieramento politico sono intervenuti non solo con una solidarietà sentita ma con iniziative concrete come l’ordine del giorno presentato dal deputato della Lega con molti colleghi per impedire la chiusura.      

Un’altra immagine della folla all’esterno della Facoltà Valdese Teologica 

Il “servizio pubblico” dell’infomazione istituzionale e della cultura civile, Radio Radicale e Rai  

Abbiamo ascoltato come un testamento spirituale l’intervento di Bordin al Congresso radicale nel quale ha rievocato l’intera storia della Convenzione per le trasmissioni parlamentari di Radio Radicale delineando chiaramente il terreno su cui occorre battersi per la difesa del diritto di “conoscere per deliberare”, e nel termine “conoscere”  c’è quanto Radio Radicale ha dato ai cittadini in termini di completezza dell’informazione in campi completamente ignorati dalle altre fonti, che si limitano a resoconti sommari laddove questa radio dà le lunghe dirette integrali: ci riferiamo ai congressi dei partiti, tutti i partiti, per lunghe intense giornate, ai principali processi trasmessi integralmente nelle altrettanto lunghe trasmissioni. Ricordiamo ancora le testimonianze rivelatrici del processo Tortora, le arringhe appassionate, fino all’emozione delle ultime parole dette dall'”imputato” alla Corte d’Appello prima della Camera di consiglio, furono coraggiose fino alla temerarietà: “Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi!”. Furono innocenti anche loro, con l’assoluzione piena dopo l’odissea della condanna a 10 anni in primo grado.  “La grandezza di Dio è grande e si serve anche di Radio Radicale… ” ebbe ad esclamare Giulio Andreotti aprendo il suo intervento a un Congresso DC al quale era giunto in ritardo ma senza perdersi l’inizio ascoltato per radio, riconoscimento che suona come un ossimoro considerando le posizioni anticlericali – Pannella lanciò lo slogan “Vatican Taleban…” –  ma Andreotti è uno che se ne intende…    L’ossimoro proseguì con l’uso  di quelle parole a fini promozionali, riproposto anche in questi giorni, abbiamo vissuto in quei tempi lontani tutto in diretta, è tra i ricordi indelebili legati alla radio. 

Cultura politica  interna e anche cultura politica internazionale con approfondite corrispondenze dalle principali aree del pianeta, con rassegne stampa sistematiche dall’Europa all’Africa; cultura giudiziaria e cultura economica con le dirette dai tanti convegni e dibattiti, cultura sociale e cultura istituzionale con le dirette dalle istituzioni  di ogni tipo, cultura civile con i fili diretti senza filtro e le interviste per strada non selezionate, fino all’esplorazionr di recessi più nascoti con  “radio carcere”,  cultura letteraria con le presentazioni di libri. In altri termini “cultura”, così si è qualificata servizio pubblico sulla cultura in questi campi, oltre l’informazione, nessun’altro lo fa. 

E soprattutto non lo fa la Rai, nonostante l’obbligo giuridico sancito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 155 del 2002  che modificò la precedente pronuncia in cui giustificava la devoluzione di quella che era considerata tassa per la ricezione del servizio radiotelevisivo alla Rai che lo forniva in esclusiva; essendosi moltiplicati i soggetti con la fine del monopolio, sancita dalla stessa Corte Costituzionale,  cadeva tale motivazione, la nuova fu “per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, al fine  di ampliare la partecipazione dei cittadini a concorrere alla crescita civile e culturale del  paese”.  “Diritto dei  cittadini all’informazione”, così simile al “diritto alla conoscenza” propugnato strenuamente dai radicali,  e “cultura”, fino a devolvere oltre l’80%  del gettito del canone alla Rai per il servizio pubblico che dovrebbe svolgere, e sono oltre 1,6 miliardi di euro l’anno dei 2 miliadi complessivi,  sebbene si distingua poco dalleTV commerciali.. E non potrebbero trovarsi in tale gettito anche le modeste risorse per il servizio pubblico di Radio Radicale, anche non riducendo quanto devoluto alla Rai e prelevando nell’altro 20% destinato alla “riduzione del debito pubblico”, cosa singolare?  Comunque verrebbe  presa solo una goccia ininfluente per l’indebitamento.   

La folla alla manifestazione per Radio Radicale al lato del Vittoriano 

Che la Rai non  svolga il servizio pubblico della completezza dell’informazione lo dimostrano le ampie aree lasciate del tutto scoperte, e invece presidiate da Radio Radicale, che abbiamo citato, oltre alle dirette con il Parlamento in cui la Rai ha cercato di entrare solo “a posteriori” dopo una latitanza di 7 anni “contra legem”,  ma è solo Radio Radicale a disporre dell’archivio completo di valore storico inestimabile. Un archivio di 40 anni di vita democratica con 19.000 sedute parlamentari e 21.000 udienze giudiziarie dei msggiori processi,  3000 congressi di partiti, associazioni, sindacati e 85.000 interviste,  26.000 dibattiti, presentazioni di libri e 6000 comizi, manifestazioni, 13.000 convegni e 19.500 conferenze stampa, per un totale dell’ordine di 430.000 registrazioni e quasi 200.000 oratori; e sono cifre non aggiornate, il tutto rigorosamente schedato e perfettamente raggiungibile da tutti.

Proprio questo è l’aspetto sottolineato da Bordin in quello che abbiamo chiamato “testamento spirituale”, riascoltato in un silenzio partecipe dalla folla assiepata alla sinistra del Vittoriano accorsa per unirsi alla lotta pacifica e culturale che ha visto in lui un alfiere appassionato,  per la sopravvivenza di Radio Radicale minacciata di chiusura da chi lui stesso ha definito “gerarca minore”  per voler surrogare l’assenza di validi argomenti con un potere che non ha neppure.

E’ inconsistente l’argomento del Presidente del Consiglio Conte che, dopo aver ammesso di essere un ascoltatore della radio per quello che non dà nessun’altra fonte di informazione per cui va considerata come servizio pubblico, ha  affermato che dovrà trovare le risorse sul mercato. Non solo è un ossimoro evidente, dato che il servizio pubblico spesso deve intervenire per offrire quello che non si trova sul mercato per motivi economici pur essendo necessario, tra l’altro nello svolgere tale servizio con la propria Convenzione,  Radio Radicale non ha pubblicità; ma è  in  palese  contraddizione con la Convenzione della Rai che dà a tale emittente  la gran parte del gettito del canone, ben 1,6 miliardi di euro circa l’anno, per il servizio dell’informazione e della cultura, e per di più ammette la pubblicità, mentre a Radio Radicale si vogliono togliere i ben più miseri 10 milioni,  invariati dall’inizio della Convenzione per essere dimezzati e cancellati alla scadenza del 20 maggio.     

I radicali schierati nella manifestazione al lato del Vittoriano con i  loro cartelli e palloncini 

Nel  “testamento spirituale” di Bordin  il terreno comune di confronto

Torniamo dunque a Massimo Bordin, nel “testamento spirituale” si è concentrato sul “sistema di comunicazione”, ed è lì il nodo da sciogliere. Un sistema di cui è “magna pars” la Rai nel suo “servizio pubblico” super pagato, ma non se ne può escludere Radio Radicale, che ne ha fatto parte per decenni da quando – lo ha ricordato Emma Bonino nella manifestazione pasquale – nella loro prima  legislatura i 4 radicali eletti, nelle sedute parlamentari documentavano gli ascoltatori tenendo un telefono aperto, né riuscirono a spegnere quella voce coloro che volevano preservare un’inconcepibile riservatezza del Parlamento, finché da “pirata” la trasmissione divenne ufficiale.

Com’è noto,  i servizi pubblici possono essere resi anche da privati, anzi per la cultura e l’informazione  intesa nel senso dell’approfondimento sarebbero preferibili allo Stato o sue diramazioni come Enti pubblici quali la Rai con nomine interamente pilotate; ne fanno fede gli istituti convenzionati nella sanità e non solo.

Naturalmente possono e devono esserci apposite gare, ma su questo Radio Radicale è senza concorrenti e d’altra parte come preferire dei “new comers” senza i requisiti culturali, oltre che tecnici ed economici, per una simile impresa? E poi sarebbero senza le fondamenta insostituibili costituite dall’archivio sconfinato di registrazioni di Radio Radicale, non solo per le sedute del Parlamento ma anche per gli altri campi di presenza nel tessuto socio-economico e civile del paese – dai congressi dei partiti ai processi, dai convegni alle indagini con interviste, e a tutto il resto  – che danno uno spaccato fedele e genuino della vita democratica nelle varie fasi attraversate, alcune particolarmente critiche.   

Maurizio Turco, al centro, al microfono nella manifestazione del Vittoriano  

Se il terreno a cui ancorare il confronto sul rinnovo della Convenzione a Radio Radicale è quello indicato da Bordin del sistema di comunicazione, si trova già un punto di possibile convergenza con il fronte opposto, che vorrebbe negare il rinnovo. La convergenza è sul rifiuto comune del  sistema attuale basato su elargizioni a pioggia per l’editoria non sulla base di contenuti sostanziali che è interesse pubblico preservare, ma sulla base di requisiti formali facilmente eludibili.

Abbiamo combattuto una battaglia contro tutto questo sin dal 2009, pubblicando gli elenchi delle testate “mantenute” con i soldi dei contribuenti pur senza avere alcun merito nei contenuti  con violazioni evidenti anche nelle forme. Ci sembra che solo “L’Avanti!” sia stato sanzionato – potremmo sbagliare – ma per un coinvolgimento in vicende che hanno richiamato l’attenzione dei magistrati. La lista è impressionante, quando ci siamo impegnati in un’aspra denuncia comprendeva grandi giornali, i conferimenti di allora, dieci anni fa, sono quasi 8 milioni di euro a “Libero”, oltre 6 milioni a  “Unità” e “Avvenire”, 4 milioni al “Manifesto”, “Liberazione” e “Padania”, 3 milioni a “Il Secolo” e “Il Foglio”,  e cifre minori a piccoli  giornali, spesso fantasma con tirature forzate per rientrare nella norma destinati alle discariche perché invenduti e invendibili, testate inconsistenti e improponibili, per un “reddito di cittadinanza” ante litteram a chi ne faceva parte. Anche a Radio Radicale risultava un finanziamento di 4 milioni, ma devoluti proprio alla fornitura del servizio pubblico ai cittadini. 

Quindi,  guai confondere il terreno dei contributi all’editoria – su cui va fatta piazza pulita perché sono immorali sostegni così smaccati di milioni di euro l’anno ai maggiori e di cifre minori ma altrettanto inammissibili per gli altri – con le convenzioni per un servizio pubblico come quello di cui parliamo, reso soltanto da Radio Radicale, per cui venendo meno la convenzione si priverebbero i cittadini di un alimento indispensabile per la vita democratica. E’ stato ricordato il motto einaudiano “conoscere per deliberare”, cui Marco Pannella ha dato voce e corpo con le sue iniziative non violente, scioperi della fame e della sete,  imbavagliamenti e travestimenti da fantasma compresi. Anche i detrattori non possono che convenire su tale necessità confermata dal grido di dolore levatosi da ogni parte dinanzi alla notizia della possibile chiusura. 

Emma Bonino, al centro, al microfono nella manifestazione al Vittoriano 

Altri elementi condivisi per una possibile convergenza

Se questo è o può diventare il terreno comune tra le due posizioni, si può procedere nella ricerca di ulteriori elementi condivisi. Quello della trasparenza in primo luogo, che portò lo schieramento che ora si oppone al rinnovo della Convenzione addirittura alle dirette “streaming” anche di incontri riservati come i contatti di Bersani nei tentativi abortiti di formare  un governo. Si dirà che molta acqua è passata sotto i ponti e tale formazione politica si è rinchiusa al suo interno, ed è vero; ma non può rinnegare il proprio DNA riguardo alla comunicazione  integrale di eventi pubblici fondamentali per la vita democratica fornita soltanto da  Radio Radicale da quarant’anni ormai; che coincidono con la presenza di Bordin, come dimostra la sua prima intervista a tale radio del 23 aprile 1979  al calciatore Vincenzo D’Amico sulla violenza delle tifoserie calcistiche, tema attuale anche oggi, come mostrano le cronache, che allora molto giovane affrontò acutamente.

Un altro elemento condiviso di fondamentale importanza riguarda il maggiore soggetto che si muove su questo terreno, la Rai, e lo fa molto male, per di più con un costo spropositato. Se giustamente – altro punto di condivisione – c’è grande attenzione agli impieghi della spesa pubblica, tanto da voler applicare l’analisi costi-benefici anche ad opere strategiche, potrà esserci condivisione sull’applicazione anche al “servizio pubblico” fornito dalla Rai  per 1,6 miliardi di euro e a quello di Radio Radicale per soli 10 milioni di euro, sottolineando che entrambi sono riferiti alla completezza dell”informazione  e alla cultura in senso lato, non al servizio radiotelevisivo puro e semplice che fa capo a una molteplicità di operatori.

E allora, mentre i costi sono trasparenti – circa 1,6 miliardi di euro per la Rai e 10 milioni di euro per Radio Radicale – non altrettanto lo sono i benefici. Andrebbero individuati i contenuti informativi da garantire integralmente – le notizia sommarie le forniscono tutti – e quelli culturali in senso lato, non limitati a quanto contenuto nelle  trasmissioni per l’estero, regionali, e in qualche nicchia di scarsissimo valore, ai quali riferire il  “servizio pubblico Rai”  e valutarne il valore economico.

Si  vedrebbe subito che non ci sono né i congressi dei partiti trasmessi integralmente da decenni, né lo “speciale giustizia” con l’intera trasmissione dei  processi e non di mere selezioni  con scelte arbitrarie, né Radio carcere, né le rassegne stampa internazionali, né i convegni nei vari campi. Non c’è nella Rai, dunque,  la completezza dell’informazione intesa nella sua integralità in campi cruciali  nei quali si esercita il servizio pubblico in senso onnicomprensivo richiesto dalla Corte costituzionale: che oltre a informazione è cultura, non solo  letteraria e artistica, ma anche cultura giuridica e cultura economica, cultura politica, interna e internazionale, cultura istituzionale e cultura civile. Tutti contenuti da servizio pubblico forniti da Radio Radicale in aggiunta “gratuita” alle trasmissioni delle sedute parlamentari che sono le uniche considerate e contabilizzate nella Convenzione con lo Stato.  

Rita Bernardini, al centro, chiude la manifestazione a lato del Vittoriano 

Affida alla “spending review” la possibilità di contenere la spesa pubblica ed evitare l’aumento dell’IVA  il nostro governo?  E’ “spending review”  anche questa, e certamente può tagliare l’abnorme conferimento alla Rai, mentre per Radio Radicale la revisione sarebbe in aumento, contabilizzando anche gli altri campi: ma non chiede tanto, solo che venga riconosciuto il suo impegno lasciandola in condizione di proseguire anche alle condizioni “minime” finora assicurate.

Eliminazione delle anomalie: rivedere il sistema comunicativo, superare l'”ircocervo” partitico

Fin qui non può che esservi condivisione, considerando che il vice presidente del Consiglio Salvini non solo è contrario a chiudere delle voci libere, ma contesta giustamente il compenso spropositato per una trasmissione  Rai ben nota,  di cui si deve misurare il valore, ma non nei termini  inaccettabili  che hanno portato a tale compenso, cioè il gettito pubblicitario, di certo scontato nell’ora di maggiore ascolto, quindi non riferibile alla trasmissione dovendo coprire i costi delle ore di basso ascolto. E se Salvini è sensibile a tale componente, non dovrebbe esserlo all’intero conferimento di 1,6 miliardi di euro?

Partendo dall’impostazione di Bordin che ha definito il terreno su cui misurarsi, il “sistema di comunicazione” e il connesso servizio pubblico, viene bene la competente indicazione di Vincenzo Vita nell’intervento alla manifestazione pasquale allorché  ricollegandosi  alle parole rivoltegli a suo tempo da Bordin  nel rievocare i contatti su questo tema nei lontani anni in cui era sottosegretario alle Comunicazioni. Ha citato la norma, vigente dal 1998 ma tuttora valida, con cui si rinnovava la Convenzione nell’attesa di una completa revisione del sistema di comunicazione. Ecco, è l’uovo di Colombo, la norma esiste e va applicata, quindi va rivisto l’intero sistema e nel frattempo va  prorogata la convenzione che scade il 20 maggio prossimo. Un aproroga anche di  soli 6 mesi, fino al termine dell’anno, periodo nel quale  si dovranno svolgere i  lavori per  la revisione del sistema, analisi costi-benefici compresa, e modalità di conferimento delleconvenzioni. 

Bordin ha anche ricordato come nacque Radio Radicale, e pure questo è illuminante per trovare una soluzione da tutti condivisa. Il non volere il finanziamento dei partiti da parte di Pannella – risultato impossibile il rifiuto e impraticabile la distribuzione alla gente,  tentata con scarsi risultati – portò all’unica soluzione accettabile dall’etica di partito, la devoluzione a Radio Radicale per svolgere un servizio pubblico. Mantenendo però la radio come “soggetto autonomo”, ha sottolineato Bordin, anche se figura “organo ufficiale della lista Marco Pannella”  per il motivo anzidetto di accogliere il finanziamento pubblico. La convenzione ha dovuto far riferimento, quindi, a una radio, sostanzialmente soggetto autonomo ma formalmente legata a un partito politico addirittura come organo ufficiale, per questo fu dichiarata tale.

In effetti colpisce che all’inizio e alla fine di ogni  “trasmissione in convenzione” si ripeta che “Radio Radicale è l’organo ufficiale della lista Marco Pannella”, andrebbe considerato un fatto formale e non sostanziale date le prove di autonomia date per decenni, a cui si aggiunge l’elemento prima ricordato che al centro della lotta politica radicale c’è il “diritto alla conoscenza”. Ma considerando la forma come sostanza, la dipendenza da un partito potrebbe minare la qualifica di  “soggetto autonomo”  in un campo così delicato, e il servizio pubblico svolto diventare una sorta di “ircocervo”  esposto agli attacchi su questo lato. Cosa ancora più paradossale dato che la “lista Marco Pannella” non è più operativa da decenni sullo scenario politico, sia perché i radicali non si sono più presentati alle elezioni sia perché anche quando delle componenti lo hanno fatto sono stati adottati altri simboli, come ora “+ Europa” e altri in passato, come la “Lista Bonino” e “La rosa nel pugno”. Sembra un “escamotage” come i tanti che coprono abusi, mentre qui è l’opposto, c’è un servizio pubblico altamente meritorio. Anzi, fu un atto dovuto per potervi devolvere il finanziamento ai partiti, all’inizio l’autonomia era anche formale.  

Perché allora mantenere questa forma, peraltro desueta nei fatti,  di “organo ufficiale della lista Marco Pannella?”. Se i finanziamenti ai partiti cessano è del tutto inutile per il finanziamento mentre è controproducente per la Convenzione; se i finanziamenti restano in forma ridotta, rinunciando a essere organo di partito viene meno una parte di finanziamento, ma si dovrebbe recuperare nella Convenzione che andrebbe maggiorata e sarebbe incontrovertibile.  La fine dell'”ircocervo” – il servizio pubblico  a una radio di partito – toglierebbe a Radio Radicale l’unica anomalia liberandola anche nella forma come lo è da sempre nella sostanza. Si potrebbe chiamare “Radio Radicale, la radio di tutti fondata da Marco Pannella” o simili; e l’aggettivo “radicale” evocherebbe più l’intransigenza e il rigore informativo e culturale che la matrice ideologica originaria.  Si avrebbe così un “disarmo bilanciato”, ciascuna delle due parti contrapposte cederebbe  qualcosa, vincerebbero entrambe. 

Alessio Falconio, il Direttore di Radio Radicale intervistato alla Facoltà Valdese Teologica 

L’impegno del  direttore di Radio Radicale per “con-vincere”, vincere insieme

Alessio Falconio, il direttore di Radio Radicale, nel chiudere la manifestazione pasquale, non si è associato agli spiriti più bellicosi, indignati contro chi vorrebbe soffocare  la radio non rinnovando la Convenzione, “gerarca minore” compreso. Ha detto che il tempo stringe, la  scadenza ultimativa del 21 maggio è vicina,  ci si deve impegnare per “con-vincere” nell’accezione di Pannella, cioè “vincere con”, vincere insieme. Una posizione assennata e propositiva, annunciata con tono moderato e insieme deciso, che ci sembra essere  la migliore garanzia dell’auspicato successo.  

L’effetto combinato di quanto esposto fin qui  potrebbe fornire una linea  praticabile anche ai parlamentari pressoché di tutti i partiti intervenuti nella manifestazione con toni appassionati, impegnati attivamente nel cercare di coinvolgere i colleghi finora riluttanti al rinnovo-proroga della Convenzione.   Si può così riassumere:  attivazione della norma citata da Vincenzo Vita per un lavoro di 6 mesi sul riassetto del sistema di comunicazioni comprensivo del servizio pubblico con proroga delle convenzioni senza modifiche, per Rai, Radio Radicale  e altri eventuali soggetti interessati, ma non per i finanziamenti editoriali che è doveroso superare; affinchè la proroga temporanea della convenzione non abbia ostacoli nel riferimento al  partito politico, autonomia anche formale oltre che sostanziale con la dizione nuova “Radio Radicale, la radio di tutti  fondata da Marco Pannella”, o  simili. 

Novità dell’ultim’ora la “segnalazione urgente” dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l’Agcom; del 23 aprile al governo – nel nome del pluralismo e dell’esigenza di non far venir meno un servizio pubblico essenziale – di prorogare la Convenzione a Radio Radicale in attesa della “non più prorogabile riforma” del sistema di assegnazione di questo servizio pubblico essenziale, con una gara cui potrebbe partecipare anche la Rai. Il fatto che il suo Presidente ne ha abbia sottolineato l’importanza lascia ben sperare, anche perché ha avuto larga adesione da parte delle forze politiche; ed è significativo che si citi anche la rassegna stampa di Massimo Bordin come servizio pubblico: Francesco Merlo nella  sua rassegna stampa in omaggio a Radio Radicale lo ha definito il miglior riconoscimento allo scomparso. Anche “Le Monde” e il “Frankfurter Allgemeine Zeitung” si sono uniti alle voci per la salvezza di Radio Radicale, il quotidiano tedesco l’ha chiamata “la migliore radio politica del paese”.

D’altro canto, se fosse posto termine alla  convenzione subito dopo il 20 maggio, ciò si configurerebbe come interruzione di servizio pubblico, inammissibile tanto  più  ad opera dell’istituzione che da vent’anni lo ha asseganto a Radio Radicale.

La possibilità di rivedere attentamente  i conti con la  Rai  applicando  l’analisi costi-benefici relativa a questo servizio pubblico  cui si riferiva la Corte Costituzionale per la destinazione compensativa del canone all’emittente, dovrebbe  attirare l’interesse anche dei parlamentari del movimento del “gerarca minore”.

A questo porta il “testamento spirituale” di Bordin che abbiamo”sentito” risuonare dagli altoparlanti nella mattinata di Pasqua dinanzi al Vittoriano inondato di sole. Pasqua di resurrezione, abbiamo detto, l’auspicio è che lo sia anche per Radio Radicale. Sulle ali delle parole appassionate  di Massimo Bordin che ha dato alla radio la voce e l’anima; e ora, lo speriamo tanto, la spinta decisiva.   


“Ciao Massimo”, da Rita Bernardini l’ultimo saluto a Massimo Bordin che è anche il nostro saluto 

Info

Cfr. i nostri precedenti articoli sui temi evocati nel testo in cultura.inabruzzo.it (sito teramano come Marco Pannella e l’autore): sulla Rai,  nel 2009: 21 ottobre, “Rai, è il tempo delle scelte”, 16 marzo, “La Rai, un servizio pubblico della cultura da rivedere”; Sui  contributi all’editoria:  nel 2011, 30 gennaio, “Contributi a giornali politici e vari: dimezzare, azzerare e rifondare”,  14 gennaio, “Contributi a giornali, politici e vari. Tremonti per ora li dimezza, resisterà?”; nel 2010, 7 giugno, “Risorse  alla cultura e  contributi all’editoria da tagliare”; nel 2009,  14 dicembre, “Contributi all’editoria, ripartire da zero“,  8 dicembre, “Contributi all’editoria: il Governo taglia”. 4  novembre, “Contributi all’editoria, alla radio e alla Tv”  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili su richiesta).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle manifestazioni alla Facoltà Valdese Teologica e al lato del Vittoriano, tranne  quella di apertura più le n. 7 e 12  tratte dal sito web di “repubblica.it”, e quella di chiusura  tratta da “raiplay.it”.  Non sono immagini essenziali,  le abbiamo inserite a puro titolo illustrativo e senza il minimo intento pubblicitario o tanto meno di lucro; assolutamente inesistente;  qualora i titolari  dei siti citati non gradissero la pubblicazione tali immagini saramno rimosse subito a semplice richiesta.  In apertura, Massimo Bordin in sala di trasmissione a Radio Radicale; le 4 immagini seguenti sono sul  funerale laico della mattina del Venerdì santo nella Facoltà Valdese Teologica, nella 2^ e 3^ l’interno, in fondo a dx sta parlando Fabrizio Cicchitto, al tavolo Massimo Teodori e Alessio Falconio, nella 4^ e 5^ l’esterno, due angolazioni della folla assiepata davanti alla Facoltà Valdese Teologica; le 5 immagini che seguono sono sulla manifestazione della mattina di Pasqua al lato del Vittoriano con intercalata la foto che riprende il Direttore di Radio Radicale, in particolare, nella 6^  è al microfono Maurizio Turco, nella 7^ Emma Bonino, nell’8^ Rita Bernardini mentre chiude la manifestazione alle ore 13; nella 9^ Alessio Falconio intervistato  alla Facoltà Valdese Teologica; nella 10^ “Ciao Massimo”, da Rita Bernardini l’ultimo saluto a Massimo Bordin che è anche il nostro saluto;  in chiusura, un primo piano di Massimo Bordin con l’inseparabile sigaro. 


Un primo piano di Massimo Bordin con l’inseparabile sigaro
 

Premio Montale a Emanuele, 2. Un lungo cammino

di Romano Maria Levante

Abbiamo dato conto del conferimento del Premio Montale “Fuori di casa” 2019, Sezione Mediterraneo per la Poesiaa Emmanuele Francesco Maria Emanuele, avvenuto a Roma, al Palazzo Althemps, l’11 aprile 2019, dopo la presentazione della direttrice del Museo Nazionale Romano Daniela Porro, ad opera della  presidente del Premio Adriana Beverini con la vicepresidente  Barbara Sussi,; è stata letta la motivazione ed è stata consegnata al premiato anche l’opera, una “E miniata”, da un codice medievale, creata per lui dal pittore e miniatore d’arte  Piero Colombani. Sono state lette molte poesie di Emanuele dall’attrice e regista Anna Rita Chierici e  singole poesie lette in omaggio da personaggi a lui vicini, tra cui Vincenzo Mascolo, curatore dell’annuale maratona poetica “Ritratti di Poesia”. Patrocinio della RIDE, Rete Italiana per il Dialogo Euro-mediterraneo e Fondazione Anna Lindh, realizzato dalla Associazione Percorsi con Alice Lorgna.  

Nel nostro resoconto, oltre a riferire nella conclusione sulla cornice della manifestazione costituita dalla  collezione statuaria di Palazzo Althemps, in associazione ideale con la collezione artistica organizzata dal premiato nel Palazzo Sciarra, abbiamo anticipato che non potevamo dimenticare le parole della poetessa Maria Luisa Spaziani, nella serata dedicata a Emanuele al Teatro Quirino il 20 ottobre 2010, né  fare a meno di ripercorrere con i suoi versi il “lungo cammino” poetico e di vita.  Rievochiamo subito le parole della Spaziani per poi immergerci nel mondo poetico di Emanuele.     

Un ricordo della poetessa Maria Luisa Spaziani

Dopo le letture poetiche di Paola Gassman e Ugo Pagliai, Geppy Gleijeses e Marianella Bargilli con lo spettacolare scenario delle immagini sullo schermo e la musica di fondo, nella serata del 2010 al Teatro Quirino entrò in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani, allorché dinanzi alla platea non più buia ma  illuminata erano sul palco con lei i quattro interpreti e il poeta Emanuele. Il quale aveva superato la ritrosia a presentarsi in una veste che per pudore non voleva aggiungere alle altre indossate  in tante posizioni di vertice – l’imprenditore e il finanziere, l’intellettuale e lo scrittore,   

l’operatore culturale e il creatore di grandi eventi artistici – al punto di non aver voluto rilasciare un’intervista sulla poesia: “Io sono tante cose insieme – disse lui stesso – considerarmi anche poeta sarebbe troppo”. Ma non poté  insistere su questo,  lo considerava tale la poetessa per antonomasia, che con fervore giovanile fece una vera e propria orazione celebrativa. 

“Il poeta è tutto – disse nel delinearne la figura – mentre le altre attività sono parziali e settoriali, il poeta ha la visione d’insieme”. “Emanuele o Emmanuele – proseguì giocando sulla emme raddoppiata nel nome, come aveva fatto Lino Angiuli nell’introduzione scritta alla sua silloge – è imprenditore, banchiere, operatore e tanto altro, lui vorrebbe essere soltanto poeta”. Perché ne conosce il valore e il significato, anche se ne ha il pudore: “Quando la gente sente che qualcuno in aggiunta alle proprie attività è anche poeta – continuò la Spaziani – fa un sorrisetto come se fosse marginale, un giochetto tipo le parole incrociate se non una stranezza”.

La poesia, invece, è un fatto serio: “E’ un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli”. Ma è anche molto di più: “Se faccio un sogno e poi ne nascono dei versi, quei versi sono il sogno che ha sognato con me. Attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi.”. E, riferendosi alle poesie di Emanuele, aggiunse: “Io ho sognato con lui l’Africa, i suoi deserti e i suoi cactus, la Maremma purtroppo dimenticata e i suoi segreti, i misteri e le favole, Cortina e una storia d’amore”. 

L’imprenditore e il poeta, in sintesi l’uomo

Emanuele non è  ilfreddo imprenditore come si potrebbe pensare, nell’intervento per il Premio Montale si è commosso, ben altro dell’uomo di pietra, non lo è con la sua poesia; ne ha assorbito la sobrietà e il pudore, pur se apre il suo animo ma sempre trattenendosi. Al pari della serata attuale, anche nella serata al Quirino nel 2010 aggiunse solo i ringraziamenti alla poetessa e ai tanti amici che vollero essergli vicini, con un tocco di classe nell’evocare la città natale da cui era stato lontano per più di cinquant’anni, una lontananza voluta per non vederla diversa da come l’aveva vissuta nella fanciullezza; il nostro pensiero è corso a “Nuovo Cinema Paradiso” anche se  non c’era stato un vecchio saggio a dirgli di restarne lontano.  

C’era voluto un convegno sull’identità mediterranea per riportarlo molti anni fa a Palermo dove aveva  rivisto quel mondo e si è immedesimato nella poesia intitolata  “Città”, al culmine dei suoi pensieri: li rappresenta e lo rappresenta appieno.

Gleijeses la lesse da par suo in conclusione, dopo aver fatto un’acuta considerazione: “Come una donna bellissima paga lo scotto di non essere ritenuta intelligente, così un grande imprenditore e uomo di finanza può subire il pregiudizio di non essere ritenuto poeta”. Non è il caso di Emanuele, il riconoscimento gli è venuto da tante parti,  riconfermato allora dalla Spaziani e dai grandi attori che hanno scelto di fare lo spettacolo perché le poesie di Emanuele sono grandi poesie. 

La serata terminò con il saluto degli amici a Emanuele sempre più commosso, come si è commosso  per il Premio Montale, al termine ci sono stati anche degli abbracci, presenti in prima fila la moglie e la figlia Teresa, artista di cui ricordiamo l’opera selezionata per il Padiglione Italia, sezione Lazio,  della Biennale del 2011 curata da Sgarbi, e altre opere esposte in alcune gallerie romane, il figlio assente giustificato per un impegno di lavoro.  

Non può finire la nostra cronaca con questo flash back che riporta indietro di quasi un decennio, senza trasmettere  qualche favilla degli sprazzi di luce poetica che illuminarono allora la platea del Teatro Quirino e ora hanno illuminato la grande sala del  palazzo Althemps, gremita di intervenuti, con al centro l’imponente gruppo scultoreo.  Lo facciamo richiamandoci alla prima delle quattro  raccolte di poesie pubblicate dal 2008 al 2016, dal titolo eloquente “Un lungo cammino”,  perché non è una silloge episodica ma una vera sequenza di cinquant’anni di ricordi e di emozioni. 

L’inizio del lungo cammino

Sfogliando l’aureo libretto, cerchiamo di estrarre e legare parole che riescano a renderne il filo conduttore, il ritmo e l’armonia, la modulazione dei toni e la profondità dei contenuti, rievocando i versi che esprimono il “lungo cammino” del poeta e accompagnano quello dell’uomo.  

La prima poesia che troviamo è quella, citata in precedenza, in cui l’autore si riconosce maggiormente, “Città“, nella sezione dedicata alla terra, anni 1956-58: c’è già un primo percorso di vita nel quale si rispecchia quello successivo. Appaiono i segni arcani delle strade più buie dell’infanzia, che si ripetono più tardi nel tempo dell’ansia, tra le occhiaie vuote di vuoti destini e slarghi di rara bellezza. Negli anni successivi interviene il rimpianto, restano gli squarci di luce improvvisi su vecchi portali, il colore rabbioso dei muri, la polvere opaca, e gente incupita dall’antico dolore di chi vive nel bello e ne muore. E sempre in questo periodo, indietro di mezzo secolo, a San Martino c’è il caldo meriggio che annulla i sogni, negli angoli oscuri in fondo all’anima ansima il petto di grandi speranze che il tempo corrode. L’età dell’infanzia suscita i ricordi più dell’attesa degli anni a venire, quando un viso d’opale diffonde una luce e canti trasmettono parole d’incenso. Dalla terra prorompe la rabbia del Sud, l’antico rancore per quel che non fu, per quel che non è, le vane speranze di vite diverse e diverso futuro; in un mare che è ostile seppure ricco di antiche leggende.

Dalla terra sono ispirati i canti dell’Aspra, degli stessi anni, il poeta apre il cuore in una natura dove all’ostilità della terra si contrappone la lusinga del mare. Il mare tra le case in rovina, s’inseguono i venti di terra. Per ore – confida – guardavo le onde, pensavo al futuro di là da quel mare; poi la partenza, andai e persi il ricordo, rivedo di là altro mare, soffermo lo sguardo sull’onde e sento la stessa ansia di sempre: conosce lo stesso pensiero la mente, andare, partire. Lo spirito di Ulisse, forse, il mezzo secolo e oltre successivo mostra il lungo viaggio del poeta con  “Itaca” nel cuore.

Il porto è un luogo metafisico con la luna che emerge da dietro le vele e sembra fermarsi immota nel vecchio scenario sbiadito dove la notte che avanza rianima i moli, mentre il mare immobile attende. E sui volti di grande tristezza si legge con l’ansia il gelo di esistere. Un sentimento personale e collettivo, se un canto si leva con le nenie di popoli dispersi da sempre sul mare che unisce le coste. In un mare simile il poeta non resta in superficie a meditare, vi penetra nel fondo. Scendevo nel buio dell’acqua profonda – esclama – nel cono di luce che spegne i raggi e le stelle. Fluttuavo, portato dall’onde leggere nel sacro respiro del mare: padrone di me nel silenzio capivo che come sul mare la vita, incurante, mi avrebbe portato. 

L’estate di Pioppo ci dà immagini crepuscolari. E’ sera, mia madre suonava nel portico di vecchi fogliami – ricorda – il buio ritagliava la figura di lei, udivo il richiamo, volevo fermare la voce, l’odore di terra, le strisce del cielo, il vapore alla base dei monti, volevo che tutto restasse così, la madre e la natura. Ma il sogno d’estate carducciano sembra svanire, passa la sera e scende la notte. 

Torna la natura con il bosco e le ginestre. Una scultura antica nella radura, immobile, la quercia possente e solitaria, protesa al cielo, resiste al gelo e alla calura, ai venti e ai fulmini; i fusti leggeri invece si accalcano tremanti aggrappati l’un l’altro per cercare protezione. L’insegnamento: così nella vita l’uomo grande è solo e gli altri lo guardano timorosi, bisognosi del gruppo per esistere; e non solo per resistere, aggiungiamo. Prima abbiamo evocato Carducci, la ginestra non può non richiamare Leopardi, per il fiore del deserto il poeta trova una definizione di intensità straordinaria: risposta terrena al raggio del sole si aggrappa alla pietra più arsa. E questa sua capacità di resistere dà forza: lontano si sente l’odore portato dal vento, nel fiore si ritrova l’ardore che porta nel cuore. 

Il cammino prosegue

Scorrono lenti gli anni, siamo al 1963-67, ancora ricordi dell’isola, per la quale si prova un amore struggente, il poeta la vede e la sente, forte e  crudele,  bella di sole e di luce intrisa. E si apre a una confessione che è un’orgogliosa riaffermazione di identità: negli anni ti ho portato nel cuore, ragione di vita, nei segni lavati dal tempo aspetto di te ciò che è mio. Per questo sente che deve ancora cercare, nel rimpianto di vite diverse vissute nel sogno ed esclama: vorrei ripartire dal nulla di prima e tornare e cercare partendo da niente. Le ore di chiare speranze sembravano grandi e ora sono solo rimpianti. Non vi sono fiori sulle strade ferrate su cui corre la vita, si rimane soli e torna il gelo dell’esistenza: non vedo e non sento – dice – il freddo del cuore mi porta la neve negli occhi. 

Il lungo cammino procede, nel 1968-70 si va nell’America di Bob Dylan che cantava: “Quante strade deve percorrere un uomo per diventare uomo, quante orecchie deve avere per sentire qualcuno che piange”. La risposta è nel soffio del vento che va, ora il vento e l’uomo sono lo stesso ma non fermano le lacrime e l’odio. “The road” è il titolo, la strada su cui ora si snoda il lungo cammino, ma arriva la negazione portata dal dolore: non c’è riposta nel soffio del vento, non può rispondere l’uomo al dolore del mondo. L’anima rimane da sola, non sente i dolori del mondo e il grido cammina di notte e non sente.

L’anno dopo si apre un percorso di più di vent’anni, dal 1971 al 1994: esplode l’amore, la vita del cuore. C’è il presagio: svanisce il sogno, corrono negli anni le nuvole, mi volto indietro – sussurra – e non vedo che te, tu sola trapassi il gelo del cuore. Nell’amore si cancellano i pensieri tristi: guardarti avanzare leggera richiudere il libro del mondo, tenerti la mano. Perché sei tu, lo so – si confida – gioisce e batte il cuore al tuo sorriso e si ritrae seguendo il dolore e l’amaro di sempre. Supera l’amarezza: la luce fa sera negli occhi miei stanchi, e tu sei nel ricordo del giorno. Lei ha riportato la vita nel cuore dove non c’erano più per un tempo infinito sorriso ed emozione, nell’anima non c’erano ansie e veri rimpianti. Sparite al ricordo le voci, le facce, i sorrisi. Ma con l’amore il vento di antichi ricordi riempie i miei sogni – esclama – si irradia una luce e in essa ti vedo. L’abbraccio scaccia il tedio e dà voglia ancora d’amore, i giorni svaporano di tutto riempiti di te. 

Un’altra tappa

Dopo questo abbandono liberatorio al sentimento,  un’altra tappa, l’ultima del lungo cammino percorso fino ad allora, va dal 1994 al 2005; non arriva all’attualità, per questa ci sono le tre sillogi successive.  Ma comunque  è un momento che rappresenta  l’occasione di fare un bilancio di sentimenti e di emozioni.

Prima di evocarli con le sue stesse parole ci sono due motivi quanto mai attuali: l’Africa e il vulcano. La prima è la terra dalla quale, dopo la sua Sicilia, ha tratto le maggiori ispirazioni, e al Quirino lo  hanno ricordato le immagini straordinarie che accompagnavano la lettura poetica: il vento odoroso degli altipiani che porta sul mare i magici suoni di Fez e parla di uomini antichi, della loro civiltà. La terra li accolse felice, finché esseri di ferro crociati li spinsero sul mare. Sparirono, rimasero lì, si perse il ricordo e vissero nel canto. E oggi ritornano sospinti dal vento di Fez ma in essi si è spenta la forza creatrice,  attratti da ciò che di loro distrugge il ricordo. Veramente profonda, mentre impetuosa è l’immagine del vulcano: rossi crateri e bagliori di fuoco, il grido possente e i metalli neri e fumanti che sono disciolti e corrono a valle, dove si fermano frementi e di pietra divengono a prova che esiste, per sempre,  il dio Vulcano.

Sulle pietre è scritta la vita che a noi umani tocca leggere senza capire, e non sono le pietre del vulcano. E’ la natura, si deve sapere di aver già vissuto nei boschi in vite lontane: da lupo. Ma non si tratta dell’“homo homini lupus”, bensì di una ricerca: è questo che ora mi manca – sospira – e cerco da solo nel cupo del bosco; sapevo che c’era già stata una vita feroce e felice in cui avevo vissuto la terra mia madre, e il cielo stellato e il sole mio padre e stelle sorelle e fiumi e mari, pietre miliari del ricordo. Cercare se stesso nella natura, ma non solo: ci sono i figli e le vite, il sogno e il rimpianto. 

Nel sonno dei figli si scopre un intenso sentimento, è questa la gioia più grande. Le vite nel corso degli anni spariscono, rimane il ricordo, si perdono nel nulla esperienze ed emozioni. Restano rari momenti: un sorriso di donna, un grido d’amore di figli, la polvere tutto sopisce e ricopre, e nulla più torna nella vita. Il sogno che sempre ritorna non porta più a me il tuo dolce bacio – sospira – ogni ora sapendo che nulla sarà mai come allora.

Si sente,  nella  canzone d’amore, il ricordo di una figura lontana che si cerca di far rivivere: le forme tornite, la veste gioiosa, le labbra dischiuse, e anche il passo armonioso, l’andare altero, lo strano sorriso: rimpiango il tempo perduto e come i rami spezzati mi butto alle spalle i ricordi, sfinito e perduto. Ci sono i sogni portati dal delirio di gloria che atterrano l’uomo ma lo spingono anche a volare alto nel cielo come nuvole d’oro.

E sono proprio le nuvole l’immagine terminale del lungo cammino che abbiamo percorso con il poeta  Riportiamo integralmente, senza scegliere alcune parole “fior da fiore” come fatto finora, la poesia loro dedicata nella sua lapidaria scansione in versi: “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse del tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”.

Qualunque parola di commento guasterebbe, è un percorso di vita e di sentimenti che sentiamo anche nostro, grati al poeta di averci offerto questa sua introspezione che illumina tutti noi, ci fa aprire gli occhi dinanzi a stimoli emotivi che ora ci appaiono più chiari e coinvolgenti, dopo aver fatto un viaggio emozionante che solo la poesia può rendere con le parole che vengono scolpite.

Al termine di questo percorso riecheggiano le parole della poetessa Spaziani al Quirino nel 2010: la poesia é un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli, “i versi sono il sogno che ha sognato con me, attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi”.

Ebbene, con le poesie di Emanuele non abbiamo sognato solo l‘Africa e la sua Sicilia, abbiamo sognato noi stessi, le nostre illusioni e le nostre inquietudini. Abbiamo sognato la nostra vita. Si fermano al 2005, poi ci sono quelle delle sillogi del 2009, 2013 e 2016.  Il lungo cammino continua. 

Info

Palazzo Althemps, Roma, piazza  di Sant’Apollinare, 46.  Il primo articolo sulla premiazione è uscito  in questo sito il  14 aprile  2019, con altre 13 immagini. Cfr,. i nostri articoli sugli annuali “Ritratti di Poesia”: in questo sito,  il 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018, 13 marzo 2017, 19 febbraio 2016, 15 febbraio 2013; in fotografia.guidaconsumatore,  il 30 gennaio 2012; in cultura.inabruzzo.it,  il 9 maggio 2011;  sulla serata teatrale citata nel testo, in cultura.inabruzzo.it  “Quirino,  la poesia di Emanuele diventa teatro”, 24 ottobre 2010 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini della premiazione e delle opere statuarie sono state riprese a Palazzo Althemps da Romano Maria Levante la sera della consegna del Premio, si ringrazia l’organizzazione del Premio Montale e la direzione del Museo Nazionale Romano per l’opportunità offerta.  Le prime 3 immagini sono sulla premiazione, al centro Emmanuele F. M. Enanuele, alla sua sin.la presidente del Premio Adriana Beverini, alla sua dx la vicepresidente Adriana Sussi,  nella 4^ Vincenzo Mascolo legge una poesia in onore di Emanuele, nella 5^ una visione della sala, nella 6^  il Sarcofago scolpito in fondo alla sala; le  immagini successive, dalla 7^ alla 12^, sono sulla collezione statuaria di Palazzo Althemps, la 13^ e ultima, l’interno del  Teatro Quirino, dove nel 2010  si svolse la serata sulla poesia di Emanuele rievocata nel testo.