Guttuso, 3. L’arte rivoluzionaria, dal 1960 al 1975, alla Gam di Torino

di Romano Maria Levante 

Si conclude il nostro racconto della mostra “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68”, aperta alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino  dal 23 febbraio al 24 giugno2018  con  esposti 35 dipinti e 32 disegni e acquerelli  realizzati dal 1936 al 1975, in un intenso realismo nella doppia visione dell’impegno politico e sociale e del  ripiegamento nel privato.  La mostra, organizzata con gli “Archivi Guttuso”, presidente Fabio Carapezza Guttuso,  è a cura di Pier Giovanni Castagnoli, e anche  il  catalogo della “Silvana Editoriale” è curato da Castagnoli con Carolyn Christiov-Bakargie direttore, e con Elena Volpato conservatore nella galleria.    

La mostra,  coerentemente con la sua impostazione, riporta, per gli anni ’60,  3  opere considerate tra le più  significative di un periodo miracolato dal “boom” economico con l’escalation consumistica e il diffondersi di nuovi costumi dopo  la faticosa quanto impetuosa ricostruzione, per questo la mostra del 2011 alla Fondazione Roma era intitolata “Gli irripetibili anni ‘60”. Non fu, tuttavia,  un periodo senza ombre, a livello economico la “congiuntura” del 1962 oscurò per  qualche tempo  la crescita, fino alla contestazione studentesca del 1968  seguita dall’autunno caldo operaio del 1969, e non furono semplicemente incidenti di percorso ma sommovimenti radicali.

Con gli anni ’60 non termina l’esibizione espositiva, degli anni ’70 sono esposte  3 opere: una del 1970,  una del 1975  – che fa pendant, per così dire, con un’opera del 1960 con cui si apre questo periodo – espressione del “Guttuso politico”, in aggiunta al “Guttuso rivoluzionario”  e al “Guttuso  privato”, anche se alla sua attività politica attribuiva un valore vicino a quello del suo ‘impegno  nell’arte, ne parleremo ancora. Ma soprattutto tra le due opere appena citate  c’è il grande dipinto del 1972  che sarebbe riduttivo  definire “politico”, per Fabio Belloni è “l’ultimo quadro di storia”.

Premesso ciò, dopo aver delineato in precedenza l’itinerario artistico e di vita di Guttuso e il suo personalissimo realismo, e averlo ripercorso con le opere esposte in mostra fino al 1960, passiamo alle opere realizzate negli anni successivi fino al 1975. Considerato che negli anni ’60, oltre alla situazione interna cui si è accennato, vi sono stati eventi tragici che hanno sconvolto  il mondo intero, l’assassinio di J. F. Kennedy  seguito da quello del fratello Robert e la devastante guerra del Vietnam che unì tutti i pacifisti contro il vituperato imperialismo americano. 

Anni ’60, dal Vietnam al ’68, la denuncia della guerra e l’appoggio alla contestazione  

A questa denuncia è dedicata un’opera inconsueta nell’artista perché si avvale di apporti fotografici e figurativi, con l’immagine simbolica dell’inerme alla mercé del superpotente che lo annichilisce, metafora del bombardamenti e delle sofferenze della popolazione tormentata da una guerra senza fine.  Si intitola “Documentario sul Vietnam”, 1965, molte mani ghermiscono il vietnamita seminudo, al centro di una scena con a sinistra il dolore espresso nel volto della Maddalena, sulla destra immagini di guerra: la modernità dell’artista e l’evoluzione della sua arte appaiono anche in queste incursioni d’avanguardia, da Pop Art. Il dipinto ha subito diverse trasformazioni con la riduzione a dimensioni minori rispetto a quelle dell’opera esposta alla sua personale di Berlino.

L’alternanza della denuncia con il “privato” si ripropone nello stesso anno attraverso il dipinto “Da Morandi”,  con in basso una serie delle caratteristiche “bottiglie”, peraltro molto piccole, di vari colori e affastellate, sovrastate da altri oggetti come un vaso con pianta grassa, immagini sullo sfondo e una sagoma sulla destra. E’ uno dei 12 dipinti  che realizzò sull’artista da lui molto stimato, Raffaele Carrieri definisce la sua incursione nel tranquillo e ordinato mondi morandiano “come se, nel silenzio di un crepuscolo, in un luogo remoto, fosse entrata  una motocicletta con lo scappamento aperto”, e lui stesso – alla presentazione romana delle opere nella Galleria “Nuova Pesa”, dopo quello milanese nel “Milione” – scrisse: “Vorrei che questi quadri fossero considerati pitture ‘dal vero’, un tentativo di presentazione degli oggetti quali essi sono  divenuti attraverso la scoperta fattane da Morandi. Nuovi oggetti rispetto alle bottiglie che gli servivano da modello; e, ho tentato, nuovi oggetti rispetto agli oggetti di Morandi”. Una chiara riproposizione del suo realismo, in cui la realtà non è quella oggettiva, ma è ben diversa nella visione personalissima dell’artista.  


Alla contestazione del ’68 dedica  la riproduzione – in un figurativo che fa pensare al fotorealismo  americano – dell’immagine diffusa dalla stampa con l’abbraccio in pubblico di una giovane coppia. L’artista dà due diverse raffigurazioni, entrambe esposte: quella che fa da testimonial alla mostra, “Gli addii di Francoforte” è un po’ diversa da “L’abbraccio”,più direttamente ispirato all’immagine  pubblicata da “Epoca” in un articolo sull’occupazione della Sorbona, l’università parigina: è a figura intera, le gambe della ragazza e le mani del dipinto sono pressoché coincidenti con quelle della fotografia, mentre negli “Addii di Francoforte”  la coppia è ritratta fino alle ginocchia, le mani in posizioni un po’ diverse; anche Michelangelo  Pistoletto in quel periodo realizzò un’opera della stessa ispirazione inserita nella sua ben nota superficie specchiata.  

Perché questa scelta dell’artista, nel crogiolo del 1968 così ricco di spunti ben più “rivoluzionari”? Non è dato sapere, “fate l’amore non fate la guerra”  era uno degli slogan più  diffusi, d’altra parte l’abbraccio pubblico fu la prima reazione al conformismo borghese che nascondeva i sentimenti  in un  perbenismo ipocrita;  la sfida giovanile iniziò con una sorta di libero amore, inteso come libertà dei sentimenti di manifestarsi, al pari delle altre libertà, “è vietato vietare” era  un altro degli slogan più comuni. La mostra celebrativa  “’68, è solo un inizio…” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, corredata da una inchiesta su ciò che resta del ’68 cinquant’anni dopo con la parola ai protagonisti di allora, ha mostrato le luci e ombre di un evento comunque epocale.

Abbiamo ricordato come il ’68 fu per Guttuso un momento esaltante perché sebbene fosse da un anno docente universitario, gli studenti che contestavano i “baroni” delle cattedre si rivolsero a lui per un “murale” in cui riprodusse la scena di una giovane donna con un  grappolo d’uva, simbolo della ribellione dionisiaca ai poter; Lui  ne perorò la  causa, garante delle loro istanze laddove  il Partito comunista era ostile al movimento libertario in ossequio alla propria natura dogmatica e centralista.

Scrisse infatti il 14 giugno 1968 a Giorgio Amendola che su “Rinascita” aveva condannato la contestazione studentesca che “è possibile parlare con gli studenti e perfino sentirsi rinascere  assieme a loro, è possibile un contatto diretto tra operai e studenti”.   E sulla divaricazione con Pasolini che vedeva negli studenti contestatori la deprecabile “classe borghese” e  nei poliziotti opposti a loro la prediletta “classe povera” aggiungeva: “Il problema è chi comanda la polizia? Chi la impiega? – E chi muove gli studenti? – Davvero solo gli agitatoti cinesi? Sarebbe un grosso errore ritenerlo”.  Perché in tal modo si condannerebbe alla sconfitta, “una sconfitta che sarebbe anche nostra e di cui noi stessi potremmo essere chiamati responsabili”. E non lo dice solo l’artista simpatizzante, anzi militante del Partito Comunista, ma un autorevole membro del Comitato  Centrale da 17 anni.  

Il  partito continuò comunque ad  appoggiare il suo realismo contro le avanguardie; analogamente alla difesa da parte del regime sovietico del “Realismo socialista” contro le visioni non appiattite sulla propaganda. La visita di Krushev a una celebre mostra di Mosca  con relativa condanna delle opere non conformiste  ebbe una replica nell’analoga reazione di Togliatti in una  mostra s Bologna.

Ricordiamo, per il 1968, alcune opere non esposte nella mostra, di cui la prima, celebrativa  dei valori e dei motivi sottesi al movimento studentesco, “Giornale murale maggio ‘68” realizzata ad Amburgo sotto l’effetto del maggio tedesco, quindi con respiro internazionale: ai bordi immagini evocative  delle nequizie americane .- uccisioni a sangue freddo ad opera degli alleati sudvietnamiti, dei razzisti del Ku Klux Kan, dei complici dell’eliminazione di Che Guevara –  al centro del quadro  la contrapposizione visiva tra la selva di bandiere rosse sulla destra rette da mani inermi spinte dagli ideali e la testuggine di scudi sulla sinistra senza volto, simbolo della repressione cieca del potere.

Un altro quadro del 1969 ci riporta all’interno del nostro paese, alla repressione giudiziaria dei giovani contestatori, “Il processo”, qui la contrapposizione è virtuale, ma indubbiamente intensa, in primo piano le sagome indistinte riprese di spalle di due agenti di custodia, di fronte quattro studenti arrestati con i pugni alzati, sulla destra un volto picassiamo alla “Guernica”. 

Questi dipinti confermano come Guttuso rifiutasse la contrapposizione tra figurativo e non figurativo vedendo diverse fasi e momenti intermedi da non potersi classificare. Contestare il realismo perché non rivoluzionava il linguaggio dell’arte anche se esprimeva contenuti rivoluzionari era visibilmente una visione estremistica ed infantile dei contestatori, anche perché la rivoluzione del linguaggio non trasmetteva contenuti percepibili dai destinatari dei messaggi che erano le classi lavoratrici di certo non aduse a certe forme espressive. Inoltre molti dei nuovi linguaggi d’avanguardia venivano dagli Stati Uniti che non eccellevano certo per sensibilità sociale e politica e spesso, come nella Pop Art, nel restare aderenti alle forme pubblicitarie e consumistiche non facevano altro che celebrarle piuttosto che contestarle.

Spunti Guttuso li trarrà anche da queste forme ma sempre con una rigorosa aderenza ai suoi contenuti permeati di una prorompente sensibilità sociale. 

Dal 1966 al 1970,  il risveglio politico con Mao a la “nuvola rossa”

E siamo al 1970  con “Lo scrittore Goffredo Parise visita a Pechino  la fabbrica dei libretti rossi, in effetti Parisi ne è sommerso, la superficie del quadro è quasi interamente occupata dai mucchietti di questi opuscoli per cui, secondo Massimo Onofri, “la sacralità di quel vangelo comunista è come annullata dall’anonima riproducibilità dei volumi che saturano il quadro, fino a sollevarlo entro una dimensione di assoluta irrealtà”. Crediamo tuttavia che l’artista ne abbia voluto esaltare la diffusione capillare nello sterminato continente cinese, per cui più che di “assoluta irrealtà” parleremmo di “simbolico iperrealismo”, tanto forte è l’evocazione della miriade di ricettori. Il libretto di Mao era invece presentato nella sua “sacralità” in quadri precedenti dove è raffigurato nelle mani di Lin Piao, lo ricordiamo in “Rivoluzione culturale”, non esposto, del 1969, strettoin mano come un breviario, ne seguiranno altri, fino alla citata  moltiplicazione dei  libretti rossi.,

Anche in “La nuvola rossa”, del 1966, il rosso è altrettanto invadente. Dietro un davanzale con poggiate cose eterogenee – dal fornellino con sopra la padella con l’uovo fritto e la mezza pagnotta di pane al  teschio bucranico di ariete con corna ricurve e alla pistola – ciascuna delle quali  è un simbolo evocativo, la grande onda color rosso fuoco, Werner Haftmann: ne parla così: “Figurativamente questa macchia rossa andrebbe letta come il riverbero del tramonto che nella serata romana entrava attraverso la finestra aperta. ma anche in questo caso il colore assume una qualità metaforica, diventa l’epifania di una nuvola associata alla bandiera rossa, ‘la bandiera della speranza e della libertà’, che porta il so messaggio rivoluzionario nella stanza e conquista alla propria causa anche quegli oggetti  banali. Tutto il quadro, perciò, sta a simboleggiare un risveglio politico”.  

I “Funerali di Togliatti”, dalla cronaca alla storia

Il risveglio avvertito con tale opera, due anni dopo  si è tradotto nell’esplosione politica dei  “Funerali di Togliatti”,  il dipinto monumentale del 1972 definito da Fabio Belloni “l’ultimo quadro di storia”. Lo studioso ne ha ricostruito la genesi, il significato e il valore, esponendo i risultati della sua accurata ricerca anche nella presentazione della mostra “Guttuso innamorato” alla Gnam, oltre che nel catalogo della mostra attuale su “Guttuso rivoluzionario”.

Dunque la genesi con gli interrogativi: come mai l’opera è stata realizzata ben otto anni dopo la scomparsa del leader comunista, avvenuta nel 1964,  quali circostanze o quali motivi hanno determinato ciò? Non ricorrenze particolari, si era già celebrato nell’anno precedente, il 1971,  il cinquantenario della fondazione del Partito comunista, e  l’anno successivo, il 1973, fu pubblicato  il libro di Giorgio Bocca su Togliatti che rinverdì l’interesse sulla sua figura suscitando polemiche.  

Nulla di tutto questo  nel 1972, ma intervennero altri eventi, quali l’elezione a segretario del partito di Enrico Berlinguer, succeduto a Luigi Longo, l’ultimo della generazione togliattiana, che segnava l’inizio di  un nuovo corso e poteva essere invitante celebrarlo con un’opera così evocativa;  tra l’altro questo è l’anno della morte di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio in Alto Adige,  non si seppe se in un maldestro tentativo di ripetere gli attentati altoatesini di quel periodo o se caduto in un’imboscata dell’estrema destra. Rispetto a Feltrinelli Guttuso, pur non condividendone le idee anarcoidi,  legato com’era all’ortodossia comunista, era fermo assertore del diritto a manifestare le proprie idee per quanto eretiche e non condivisibili esse fossero, così la figura dell’editore ebbe un posto nel “Funerali”, defilato e schivo come era sempre stato, e con lui Vittorini, altro “alieno” rispetto alla nomenclatura del partito, ai militanti più fedeli  e ai suoi più remoti ispiratori.  


Il mistero sulla realizzazione ritardata dell’opera è stato chiarito dallo stesso Guttuso che si è sottoposto di buon grado ai dibattiti popolari, oltre che alle interviste di prammatica,  in occasione delle esibizioni dell’opera alla platea dei compagni che, alla prima presentazione a Bologna, si incolonnarono in un a lunga e paziente coda lungo tutta Piazza Maggiore fino a Palazzo d’Accursio sede del Municipio: Guttuso stesso disse che i primissimi abbozzi su carta avvennero subito dopo l’evento, e il foglio nel quale vergava le sue intuizioni improvvise è rimasto per anni sul suo tavolo, sotto l’opera del momento;  fino a che, invece di continuare a ritoccare  il foglio per tradurlo poi in bozzetto, ha pensato di passare  all’opera definitiva, pur nelle sue enormi dimensioni, 5 per 4 metri, non sentendosi più di comprimere in uno spazio ristretto la sua visione che si andava allargando.

Nucleo iniziale della composizione fu il volto di Togliatti, che decise di riprodurre con i caratteristici occhiali per mantenere l‘immagine consueta al grande pubblico. Intorno al volto, un’infiorata come nei solenni funerali sovietici  e poi la folla con tante bandiere rosse.

Abbiamo detto di Feltrinelli e Vittorini come ospiti inattesi, per Lenin la soluzione fu di presentarlo tra la folla varie volte a dimostrazione della pervasività delle sue idee;  ovviamente ai primi posti davanti al volto contornato di fiori di Togliatti c’è l’establishment del partito, con Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa Malagoli.

Nulla è stato trascurato, i lavoratori con il pugno alzato su un’impalcatura di tubi Innocenti a dimostrazione della presenza viva del lavoro manuale, oltre ai numerosi intellettuali che, in omaggio all’ideologia gramsciana, erano il nucleo centrale del partito. 

Sono tutti volti grigi, come se una colata di grigiore fosse calata sulla folla traboccante,  un bianco-nero rotto solo dalle macchie fiammeggianti delle bandiere, se ne contano una quarantina, di un rosso sgargiante come è neutro il grigio delle figure, quasi una bicromia a marcare quel momento in cui la tristezza ingrigisce i visi mentre la fede politica continua a infiammare il partito e i  militanti.   Forse la definizione di “ultimo quadro di storia” è riduttiva, è ben diverso dalla “Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”, che  ha avuto anch’esso una utilizzazione nel partito. I  “Funerali”  sono entrati più profondamente nella vita  del PCI, a lungo nella sede di via delle Botteghe oscure, donati al partito da Guttuso con una lettera al segretario Berlinguer in cui auspicava la destinazione finale a Bologna, allora roccaforte comunista e sede di una istituenda nuova Galleria d’arte cui veniva data particolare importanza. 

A  Bologna, infatti,  il monumentale dipinto è pervenuto dopo le tante peregrinazioni nelle esibizioni in Italia, a Milano e Torino, Livotno,  Falcade e Acqui Terme,  e all’estero, Mosca e San Pietroburgo, Bucarest e Budapest, Praga e Darmstadt.   Perfino nel film di Francesco Rosi, “Cadaveri eccellenti”,  al quadro è affidato il messaggio finale, inquadrandolo al termine di una tumultuosa assemblea nella quale il partito ha messo in atto le sue tradizionali attitudini al compromesso accettando una manipolazione della realtà per ragion di Stato, divenuta ragion di partito dinanzi all’opposta conclusione possibile nella rivoluzione e nel colpo di Stato di un ipotetico delitto politico ai danni del segretario del partito.  

Se questi sono i contenuti, quale la resa pittorica? Anche qui un’innovazione, aderenza rigorosa alla linea fotografica dei volti, tanto che Belloni ha potuto ricostruire la fonte di tali ritratti in una serie di pubblicazioni, Come interpretare tale ricerca ben lontana dal  suo realismo impetuoso e coloristico, dato che nessuna di queste due caratteristiche si riscontra nella grande rappresentazione con i volti grigi delineati in forma calligrafica sul modello fotografico?   La risposta a questa domanda è nel fatto che si è trattato di un “quadro di storia” i cui committenti l’artista li identificava nei destinatari, la gente che voleva riconoscere e riconoscersi; mentre la storia, da parte sua, faceva valere le sue ragioni di tramandare l’evento nella sua realtà oggettiva, pur con tutti i suoi simboli. 

 Il ritratto-simbolo dei giovani artisti romani vicini al suo realismo controcorrente

Un altro quadro cui sono stati attribuiti  contenuti simbolici, questa volta al di là della sua semplice composizione, è il “Ritratto di Mario Schifano”, 1966,  commentato da Elena Volpato con una serie di riferimenti ad altre opere e alla situazione artistica del momento. Il volto dell’artista ha lo sguardo assorto, su uno sfondo bicolore bianco e azzurro come due “Autoritratti”  di Munch, e come “Suicidio I” dello stesso Schifano; altri riferimenti simbolici nel verde delle mani intrecciate e nel fatto che l’artista “lascia cadere sulla giacca bianca del giovane alcune gocce di colore azzurro”.

La Volpato vi vede “un inno all’onnivora forza di possesso della pittura: il rischio della divisione, della separazione tra soggetto e oggetto, viene esorcizzato nelle gocce di colore, che inglobano la figura di Schifano dentro la sua stessa tela, unendo autore e opera sullo stesso piano fisico di rappresentazione, quello della pittura di Guttuso”.   Per lui, infatti, “se vera pittura era, conteneva in sé l’unica possibile ricomposizione tra l’identità dell’autore, la sua verità di soggetto, e la materialità dell’opera”. 

Proprio Schifano come Angeli, Festa e altri pittori romani degli anni ’60  avvertivano questa stessa esigenza e al pari degli artisti della Pop Art, pur con i loro limiti, non ascoltavano le sirene dell’astrattismo e dell’esistenzialismo, la loro era “pittura del vero, con la sua materialità”, anche se su temi banali e consumistici.. Erano “nuovi realisti a cui Guttuso riconosceva la forza morale di non distogliere lo sguardo dalla strada, dalla loro contemporaneità”; inoltre sentivano “quel senso d’eternità che i reperti del presente  come quelli del passato diffondevano intorno a loro” per cui “i loro oggetti, le loro immagini, i loro simboli, seppur presentandosi in figure realistiche, andavano nuovamente raccontando l’enigma che era stato di Durer come della Metafisica”.   

Il dipinto di Franco Angeli, del 1969, “La stanza delle ideologie” sembra evocare il cinquecentesco “Melanconia I” di Durer, pur facendo prevalere “l’enigma dell’oggetto” perché “la verità del soggetto non è rappresentabile”, il suo volto è cancellato. Forse per questo Guttuso, pur giudicando “senza riporti culturali” il dipinto, ritrae a sua volta Angeli come sospeso nel vuoto, il viso terreo, gli occhi in basso, l’espressione cupa. Ma nel contempo, afferma la Volpato, “la Metafisica, la melanconia, i rischi di manierismo insiti nel loro lavoro, ancorché evidenti, non impedivano a Guttuso di riconoscere agli artisti di quella generazione il coraggio della realtà”. E non è poco con le avanguardie iconoclaste perché “un aspetto doveva essere importante più di tutto il resto: la loro determinazione ad abbracciare tutto con la pittura”.  Come Guttuso in tutta la sua vita artistica.

Le due opere ispirate alla militanza politica

Abbiamo lasciate per ultimi due dipinti agli estremi del periodo da noi ora considerato: “La discussione” del 1960 e “Comizio di quartiere” del 1975: quindici anni di differenza tra opere con la stessa motivazione politica, il suo impegno nel partito  e poi nelle istituzioni con la doppia elezione, prima al consiglio comunale di Palermo, e poi al Parlamento nazionale.

Nella “Discussione”  – una scena ambientata in una sezione del partito – ci sono  tutti gli ingredienti delle riunioni politiche interne, dai giornali sul tavolo, ai portacenere colmi di mozziconi di sigarette, nei visi accesi il fervore della lotta politica da lui vissuta a contatto con i “compagni”.  

Quindici anni dopo, “Comizio di quartiere”, dalla sezione alla piazza,  tra le case dalle cui finestre si affacciano i concittadini, l’espressione della democrazia partecipata come  è stata prima che la televisione allontanasse dal contatto diretto sostituendolo con quello virtuale. C’è un’umanità quanto mai pittoresca, come nella “Vucciria”, non mancano “citazioni” di Guernica  e di altre opere picassiane,  evidente il volto di Marylin Monroe della ben nota opera di Warhol, che fu colpita da un colpo di pistola di un fanatico, .

In questi due dipinti si riassume il  Guttuso politico che l’anno successivo verrà eletto in Parlamento, il “Comizio di quartiere”,  autobiografico, esprime il successo raggiunto in politica, da allora cessano anche le sue opere non solo politiche ma anche di ispirazione sociale e di denuncia.   

L’ultima fase di vita artistica e il messaggio nell’arte e nella politica

Condividiamo l’opinione secondo cui l’artista non ha avuto più bisogno di manifestare con l’arte il proprio impegno ideologico e politico avendo altre sedi in cui esprimerlo; in ciò avvalendosi appieno di quella libertà che, del resto, aveva sempre mantenuto affiancando il “privato” alla denuncia, i quadri con ritratti e nature morte a quelli sulle ingiustizie e le sopraffazioni.Nel fornire questa spiegazione, il curatore Castagnoli osserva come in tal modo “a pennelli e colori sia  assegnato il compito di produrre esclusivamente altri racconti, rispondere ad altri richiami, cedere ad altre seduzioni, consegnarsi ad altre fantasie; come sono quelle che, anno dopo anno, danno corpo e sostanza di poesia, nello studio del palazzo del Grillo, a quel sontuoso corteo di dipinti… “.E ne ricorda alcuni titoli, da “Caffè Greco” del 1976, a “Spes contra spem” del 1982.:

Dal 1975, dunque,  i suoi dipinti sono tutti inerenti al privato, in una scala di sensazioni e di emozioni che vanno dall’umore umbratile suggerito dai misteri della sua residenza monumentale all’esplosione di vitalità, anche nell’ultima parte della vita che vediamo nel rosso squillante di un’anguria, il rosso delle bandiere di partito nel frutto che è un’esplosione di vita e di speranza.

Morirà poco dopo quest’ultimo exploit affidato al rosso del frutto,  lasciando di sé un’immagine vitale e combattiva sui tanti fronti in cui si è svolta la sua vita che non definiamo inimitabile per non associarla a un personaggio anni luce lontano da lui, ma certamente inconfondibile e impagabile.

Questa mostra ce ne dà lo spaccato “rivoluzionario”, senza trascurare il “privato”, come le altre che abbiamo citato hanno reso altri spaccati  pur essi intensi e carismatici. La forte ripresa di interesse su Guttuso rende giustizia a troppe frettolose archiviazioni prima per un suo presunto conformismo tradizionalista con il realismo figurativo, o meglio “concezionale”, come lo ha definito Cesare Brandi, poi per  un certo oscuramento dovuto all’attenuarsi della presa del partito che poteva averne sostenuto l’ascesa, cosa non vera data la caratura personale e artistica di altissimo livello che non si è mai appoggiata al partito, al contrario  lo ha sostenuto con la sua autorevolezza.

Sia nei contenuti che nella forma le sue opere sono un compendio di storia civile e di evoluzione artistica all’interno del ridotto spazio tra figurativo e astrazione, non appartenendo a nessuno dei due campi ma avvalendosi degli apporti di queste due opposte visioni dell’espressione artistica, quella legata alla realtà e quella alla percezione dell’autore: ebbene,  in Guttuso la percezione è la propria realtà diversa dalla realtà “tout court”, quindi assolutamente personale quanto imprevedibile. E certe tendenze ultramoderne sembrano andare proprio in questa direzione.

Oltre alle sue opere, la sua intensa attività di uomo di cultura e di politico militante prima nel partito, poi anche nelle istituzioni. Al riguardo lui stesso poneva un problema etico scrivendo, nel 1984:: “Anche nel caso, in verità non frequente, ma che pure esiste, che il politico sia, per sua provenienza e per suo conto, uomo di cultura, non appena si presenta un contrasto tra la ragione politica e la ragione civile, il ‘politico’, dicevo, mette a tacere una parte di se stesso, si dimezza”.

Allora come oggi, è il caso di dire amaramente, per questo il curatore Castagnoli commenta: “Ecco, forse qui, in chiusura del suo articolo, mi piace pensare che Guttuso avrebbe potuto ancora aggiungere, ove non gli fosse bastato sottintenderlo: ma non l’artista, non io”. 

L’intera storia della sua vita con le tante  battaglie, artistiche e umane, civili e politiche, sta a dimostrarlo, e la mostra ha il grande merito di ricordarlo come simbolo dell'”arte rivoluzionaria”.    

Info

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Magenta 31 – Torino. Da martedì a domenica ore 10,00-18,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12, ridotto euro 9 . Info tel. 011.0881178 e 011.4429518.. Catalogo “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68”, a cura di Giovanni Castagnoli, Carolyn  Christov Bakargiev, Elena Volpato, marzo 2018, pp.270, formato 24 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  14 e il 26 luglio u. s.  Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per le  mostre romane sull’artista, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 25 e 30 gennaio 2013; “’68, è solo un inizio…”  21 ottobre 2017,  “cubisti” 16 maggio 2013,  “astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012, “Deineka” 26 novembre, 1 .e 16 dicembre 2012;  in  cultura.inabruzzo.it sui “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, gli “irripetibili anni ‘60”  3 articoli il 28 luglio 2011, in “guidaconsumatore.fotografia” su Mario Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli verranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della “Silvana  Editoriale”, tranne la 7^ con il particolare centrale dei “Funerali di Toglietti” tratta dal sito “Levante News”, si ringraziano entrambi, con  titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.   Sono alternate immagini di opere di ispirazione “politica” con opere di ispirazione “privata”. In apertura, “Funerali di Togliatti” 1972; seguono, “Documentario sul Vietnam” 1965, e “Da Morandi” 1965; poi, “Gli addii di Francoforte” 1968, e “Lo scrittore Roberto Parise visita a Pechino la fabbrica dei libretti rossi” 1970; quindi, “La nuvola rossa” 1966, e particolare centrale dei “Funerali di Togliatti” 1972; inoltre, “Tetti a Velate d’inverno” 1957, e “Lenin” 1959; infine, “Nudo sdraiato” 1959, “Ritratto di Mario Schifano” 1966, e ““La discussione” 1959-60; in chiusura, “Comizio di quartiere” 1975.

Guttuso, 2. L’arte rivoluzionaria dagli esordi al 1960, alla Gam di Torino

di Romano Maria Levante 

Dal 23 febbraio al 24 giugno2018  la mostra “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68” ha presentato, alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea  di Torino, 35 dipinti e 32 disegni e acquerelli  realizzati dal 1936 al 1975, nei quali si manifesta la sua doppia visione, di artista impegnato nelle opere di ispirazione politica,  e di artista attento anche al privato. La mostra, organizzata con gli “Archivi Guttuso” presieduti da Fabio Carapezza Guttuso, è a cura di Pier Giovanni Castagnoli, come il  catalogo della “Silvana Editoriale”, curato con Carolyn Chrisiov-Bakargiev che dirige la Gam e con Elena Volpato, conservatore nella galleria.    

Dopo aver delineato l’itinerario artistico e di vita di Guttuso, cercando di penetrare nel suo personale realismo, iniziamo il  racconto della mostra torinese che consente di ripercorrerlo attraverso le opere esposte che dividiamo in due periodi: dagli inizi al 1959, e dal 1960  al termine della pittura “rivoluzionaria”, datato al 1975, perchè dal 1976 l’impegno politico e sociale lo manifesta nelle sedi istituzionali da rappresentante del popolo, non più come artista nella pittura.

Il  primo “Autoritratto”, a matita, è del 1931, si ritrae ventenne, l’espressione è tesa più che attenta. Poi, ‘“Autoritratto con sciarpa e ombrello”, 1936,  soltanto cinque anni dopo il ragazzo è diventato uomo, la sigaretta tra le labbra, il volto deciso, in una composizione cromatica elaborata. L’inquadratura presenta una rilevante particolarità stilistica, più che la sciarpa e l’ombrello evidenziati nel titolo, esprime la ricerca di una prorompente espressività con la giacca dalle grandi pieghe chiaroscurali e soprattutto con le mani in primo piano che sembrano uscire dal quadro.

Analogo effetto-rilievo nella sedia sulla sinistra in “Gente nello studio”, 1938, con i colleghi pittori Antonietta Raphael Mafai, Mario Mafai, Aldo Natili, Armando Pizzinato, sdraiati su un letto, mentre Mimise, conosciuta dall’artista l’anno precedente,  è seduta  nell’angolo sinistro, in un atteggiamento compunto, più che conversare sembrano riposarsi. 

Nello stesso 1938 irrompe la pittura “rivoluzionaria” con “Fucilazione in campagna”, forse destinato a tradursi in un’opera di grandi dimensioni, preparato da disegni molto espressivi: ne sono esposti due, “Prima idea della fucilazione in campagna”,dell’anno precedente, in primissimo piano i visi dei  due ceffi con i fucili spianati verso la figura eretta e dignitosa del condannato, mentre il secondo, “Studio per fucilazione in campagna”  dal punto di vista compositivo anticipa abbastanza fedelmente l’opera compiuta, sulla sinistra tre fucilatori, a destra tre vittime, in mezzo dei corpi a terra; nel quadro finale le figure contrapposte sono due e non tre, inoltre ce n’è una per parte in camicia bianca, che dà uno straordinario rilievo alla vittima orgogliosamente eretta, mentre l’atmosfera si fa livida e fredda.  

Saltiamo alcuni anni, è del 1942 il piccolo disegno “Fucilazione a Roma”, anche qui la cupola di San Pietro sullo sfondo che identifica la città, senza altri significati,  7 fucilati e 3 tedeschi questa volta con elmi e cappotti, e i fucili spianati, tra i due gruppi di figure i corpi a terra delle vittime giustiziate; del 1944 il dipinto “Fucilazione di patrioti”, non esposto, come al solito corpi a terra, in primo piano e non tra i fucilatori e i fucilati, solo i secondi si vedono, 3 figure in piedi, erette orgogliosamente, la figura a destra è bianca, sullo sfondo un altro ucciso accasciato a terra.

Fino alla”Fucilazione di partigiani. Piccola fucilazione”, 1952,  ripresa nel momento cruciale, non si vedono i fucilatori, ma i fucilati che sembrano abbattersi ad uno ad uno al suolo coperto da altri corpi, è il culmine della drammaticità per il momento in cui viene colta la loro morte.  

Abbiamo citato ora queste opere precorrendo i tempi per collegarle alle altre fucilazioni dipinte da Guttuso,  sono trascorsi circa 15 anni dalla “Fucilazione in campagna”.

Torniamo indietro negli anni, al 1938-39, non possiamo ignorare un’opera non esposta in un certo senso “rivoluzionaria” anch’essa, “Fuga dall’Etna”,  presentato alla II edizione del Premio Bergamo: è una straordinaria composizione di grandi dimensioni, un groviglio drammatico di figure in fuga, uomini frenetici, donne seminude, un cavallo imbizzarrito, altri animali, una sedia rovesciata bene in vista, un cromatismo cupo come lo spavento diffuso nei volti e nell’atmosfera. Non sembra una catastrofe ambientale provocata dal risveglio del vulcano, quanto la metafora dell’ingiustizia e della sopraffazione dei deboli da parte di un potere cui non si può resistere.

Le opere immediatamente successive confermano l’alternanza tipica tra l’impegno politico-sociale anche nell’arte e il “privato” che non ha mai trascurato, anche per questo è ben lungi  dal “Realismo socialista”, e del suo massimo esponente, Deineka, le cui opere erano dedicate all’uomo nuovo nato dalla Rivoluzione d’ottobre, con la mistica del regime celebrata attraverso il lavoro e lo sport.  Guttuso non celebra, denuncia, e  mantiene sempre la propria sfera personale, come momento necessario di ripiegamento su se stesso per dare nuovo slancio alle sue denunce pittoriche in dipinti di grandi dimensioni.

Due disegni del 1939  sono del tutto disimpegnati, uno è per la “Copertina de ‘La Pietra lunare’ di Tommasa Landolfi”, l’altro è il  “Ritratto di Umberto Morra” mentre legge,  con il viso tratteggiato anche sulla sinistra in un primo piano di meditazione.

Per il1940 vediamo esposte  2 nature morte e 2 con figure femminili, “Candela e pacchetto di Tre stelle” e “Natura morta con lampada” sono per qualche verso assimilabili: due tavoli con tovaglia o sfondo rosso, in entrambi lo stesso cestino di vimini e la medesima caraffa per il caffè, in più nel primo una candela e un fiasco, nel secondo una gabbietta rovesciata  e un bucranio, il teschio smozzicato,  con  la lampada blu in posizione asimmetrica in alto, sembra di vederla oscillare. Non c’è l’ordine e la staticità delle nature morte, ma un movimento – le sigarette sparse, la gabbietta rovesciata oltre alla lampada –  che esprime agitazione, non una visione asettica e serena.

Sono interni chiusi, mentre dietro alle due figure femminili ritratte si intravedono delle aperture, così in “Ritratto di Mimise col cappello rosso”, che l’artista definì  “Ritratto del cappello rosso” per la prevalenza che ha con la larga falda e il colore che si ripete nella camicia, interrotto soltanto dal bianco della collana e del fiore appuntato sul petto di Mimise dall’espressione assente a capo chino; mentre in “Nudo sdraiato” la figura femminile è addormentata in posizione invitante, il braccio destro dietro la testa che poggia sul cuscino, la mano  sinistra sul viso quasi a ricongiungersi con l’altra mano, la coperta rossa  su cui il suo corpo è disteso richiama il rosso del “Ritratto di Mimise”, la sedia che si intravede dopo il letto sembra simile a quella dietro alla natura morta.

Giuliano Briganti osserva che “chi conosce bene Guttuso, chi ha famigliarità con il suo carattere, sa cosa vuol dire per lui dipingere un ritratto perché sa cosa vuol dire per lui essere realista. Sa cioè che equivale a vivere il rapporto con le cose e il rapporto con se stesso. Ed è chiaro che dipingere un ritratto è dare testimonianza del proprio incontro con un altro”, un’altra in questi casi.

Si è arrestato, dunque, l’impegno “rivoluzionario” nel ritorno al “privato” dei 4 dipinti del 1940? A prima vista sembrerebbe di sì, inoltre nello stesso anno ha avuto l’incarico di dipingere una “Crocifissione”  destinata ad essere appesa nella parete dietro al letto del committente. ma non andò così. Guttuso voleva farne una metafora delle sopraffazioni presenti e non sarebbe stato possibile con la destinazione iniziale, invece la situazione cambiò radicalmente quando la commessa fu rilevata da un collezionista fiorentino che aveva apprezzato le sue opere di denuncia, e lo lasciò libero di esprimersi. Nacque l’opera – non presente in mostra – che fece scalpore anche se nella realizzazione finale non attuò il suo proposito, evidente invece in alcuni studi preliminari. 

In uno di essi il sacrificio avviene in una stanza come metafora delle tante sopraffazioni oscure e silenziose, nello “Studio per la Crocifissione”, che troviamo  esposto, un aguzzino a cavallo ha il volto inconfondibile di Hitler e c’è sullo sfondo la cupola di San Pietro,  un’allusione che abbiamo ritrovato nella “Crocifissione” di Botero con i grattacieli di New York sullo sfondo, chiara denuncia  in entrambi di chi ha crocifisso Cristo. .

Sebbene non attuasse questi propositi, la figura femminile nuda che si stringe alle gambe di Cristo coperte da un lenzuolo sulla croce suscitò scandalo, la mostra fu chiusa in anticipo, e  il premio Bergamo voluto da Bottai  alla sua terza edizione,  non si tenne più, l’opera si classificò seconda, risultato ritenuto da alcuni critici insufficiente, un’opera così straordinaria meritava il primo premio.

Enrico Crispolti sottolinea l’importanza dell’opera anche dal punto di vista stilistico, perché “segna cioè il progressivo passaggio da un espressionismo corsivo, di fondamento naturalistico… ad un sincopato formale cromatico che più chiaramente significava utilizzare una cifra di stile, che nasceva da una certa frequentazione di tradizione cubista”.

Nel 1941 un altro piccolo disegno di denuncia, il “Guttuso rivoluzionario” è sempre presente: “Esecuzione” mostra una figura maschile a capo chino, un pugnale acuminato incombe sulla sua testa, anticipa di oltre settant’anni le tragiche immagini delle vittime inermi dell’Isis sotto la minaccia mortale dei tagliagole, è un disegno di denuncia politica ben precisa, con la svastica sullo sfondo e il fascio con la scure bipenne sulla destra conficcato su un corpo senza vita  a terra.

Contemporaneamente torna il privato, dopo le  nature  morte in ambienti chiusi  e i ritratti con vaghe aperture, diventano protagonisti finestre e balconi anche nei titoli: “La finestra blu”, sempre del 1941,  è di sfondo, tanto scura da non mostrare l’esterno, mentre il primo piano è formato da due grandi fiaschi, uno rovesciato e una brocca, sul solito panno rosso, mentre “Balcone”, 1942,  è in effetti lo sfondo, con la persiana semiaperta, di una scena animata, l’uomo con occhiali legge il giornale  vicino alla ringhiera, la donna in sottoveste, richiama il “Nudo sdraiato” del 1940, addormentata con la testa sul tavolino coperto di panni su cui si abbandona seduta in modo scomposto su una sedia.   

Ancora più in evidenza l’esterno in “Donna alla finestra”, 1942, la figura, con la consueta camicia rossa, è affacciata su uno sfondo di case che sembrano entrare nella stanza, mentre in primo piano un tavolino sul quale sono affastellati un libro e un taccuino, tre bottiglie morandiane, un teschio bucranico e delle carte, a lato la seggiola impagliata già vista in “Gente nello studio” e in “Natura morta con lampada”.

L’artista sembra cercare spazio per la sua inquietudine, che appare  evidente  in“Autoritratto” del 1943, nel rosso  mattone particolarmente intenso del volto, del petto e delle braccia in contrasto con il viola della camicia, gli occhi quasi spiritati dinanzi a qualcosa che lo  allarma; c’è come una rivoluzione cromatica, il colore sarà sempre più determinante nella sua pittura.   

Del resto siamo nel pieno della guerra, è impegnato nella milizia clandestina, il  “Guttuso rivoluzionario” lo ritroviamo nello stesso anno in “Massacro”,  un ammasso di corpi  a terra , con molte mani quasi nella richiesta di aiuto, il colore è livido, l’atmosfera di indicibile orrore.

E non possiamo non citare “Battaglia” e “Piccola battaglia“, degli stessi anni, con il cavaliere disarcionato e il cavallo bianco disteso a terra. Questi due opere non sono esposte, mentre è presente  un disegno del 1944 della serie “Gott Mit Uns”,  che cominciò a realizzare in Liguria, dove si era rifugiato presso il collezionista Della Ragione per sfuggire alla cattura da parte della polizia politica che era sulle sue tracce. Completò la serie al rientro a Roma, tra il 1943 e 1944, per esporla a guerra finita nel 1945 pubblicando un album di 20 disegni sui rastrellamenti, le torture e le  uccisioni dei nove  mesi di occupazione nazista di Roma culminata nel massacro delle  Fosse Ardeatine; l’artista li considera azioni e non dipinti rivoluzionari, per averli eseguiti in modo clandestino.

Al Vittoriano, cinque anni fa, la mostra sull’ “infamia tedesca” ha usato l’aggettivo più appropriato essendo le forze di occupazione di un paese e non di un partito politico, altre mostre al “Museo della Shoah” hanno esplorato i tanti aspetti di una aberrazione senza fine. Basta il disegno esposto, insieme alla copertina “Gott Mit Uns di Renato Guttuso” , del 1945, dell’esemplare n. 269 sui 715 esemplari numerati, impressionante per la sua forza espressiva, a evocarne l’efferatezza.  

Del 1945 anche il “Disegno per la copertina di ‘Gli indifferenti’ di Alberto Moravia”, lo scrittore che gli fu molto vicino: rappresenta una giovane donna nuda in piedi nella sua stanza che si guarda riflessa su un grande  specchio rotondo, potrebbe essere l’immagine dell’Italia smarrita come nel celebre quadro risorgimentale di Hayez: il romanzo, uscito nel 1929,  aveva allarmato il fascismo e non solo prchè Moravia era di origini ebraiche e cugino dei fratelli Rosselli.  Poi rappresenta l’Italia nell’iconografia della giovane donna con la testa turrita avvolta da un lungo abito scollato nella china su carta “Il voto del 18 aprile”, è insidiata da serpi saettanti con lo scudo crociato democristiano, mentre lavoratori sullo sfondo operano e vigilano: è il 1948, le elezioni segnarono la grande vittoria della DC e la sconfitta del Fronte popolare, qui però non rappresentato.      

Torniamo al 1947,  sono i primi anni della ricostruzione, con “Massacro degli agnelli”la denuncia si sposta al mondo animale, è una composizione di grande forza espressiva, al centro la figura umana che affonda il coltello nel corpo inerme tenuto da altro uomo ha un’espressione sadica, evidente la metafora. C’è una scansione cubista, che troviamo in forma ben più pronunciata nello stesso anno in “Marsigliese contadina”, un olio su carta intelata in una inconsueta bicromia, nero a marcare gli spazi, grigio a dare forma alle figure che incedono con bastoni e altri arnesi, non mancano donne e bambini.

In parallelo con questo dipinto abbiamo “Occupazione delle terre”, dal cromatismo caldo  e acceso, con un’evidente assonanza al precedente, anche qui in marcia con donne e bambini, un “Quarto stato” che non si accontenta di mostrare la sua forza tranquilla, ricordiamo come Guttuso nel dibattito a Bologna del febbraio 1974 sull’opera  “Funerali di Togliatti” ebbe a stigmatizzare il fatto che il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo “vada a finire in cantina” per mancanza di spazio. Mario De Micheli osserva: “Quando si osserva la Marsigliese contadina, eseguita verso la fine del ’47, e la si confronta col quadro finale dell’Occupazione delle terre la diversità delle soluzioni stilistiche salta subito agli occhi”, nel secondo, successivo, il “velo” cubistico alla realtà è del tutto lacerato.  

Nel piccolo disegno a inchiostro “Mani studio per occupazione delle terre”,  le grosse dita in primo piano, strette su un bastone,  indicano la cura dei particolari cui attribuiva un valore simbolico, qui il lavoro manuale.  Mentre  l’acquerello “Studio per l’uccisione del capolega”  evidenzia la vicinanza alle lotte del mondo del lavoro, con i sindacalisti in prima linea.     

Guttuso non è tranquillo neppure nel ripiegamento sul privato:  in “Natura morta con la scure”   – è sempre il 1947 – la stessa presenza  di quest’arnese così violento esprime il sentimento interiore dell’artista, mentre con “Cucitrice”  l’impronta cubista è ancora più accentuata, come la svolta cromatica verso contrasti sempre più violenti, il blu e il rosso, il rosa e il viola, il bianco e il giallo. Il disegno a inchiostro blu  “Tre figure”, invece , è un viluppo grafico con allusioni a De Chirico.

Oltre al già citato “Il voto del 18 aprile”, nel 1948  troviamo altri disegni di impegno politico, dalla tempera  “Lotta dei minatori francesi”, con echi cubisti, all’irridente acquerello “Omaggio al generalissimo Franco”, ritratto con le corna; il disegno a matita “Ritratto di Quasimodo, Mrs. Cotton e Vittorini” ne esalta la fermezza, come un invito alla mobilitazione.

Figure “neutrali” nel 1950  con il “Ritratto di Diego Rivera” e il “Ritratto di Picasso”, due grandi volti, calligrafico il primo, fortemente marcato il secondo, del resto era per lui un maestro; ma è quanto mai aggressivo “Avvoltoio del Pacifico”, il volto dell’uccello che si ciba di cadaveri ricorda  Mc Arthur, simbolo dell’imperialismo americano. Anche nel 1958-59 abbiamo due disegni opposti, “Ritratto di Erenburg”, sereno, dal tratto sottile,e “Massud”, che saluta beffardo di schiena, col mitra e in tuta mimetica, si tratta del generale francese incaricato della repressione in Algeria.  

“Pesca del pesce spada”, 1949, è un soggetto naturalistico che dovrebbe risultare in qualche misura neutro, manifesta invece uno slancio aggressivo nei pescatori protesi in avanti con l’avvistatore in alto,  non sembrano inseguire quella preda ma puntare a qualcosa di più  importante e decisivo.. Si sente che c’è dell’altro, e in effetti, sappiamo che sta lavorando al grande dipinto, dello stesso anno, non esposto in mostra,  sull’“Occupazione delle terre incolte, un’immagine quasi biblica con un esodo nel quale tante figure si muovono in marcia verso una terra promessa che è in effetti una terra dovuta a chi può valorizzarla con il proprio lavoro e trarne il sostentamento invece di lasciarla improduttiva per compiacere l’accaparramento atavico dei latifondisti. E’ come un anticipo rivoluzionario della Riforma agraria che, vista in questa luce, non fu una concessione della politica, ma una conquista delle lotte precedenti.

Nello stesso 1949 alcuni piccoli disegni a china molto espressivi: “Composizione Lenin a Capri, Omaggio a Velasquez, partenza delle spadare”,  riunisce temi diversi con una grafica penetrante, Lenin è ritratto a letto, in primo piano la tavola apparecchiata, sulle barche  in movimento l’annotazione “ore 5 di un giorno di fine agosto, sole in declino, cielo giallo, paesaggio contro luce”, forse destinata a una successiva trasposizione pittorica.

Un altro disegno,  “Finché è figurativo”, esprime visivamente la sua concezione con la scritta in alto amaramente ironica “finché fu figurativo – d’ingegno apparve privo, or, diventato astratto, – ha dato scacco matto”, ritrae due artisti che di spalle dipingono, a sinistra il figurativo curvo con la tavolozza a terra mostra lo sforzo creativo, a destra l’astrattista eretto con il braccio teso evidenzia invece la presunzione unita alla superficialità.

Anche in “Venturi saggio su Afro” e “Nobile arte è il dipingere”, sono delineate due opere sul cavalletto con le scritte  speculari: “Il ritratto dell’uomo che vien fuori dalla sua pittura dimostra, mi sembra, che l’espressione è valida”, e “nobile arte è il dipingere a condizione che suo soggetto sia il nulla”: ritroviamo l’amara ironia di “finché fu figurativo”, la lingua batte dove il dente duole.

La cronaca gli suggerisce i temi della denuncia, lo abbiamo visto nelle opere prima citate, con un’eccezione significativa, il primo grande “dipinto di storia” –  come sarà poi i “Funerali di Togliatti” – ma questo è storico anche nella visione distanziata nel tempo: Si tratta di “La battaglia del Ponte dell’Ammiraglio” tra i garibaldini e i Borboni, siamo nel 1848, é una composizione magistrale realizzata nel 1951-52 come risultato di studi e prove con bozzetti, fece posare anche suoi amici vestiti da garibaldini e borbonici, la cura si nota nelle posizioni dei militari improntate a un estremo dinamismo. Ne fa altre versioni negli anni successivi, una ha arredato il centro di formazioner del Partito comunista alle Frattocchie. E, chiaramente evocativa e paradigmatica della lotta vittoriosa contro ogni oppressione, spicca la figura di Garibaldi a cavallo, con la sciabola sguainata, il capo dà il buon esempio, con la tensione dei singoli combattenti al diapason: in mostra  è esposta l’edizione del 1955 di 3 metri per 5 metri..

Siamo ora nel 1953, sono esposte due opere affini stilisticamente ma dal contenuto opposto, pur se entrambe espressive del realismo di Guttuso, che coglie l’immediatezza della realtà nei suoi aspetti anche contraddittori. In  “Boogie-Woogie”  il ballo di importazione americana con i giovani stretti in una stanza  angusta, più ragazze che ragazzi, una sulla destra in solitudine seduta a un tavolo con lo sguardo nel vuoto, la sigaretta nel portacenere, intorno la danza scatenata.

Mentre   “La zolfara”  offre un’immagine di una drammaticità sconvolgente della sua Sicilia, la  terra giallastra imbevuta di zolfo fa tutt’uno  con i corpi nudi scheletrici dei minatori in un girone infernale che suscita raccapriccio; nel quadro non esposto “Piccolo zolfataro” lo sfruttamento dell’infanzia  si aggiunge drammaticamente allo sfruttamento del lavoro.

Dello stesso anno  “Portella della Ginestra”, non esposto, la strage mafiosa dei lavoratori accorsi per la festa del 1° maggio è evocata con poche figure riverse a terra e altre terrorizzate in una composizione di  indicibile drammaticità, la figura femminile riversa sulla destra tra le braccia del suo uomo che cerca aiuto resta impressa, al centro due cavalli travolti nella strage come un sigillo immancabile.Sono del 1956 i “fatti d’Ungheria”, abbiamo ricordato nella nota introduttiva la sua adesione alla linea del partito che giustificò la repressione, 3 disegni in inchiostro e china esposti nella mostra esprimono il suo sgomento e le sue incertezze: “10 novembre 1956” presenta una scena orripilante con una testa mozzata in cima a una lancia e uno sventurato appeso per i piedi con altre figure agitate, forse di rivoltosi; ma “Erano davvero colpevoli?” insinua il dubbio sulla sua adesione, e “Restano solo i morti” suona come una condanna delle uccisioni, in entrambi corpi senza vita.

Ebbene, il 1956 è l’anno anche del grande dipinto “La spiaggia”, non esposto, presentato alla Biennale di Venezia, che rappresenta uno spaccato dei nuovi costumi della società e il suo realismo “privato” doveva documentarli, come faceva il suo realismo “rivoluzionario” per gli eventi drammatici, in entrambi i casi si trattava della realtà nella sua personalissima visione di artista.

Prima del 1960  tre opere molto diverse e inconsuete:  “Tetti a Velate d’inverno”, 1957, una vista dall’alto di tanti tetti rossi attraverso  un albero estremamente ramificato, veramente geniale; del 1959 “Nudo sdraiato (Grande nudo), che sorprende perché quasi scarnificato e per di più disteso su un qualcosa che non suggerisce certo morbidezza, nella fase terminale della sua vita troviamo opere analoghe, qui sembra una drammaticità prematura. Del 1959 anche “Lenin”, la sua caratteristica testa dall’espressione corrucciata, con un fondo a metà rosso e nero, lo ritroveremo presente più volte nei “Funerali di Togliatti” per il significato della sua presenza pervasiva nella storia e nell’immaginario collettivo comunista.

Lo vedremo prossimamente nel commentare le opere successive esposte in mostra, dal preciso riferimento politico, fino al termine dell’impegno pittorico di tipo “rivoluzionario”. 

Info

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Magenta 31 – Torino. Da martedì a domenica ore 10,00-18,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12, ridotto euro 9 . Info tel. 011.0881178 e 011.4429518.. Catalogo “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68”, a cura di Giovanni Castagnoli, Carolyn  Christov Bakargiev, Elena Volpato, marzo 2018, pp.270, formato 24 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  14 luglio u. s.,  il terzo  e ultimo uscirà il 30 luglio p.v.  Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per le  mostre romane sull’artista, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 25 e 30 gennaio 2013; su “Picasso” 5 e12 dicembre 2017, 6 gennaio  2018, “’68, è solo un inizio…” 21 ottobre 2017, l’ “infamia tedesca”  e altre mostre sul tema 24 novembre 2013, 19 aprile 2017, 5 giugno e 27 gennaio 2014, “cubisti” 16 maggio 2013,  “astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012, “Deineka” 26 novembre, 1 .e 16 dicembre 2012;  in  cultura.inabruzzo.it su ““Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, sui “lager nazisti” 27 gennaio 2010, su  “Picasso”  4 gennaio 2009 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli verranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della “Silvana  Editoriale”, che si ringrazia insieme ai titolari dei diritti. Sono alternate immagini di opere di ispirazione “rivoluzionaria” con opere di ispirazione “privata”. In apertura, “Massacro” 1943; seguono, “Donna alla finestra” 1942, e “Massacro d’agnelli” 1947; poi, “Balcone (figure tavolo e balcone)” 1942, e “Occupazione delle terre” 1947; quindi, del 1947, “Natura morta con la scure”, e “Marsigliese contadina”; inoltre, “Cucitrice” 1947, e “Fucilazione di partigiani (piccola fucilazione)” 1952; infine, “La pesca del pesce spada” 1949, “Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio” 1955, e “Boogie-woogie” 1953; in chiusura, “La zolfara” 1953.

Guido Montauti, nel centenario: 3. Dagli esordi alla svolta plastica

di Romano Maria Levante

Rievochiamo l’itinerario artistico, intrecciato alla vicenda umana, attraverso la mostra, promossa dai comuni teramani di  Bellante, Fano Adriano, Pietracamela e Roseto degli Abruzzi,  “Guido Montauti. ‘Un percorso di creatività. Cento opere nel centenario della nascita” a Roseto degli Abruzzi (Te) dal 6 giugno al 6 luglio 2018, ricordando anche opere esposte in mostre precedenti (quelle dell’esposizione attuale sono in corsivo grassetto rispetto al semplice corsivo delle altre citate). In questo terzo articolo seguiamo l’artista negli “esordi” e nelle prime grandi mostre, dalla travagliata fase bellica alla Liberazione del 1945, fino all’inizio degli anni ’50 alla vigilia del periodo parigino; questa fase iniziale del suo percorso artistico è oggetto delle mostre a Fano Adriano e a Ripattoni Te) dal 13 luglio al 31 agosto. Nei due articoli precedenti si è delineata la sua qualità umana attraverso i nostri ricordi personali e la sua ;figura di uomo e di artista attraverso i giudizi della critica più recente; i prossimi due articoli saranno dedicati alle fasi successive, dal  periodo parigino alle Pitture rupestri, dal “Pastore bianco”, alle fasi verso l’astrazione, con i “cespugli” e le“bande oblique” fino alla rarefazione del “Periodo bianco” con l’“Empireo” ; l’ultimo articolo al recupero delle Pitture rupestri.  Catalogo EditPress srl di Castellalto (Te) per conto dell’Associazione Ambasciatori del Centro Italia.  

Il contadino e le donne”, 1948

Ci accingiamo a ripercorrere, attraverso la mostra, il suo itinerario d’arte e di vita ricordando che Guido Montauti è nato il 25 giugno 1918 a Pietracamela, il “nido delle aquile” alle falde del Gran Sasso d’Italia, ha tenuto la prima mostra personale a 18 anni, nel 1936,  nel ridotto del Teatro Comunale di Teramo – il capoluogo di provincia – e nello stesso anno ha partecipato alla III Mostra Regionale Sindacale a Pescara; nell’anno successivo a luglio ha esposto alla Mostra provinciale d’Arte pura ed applicata, e nel 1938, a 20 anni, in una nuova mostra personale al Teatro Comunale di Teramo. 

Arruolatosi volontario come allievo ufficiale al 28° Reggimento Fanteria di Ravenna il 13 dicembre 1937.  nell’ottobre 1939, ufficiale di complemento, si imbarca per l’Albania e vi resta fino all’aprile 1943, segnalandosi per le gesta compiute tanto da venire decorato con la croce di guerra al valor militare  il 4 aprile 1941. Non lascia la pittura neppure in questi anni, pur tra evidenti difficoltà, anche in Albania riesce a dipingere numerosi acquerelli e oli forzatamente di piccole dimensioni.

Le  operazioni belliche  lo portano dall’Albania alla Grecia,  dall’Austria alla Germania, fino alla Francia, per sette lunghi anni, molti dei quali in prima linea.  Giulio Bedeschi ricorda il suo coraggio unito a un carattere sempre pronto all’umorismo nel libro “Fronte greco-albanese – c’ero anch’io”. Nell’aprile del 1943 va in licenza e sposa Adelaide Di Iorio, che diventerà professoressa di Storia dell’Arte al Liceo Classico di Teramo e gli darà due figli, Giorgio e Pierluigi che si sono prodigati nel mantenere alto il ricordo del padre mobilitandosi anche per la mostra attuale e le altre celebrazioni del centenario.

“Natura morta con bottiglie”, 1945

Termina con la licenza l’impegno militare che si protrae ormai da sei anni? Tutt’altro, al comando di  una compagnia di fucilieri fa da scorta al  Re Vittorio Emanuele III a Crecchio pochi giorni prima dell’8 settembre. Poi, preso prigioniero dai nazisti l’8 febbraio del 1944, viene deportato in Francia passando per la Germania,  ma l’8 maggio evade  con il capitano Renato Molinari;  il rischio è molto elevato, il capitano verrà fucilato, lui riesce a scamparla e si unisce alle forze francesi dell’interno, i celebri “maquis” combattendo con loro  fino a settembre. Poi il ritorno a casa.

Non ne parlava mai pur se questo qualificava la sua caratura di cittadino oltre che di artista, lo sosteneva l’anelito per la libertà, il suo era uno spirito disincantato ma non esitava  a mobilitarsi per valori superiori.  

 Gli esordi dall’inizio degli  anni ’40 alla Liberazione del 1945

All’esordio, anzi agli “Esordi”, la mostra dedica la 1^ sezione con 20 opere esposte. Riflettono questo periodo tormentato, dai venti di guerra alla tragedia di un conflitto mondiale devastante, nel quale, come abbiamo detto, dipinge piccoli oli e delicati acquerelli con qualche influsso morandiano: sempre lontano dalla tradizione accademica ma senza appiattirsi sulle avanguardie, né sull’astrattismo, convinto della validità delle scelte figurative in una accezione molto personale che lo pone al confine con l’informale. Un anti-accademismo il suo che, lo ribadiamo, gli fa superare le categorie tradizionali dell’opera pittorica, dalle superfici ai materiali, attento all’alta qualità del risultato finale.  

“La passeggiata dei prigionieri”, 1944

 Ne abbiamo un riflesso artistico in uno dei 7 acquerelli esposti del 1943, veramente l’esordio nel mondo dell’arte con “L’assalto”, un drammatico protendersi di corpi tra linee spezzate in una forte tensione dinamica sulla sinistra dove c’è il nemico, lo si sente anche senza vederlo.  Poi, 9 corpi femminili, più che protesi, offerti nella loro nudità in “Il lago della follia”, forse onirica, il sogno erotico del soldato…

Siamo sempre nel 1943, quando dipinge Il ritorno alla normalità naturale in “Natura morta con pere”,  dai tratti morandiani nella linearità dei contorni e nella purezza delle forme, “Paesaggio” , un intrigo verde e bianco di alberi e rami  in cui si intravedono forme fluttuanti e al centro una costruzione; è la premessa a “Pietracamela”, un panorama che sembra scolpito del “natio borgo selvaggio” nel quale si distinguono nettamente le  case dell’agglomerato urbano, la piazza, il grande masso di Vena Grande che sovrasta l’abitato. 

Tutto  in delicate tonalità pastello fino al rutilante “Vaso con fiori”, dove invece domina il rosso in un puntinismo quanto mai intenso al servizio di una composizione spettacolare.  

Ballo in maschera”, 1945

Su questi temi torna l’anno successivo, il 1944: le forme naturali in “Natura morta con zucche gialle”, immerse tra grandi foglie verdi, il paesaggio  in “Casa con paglia”  che si delinea appena in una campagna di cui sembra condividere forme e volumi, l’impegno attivo al posto del dinamismo drammatico del già citato “L’assalto” in “Folla in corteo”, una presenza compatta, forte del numero e della determinazione con cui procede inalberando i suoi vessilli. Mentre in “Corteo” lo stesso tema viene declinato in modo speculare, sembra quasi il negativo del precedente, le figure con i loro vessilli appena distinguibili immerse in una caligine grigia che sembra inghiottirle e sopraffarle. Con il diapason della drammaticità  in “La passeggiata dei prigionieri,”  quasi il risvolto negativo del precedente  “L’assalto”, una visione dantesca del mesto incedere in circolo nell’ora dell’aria, una litania silenziosa di disperati sotto un cielo plumbeo e opprimente.   

Nel 1945 un’esplosione di opere. La sua pittura acquista un forte impasto materico, di tipo fauvista e in qualche caso con marcature segniche alla Rouault, ma senza derivazioni dirette; la sua cultura artistica lo porta ad assimilare gli influssi in un forte impianto compositivo e un’intensa resa cromatica, le immagini sono in un equilibrio esemplare, lontane dal figurativo in senso stretto.  Quasi  come sigillo personale all’anno della Liberazione raffigura se stesso in due “Autoritratti”,  ha 27 anni,sempre con un cappello triangolare in testa, il volto atteggiato ad espressioni diverse: quasi di sorpresa nell’acquerello con la dominante viola della giubba, di riflessione nell’olio su tela di maggiori dimensioni con pesanti addensamenti cromatici tendenti allo scuro. Non sappiamo se precedono o seguono il 25 aprile, ma siano orientati a ritenerli precedenti, dato che non si avverte nessun senso di liberazione, tutt’altro, sembra  sentire ancora il peso degli eventi drammatici.

“Il brindisi”, 1947

Esplode invece l’esultanza nel  “Ballo in maschera”, dove c’è anche la liberazione dalle vesti, nelle 4 coppie che ballano, e nelle 2 vicine ai tavolini, una seduta e una in piedi, la donna è nuda e l’uomo è una sagoma nera, in una delle coppie danzanti la sagoma nera si allontana sostituita da un’altra donna svestita. Nudi anche i due suonatori sul cubo che con i loro tamburi danno il ritmo alla danza mentre  un vessillo svetta sulla quinta teatrale in uno sfondo verde che evoca montagne lontane.

L’acquerello delle opere della guerra è un ricordo, da ora quasi soltanto oli anche se non solo su tela, e con qualche eccezione. Come sono un ricordo i temi  sui cortei e i prigionieri, subentra la riconquistata serenità.

Sono 4 le nature morte esposte di quest’anno cruciale sul piano umano e artistico, 2 con le bottiglie che non potevano mancare –  Morandi nel 1962 gli invierà una lettera di apprezzamento dei suoi disegni – 2 con vasi e libri.  Del primo tipo vediamo “Natura morta con vaso di fiori, bottiglie e panni”  e  “Natura morta con bottiglie”, ben delineate e dai colori netti che spiccano sul fondo giallo-verde; del secondo tipo “Natura morta con fiori e panni appesi” e “Natura morta con vasi, libri e candelabro”, i titoli dicono tutto, i vasi sono più elaborati delle bottiglie, nel primo in 4 vasi si riconosce il caratteristico “fioraccio” della ceramica di Castelli, il borgo nella provincia teramana che eccelle nell’artigianato artistico. 

“Il poeta in montagna”,1947

 Serenità anche in “Case senza sole”, un abbraccio al paese natale in uno scorcio ben riconoscibile con scalette e archi, usci e finestre socchiuse, una piazzetta silente e deserta; un’atmosfera metafisica anche se mancano le ombre taglienti e le figurine isolate; c’è quel clima di attesa che si sente nella “Città ideale” e concorre a darle il suo fascino indescrivibile.

Il sole non si vede ma si sente in un altro abbraccio nell’anno della liberazione, quello con la natura. Ne nasce la “Composizione di 20 piccoli oli”, cm. 71 x 120 in tutto: sono bozzetti nei quali trionfa la vegetazione, gli alberi fronzuti con i colori delle diverse stagioni, dal verde al giallo ruggine, c’è anche un lago con la barchetta. Sì, ora la liberazione è completa anche per l’artista.

Il decennio 1946-57, le grandi mostre a Venezia, Milano, Parigi

Prende avvio  una stagione di intensa temperie artistica, continuano opere di chiara ispirazione dai grandi maestri prediletti, ma nel breve giro di un triennio la prima svolta, comincia a definirsi la sua caratteristica impronta plastica mentre anche i contenuti si focalizzano sui temi che saranno un suo sigillo personale.Siamo nella 2^ sezionedell’esposizione del centenario, presenta 33 “Opere in mostra a Venezia; Milano, Parigi”  nel periodo 1946-1957, un decennio di maturazione artistica, dopo la fase degli “Esordi” che abbiamo visto contenuta nell’agitato  triennio bellico 1943-45., mentre cominciò a dipingere nel 1935 a 17 anni e tenne le prime mostre a Teramo nel 1937 e 1938, poi il richiamo alle armi nel 1939 che, pur limitando molto la sua pratica artistica, non la arrestò del tutto.   

“Carnevale (studio)“, 1948

Già nel 1946, l’anno dopo la fine alla guerra, espone a febbraio a Milano nella galleria “Casa degli artisti” e partecipa alla collettiva sul “Lavoro ed il sacrificio per la libertà” al Castello Sforzesco, soggiorna sei mesi nel capoluogo lombardo dove viene presentato a Carlo Carrà. Inizia uno stretto rapporto di amicizia con il pittore di Teramo Giovanni Melarangelo e con lo scultore Amilcare Rambelli

Di tale anno 2 opere che definiremmo preparatorie, “Maternità” e “Natura morta  con la maschera (studio)”,la forma è definita dal colore, verde e azzurro nella seconda con tonalità molto scure. L’anno successivo  – siamo nel 1947 – a gennaio partecipa al Premio Domira con un disegno giudicato meritevole di essere esposto alla galleria del Naviglio a Milano; nel mese di ottobre è al Premio Michetti.

“Colazione in campagna (studio)”, 1949

Si dedica alla figura umana dalle chiare ascendenze nei corpi nudi di “Colazione nel bosco”, un “dejuneur sur l’erbe”  particolare con figure sedute e sui rami in una composizione movimentata; e in “Il brindisi”, figure anch’esse nude con le braccia distese che nell’accostare i bicchieri compongono una diagonale nel quadro su cui una figura volteggia alla Chagall;; mentre è statica “Eva e lo spauracchio”, con  una croce e dei simboli in un clima di allucinazione. La serenità torna con “Il poeta in montagna”, seduto tranquillamente tra l’esplosione cromatica in cui sentiamo trasformarsi i suoi versi. 

Mostra personale a Venezia, nell’ottobre 1948, alla “Galleria Sandri”, conosce Vedova e Santomaso, Viani e Breddo e diviene amico del critico Virgilio Guidi.   E’ un anno dall’ampia produzione pittorica e dall’evidente evoluzione artistica: esplosione cromatica con la figura umana che prende sempre maggiore consistenza, passando dalla “Donna che coglie fiori” dall’assonanza chagalliana, ma con un effetto rilievo del tutto  originale – a “Le donne e il mago”,con la barba bianca che spicca tra verdi e rossi, blu e viola shocking, da ““Il contadino e le donne”, sei figure allineate in modo dinamico con colori diversi, tutti intensi, allo studio  “Befana e spazzacammino” , un abbraccio da favola pieno di colori.

“Le quattro amiche”, 1948, la svolta plastica

 Come lo sono i due “studi”, “Carnevale” e “Anno  ‘48”, il primo con la novità degli animali, che diventerà la regola, il secondo con l’attesa messianica a piedi nudi del nuovo anno.  Poi nello studio “Sciatore che vola” torna l’immagine chagalliana, la vediamo mentre incombe sulle due figure sedute che guardano in alto.  Ma soprattutto la marcia di avvicinamento a uno stile più personale ha un’improvvisa accelerazione con “Le quattro amiche”, i cui corpi acquistano una plasticità inconsueta nelle precedenti opere con figure filiformi, qui sono più che giunoniche, possenti. Nel 1949 partecipa a Pescara alla 1^ Mostra d’Arte Regionale Abruzzese.

Dopo la svolta plastica del 1948 sembra di assistere a un ritorno indietro con lo studio  “Quattro donne” e “Donne al mare”,  le figure sono del tipo di “Le donne e il  mago”, non più filiformi ma neppure plastiche come “Le quattro amiche”. Lo stesso per gli altri 4 studi sempre del 1949, “Colazione in campagna” e “I mietitori”, Lacrime verdi” e “Crocefissione”,con in comune, oltre alla forma stilistica, un insolito sigillo cromatico nel bianco di due corpi, uno piegato e l’altro in piedi, candidi come la barba del “mago”. 

“Tre mucche (studio)”, 1949

Non è una regressione rispetto alla svolta plastica, è una pausa per prendere la rincorsa, “Due figure sedute”, dello stesso anno, sono ancora più imponenti e, quel che più conta, i contorni iniziano a definire la sua forma plastica d’eccellenza. Anche lo studio “Tre mucche”  ci sembra marcare la svolta, nascono le inconfondibili sagome. 

Una sua nuova esposizione a Venezia nel marzo 1950 alla “Galleria Sandri”, dove conosce Diego Valeri di cui diventerà grande amico; nella città lagunare partecipa alla XXV Biennale d’Arte..  

In tale anno si ha conferma della svolta plastica con “Il venditore di vesciche”, la prova del nove che la via ormai è tracciata, mentre in “Uomini seduti” le forme non sono altrettanto ridondanti solo perché le 7 figure devono essere compresse per entrare nel quadro del quale riempiono interamente la superficie.

“Il venditore di vesciche”, 1950

Ma anche nel “Venditore di vesciche” le forme non hanno il gonfiore alla Botero, bensì una solidità corporea che dà forza alla loro presenza e al radicamento nell’ambiente disadorno.  Nel 1951, a gennaio, è di nuovo a Venezia, sempre nella “Galleria Sandri”, e ad aprile a Milano, nella “Galleria San Fedele”: dopo Lionello Venturi anche Virgilio Guidi ne parla, questa volta sulla “Fiera Letteraria”. 

Una serie di studi pittorici proseguono nella stessa direzione, le figure riempiono sempre il quadro dilatandosi più o meno a seconda del loro numero. Così per le 3 “Donne di Pietracamela”, i 6 “Pastori”, le 6 figure di “Corteggiamento pastorale”, accomunate dall’elemento bianco che torna a contrassegnarle, per ora è un fatto transitorio, ma al termine sarà il sigillo finale, come vedremo.  

Siamo alla vigilia del periodo parigino e dell’ulteriore escalation della svolta plastica, che culminerà nelle Pittore rupestri del “Pastore bianco”. Ne parleremo prossimamente. 

“Uomini seduti”, 1950

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti,’ un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice“Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa,  “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti, Omaggio all’artista del suo paese natale”, luglio 2001, pp. 60, formato 29,5 x 30, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti, “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e  Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti”. Catalogo “Guido Montauti”, della  Mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze, e nella Pinacoteca Civica di Teramo, Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, pp. 100, formato 28 x 29,5, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”,  Nerio Rosa“La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo.  Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. I primi due articoli del servizio sono usciti, il 1° il 13 luglio,  “Montauti, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”, il 2° il 22 luglio, “Montauti, nel centenario. 2. L’uomo e l’artista”; gli altri 3 articoli usciranno, il 4°  il 3 agosto “Montauti, nel centenario: 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”, il 5° l’11 agosto “Montauti, nel centenario: 5. Dal Pastore bianco all’Empireo”, il 6° e ultimo il 19 agosto “Montauti, nel centenario: 6. Il recupero delle Pitture rupestri”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Villa Paris, Roseto degli Abruzzi,  tranne una (la 12^) tratta dal Castalogo, si ringraziano gli organizzatori e l’Editore, con i titolari dei diritti, in nodo particolare i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, per l’opportunità offerta. In apertura,  “Il contadino e le donne” 1948; seguono, “Natura morta con bottiglie” 1945, e “La passeggiata dei prigionieri” 1944; poi, “Ballo in maschera” 1945, e “Il brindisi” 1947; quindi, “Il poeta in montagna” 1947, e “Carnevale (studio)” 1948; inoltre,  “Colazione in campagna (studio)” 1949, e  “Le quattro amiche”  1948, la svolta plastica; ancora, “Tre mucche (studio)” 1949, e “Il venditore di vesciche” 1950; infine, “Uomini seduti” 1950 e, in chiusura, “Donne di Pietracamela (studio)” 1951.

“Donne di Pietracamela (studio)”, 1951


Guido Montauti, nel centenario: 2. L’uomo e l’artista

di Romano Maria Levante 

La mostra “Guido Montauti.‘Un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”  a Roseto degli Abruzzi (Te) dal 6 giugno al 6 luglio 2018, consente di rievocare le varie fasi del suo itinerario artistico attraverso le opere esposte, integrandole con le opere più significative di mostre precedenti, in parallelo con le vicende della sua vita tutta dedicata all’arte. Nel nostro primo inquadramento generale riporteremo quanto sottolineato dal pensiero critico più recente. Questa rievocazione, nel centenario della sua nascita, è ispirata dalla mostra antologica molto curata delle varie fasi di un quarantennio di pittura in cui, nella continuità stilistica e di contenuti, si nota un’evoluzione evidente, frutto di una maturazione personale senza alcuna adesione alle tante avanguardie incontrate lungo il percorso.

La locandina della mostra

Continuità ed evoluzione è una compresenza apparentemente contraddittoria nell’artista, ma ce ne sono altrettante nell’uomo. Schivo e riservato ma capace di improvvise fiammate, dedito esclusivamente alla amata pittura ma con la repentina apertura all’insegnamento a 50 anni, remissivo ma con manifestazioni di spirito indomito,  tendente all’isolamento ma protagonista di iniziative plateali dalla più vasta risonanza.

L’interpretazione delle compresenze artistiche spetta alla critica, per quelle umane il cronista registra che alla base di svolte clamorose ci sono valori superiori: il valore della libertà che lo fece partigiano in Francia, la difesa dell’arte dalle degenerazioni moderniste che gli ispirò “Il Pastore bianco”, la testimonianza da lasciare ai giovani  che lo indusse all’insegnamento di “Figura disegnata” al Liceo Artistico Statale di Teramo.

La qualità umana e la formazione dell’artista

Emerge il carattere dell’uomo, ben noto a chi – come il sottoscritto –  lo ha frequentato a lungo, osservatore della realtà  contingente con il distacco di chi guarda lontano, ma senza intellettualismi, anzi con l’umiltà di chi sente di far parte di uno scenario naturale considerato il soggetto principale, il  vero protagonista. 

Il suo guardare lontano era ammirare la natura,  nella sua essenza sostanzialmente immutabile nel  tempo, ma mutevole nelle sue espressioni visibili, come le mutazioni stagionali, nelle quali manifesta la sua incessante vitalità: un’apparente contraddittorietà anche nella natura, dunque, che è alla base dell’evoluzione stilistica, cambia l’angolo di visuale quando passa dall’essenza immutabile alla mutazione, per penetrare alla fine nella struttura esteriore e rivelarne l’anima invisibile.

“I mietitori (studio)”, 1949

E quando poteva immergersi nella natura – lo ricordiamo come gli altri paesani  che condividevano con lui le lunghe estati nel “natio borgo selvaggio” – si rianimava dalla “routine” delle conversazioni nella piazzetta del paese, preso dalla visione della vegetazione che saliva nei declivi erbosi con tante sfumature di verde da lui colte con la vena dell’artista come coglieva le forme delle rocce inquadrandole con le dita incrociate. 

A chi gli era vicino faceva vivere il momento magico della creazione artistica anche se non ne parlava esplicitamente, con un riserbo fatto di modestia e di sensibilità lontano mille miglia dalle esibizioni come dal  narcisismo che non ha fatto mai parte del suo carattere; sempre aperto a scherzare con i paesani nelle sue annuali vacanze estive a Piietracamela.   

Però era pronto a “scattare” quando veniva toccata la sua arte. Come avvenne allorché un amico, Gianni Pirocchi, gli fece notare che un manifesto della “Nutella”, affisso nel Corso San Giorgio a Teramo, imitava in modo pedestre le forme caratteristiche dei suoi dipinti; allora si procurò il manifesto e lo ritoccò correggendone  le storture  sulla carta stampata facendone così  un proprio quadro, debitamente firmato. E’ un “unicum”, lo abbiamo visto a casa dell’amico, una variante della Pop Art che si ispira ai miti del consumismo, era avvenuto l’inverso ma lui aveva sentito il bisogno di ripristinare la superiorità dell’arte.  

“Crocefissione”, 1949

Aveva una profonda cultura artistica, da autodidatta scrupoloso e appassionato che tutto conosceva degli stili e dei maestri antichi e contemporanei. Per noi è stato un momento di grande emozione quando, seguendo il suo percorso di vita in parallelo con quello nell’arte, abbiamo scoperto un’elevazione spirituale evidenziata nell’evoluzione artistica che lo porta  a raggiungere la “perfezione dell’Empireo” come, per altre vie, Mondrian raggiunse la “perfetta armonia”.

Cercheremo di rendere quest’evoluzione fino al  culmine incommensurabile raccontando semplicemente l’evoluzione artistica espressa dalle sue opere in parallelo con le vicende di una vita tutta vissuta nell’arte. 

Dall’uomo all’artista secondo Paola Di Felice 

“Un maestro abruzzese del Novecento” lo definisce Paola Di Felice, e analizza il suo processo creativo che lo ha portato a una produzione “di una vastità impressionante: centinaia di dipinti, da tele di grandi dimensioni ai minuscoli foglietti, da disegni di pochi tratti a vaste composizioni”. 

Nonostante la definizione di “maestro”,  nulla di accademico né di costruito: “Non è stato quello del dipingere un tempo alla ricerca di se stesso, è stato piuttosto una parte essenziale nell’espressione creativa di un uomo che non ha conosciuto argini, la cui dilagante vitalità espansiva  (fatta di esperienze, incontri, viaggi, impegno) ha avuto anche bisogno di pause di silenzio, di solitudine, di intimità di fronte alla tela”.

Pastori seduti sulle rocce”, 1962

Spinto da un incessante impulso creativo, ha manifestato di volta in volta il sentire del momento nella spontaneità più assoluta con svolte stilistiche e di contenuto apparentemente  improvvise, ma frutto di una maturazione senza soluzione di continuità: “Così dinanzi alla superficie pittorica egli ha potuto confrontarsi con se stesso offrendo, nel suo lungo tempo dedicato al dipingere, una sorta di autoritratto ininterrotto e diffuso. La sua biografia si riflette direttamente sulla sua arte sin dagli esordi, allorché pur nelle vicissitudini del servizio militare nei fronti di guerra europei non poteva fare a meno di dipingere piccoli oli e acquerelli, e al termine del conflitto cercò nell’arte un recupero vitale dopo la sofferta esperienza dei combattimenti, della prigionia e della lotta partigiana: Come se, reso diverso dalla ‘brutta’ guerra, Guido sentisse il bisogno di circondarsi della forza cosmica della natura, di quelle rocce, che avevano nutrito l’immaginario della sua infanzia, fino ad assimilarle ad esseri viventi chiusi nella ‘opacità’ del male”. 

Il suo recupero vitale supera la dimensione personale per divenire un messaggio: “Energia vitale e solidità non come rifugio privato ma come condizione diffusa, sparsa a piene mani, accessibile a tutti, parte integrante della vita di ciascuno di noi”.

“Famiglia di Pietracamela”, 1968

Sul piano strettamente artistico  la Di Felice sottolinea la sua  “ricerca pittorica” non nel senso dell’affinamento stilistico ma della “dimensione dell’evento emotivo”  in cui trovano espressione le sue “percezioni, sensazioni, memorie, pulsioni emotive, liberamente inseguite, evocate, registrate”, in una “mobilità immaginativa”  del tutto evidente all’insegna della “libertà di determinazione”.

In questo contesto si collocano le varie fasi del suo percorso artistico riflesso diretto di “una situazione esistenziale tracciata da un osservare in continuo aggiornamento, aprendosi a continue sperimentazioni, di tecniche e di espressioni. Ma quando si cerca di inquadrare questa sua evoluzione, il  nostro artista fa un passo più in là, si sposta, inafferrabile… Perché la sua mente e il suo gesto sono sempre in movimento, e appaiono già altrove, avanti di un passo o di un secondo,  a inseguire un pensiero che frulla via…”.    

“Rocce e cespugli”, 1971

La Di Felice si chiede “come si fa a ingabbiare entro i canoni, i binari, le sbarre della critica, una pittura così  libera, pura, sincera?”,  e spiega:  “Montauti respira e dipinge, passa per la casa e aggiunge una nuova pennellata a un vecchio quadro, ci ripensa e cancella quello che aveva già fatto”, seguendo “l’accavallarsi delle emozioni”. Definisce tutto ciò “nostra pittura quotidiana, in margine ad un vissuto assai ricco e fecondo di suggestioni e trasalimenti”, con una peculiarità: “A varietà di tecniche, formati, dimensioni, soggetti non corrisponde una deliberata scelta poetica ma la libera scelta di uno spirito senza dogmi se non quelli dell’indipendenza e dell’intelligenza che, proprio nel campo della pittura, sente di non avere obblighi da adempiere”.  Di qui “la continua richiesta di un’arte ‘altra’, spogliata dai lacci inibitori della forma, e quindi in grado di esprimere l’inesprimibile, il pulsante lavoro dell’inconscio, come pure la coscienza vigile di un tempo storico e di una posizione sociale, accompagnato dal costante franare del concetto dell’unità dell’arte”. 

E’ un processo che lo allontana nel tempo da quello che sembrava un sigillo  assoluto della sua arte, “quando grumo, graffio, pasta, frego nelle tele sembrano attestare la perdite della propria identità e invece ‘sono’ inconfondibilmente, assolutamente,veramente il Nostro. Proprio lui”. Un’espressione che scolpisce l’evoluzione nella continuità e la saldatura tra l’uomo e l’artista. 

Uliveto”, 1971

L'”essenzialità” secondo Corà, il “caso Montauti” secondo Crispolti

E’ dunque l’artista a far valere la propria impronta personale, e Bruno Corà ne parla così: “La semplicità delle forme concepite da Montauti, ben oltre l’attribuzione conferitagli di ‘art brut’, si rivela ben presto una scelta, una rivendicazione e una orgogliosa conquista, riflesso della comprensione dell’essenza fenomenologica della realtà”.

Ed eccone la matrice primaria: “A ben guardare, l’attitudine di Montauti a ‘semplificare’ la forma è congenita al suo lavoro, cioè sin dagli esordi, secondo quell’essenzialità che nel disegno strutturale delle immagini proviene dal filo rosso che coniuga per grandi segmenti il pittore di Altamira o Lescaux al romanico Wiligelmo, a Giotto e Masaccio fino a Matisse e Fontana. Una vocazione alla riduzione unitaria e materico-massiva che ancor prima che volontà di sintesi formale si pone come volontà etica  testimone di radicalità ontologica”.  Ne spiega così la motivazione: “Questo è pur sempre in Montauti l’esito di un convincimento estetico che, a mio avviso, l’osservazione della realtà a lui circostante negli anni giovanili e nella propria terra d’origine, a Pietracamela, in Abruzzo, e poi le successive drammatiche esperienze negli anni tra la giovinezza e l’età adulta durante il secondo conflitto mondiale – nel cuore d’Europa – concorrono a formare”. 

Gruppo di pastori”, 1973

Su questa base il critico associa la sua pittura nuda e disadorna, e insieme solida e radicata, a quella di Giotto, come le linee essenziali dei suoi disegni scolpiti ai “tagli” di Fontana.  Nonostante abbia acquisito una cultura artistica a 360 gradi, a prima vista sembra che la sua pittura non si sia distaccata dal proprio ambiente, di qui la visione di Enrico Crispolti che parla del “caso Montauti”: “Un pittore per molti aspetti diverso, e per il quale il legame a una propria matrice antropologica, ecologica e culturale, quale impronta determinante della propria ‘personalità’ artistica, è quanto mai evidente, e tuttavia in una corrispondenza che vale, esattamente, per il pittore di Pietracamela il rinvenimento originale e l’invenzione figurale dei modi stessi di esplicitarsi di tale matrice”. 

L’artista, per il critico, ha proposto, attraverso  una “molto personale declinazione di situazioni di  ‘art brut’, una corrispondenza appunto ad una propria riconosciuta origine antropologica-socio-culturale pagando il tributo a questa nella scelta di una collocazione operativa volutamente marginale e ‘periferica’, recuperandola anzi dopo qualche anno di esperienza (‘centrale’, se ve ne possono essere) a Parigi.  

“Il Giocondo“, 1973

In tal modo ha potuto mantenere l’‘imprinting’ ecologico ed etologico originario”, e questo riconduce “alla sua molteplice ‘diversità’, alla sua posizione indipendente e in certo modo solitaria” come quella di pochi artisti dell’Informale europeo, vengono citati Lorenzo Viani e Gerardo Dottori che portò nel dinamismo futurista la contemplazione del paesaggio umbro.

Se questo è vero, non è tutto, la complessità del suo percorso artistico è tale da comprendere altre componenti al di là dell’ispirazione tratta dagli scenari naturali e dalle sollecitazioni umane del paese d’origine.

La “lettura nuova e aggiornata” di Nerio Rosa

Come  ha scritto Nerio Rosa, “pure nelle prime opere piene di immediatezza e riguardanti i momenti di vita, racconti e prime elegie, l’influenza del Novecento dà a Montauti una caratura non provinciale ed una solennità arcana  che non è bizzarria del momento, ma una precisa scelta  che avvicina il suo mondo quotidiano ad un linguaggio ermetico e primitivo di più ampia portata”. E ancora: “Al riferimento di invenzione, alla matrice popolare tanto evidente, sapeva collegare un aspetto storico culturale e internazionale, tanto che la rappresentazione bidimensionale di partenza appariva subito come un pretesto che nascondeva una costruzione più solida e complessa”.  L’artista stesso ne era fortemente convinto.  

“Rocce” , 1973

E’ una costruzione  rivelatasi sin dall’inizio, con “tutti quegli elementi di solidità, di ricchezza di superficie, di semplicità di racconto, di solidità dell’immagine e, soprattutto, di elaborazione materica che troveranno validi approfondimenti nelle opere che seguiranno”. Perciò “il messaggio contenutistico di Montauti è privo di ogni retorica, rifiutando da un lato una falsa ingenuità così come, dall’altro, riflessi intellettualistici. Egli non  ama il simbolo…  passa da un’immagine semplice alla maturità della sua pittura, alla modernità della sua costruzione materica”. 

Data la continuità con gli inizi,  il critico commenta: “Il merito di tali scelte culturali è così grandissimo se comparato, appunto, alle difficoltà del momento”.

Le valutazioni fin qui riportate risalgono al 1989, nel decennale della morte dell’artista, Nerio Rosa le ha aggiornate nel centenario della nascita con un  notevole approfondimento critico che, nelle sue parole, “vuole costituire  un contributo ad una lettura nuova e aggiornata del nesso che collega il lavoro dell’artista al suo vissuto”. 

Con una prima osservazione il critico  rivela un’altra compresenza artistica oltre quella già sottolineata tra continuità ed evoluzione: quella esplicitamente segnalata ora è tra il vissuto  reso attraverso “immagini filtrate dall’ambiente” e le “consapevolezze stilistiche e storico-artistiche” che lo trascendono quale “segno della drammaticità emozionale che gli eventi producono come risonanza nella psiche”. 

Quindi sbaglierebbe chi limitasse la visione dell’artista all’evidenza materiale delle forme che vede in natura e reinterpreta con la sua pittura: “Le immagini di Montauti sono invece il segno della drammaticità perenne che il fenomeno naturale o umano racchiude dentro di sé, contenendolo come parte integrante del vissuto, senza metariflessioni né empatie soggettive”.

Più esplicitamente: “In lui la massa materica  dell’uomo o della natura… contiene dentro di sé il dramma dell’esistenza nella identità conclusa dalla sua stessa solidità fenomenica”. In altre parole, è “la poetica universale dell’esistenza imprigionata dalla materia” in tutta la sua drammaticità,  dove “il dramma è staticamente rappresentato dalla massività fisica dell’addensamento materico e dalla autoportanza strutturale di un mondo compiuto che racchiude il vissuto, ma senza oscillazioni”. 

“Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique”,  1974-76

E’  una visione che va oltre l’apparenza fenomenica di un “ordine implicito  ed imprevisto nelle modularità di un caos apparente, che per sua stessa esigenza diventa ordinante, in modo che il vissuto esistenziale ne sia intrinsecamente attraversato dalla indifferenza cosmologica che tutto percorre ed  addensa”. 

Ma ciononostante riconosce il valore del fatto naturale: “Del resto l’artista richiama non solo una cosmologia trascendentale che abbraccia il vissuto di una esistenza senza empatia, ma esprime la densità della materia analiticamente definita da proprietà scientifiche, dalla forza di una corporeità fisica, dalle leggi invisibili  della natura che sovrasta l’uomo…” . 

Si tratta della “lettura nuova e aggiornata del nesso che collega il valore dell’artista al suo vissuto”  da parte del maggiore conoscitore non solo dell’artista ma anche dell’uomo, il critico d’arte e intellettuale che lo indusse alla mutazione cui abbiamo accennato, dalla torre d’avorio dell’isolamento alla contaminazione con il mondo degli studenti a cui passare il testimone della sua arte, con l’insegnamento della “Figura disegnata” al Liceo artistico statale di Teramo. 

Da parte nostra non possiamo che convenire, anzi abbiamo già accennato come la sua cosmologia trascendentale lo porti sempre più in alto  nell’interpretazione pittorica di un vissuto che sull’orlo della vita gli fa raggiungere addirittura il culmine sommo, l’Empireo iperuranio.

Lo vedremo direttamente al termine della appassionante cavalcata nei quarant’anni della sua vita artistica attraverso le 100 opere esposte nelle sale e salette, anditi e corridoi dei due piani della splendida villa dove si svolge la mostra, in cui ogni parete e ogni angolo è fonte di nuove scoperte e di intense  emozioni. Nel nostro excursus tra le diverse fasi della sua vita artistica citeremo anche opere non esposte nella presente mostra, ma significative per una rievocazione compiuta come quella che si addice al Centenario.

Intanto iniziamo a seguirlo nel suo percorso di vita intrecciato con il suo itinerario artistico: lo faremo nella rievocazione ampia e approfondita che si svolgerà nei prossimi tre articoli. 

“Pastore e vegetazione bianca”, 1977 

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti,’ un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice“Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa,  “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti, Omaggio all’artista del suo paese natale”, luglio 2001, pp. 60, formato 29,5 x 30, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti, “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e  Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti”. Catalogo “Guido Montauti”, della  Mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze, e nella Pinacoteca Civica di Teramo,  Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, pp. 100, formato 28 x 29,5, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”,  Nerio Rosa“La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo.  Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. Il  1° articolo del servizio, “Montauti, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”, è uscito il 13 luglio, gli altri quattro articoli usciranno il 3° il 29 luglio “Montauti, nel centenario. 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, il 4° il 3 agosto “Montauti, nel centenario. 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”, il 5° l’11 agosto “Montauti, nel centenario: 5. Dal Pastore bianco all’Empireo”, il 6° e ultimo il  19 agosto “Montauti, nel centenario: 6. Il recupero delle Pitture rupestri”.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Villa Paris, Roseto degli Abruzzi,  tranne alcune (la. 2^, 3^, 4^, 12″)  tratte dal Castalogo, si ringraziano gli organizzatori e l’Editore, con i titolari dei diritti, in nodo particolare i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, per l’opportunità offerta; sono rappresentative delle principali fasi dell’itinerario artistico.  In apertura, La locandina della mostra; seguono, “I mietitori (studio)” e “Crocefissione”, 1949; poi, “Pastori seduti sulle rocce” 1962, e “Famiglia di Pietracamela” 1968; quindi, “Rocce e cespugli” e “Uliveto”, 1971; inoltre, “Gruppo di pastori”, e “Il Giocondo“, 1973; ancora, “Rocce” 1973, e “Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique”  1974-76; infine, “Pastore e vegetazione bianca” 1977 e, in chiusura, La vedova dell’artista Adelaide Di Iorio Montauti, in prima fila seconda da sin. nella parte destra della sala.

La vedova dell’artista Adelaide Di Iorio Montauti,
in prima fila seconda da sin. nella parte destra della sala

Guttuso, 1. Il realismo rivoluzionario alla Gam di Torino

di Romano Maria Levante 

La mostra “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68”   ha esposto,dal 23 febbraio al 24 giugno 2018., alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea  di Torino,  quasi settanta opere, precisamente 36 dipinti e 31 disegni e acquerelli, realizzate dal 1936 al 1975, una trentina delle quali di  denuncia e ispirazione politica, le altre di soggetto “privato”. La mostra, organizzata con gli “Archivi Guttuso”, presidente Fabio Carapezza Guttuso,  è stata a cura di Pier Giovanni Castagnoli che ha curato anche il catalogo della “Silvana Editoriale” insieme al direttore della Gam, Carolyn Christov-Bakargiev e ad  Elena Volpato, conservatore nella galleria.   

Un’altra celebrazione del ’68, dopo quella della Galleria d’Arte Moderna a Roma con la mostra  “’68, è solo un inizio…“, questa volta nella “Galleria civica d’arte moderna” a  Torino, nel nome di “Renato Guttuso, L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68”, mostra presentata a Roma all’Accademia di San Luca dal Curatore Castagnoli, dalla Volpato e da Fabio Carapezza Guttuso. 

Sarebbe quanto mai riduttivo, e anche  inappropriato, tuttavia, sopravvalutare il riferimento al ’68 come se fosse il principale significato della mostra torinese. E’ stata semplicemente colta l’occasione di  un coinvolgimento dell’artista nel ’68 per presentare il “Guttuso rivoluzionario” dopo le mostre romane del “Guttuso innamorato”  alla Galleria Nazionale nel 2017, del “Guttuso religioso”  al Quirinale nel 2016, del “Guttuso antologico”  al Vittoriano nel centenario del 2012.

Da Roma, con Guttuso ci si sposta quindi a  Torino, ed è importante che il capoluogo piemontese celebri il grande maestro del realismo, per di più ad opera della direttrice della Galleria torinese, Caarolyn Christov-Bakargiev   che si proclama “convinta poverista”; cultrice, cioè, di quell'”arte povera”  verso cui  Guttuso fu molto critico, tanto che in un suo articolo parlò addirittura di  “povertà dell’arte”

Una sorta di  contrappasso, come lo è stata la mostra a Roma alla Galleria Nazionale del “Guttuso innamorato” in parallelo  con quella sulla “Collezione di Palma Bucarelli”, la direttrice che lo aveva trascurato, per così dire, rispetto alle avanguardie  contemporanee, dalla Pop  Art  all’espressionismo di Pollock;la mostra su Guttuso ha esposto le opere da lui donate per testamento alla Galleria, lascito che fu salutato dal nuovo direttore come provvidenziale per aver colmato una lacuna lasciata dalla Bucarelli, una pecca evidente  tra i meriti che le vengono riconosciuti, primo tra tutti l’evacuazione delle opere per salvarle dai bombardamenti nell’ultima guerra.  . 

Ma se il “Guttuso rivoluzionario” è a tutti noto per le sue opere di aspra denuncia  delle ingiustizie e delle sopraffazioni,  meno conosciuti sono i suoi rapporti con  il movimento del  ’68. Li ricorda  la citata  Christov-Bagargiev in una intensa introspezione nel suo itinerario umano oltre che artistico..

Guttuso aderì prontamente alla richiesta degli studenti  contestatori  di aiutarli a realizzare un  “murale”, si rivolsero a lui sebbene appartenesse alla vituperata categoria dei docenti universitari perché non lo consideravano un “barone”. E questo nonostante il Partito , di cui era un esponente di rilievo,  osteggiasse fortemente la contestazione studentesca.: “Il  PCI sta  dalla parte di Guttuso  per quanto concerne l’arte – scrive la direttrice — Guttuso, contrariamente al PCI, sta dalla parte degli studenti  per quanto riguarda la società”.  

Non è soltanto l’aver delineato una  donna di profilo che mangia l’uva come citazione dei riti dionisiaci simbolo delle antiche ribellioni contro il potere romano, la sua partecipazione al ’68. Il suo quadro “Gli amanti di Francoforte”, scelto come “testimonial” della mostra, è ispirato a una fotografia-simbolo del ’68, la coppia di giovani che si abbraccia  e si bacia in pubblico come esplicita affermazione di una libertà conquistata contro i rigidi paradigmi borghesi. Mentre la sua lettera a Giorgio Amendola, in risposta alla condanna della contestazione studentesca espressa dall’uomo politico su “Rinascita”, lo vede offrirsi come garante degli studenti sulla base dell’esperienza diretta dei rapporti avuti con loro.

Inquadrato sommariamente il riferimento al ’68 come premese sa al carattere “rivoluzionario” della sua arte, delineiamo per sommi capi l‘itinerario l’itinerario di vita e l’orizzonte culturale dell’artista.


La sue  vite  di artista, di intellettuale e politico 

E’ stato precoce come artista dalla doppia vita, indomito alfiere della ribellione alle ingiustizie e alle sopraffazioni e, per altro verso, delicato interprete dei propri sentimenti personali più intimi e riposti. Nello stesso tempo è stato precoce  nell’impegno militante,  anche qui  con una doppia vita, critico e polemista agguerrito – a 22 anni il suo esordio nella critica – e militante per la libertà e l’uguaglianza, nella resistenza antifascista e  nel Partito  – a 40 anni entra a far parte del Comitato centrale – prima di essere eletto nel Consiglio comunale del capoluogo siciliano, poi nel Parlamento nazionale.

Sulle due vite di artista battagliero e intimista  la mostra offre uno spaccato suggestivo, con 16 dipinti  e 20 disegni per la prima, 19 dipinti e 12 disegni per la seconda, evidenziando un’attenzione al “Guttuso privato”  pur nella sottolineatura primaria del “Guttuso rivoluzionario”, in quanto tale degno interprete dei fermenti del ’68.

Vediamo, dunque, come si manifesta la sua doppia vita di artista e la sua doppia vita di intellettuale e militante politico. 

Critico d‘arte a 22 anni, abbiamo detto, ma ha cominciato a dipingere a 13 anni, a 17  ha esposto in una mostra collettiva, a 20 alla “Quadriennale d’Arte di Roma” , a 23 nella galleria milanese “Il Milione”  con altri artisti siciliani, ma è presente anche a Roma, dove conosce Corrado Cagli e Mario Mafai, Alberto Ziveri, Pericle Fazzini e altri ancora. A Milano per il servizio militare entra in contatto con  gli artisti Renato Birolli, Aligi Sassu  e Giacomo Manzù, divide lo studio con Lucio Fontana -pur tanto diverso dal pittore dai “tagli spaziali” sulle tela. Inoltre conosce intellettuali  come Raffaele Carrieri e Raffaele De Grada stringendo sodalizi che più avanti nel tempo lo porteranno a fare del suo studio romano una sede di incontri, presente attivamente  nella vita culturale.

A  poco meno di 30 anni inizia un  rapporto molto stretto con  Alberto Moravia, frequenta Antonello Trombadori e Mario Alicata che lo introducono nel Partito  Comunista, partecipa alle attività clandestine anche con Paolo Bufalini e Pietro Ingrao. In questo periodo la sua veste di critico ha modo di esprimersi su alcune riviste qualificate, ma l’impegno prevalente è nella resistenza antifascista come militante, mentre come artista esprime gli stessi motivi e valori con dipinti e disegni.  Lui stesso ha spiegato la compresenza di queste diverse forme di partecipazione attiva. 

Nel dopoguerra le due vite si avvicinano maggiormente, diventa critico d’arte nel giornale quotidiano e nella rivista settimanale del Partito , “l’Unità” e “Rinascita”; stringe amicizia anche con Pablo Picasso alle cui opere dedicherà intense analisi colme di riconoscimenti.

L’impegno critico va al di là dell’orientamento ideologico, si trova controcorrente rispetto alle avanguardie anche nella sua espressione artistica. Già era stato considerato un conservatore per avere espresso la propria denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni in modo giudicato troppo tradizionale, quindi non rivoluzionario perché il suo realismo figurativo non rivoluzionava l’arte come pretendevano coloro che si identificavano nelle avanguardie iconoclaste della pittura.

Ma solo la sua pittura, e non  le forme astruse degli innovatori, era alla portata dei destinatari del messaggio, per questo fu sostenuto dal suo Partito , impegnato come lui a contrastare un modernismo sfrenato che rivoluzionava, sì, l’arte, ma non forniva il minimo apporto alle lotte sociali e politiche.  

L’artista e l’impegno civile e politico

Il dilemma che si pone a Guttuso è tra i possibili  modi dati all’artista di lottare a favore di coloro che si battono contro le ingiustizie e le sopraffazioni, tenendo conto della generazione a cui appartiene, “tra i 50 e i 60 anni”: lo scrive su “Rinascita” nel febbraio 1969 sottolineando che “evidentemente il suo ‘sentimento’, che è come dire la sua convinzione, non può indurlo a coprire il suo volto, con la maschera (pur tanto affascinante), dei vent’anni che non ha più”.  Indica “tre modi, a mio parere, tutti legittimi e coesistenti”.

Il primo è la “partecipazione senza riserve alla azione politica rivoluzionaria”, intendendo la politica “come vita morale e strumento di trasformazione del mondo, e non della ‘cultura’”. Un secondo modo è “intervenendo, con i mezzi a lui propri, nella lotta (manifesti, disegni politici)”. Viene infine il lavoro “sul suo terreno politico di artista, per indagarlo, cercare di conoscerlo e facendo il possibile per far conoscere ciò che ha capito”. 

E precisa:  “questi tre modi non si escludono l’un l’altro, ma possono, debbono coesistere”, con l’avvertenza che  “l’illusione, e l’errore, comincia allorché si confondono questi momenti e si pretende di sostituire, per esempio, l’arte all’azione rivoluzionaria o viceversa”. 

In effetti, ci sembra che si impegni in tutti e tre i modi, e pure in un quarto modo – che non indica chiaramente per non equivocare sul piano della libertà dell’arte – nell’espressione artistica di alto livello, non la minore dei “manifesti e disegni politici”, per denunciare ingiustizie e sopraffazioni, alla quale ha dedicato opere monumentali di grande impatto popolare.

Ma ci tiene a chiarire che l’arte non può essere messa al servizio dell’azione rivoluzionaria. Anzi, dinanzi a pressanti “necessità storiche”, l’artista come tutti gli altri soggetti, deve “dimenticare  il proprio mestiere e realizzarsi totalmente nell’azione”.  La serie “Gott Mit Uns” la descrive come “la continuazione, la riflessione personale, privata (‘tradizionale’) nei confronti di ciò che occupava, in quei giorni, la mia vita”, avendola realizzata “le sere del coprifuoco, in un ufficio in cui io mi rifugiavo”. E ci tiene ad affermare in modo esplicito che “non si trattava di un ‘gesto’ artistico”, mentre tale è apparso a tutti, come le altre opere “rivoluzionarie”, il “quarto modo” di cui non parla.

I soggetti  della sua espressione artistica, di natura “rivoluzionaria” e “privata”

Non è l’unico dilemma, l’altro riguarda la sua stessa produzione artistica, nella quale alterna opere di natura “rivoluzionaria” ad opere di natura “privata” e personale, spesso intime e raccolte. E rivendica orgogliosamente la sua autonomia di artista libero, come scrive nell’ottobre-dicembre 1947:  “Ho fatto dunque sempre quel che ho ‘sentito’, come si suole dire, ma per me sentire qualche cosa è stato sempre nell’ordine di cercare la realtà. Non nel senso di una pittura abbandonata incontrollata o sensualistica o anarchica. Ma esattamente il contrario. Ho fatto roba buona e roba cattiva, ma non mi è mai scappato niente di mano. Tutto quel che ho fatto l’ho voluto fare”.  

Ed è straordinario che abbia potuto farlo nonostante la sua immersione nella politica, per di più in un partito rigido e dogmatico come il Partito  del “centralismo democratico”, lacerato dalle contraddizioni del suo rapporto con il mondo sovietico nel quale, tra l’altro, nell’arte imperava il “Realismo socialista” con l’esaltazione acritica della mistica di regime.

Lui non vi aderì mai, i protagonisti dei suoi dipinti “politici” appaiono oppressi e umiliati, anche massacrati, non sono i trionfanti pionieri del mitico, rimasto tale, “paradiso dei lavoratori”.  Al contrario del maggiore esponente del “Realismo socialista”, Aleksander Deineka, Guttuso è  alimentato a livello artistico e umano da tante sollecitazioni, meno quella propagandistica, pur nella riaffermata fedeltà all’impegno sociale e al credo politico.  

A  parte i modi in cui l’artista può contribuire alla lotta per la giustizia e la dignità umana, Guttuso è stato direttamente impegnato nelle forme in cui manifestare l’espressione artistica, in un periodo molto agitato e inquieto in cui si formavano gruppi intorno a determinate impostazioni artistiche.

Con Birolli e Vedova, Morlotti e Turcato, nel gennaio 1947  fondò il “Fronte Nuovo delle Arti”  per recuperare quanto dell’arte europea era poco conosciuto a causa del fascismo;  ma molto presto il gruppo  si divise nella posizione verso le avanguardie astrattiste e moderniste. Al ritorno da un viaggio a Parig nel marzo dello stesso anno, quindi solo due mesi dopo,  trovò che era stata fondata una nuova rivista,  “Forma”, da alcuni artisti, Ugo e Carla Accardi, Consagra e Dorazio, Guerrini, Perilli  e Sanfilippo. Si proclamavano “formalisti e marxisti”  e dichiaravano che essendo progressisti non potevano “adagiarsi nell’quivoco di un realismo spento e conformista”. Lui si risentì sul piano personale  non essendo stato preavvertito sebbene i fondatori della rivista frequentassero il suo studio; e reagì all’attacco sul piano artistico riaffermando la sua modernità, essndosi avvicinato al cubismo, e nel contempo la sua avversione per ogni formalismo e astrattismo. Nel “Fronte Nuovo delle Arti”  si accesero forti contrasti e dispute pubbliche tra le due opposte posizioni. Da parte sua  continuò a  difendere il realismo senza mai accettare né la definizione di “neorealismo” e neppure l’etichettatura di “figurativo” che ne limitava la portata qualificandolo come superato se non retrogrado. Mentre, lungi da ogni accademismo, esprimeva il meglio che aveva acquisito dalle più valide esperienze del cubismo di Picasso, come il suo in evoluzione, e nella contemporanea presenza, nel grande artista spagnolo, del cubismo con il neoclassicismo figurativo che sentiva speculare alla propria..

Porta la sua battaglia critica nelle più importanti riviste italiane e internazionali, e le sue opere ottengono i massimi riconoscimenti in mostre e monografie anche all’estero.  La sua arte alterna opere di impegno politico e sociale, spesso di grandi dimensioni  a sottolinearne la portata corale e la destinazione popolare, ad opere di introspezione privata e personale.

In un certo senso queste ultime, insieme ad altre minori, vengono considerate quasi di preparazione, a livello stilistico, ai grandi dipinti, come se volesse creare un percorso nel quale il grande quadro di denuncia diventa un coronamento anche compositivo e stilistico di tanti passi intermedi con soggetto diverso,  a parte gli studi preparatori con disegni e bozzetti, anch’essi numerosi come si vede nella mostra.

La sua militanza politica, dopo  l’ingresso a 40 anni nel Comitato centrale del Partito Comunista dove resterà senza interruzioni, lo fa entrare nelle istituzioni parlamentari:  nel 1975 è consigliere comunale a Palermo, nel 1976 viene eletto senatore a Sciacca, sarà confermato nel 1979 a Molfetta.

Tanti sono i momenti in cui le sue diverse vite si incrociano, uno di questi è il monumentale dipinto “I funerali di Togliatti”, nel quale  si fondono l’artista e il militante, con il critico attento ai significati dell’opera e la persona che dà una testimonianza toccante in chiave “privata”.

Ed è proprio la sua vena critica che permette di esplorare lati reconditi come preparazione alla migliore comprensione non solo delle sue opere, ma anche delle  manifestazioni della sua vita  espresse nelle diverse dimensioni che abbiamo delineato.

Il realismo nella interpretazione soggettiva della realtà da parte dell’artista 

La dimensione puramente artistica vede la sua strenua difesa del realismo da considerare non un retaggio del passato ma la migliore interpretazione della realtà considerata correttamente, non con la superficialità dei detrattori:  “La realtà non è la visione comune a tutti gli uomini, quella realtà è così frustra, così usata, si presenta ai nostri occhi frettolosi già informati su quella realtà dalla sua abituale visione, che non è più che un mondo di cose standardizzate e sommarie”, e in questo è d’accordo con loro. Ma controbatte: “Questa non è la realtà, è solo un’indeterminata e usuale apparenza di essa”.  

Sono parole del suo “Diario” dell’aprile-giugno 1943, ha 32 anni, ma non si limita a negare  validità alla realtà vista superficialmente, ne dà una definizione lungimirante: ” La realtà comincia quando un artista si pone di fronte al mondo, all’oggetto, quando questo appare all’artista, quando l’artista si scontra con l’oggetto per conoscerlo”. Ed ecco cosa avviene: “Questa realtà è espressa nell’opera d’arte come realtà, quando l’artista ne offre una nozione nuova, prima, inedita, sconosciuta agli altri.”. Con una precisa  conseguenza: “Il contatto tra l’opera d’arte e lo spettatore si accorge che l’opera d’arte gli rivela, gli ‘fa conoscere’ la realtà”.   

Ancora più chiaramente: “La realtà non è qualcosa che l’artista trova pronta e già costituita e fatta fuori di sé, e per esprimere la quale non debba altro che tradurla pari pari sulla tela, ma non è neppure qualcosa che l’artista reinventa secondo l’estro della sua immaginazione, non è un pretesto (fauves), un’occasione, un incentivo all’astratta invenzione di forme. La realtà è l’oggetto apparso all’artista, e da questo accostato, cercato, conosciuto ed espresso. In questo senso noi siamo realisti, in questo senso parliamo di realtà”. Con la stoccata finale: “E’ l’artista colui che può operare il miracolo di questa conoscenza profonda, che è formale e non formale”.  

A tale concezione resterà legato aprendosi, nel contempo, al rinnovamento, dopo la denuncia di “una crisi che ha dentro di noi radici profonde, né più ci basta la nostra insoddisfazione cui faceva riscontro il dovere di una cultura o la difesa di alcuni principi. E dichiariamo la volontà interiore, necessaria volontà, di un’azione che finalmente non sia più accademia”. Considerando – lo scriverà su “Domus”  nell’ottobre-dicembre 1947 – che “le posizioni puramente ‘astrattiste’ o puramente naturalistiche’ sono entrambe le strade morte dell’accademia”.

Nella sua volontà di lottare si avverte ancora una volta il “Guttuso rivoluzionario”: “Chiediamo di vivere (e lo chiediamo a noi stessi) facendo il nostro mestiere di pittori, di scultori, di scrittori, come gli altri uomini combattendo il vecchio mondo e aiutando a edificare il nuovo. Vogliamo  finalmente lavorare non più per noi stessi  o per pochi amici, ma per aiutare a vivere gli altri che ci aiutano a vivere.”.  E conclude: “Perché se il mondo opera una sua trasformazione, l’arte non può collocarsi da spettatrice passiva  di fronte allo sviluppo di quelle forze che con la lotta operano la trasformazione dl mondo”. Lo scriveva sul “Cosmopolita” il 30 dicembre 1944, e non era soltanto il momento particolare del paese prima della liberazione dell’aprile 1945 a suggerirgli questa spinta combattiva al rinnovamento, sarà l’imperativo di tutta la sua vita, artistica e personale.   

Per questo rileva con soddisfazione – su “Alfabeto” e “Società” del febbraio-marzo 1952 – che “la corrente realistica ha cominciato a farsi sentire come corrente e a pesare sempre più nella vita artistica italiana in questi ultimi cinque anni” e c”tra i componenti di questa corrente si collocano in posizione di iniziatori alcuni artisti della generazione sui quarant’anni”, quanti ne aveva lui allora, “generazione che ha avuto, come suol  dirsi, la vita difficile; essa si è formata attraverso avvenimenti eccezionalmente gravi per la storia del mondo, ed in particolare del nostro paese”.

Quel che conta è che “questa generazione è venuta formandosi quando quella che comunemente viene detta ‘arte moderna’ aveva già posto le sue basi e stava in sella abbastanza solidamente”. Era un’arte  che aveva “tagliato fuori il pubblico, il riguardante comune, l’uomo della strada, fosse borghese o proletario, da qualche cosa egli sentiva di partecipare”.  E lo aveva fatto dopo aver “aggredito il mondo figurativo con una irruenza non priva di genio e partendo da una reale necessità di rottura con l’armamentario accademico… ma quasi immediatamente vi sostituiva un proprio armamentario”.

Fu un fuoco di paglia, dunque, presto la sua spinta propulsiva si esaurì – per usare un’espressione di tutt’altra origine e destinazione – e “si pose a questi artisti la necessità di un rinnovamento, legato  a una nuova, più umana, concezione della vita e dell’esercizio stesso dell’arte”. Un ripensamento che investiva tutti, “anche molto artisti delle correnti formaliste, anche coloro che più apparentemente e visibilmente sono partigiani della forma astratta e dell’arte senza contenuto”. E’  sempre il “Guttuso rivoluzionario” che difende la frontiera dell’arte come si batte,  a livello artistico e anche umano e politico, contro ingiustizie e sopraffazioni, con la sua straordinaria forza espressiva.

Giudizi e interpretazioni

Alberto Moravia, il quale conosceva molto bene la sua qualità umana prima di quella artistica, osserva che “il cemento delle composizioni guttusiane è proprio la violenza… violenza tra le figure nel quadro, violenza del pittore sulle figure”. E questo lo identifica negli atteggiamenti dei personaggi,  non naturali, nonostante il ‘”realismo”, ma forzati, come spinti dall’artista, e non dalla loro forza intrinseca: “Il moto dei quadri di Guttuso parte dall’esterno verso l’interno e non dall’interno verso l’esterno”. E cita “Gott mit uns” come “Fuga dall’Etna“, in cui è l‘artista che imprime visibilmente un’energia che va oltre i soggetti rappresentati.  Ma in lui “la capacità contemplativa è forte almeno quanto quella drammatica”  e c’è  la “carica ideologica”. Nonostante ciò, “egli è pure e sempre un artista straordinariamente delicato e sensibile”. Lo scrittore conclude: “Con tutta la sua ideologia e la sua violenza, la sua eloquenza e la sua smania espressiva, egli è pur sempre un poeta che di fronte alla intimità e al mistero del reale si ferma attonito, immerso in un profondo e vitale stupore”.

E’ una fotografia perfetta del Guttuso artista e uomo. Lui stesso ha affermato: “Intorno al ’48, io mi resi conto che fare violenza alla realtà era, per una reale intenzionalità realistica, un compromesso; e che espressionismo, stilismo, ecc. erano intercapedini, mediazioni, schermi, che m’impedivano d’accostarmi alla realtà quale essa è, quindi anche quale essa ci appare”.   Con il ritorno nella sua Sicilia nell’estate del ’49 e i forti stimoli avuti – osserva Mario De Micheli nel citare queste sue parole – “egli liberò la sua ricerca cubisteggiante dagli spunti eccessivamente formali. In altre parole, tornò a lasciarsi andare, senza ‘pre-giudizi’, alla folla di emozioni che ogni angolo di quel paesaggio marino gli provocava”, e lo si può rilevare  nelle opere di quel periodo, come vedremo. 

Antonello Trombadori attribuisce un valore decisivo alle tragedie di fronte alle quali si è trovato Guttuso negli anni della guerra, con “l’altalenare tra la vita e la morte, sua, dei suoi compagni, degli uomini e delle donne che ogni giorno incontrava per strada”, ben più sconvolgenti dei moti dell’animo alla base dell’espressionismo. Per questo “è rimasto lo scheletro del disegno e il sangue dei colori. Un duro colpo del pennello e della fantasia svetta episodi della vita e li rispecchia per consegnarli quanto più è possibile ancora concitati  e brucianti a chi li ha pur soffertiti, amati o deprecati… per questi fatti Guttuso è un punto cardinale dell’arte contemporanea europea”.  

Da un’altra prospettiva Cesare Brandi fa risalire la sua vitalità e  il suo personalissimo “realismo”, alle radici nella terra di Sicilia: “L’artista è Anteo, deve toccare terra. Guttuso non è solo Anreo, ma la terra che deve toccare è la Sicilia”,  e lo fa materialmente o virtualmente. Di lì nasce quello che Brandi chiama  il suo “realismo concezionale”, diverso da tutti gli altri della pittura occidentale, e tale da “costeggiare le immagini di altri pittori, sia antichi che moderni, perché ne verrà sempre fuori un risultato diverso, e neppure ibrido”. L’artista resta se stesso, imprevedibile, “Guttuso non si identifica con un determinato stile, ma ogni volta quella continuità che l’alimenta, come una falda freatica, assume aspetti inattesi, che divergono al sommo se pure sono uniti alla base”; il pensiero, per altro verso, va a Picasso per la compresenza negli stessi anni di opere cubiste e neoclassiche. 

Giovanni Testori aggiunge che l’avvicinamento ad altri artisti, come Picasso, “l’abbia effettuato ponendosi quasi tutto dalla parte della realtà, che non è propriamente realismo (almeno nella equivoca accezione che grava, oggi, su quel termine) e, dunque, delle sue minacce, dei suoi pericoli e del suo strazio, piuttosto che dalla parte dell’inconscio e di ciò che, allora, pareva muoversi sotto, sopra e, insomma, attorno a quella realtà”; così “si inserì con le particolari qualità d’una tradizione come la nostra che solo apparentemente può essere annullata, ma la cui possibilità di divenir moderna, poggia esclusivamente nell’ordine delle prove totali come quella cui Guttuso l’andò sottoponendo”.

Ed è componente primaria della realtà lo stretto legame dell’arte con la vita  che l’artista definisce così su “Rinascita” nel febbraio 1969:  “Il rapporto tra arte e vita non può risolversi a favore dell’arte (arte che divora la vita). Ma, al contrario, l’arte deve nutrirsi di vita, e non di ‘cultura’. Se così non fosse l’artista resterebbe solo una spoglia, un contenitore vuoto, un fantoccio ‘culturato’ e inutile”.  E la vita, dinanzi a tante iniquità e contraddizioni,  non può che alimentare il “Guttuso rivoluzionario”, mentre gli spazi intimi e raccolti che offre si rivelano nel “Guttuso privato”.  L’uno e l’altro trovano la loro sintesi nel “Guttuso innamorato”, com’era intitolata l’ultima mostra romana per sottolinearne il rapporto quasi carnale con la realtà per la quale ha sempre avuto un’attrazione simile all’amore.

Lo vedremo prossimamente commentando  le opere esposte nella mostra di Torino.  

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Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Magenta 31 – Torino. Da martedì a domenica ore 10,00-18,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12, ridotto euro 9 . Info tel. 011.0881178 e 011.4429518.. Catalogo “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68”, a cura di Giovanni Castagnoli, Carolyn  Christov Bakargiev, Elena Volpato, marzo 2018, pp.270, formato 24 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 26 e 30 luglio p. v. Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per le  mostre romane sull’artista, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 25 e 30 gennaio 2013; su “Picasso” 5 e12 dicembre 2017, 6 gennaio  2018, “’68, è solo un inizio…”  21 ottobre 2017, “cubisti” 16 maggio 2013,   “astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012, “Deineka” 26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012;  in  cultura.inabruzzo.it sui “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, su “Picasso”  4 gennaio 2009 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli verranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della “Silvana  Editoriale”, che si ringrazia insieme ai titolari dei diritti; saranno commentate nell’articolo successivo. Sono alternate immagini di opere di ispirazione “rivoluzionaria” con opere di ispiorazione “privata”. In apertura, ,”Fucilazione in campagna” 1938; seguono, “Autoritratto con sciarpa e ombrello” 1936, e “Fucilazione a Roma” 1942; poi, “Gente nello studio [Antonietta Rafhael  Mafei, Mario Mafai, Aldo Natili, Armando Pizzinato, Mimise Guttuso] 1938, e “Gott Mit Uns” 1944; quindi, “Candela e pacchetto di tre stelle” 1948, e “Esecuzione”  1941; inoltre, “Ritratto di Mimese col cappello rosso” 1948, e “Studio per uccisione del capolega” 1947; infine, “Natura morta con lampada” 1940, “Studio per la Crocifissione” 1940, e “La finestra blu” 1940-41; in chiusura, “Autoritratto” 1943.

Guido Montauti, nel centenario, 1. Ricordo dell’uomo

di Romano Maria Levante

Nel centenario della nascita del pittore Guido Montauti, con cui condividiamo il paese natale Pietracamela, riportiamo il nostro contributo alla celebrazione, contenuto nel Catalogo della mostra tenutasi a Roseto degli Abruzzi (Te) nella Villa Paris dal 6 giugno al 6 luglio 2018,  “Guido Montauti, “un percorso di creatività”. Cento opere nel centenario della mascita” dopo i contributi dei critici d’arte Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo, Nerio Rosa e Bruno Corà , inseriti in questo ordine. La mostra di Roseto è la principale tra le manifestazioni celebrative svolte nell’estate 2018. 

Marco Rodomonti, “Guido Montauti” , bozzetto per la
1^ Mostra Internazionale  di Pittura Rupestre ‘Guido Montauti’  svoltasi a Pietracamela nel luglio-agosto 2014

Per la celebrazione del Centenario sono state organizzate le seguenti altre manifestazioni su singole fasi dell’arte del pittore Montauti: a Ripattone (Te.) dal 13 luglio al 31 agosto 2018, “Le opere in mostra a Venezia, Milano e Parigi negli anni 40-50”, ipotesi museale nel piano nobile di palazzo Saliceti in attesa del restauro; ancora a Roseto degli Abruzzi (Te) nella Villa Paris, dal 7 luglio al 31 agosto 2018, “L’esperienza de ‘Il Pastore bianco’ e il tempo dell’isolamento, opere degli anni ’60-‘70”; a Pietracamela nelle Grotte di Segaturo, dal 10 agosto 2018, “Il recupero delle Pitture Rupestri”, opere eseguite da ‘Il Pastore bianco’ nel 1964 e travolte dalla gigantesca frana del 19 marzo 2011. In onore dell’artista anche l’annuale manifestazione a Fano Adriano (Te) dal 5 al 25 agosto 2018, “XXVIII Premio di pittura estemporanea ‘Gran Sasso d’Italia Guido Montauti”.

Guido Montauti ritratto davanti a”Vena Grande”
 sopra Pietracamela, foto di Aligi Bonaduce

Introduciamo il “Ricordo di Guido Montauti” precisando che il nostro intervento orale alla manifestazione – preceduto dagli interventi dei critici d’arte citati all’inizio e seguito da quello del rappresentante della Regione Abruzzo che ha chiuso le presentazioni – ha ricevuto un commento significativo da parte del critico Nerio Rosa che è stato molto vicino all’artista in vita e ne ha sempre seguito il percorso artistico. Ci ha detto, nel rinfresco che ha chiuso la manifestazione, che “i ricordi personali non contano, conta solo la memoria collettiva”. Ne abbiamo convenuto, è una verità sacrosanta per personaggi di tale caratura.

Ma la memoria collettiva è formata dall’insieme dei ricordi personali, insostituibili testimonianze e prove realmente  vissute, quando sono convergenti e collimanti. Ebbene, le attestazioni di adesione che abbiamo ricevuto dai tanti paesani presenti alla manifestazione, che come noi hanno frequentato l’artista e si sono identificati nelle nostre parole, ci hanno confermato che i nostri ricordi personali corrispondono ai loro ricordi. Questo ci dà la convinzione che tali ricordi comuni sono diventati una vera memoria collettiva. Ed ora la trascrizione della nostra  presentazione in Catalogo.

Guido Montauti  al “Grottone,
1^ immagine del ‘reportage'”di Aligi Bonaduce

Ricordo di Guido Montauti

Non è  tanto dell’arte di Guido Montauti  che vogliamo parlare,  quanto della persona, avendolo conosciuto e condiviso con lui momenti senza dubbio autentici nell’abbraccio del paese e della montagna,  spinti dal ricordo sempre vivo della sua immagine: l’uomo prima dell’artista. 

Lo ricordiamo nei momenti che trascorreva a Pietracamela, in quelle lunghe estati in cui ci si ritrovava ogni anno, come per un tacito appuntamento.  Abbiamo davanti agli occhi  la sua figura elegante per il modo di vestire semplice ma curato e la gestualità misurata, il suo viso quasi scolpito, lo sguardo sereno pronto all’ironia, l’attenzione che prestava alle persone e alle cose.

Generoso ma anche severo quando occorreva, mai indifferente, il suo distacco era una forma di riflessione.  Non possiamo dimenticare le conversazioni con lui nella piazzetta del paese, le passeggiate  nei dintorni nelle quali si fermava per inquadrare con le dita strette a  mo’ di cornici particolari da tradurre nelle sue composizioni  montanare, le cene a Ortolano quando tracciava gli inconfondibili disegni delle case e delle rocce, e noi li conservavamo come oggetti preziosi.

Guido Montauti al “Grottone, 2^ immagine del ‘reportage'”di Aligi Bonaduce

Possiamo confermare il giudizio di Nerio Rosa, che lo conosceva  bene fino a chiamarlo al Liceo artistico per affidargli una docenza, ci torneremo ancora più avanti: “Montauti aveva un suo pudore e una sua privacy; era difficile farlo parlare delle cose a cui teneva di più; anzi alcuni elementi del suo carattere non facilitavano l’approfondimento dei colloqui, riservato com’era nel trattare i temi più impegnativi”.  Guido Montauti,

Ma non erano questi gli argomenti di discussione nelle distensive vacanze estive.   Era prezioso quello che donava con la sua presenza, le parole calibrate e il sorriso enigmatico, l’atteggiamento disincantato e la visione distaccata senza accentuare i toni, come se vivesse in un mondo non toccato dalle banalità correnti. In lui l’incarnazione dell’arte per l’arte, tanto più nel periodo anteriore al suo insegnamento nel Liceo Artistico di Teramo, quando aveva fatto la scelta coraggiosa di dedicarsi interamente alla pittura, non contraddetta neppure allorché con la docenza si impegnò nel trasferire ai giovani la sua maestria di dare corpo alla “figura” e non solo.

Guido Montauti, 1° Disegno a matita su carta con dedica

La sua arte, del resto, era strettamente legata alla vita in un binomio indissolubile, perché “era” la sua vita.  E la vita lo riconduceva alla terra che gli aveva dato i natali, anche quando la vita cittadina  e la dimensione artistica raggiunta avrebbero potuto offrirgli ben altre  prospettive; perfino quando la grande Parigi gli aprì le porte riconoscendo la sua arte e tentandolo con le sue lusinghe.

Restò sempre fedele all’ispirazione che veniva dalla sua montagna ed era stata rafforzata dalla visita alle celebri grotte francesi con le pitture rupestri che divennero poi un fattore di  compenetrazione della sua pittura con la natura e con  quell’umanità forte e gentile della migliore gente abruzzese, che ne condivide le asprezze e le meraviglie.

Visitò le grotte francesi  e ne fu folgorato da giovane militare in Francia, dove entrò nelle formazioni partigiane, i “maquis”, dopo essere evaso dalle prigioni naziste, non ne parlava mai sebbene ne qualificassero il coraggio e il valore civile.

Guido Montauti, 1^ opera inedita

Così prese forma  un  “quarto stato montanaro”,  assorto e in attesa, mai chino e mai domo.  

Non lo è stato neppure lui, non solo nella parentesi bellica, ma anche nella sua vita ritirata e raccolta perché non ha esitato a  lanciare sfide epocali, come quella alla Biennale di Venezia e alle stravaganze moderniste della Pop Art, per un ritorno ai valori più autentici dell’arte e della vita. 

E per dare maggiore visibilità alla sua visione, che si tradurrà nel “manifesto per la Rinascenza”,  creò il gruppo del “Pastore Bianco”, impegnato con la sua guida in pitture su tela di grandi dimensioni,  oltre che nelle “pitture rupestri”  delle “Grotte di Segaturo”.

La maggior parte di quelle “pitture rupestri” è stata distrutta dal crollo del contrafforte del Grottone, dove amava rifugiarsi, ma ne sono sopravvissute tre molto significative, restaurate e rese accessibili al pubblico  per il Centenario dal Comune di Pietracamela: c’è poi una sua grande tela nella Sala comunale del borgo, e nel soggiorno dell’Hotel Gran Sasso 3, possono essere parti di un “percorso Montauti”  con il grande “Giudizio Universale” al culmine dello scalone nel Municipio di Teramo.

Guido Montauti al “Grottone”,  
3^ immagine del  ‘reportage’ di Aligi Bonaduce

Ricordiamo la mostra del 1964 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, nella Galleria d’Arte che poteva ospitare opere di dimensioni così rilevanti, come se lo richiedesse la simbiosi con la roccia che veniva esaltata. Tra loro il “Giudizio Universale” di lunghezza smisurata, un’opera monumentale in cui  le  sagome umane diventano filiformi in un cromatismo marrone e ocra, raffigurate in folti raggruppamenti o isolate mentre urlano disperate;  ci sono le trombe del Giudizio in questo grande affresco dell’umanità  dolente o compunta in attesa, veramente all’altezza di un tema così impegnativo, è il livello massimo raggiunto. 

Il “Pastore bianco” era formato da lui e tre giovani pittori, Alberto Chiarini, Diego Esposito, Piero Marcattilii   più il pastore Bruno Bartolomei il quale il giorno dell’inaugurazione della mostra romana del 1964  indossava il caratteristico “guardiamacchia”  di vello di pecora;  alla chiusura serale si andò  tutti insieme al Colosseo, si scherzava con il pastore per la sua presenza soltanto folcloristica. Invece prese così sul serio la propria partecipazione che cominciò a dipingere anche da solo,  fino a esporre il suo naif ingenuo e delicato in una scuola di Montorio al Vomano: fu un  miracolo dell’esempio e della forza carismatica di Guido, pur nella sua semplicità disarmante.  

Guido Montauti, 2° Disegno a matita su carta

Un altro componente del “Pastore Bianco”,  Diego Esposito, divenuto poi docente a Brera oltre che artista su scala internazionale, ci ha detto di recente che il suo maggiore interesse per la partecipazione al gruppo, in cui la parte pittorica faceva capo ovviamente al Maestro, erano le conversazioni sull’arte con lui, Guido era un maestro anche in questo, un autodidatta con una straordinaria conoscenza e sensibilità artistica.

Nel nostro ricordo vogliamo soffermarci ancora su questa vicenda  che abbiamo vissuto da vicino. Non si è trattato di una svolta stilistica o di contenuto – dato che “Il Pastore bianco” esprime  stile e contenuti del capofila –  bensì di una cesura personale ma sempre di tipo artistico: il pittore schivo e solitario, tornato a dipingere chiuso nel suo studio con la resa luminosa a lui più congeniale dopo l’ubriacatura parigina, cambia pelle. Non solo forma intorno a sé il gruppo dei  tre giovani pittori e il pastore e si impegna  in un’intensa attività artistica, ma esce all’aperto con le monumentali “Pitture rupestri” .  

Nel nostro ricordo vogliamo soffermarci ancora su questa vicenda  che abbiamo vissuto da vicino. Non si è trattato di una svolta stilistica o di contenuto – dato che “Il Pastore bianco” esprime  stile e contenuti del capofila –  bensì di una cesura personale ma sempre di tipo artistico: il pittore schivo e solitario, tornato a dipingere chiuso nel suo studio con la resa luminosa a lui più congeniale dopo l’ubriacatura parigina, cambia pelle. Non solo forma intorno a sé il gruppo dei  tre giovani pittori e il pastore e si impegna  in un’intensa attività artistica, ma esce all’aperto con le monumentali “Pitture rupestri” . 

Guido Montauti, 2^ opera inedita

Le  “Grotte di Segaturo” sono, o meglio erano, un’area costellata di rocce come tanti bivacchi appena fuori l’abitato di Pietracamela. un ambiente molto speciale  divenuto  anfiteatro di presenze mute,  vibranti di un’umanità arroccata nella sua fortezza naturale.

Anche nei periodi precedenti,  pur nell’apparente continuità, non mancava di approfondire la sua ricerca e darne conto nelle opere: con “Il Pastore bianco”  le caratteristiche sagome  si stagliano sullo sfondo e si accostano in forme di aggregazione sempre più elaborate fino ad avvalersi del rilievo visivo dato dalle “pitture rupestri”  nelle quali  la vicinanza  delle varie composizioni in una sorta di “accampamento” primordiale  ne accresce la forza evocativa. 

Le figure non hanno  contorni marcati, è il fondo roccioso dove sono collocate a modularle,  per la maestria nell’accostamento cromatico di pochi colori ben netti. Si ha l’indescrivibile sensazione di presenze vive, anche al di là della rappresentazione teatrale, perché hanno il sapore inconfondibile della realtà vera. Rispetto alla loro impressionante efficacia sembra quasi riduttivo associare le “Pitture rupestri”  alle forme di arte “in situ” e di “land art” che “Il Pastore bianco” ha anticipato, altro suo merito storico.     

3° Disegno su carta

Tra le “Pitture rupestri” sopravvissute al crollo del “Grottone”, nella più appartata si possono vedere tuttora una diecina di  figure quasi rintanate in un anfratto naturale, nella più spettacolare l’adunata di una ventina di forme umane bianche e celesti, nere e rosse, un cavallo con cavaliere e un altro visto dalle terga.

Invece sono state perdute le altre, per alcune delle quali  l’impatto era accresciuto dalla posizione acrobatica su rocce sospese o da altre peculiarità visive. Sono  forme primitive, quasi primordiali  in un contesto che  resta grandioso anche se sono rimaste le uniche e non c’è più l’effetto derivante dalla disseminazione di figure evocative nel comprensorio.  

Abbiamo ricordato la mostra  del 1964 al Palazzo delle Esposizioni  di Roma, seguirono nel 1966 mostre a Teramo, Pescara e L’Aquila, i tre principali capoluoghi dell’Abruzzo che è  la terra dei componenti del Gruppo e la fonte dell’ispirazione artistica.  

Guido Montauti al “Grottone” ,4^ immagine del ‘reportage di Aligi Bonaduce

Ma non basta, sempre con “Il Pastore bianco”  lancia una sfida che crea scalpore alla Biennale di Venezia all’insegna dell'”Avanguardia della Rinascenza”.

Nel  1967 la  solenne dichiarazione “I giovani artisti di tutti i paesi del mondo hanno raccolto il messaggio del Pastore bianco”, che ne segna il culmine e la fine, era avvenuto quanto si proponeva, il mondo dell’arte era stato scosso dalla sua sollecitazione, missione compiuta. Guido Montauti.

C’è  un’altra svolta nella vita di Guido Montauti di cui vogliamo parlare, non inerente in modo diretto ma collegata all’arte, le persone a lui vicine l’hanno vissuta direttamente. Ha compiuto cinquant’anni,  e inizia un’esperienza nuova per lui che finora si è dedicato anima e corpo alla pittura, nel 1969  diventa docente di “Figura Disegnata” al Liceo Artistico Statale di Teramo, incarico offertogli da Nerio Rosa appena nominato Direttore per il rilancio dell’Istituto con un docente d iprestigio. Guido Montauti,

Lo svolgerà per nove anni fino alla scomparsa, per questo gli è stato intitolato e ne conserva la memoria, si chiama oggi “Liceo Artistico Guido Montauti”.

Guido Montauti, 3^ opera inedita

Nerio Rosa racconta che quando glielo propose ebbe un primo rifiuto,  perché non voleva togliere tempo alla pittura  né si sentiva di  entrare in un ruolo che non sentiva suo – la moglie invece era professoressa di Storia dell’arte,  è stata pure nostra insegnante liceale e si avvicina felicemente al proprio centenario di vita – d’altra parte la sua era stata una scelta solitaria.

Anche qui, come per “Il Pastore bianco”, non manca di sorprendere, alle insistenze del Direttore accetta di partecipare al concorso per l’inserimento stabile ma solo dopo la nomina in via  provvisoria di un mese, stratagemma ideato dal commissario Assunta Formisani.  

In quel breve periodo superò ogni remora, e stabilì subito un intenso rapporto umano con gli allievi. I suoi interventi didattici, sostenuti da una profonda conoscenza anche dell’arte contemporanea, avvenivano sempre “nel rispetto della personalità dell’allievo”, come amava dire, e anche i colloqui con le famiglie li svolgeva con impegno e convinzione e senza risparmiarsi, sebbene per altri versi fosse di poche parole.

Guido Montauti  al “Grottone”,
5^ immagine del ‘reportage di Aligi Bonaduce

“Non pensavo che la scuola mi interessasse tanto, invece mi interessa e mi piace”,  disse alla metà del primo anno scolastico entrando nella Presidenza, e Nerio confida: “Tirai un sospiro di sollievo, era fatta.

Solo la morte ce lo avrebbe tolto nove anni dopo”; sui rapporti con gli alunni diceva: “Ci vivo bene” dando a queste parole un significato esistenziale molto ampio e positivo. 

Il Direttore di allora conclude così: “Ma soprattutto mi corre l’obbligo di testimoniare che mai nella scuola egli ha fatto pesare agli altri la sua grande esperienza di artista, avendo per tutti sempre un atteggiamento di pacata benevolenza”. 

Vogliamo sottolineare che venendo meno alla sua decisione iniziale di dedicarsi esclusivamente alla pittura non si è contraddetto, ha cercato di passare il testimone alle nuove generazioni trasmettendo loro il cospicuo patrimonio artistico che aveva accumulato.

Guido Montauti, 4^ opera inedita

Tanti  altri sono i ricordi personali, rivediamo una visita con lui a una mostra a L’Aquila all’inizio degli anni ‘60, lui scherzava sui generali alla berlina di Baj, uno degli artisti espositori, fu una giornata indimenticabile trascorsa insieme.

Rivediamo come fosse avvenuta ieri la nostra visita al suo studio, con i tanti quadri ordinati in gruppi omogenei che ci presentava quasi con timidezza, ne scegliemmo tre quasi in successione, con il caratteristico gruppo di figure intorno alla roccia ripreso prima da lontano, poi più da vicino, fino a un primo piano, in una visione cinematografica di assoluta modernità che ci colpì, sempre nell’aplomb arcaico delle sue sagome umane.

Volle aggiungere come suo omaggio un quadretto con l’estrema sintesi dei suoi contenuti di allora, la roccia e la persona; poi ci fece avere il suo pensiero augurale in un momento importante, il sigillo della nostra terra attraverso la sua arte che volle donare a noi e nostro fratello in occasione delle nostre nozze.

Guido Montauti  al “Grottone”,
6^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce

Abbiamo limitato la celebrazione della sua figura ai ricordi personali, anche se lo spessore dell’artista è tale da collocarlo ben al di sopra dell’immagine che prevale nella memoria di chi lo ha conosciuto: il Centenario è l’occasione per rievocare le due dimensioni, quelle della vita e dell’arte. 

L’intero  suo percorso di vita è fatto di riservatezza e ricerca di isolamento piuttosto che di ostentazione e apertura narcisistica, ma è movimentato  da improvvise fiammate, di cui abbiamo parlato,  nel suo anelito di libertà e nel culto dell’arte, quella che sentiva autentica e minacciata per cui doveva essere difesa dalle tante profanazioni.  

Il suo  itinerario artistico è  rievocato dalla mostra con una antologica particolarmente curata delle varie fasi di un quarantennio di pittura, nel quale all’interno di una continuità stilistica e di contenuti si nota un’evoluzione  altrettanto evidente, frutto di una maturazione cosciente senza alcuna adesione alle tante avanguardie incontrate lungo il cammino.

Guido Montauti, 5^ opera inedita

L’intreccio dei due percorsi lo ha portato a un affinamento ideale quasi impensabile per uno come lui che aveva posto come componenti della propria pittura archetipi naturali, come le rocce e le sagome umane, sigillo inconfondibile della sua arte.

Tutto ciò è  sublimato da una proiezione interiore che si è tradotta nell’approdo finale, come per  Mondrian che, nella radicale diversità di forma e contenuto, era andato alla ricerca della “perfetta armonia” raggiunta nelle celebri griglie cromatiche neoplasticiste; Guido Montauti  vi si è avvicinato sempre più nell’ultima fase per raggiungerla alfine sull’orlo della vita.

A tale riguardo, nello spirito forse paesano che cerca e trova segni inequivocabili di qualcosa che va “oltre”, vogliamo concludere questa nostra rievocazione con due memorie  molto personali  che potranno far sorridere: ma noi, lo assicuriamo, non abbiamo sorriso  bensì abbiamo meditato.

Guido Montauti  al “Grottone”,7^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce

La prima riguarda la mostra fotografica del 2012 a Pietracamela dedicata alle immagini di Guido Montauti riprese dall’amico paesano Aligi Bonaduce  e ritrovate casualmente dal figlio Flavio trent’anni dopo. 

Il “reportage” fotografico mostra il pittore nella parte del “Grottone”, dove chiese ad Aligi di essere fotografato, proprio nella grotta che molto tempo dopo gli scatti, nel 2011, sarebbe crollata, con parte del contrafforte, come abbiamo ricordato,  travolgendo a valle le pitture da lui dipinte con il gruppo del “Pastore Bianco” sulle rocce della “Grotta di Segaturo”.  

Ebbene, lo stesso giorno di apertura della mostra, il 13 agosto 2012, veniva firmato l’avvio dell’iter del provvedimento per la messa in sicurezza della zona, concluso con un decreto comunicato al Comune l’11 settembre 2012, una settimana dopo la pubblicazione del servizio sulla mostra.

Sono eventi del tutto indipendenti, chiaramente, una  mera coincidenza, ci mancherebbe altro, ma vedere la sua immagine sulla sommità della vallata ci fa pensare a una presenza ammonitrice, come un nume tutelare, comunque ci ha fatto sentire il sapore della favola, una favola montanara  ricca di significati.

La seconda memoria personale riguarda la nostra visita alla mostra di Firenze del 2002, nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio. Ebbene, una serie di fatti che è eufemistico definire non comuni, tanto straordinari da tenerli per noi,  ci fece tornare una seconda volta nella tarda mattinata, quando abbiamo potuto vedere in modo diverso le opere dell’ultimo periodo.

Guido Montauti, 6^ opera inedita

Non entriamo nella valutazione artistica, che in questa sede non ci compete, intendiamo solo esprimere la percezione stimolata in noi dai fatti che abbiamo definito “non comuni”.  

Li ho fissati nel registro dei visitatori alla mostra – parlo ora in prima persona dato il carattere molto personale di ciò che ito per dire – – – nell’immediatezza del loro accadimento, ed ora li inserisco qui in aggiunta (in corsivo) al testo del Catalogo nel quale non sono entrato in un tema, ripeto, così personale Era una domenica mattina e dopo aver visitato la mostra sono andatio alla ricerca di una chiesa per la Messa, fatto inconsueto perchè nelle trasferte non era mai avvenuto, ma c’è stata una spinta interiore. Nel Vangelo mi ha colpito che veniva citato il brano di Giovanni scolpito sulla lapide dei miei genitori, e allora al termine della funzione religiosa ho sentito il bisogno interiore di tornare alla mostra preso da un’ispirazione. La lapide dei miei genitori ricorda su un fondo blu-azzurro un cielo punteggiato dalle formazioni celesti, a parte il colore vi ho associato in modo istintivo un quadro della mostra, per questo ci sono tornato. Era l’ultimo quadro del pittore, realizzato “sull’orlo della vita”, con l’estrema rarefazione in un pulviscolo arcano che mi ha richiamato quello della lapide, vi ho visto l’Empireo, come per i miei genitori. Nel registro dei visitatori scrissi tutto questo.

E allora la nostra interpretazione dell’evoluzione finale è stata guidata da un’illuminazione, abbiamo guardato il “periodo bianco”  con occhi ispirati.

Abbiamo visto le bande oblique assottigliarsi e diventare elementi filiformi in volo verso l’alto;  poi  un pulviscolo bianco segnare il raggiungimento della massima rarefazione, come se si fosse liberato dai fardelli terreni per approdare a una dimensione spirituale di natura eterea, che appare superiore, forse soprannaturale, anzi suprema.   Questo ci ha fatto sentire  una sublimazione scandita nella pittura da un ritmo musicale, marcata con il sigillo evocativo delle sue rocce, in queste ultime opere come una firma.

Guido Montauti  al “Grottone”, 8^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce

Il nostro artista sa già che la fine si avvicina, è consapevole del male inesorabile che lo porterà via il 14 marzo 1979,  a poco più di sessant’anni,  l’intensità che avvertiamo nell’approdo della sua ricerca testimonia l’elevazione in atto in lui, espressa in modo straordinario nella sua pittura. Si solleva  nell’Empireo senza abbandonare la matrice terrena.

La vediamo nell’opera del 1977 intitolata  “Uomini di Pietracamela”, un’umanità che aveva sempre rappresentato senza volto,  e ora che la sua pittura è protesa verso la rarefazione fino all’astrazione, raffigura su fondo nero con le figure e i volti in bianco, per la prima volta dando loro dei tratti fisiognomici quasi per marcarne le individualità, e non più soltanto l’identità:  una sorta di estremo saluto rivolto a ciascuno come individuo, distinto dal gruppo come indistinta identità collettiva.

E l’anno successivo, il 1978, pochi mesi prima della morte,  abbiamo “Lettera”, grossi caratteri sullo stesso fondo nero di “Uomini” dove spiccavano i volti, due composizioni parallele che fanno pensare a un testamento pittorico: si intravedono delle lettere, ma è indecifrabile, si percepisce l’anelito di una ricerca interiore sempre più ansiosa, che segna un ulteriore passo avanti in “Paesaggio modulare”, composto di lettere ingrossate che occupano l’intera superficie. Sembra voglia dire qualcosa in un estremo messaggio.

E l’anno successivo, il 1978, pochi mesi prima della morte,  abbiamo “Lettera”, grossi caratteri sullo stesso fondo nero di “Uomini” dove spiccavano i volti, due composizioni parallele che  fanno pensare  a un testamento pittorico.

Guido Montauti  nei dintorni di Pietracamela,
9^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce

.Si intravedono delle lettere, ma è indecifrabile, si percepisce l’anelito di una ricerca interiore sempre più ansiosa, che segna un ulteriore passo avanti in “Paesaggio modulare”, composto di lettere ingrossate che occupano l’intera superficie. Sembra voglia dire qualcosa in un estremo messaggio.

Un approdo magico,  nel quale  la sua spiritualità lo mette in contatto con il mondo che sa di dover raggiungere presto, mentre la sua pittura divenuta eterea sa rendere in modo miracoloso pulsioni interiori così struggenti. E ci fa raggiungere l’iperuranio altrimenti inaccessibile nel

“Paesaggio con complessità ritmiche” che abbiamo ribattezzato “L’Empireo”.  Perché questo abbiamo sentito nella seconda visita alla mostra di Firenze, sollecitati da un richiamo interiore.

Un primo piano di Guido Montauti,
10^ e ultima immagine del “reportage” di Aligi Bonaduce

Non è  facile sentimentalismo rilevare nel Centenario nella nascita, a quasi quarant’anni dalla morte, come lo spirito di Guido Montauti continui a permeare la sua terra, che ha tanto amato fino a portare sempre con sé, anche nella sublimazione iperurania delle ultime opere, il sigillo delle sue rocce, come un talismano.

Ebbene, il crollo del contrafforte del Grottone che abbiamo ricordato, se ha sbriciolato la gran parte delle “Pitture rupestri”  del “Pastore bianco” –  che costituivano la massima compenetrazione della sua pittura con l’ambente – le ha integrate definitivamente in un territorio che porta adesso nel suo stesso corpo naturale la sua impronta,  in una ideale reincarnazione. 

Non è  facile sentimentalismo rilevare nel Centenario nella nascita, a quasi quarant’anni dalla morte, come lo spirito di Guido Montauti continui a permeare la sua terra, che ha tanto amato fino a portare sempre con sé, anche nella sublimazione iperurania delle ultime opere, il sigillo delle sue rocce, come un talismano.

Alle tre  “Pitture rupestri”  superstiti della “Grotta di Segaturo” del 1964 – incancellabile testimonianza sulla pietra di una stagione segnata dalla sua arte – si è aggiunta, più in basso,  in una roccia al lato del sentiero che porta al vecchio mulino,  la nuova “Pittura rupestre” di Jorg Gurnert, che ha vinto nel 1964  il  “Premio Internazionale Pittura rupestre Guido Montauti a lui intitolato. 

Il passaggio del testimone anche nella “pittura rupestre”, dunque,  come quando, per altri versi, aveva accettato di dedicarsi all’insegnamento dell’arte nel Liceo artistico a cinquant’anni.

Con la nuova “Pittura rupestre”  questo si è ulteriormente concretizzato, un miracolo dell’artista che lo fa sentire sempre presente tra le rocce e la gente della sua Pietracamela.  Mentre la sua arte lo ha portato molto lontano, come testimoniano i riconoscimenti ricevuti da grandi  critici italiani e internazionali. 

Sono  riconoscimenti  da ricordare e rinnovare nel Centenario in cui si celebra l’artista e si onora  la memoria dell’uomo. A questa abbiamo dedicato i nostri ricordi appassionati. 

La maggiore delle 3 “pitture rupestri” superstiti dopo il crollo del Grottone,
prima del restauro del 2018 per il centenario

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti.’ Un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice“Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa,  “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti, Omaggio all’artista del suo paese natale”, luglio 2001, pp. 60, formato 29,5 x 30, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti, “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e  Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti”. Catalogo “Guido Montauti”, della  Mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze, e nella Pinacoteca Civica di Teramo,  Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, pp. 100, formato 28 x 29,5, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”,  Nerio Rosa “La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo. In corsivo è inserita una aggiunta molto “personale”al testo pubblicato nel Catalogo.

Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. Dopo questo primo articolo usciranno: il 2° articolo  il  22 luglio “Montauti, nel centenario: 2. L’uomo e l’artista”, il 3° il 29 luglio “Montauti, nel centenario: 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, il 4° il 3 agosto  “Montauti,, nel centenario: 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”;  il 5° l’11 agosto   “Montauti, nel centenario: 5. “Dal Pastore bianco all’Empireo”, il 6° e ultimo il 19 agosto “Montauti, nel centenario: 6. Il recupero delle Pitture rupestri”.

Per il “Premio Internazionale Pittura Rupestre ‘Guido Montauti’” cfr. i nostri articoli in questo sito il  14 luglio, 2 e 9 settembre 2014 e in “abruzzo.world.it” ” l’8 luglio 2014 ; per la mostra fotografica di Aligi Bonaduce su Guido Montauti e per il  crollo del “Grottone” nostri articoli sono stati pubblicati  in “abruzzo world.it”  il 3 e 14 settembre 2012  e in “guidaconsumatore.fotografia”  il  10 settembre 2012 (questi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, verranno forniti a richiesta). 

La parete “Guido Montauti” nell’abitazione di Salvatore Levante a Roma

Foto 

L’immagine di apertura riproduce il bozzetto di Marco Rodomonti  presentato al “Premio Internazionale Pittura Rupestre ‘Guido Montauti'” svoltosi a Pietracamela nell’agosto 2014; seguono 21 immagini alternate fra 11 fotografie all’artista di Aligi Bonaduce  tra le rocce del  suo paese natale, e 9 riproduzioni di suoi disegni e dipinti inediti.  

Il “reportage” di Bonaduce riprende l’artista, 8 fotografie nel “Grottone” , il contrafforte roccioso  che domina il paese crollato 35 anni dopo nella vallata distruggendo alcune sue Pitture rupestri, in altre 3 fotografie è ripreso, con la prima avanti a  “Vena Grande”,   il masso identitario sopra la piazza del paese, lcon e altre due nei dintorni. Le immagini  fanno parte del servizio fotografico sull’artista presentato nella mostra dell’agosto 2012 a Pietracamela.

I 3 disegni furono donati dall’artista a Romano Maria Levante nelle cene durante le quali li tracciava, i 3  dipinti che aprono la serie – del tutto inediti, non figurano in nessun catalogo o inventario – furono scelti da Romano Maria Levante e  Salvatore Levante in occasione delle loro visite allo studio dell’artista rievocate nel testo per la sequenza di tipo cinematografico di progressivo avvicinamento al gruppo di figure sulle rocce, fino all’intenso primo piano pittorico di una figura; dei 3 dipinti che chiudono la serie, anch’essi inediti, i primi 2 di tema analogo furono donati dall’artista ai fratelli Levante nel 1969 ai loro matrimoni, il 3° dipinto, vero sigillo del suo motivo prediletto,lo aggiunse lui stesso come omaggio personale ai tre scelti nello studio. 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante: quella di apertura,  del bozzetto di Marco Rodomonti, ripresa nella mostra svoltasi a Teramo nel 2014 dei partecipanti al “Premio Internazionale Pittura Rupestre ‘Guido Montauti’;  quelle della sequenza fotografica sull’artista, di Aligi Bonaduce,  riprese nella mostra svoltasi a Pietracamela nell’agosto 2012; le immagini dei dipinti e dei disegni sono state riprese fotografando le opere originali.  Si ringraziano Marco Rodomonti, Aligi Bonaduce e Salvatore Levante, titolari dei rispettivi diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Marco Rodomonti, “Guido Montauti” , bozzetto per la 1^ Mostra Internazionale  di Pittura Rupestre ‘Guido Montauti’  svoltasi a Pietracamela nel luglio-agosto 2014; seguono, Guido Montauti ritratto davanti a “Vena Grande”  sopra Pietracamela, foto di Aligi Bonaduce, e Guido Montauti  al “Grottone, 1^ immagine del ‘reportage'”di Aligi Bonaduce, poi, Guido Montauti, 1° Disegno a matita su carta con dedica, e Guido Montauti al “Grottone”,  2^ immagine del  ‘reportage’ di Aligi Bonaduce; quindi, Guido Montauti, 1^ opera inedita, e Guido Montauti  al “Grottone”, 3^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce; inoltre, Guido Montauti, 2° Disegno a matita su carta, e Guido Montauti, 2^ opera inedita; ancora,  Guido Montauti  al “Grottone”, 4^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce, e 3° Disegno su carta; continua, 3^ opera inedita, e Guido Montauti  al “Grottone”,
5^ immagine del ‘reportage di Aligi Bonaduce; prosegue, 4^ opera inedita, e Guido Montauti  al “Grottone”,
6^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce; poi, Guido Montauti, 5^ opera inedita, e Guido Montauti  al “Grottone”,
7^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce; quindi, Guido Montauti, 6^ opera inedita, e Guido Montauti  al “Grottone”, 8^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce; inoltre, Guido Montauti  nei dintorni di Pietracamela, 9^ immagine del ‘reportage’ di Aligi Bonaduce. e Un primo piano di Guido Montauti, 10^ e ultima immagine del “reportage” di Aligi Bonaduce e; infine, La maggiore delle 3 “pitture rupestri” superstiti dopo il crollo del Grottone, prima del restauro del 2018 per il centenario e, in chiusura, La parete “Guido Montauti” nell’abitazione di Salvatore Levante a Roma, e La parete “Guido Montauti” nell’abitazione di Romano Maria Levante a Roma.

La parete “Guido Montauti” nell’abitazione di Romano Maria Levante a Roma

L’altro sguardo, la fotografia al femminile, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante 

La mostra  “L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2018″ presentaal Palazzo Esposizioni di Roma dall’8 giugno al 2 settembre 2018circa200 immagini con la particolarità di essere state realizzate da fotografe che hanno rotto l’iniziale monopolio maschile del settore per un giornalismo fotografico che va dalla documentazione all’inchiesta fino all’introspezione; l’altra particolarità è che le fotografie fanno parte della collezione di Donata Pizzi, fotografa anch’essa con una lunga esperienza giornalistica in campo fotografico.  Le fotografie sono raggruppate in 4 sezioni: tematiche:“Dentro le storie” e  “Cosa ne pensi del femminsmo?”, “Identità e Relazione” e “Vedere oltre” . La mostra  e il catalogo bilingue italiano-inglese di “Silvana Editoriale” sono a cura di Raffaella Perna.

Sono  diversi i motivi di interesse per una mostra inconsueta, non perché sia fotografica – la fotografia è e entrata da tempo nel novero delle arti – ma perché è declinata al femminile e imperniata su una cocome si vede nelel 4 sezioni, llezione che Donata Pizzi ha raccolto con cura a partire dagli  anni ’60.  

La Pizzi è una valida professionista, fotografa anch’essa, autrice di libri fotografici che ha lavorato anche all’estero in primarie agenzie fotografiche, e questo è una garanzia per la qualità delle sue scelte sotto il profilo tecnico. Ma  qual è il criterio seguito nella selezione, e  soprattutto la molla che l’ha spinta a iniziare la raccolta? 

E’ lei stessa a spiegarlo in un’intervista alla curatrice  Raffaella Perna dopo aver detto di essersi accorta del fatto che la fotografia italiana era rimasta isolata rispetto all’evoluzione del mercato europeo sulla scia di quello americano sebbene alcuni nostri fotografi fossero affermati sul piano internazionale: “Ho pensato quindi di dimostrare attraverso la mia collezione  che una fotografia italiana esiste, e che è doveroso prenderne atto e promuoverne le specificità e il valore “.  

Ma non si è fermata a questo: “Ho pensato inoltre di limitare l’ambito della collezione alle fotografe perché sono state le più penalizzate dai ritardi  del sistema, nonostante abbiano saputo individuare linee di ricerca nuove e inattese, a cui mi sento affine e che condivido”. Sulla eventuale differenza tra lo “sguardo” della fotografa femminile  e quello maschile, dopo aver citato l’espressione di Lucy Lippard, “l’arte non ha sesso, ma l’artista sì”, afferma: “Nelle opere che ho acquisito ritrovo, pur con declinazioni diverse, un inedito desiderio di sfidare le convenzioni sociali, visive e linguistiche e uno sguardo coinvolto e partecipe, capace di comprendere a fondo storie e passioni umane”.  

Originale anche il criterio adottato, non si è limitata a raccogliere le opere fotografiche, ma è entrata in contatto con le fotografe per seguirne l’attività, e la stessa selezione delle opere nell’ambito della loro produzione da inserire nella collezione è stata fatta con la loro collaborazione  per individuare quelle più significative. E’ stata formata  così “una rete all’interno della quale  si è delineato un percorso cronologico” della durata di 50 anni, nei quali sono stati documentati i grandi cambiamenti nella società. Il tema dell’identità, comunque, si ritrova sia nelle opere degli anni ’60 sia in quelle più recenti, è una costante.

Il ritardo delle donne nell’accedere a questo settore professionale, come a tanti altri, è cessato con l’apertura sempre più ampia, come una diga che è crollata e ha consentito di esprimere i talenti prima repressi delle fotografe, subito attirate dalle grandi questioni sociali e politiche, in certi periodi dei veri drammi nazionali,  sulle quali si è riversata la loro sensibilità, “l’altro sguardo”. D’altra parte nella prima parte del ‘900.quando le donne non erano ancora emancipate, i fotografi  maschi snobbavano le istantanee che miravano soltanto a coglievano l’evento,  dato che avevano pretese artistiche, cercando di imitare i pittori, di qui il cosiddetto “pittorialismo” fotografico. uindi lasciavano uno spazio che fu colto con lungimiranza anticipando tendenze attuali, FCederica Muzzarelli, a proposito della “donna e la fotografia”  sottolinea che “questo atteggiamento anticipatorio  e rivelativo della  concettualità fotografica poteva concentrarsi e trovare definizione attorno ai due nuclei tematici del corpo e dell’azione” come avviene anche oggi.  

La collezione presenta tutte le principali protagoniste di questa rivoluzione femminile in campo fotografico esplosa mentre al fotoreporter   veniva data la qualifica di giornalista e l’attenzione verso la realtà viva del paese cresceva dinanzi alle lotte politiche e sociali, il terrorismo  e la strategia della tensione, le radicali trasformazioni nel tessuto economico e sociale del paese con l’emigrazione interna e l’urbanesimo, la condizione degli emarginati di ogni categoria.

Nella mostra ritroviamo l’espressione visiva di tutto questo con la galleria di opere di circa 60 artiste con 200 scatti,  ognuna presenta diverse immagini, un piccolo “reportage”. Per incociare “l’altro sguardo” delle fotografe espositrici passiamo ora in rassegna le 4 sezioni tematiche, nelle quali dalla testimonianza e dalla denuncia di “Dentro le storie” si passa alla  “provocazione” insita in “Cosa ne pensi tu dei femminismo”, poi all’orgogliosa riaffermazione di “Identità e Relazione” fino all’evoluzione artistica verso l’astrattismo di “Vediamo oltre”. 

Dentro le storie

Scorriamo la 1^ sezione cominciando con Lisetta Carmi, per sottolineare la ricerca dell’emarginazione e della violenza da denunciare, dalle favelas venezuelane ai sotterranei parigini. Dal 1965 si interessa degli emarginati dalla famiglia e dalla società, a partire dai travestiti,  e non si limita a fotografarli nei suoi toccanti reportage  ma li va a trovare con lo psicanalista Elvio Facchinelli intrattenendo con loro un rapporto molto umano. Sono esposte 6 immagini riprese tra il 1966 e il 1970, pubblicate con le altre scattate in quel periodo, nel volume “I travestiti”, in bianco-nero e a colori  con figure femminili riprese in una intimità che sottolinea la prodonda solitudine.

Tutt’altro per le foto di Elisabetta Catalano, Maria Mulas e  Chiara Samugheo che invece documentano incontri con persone celebri, da Talitha Getty con Giosetta Fioroni, a Peggy Guggenheim e Valentina Cortese.

Anche Carla Cerati  presenta scene di società gaudente, con  Umberto Eco e Inge Feltrinelli all’inaugurazione di M.A.R.C.O. e Willy Rizzo con Nucci Valsecchi all’inaugurazione del loro negozio, tutti ridono beati. ma in parallelo la stessa fotografa mostra l’altra faccia della luna, quella nascosta, con 3 immagini scattate nell’ospedale psichiatrico di Gorizia,le espressioni stravolte e sofferenti dei malati  stringono il cuore.

Gli “stati psicopatologici” sono l’oggetto del “reportage” di Lori Aammartino, 8 immagini con le espressioni più diverse del volto accompagnate dalle mani  in tante posiziobi,  geniale!

Si va sul politico con Elisa Magri,  da “Nigger” a “Kennedy”, da Cuba” al “Vietnam”; e ancora di  più con Augusta Conchiglia, con 8 immagini sulla guerriglia in Angola, che vanno dagli aspetti militari con le giovani reclute armate e le perlustrazioni  a quelli civili come la campagna di alfabetizzazione e la distribuzione di medicine.

Si torna all’emarginazione con Paola Agosti, ma di tutt’altra natura, è quella delle aree economicamente depresse, siamo nelle Langhe, dal  1977 al 1990 ,scene  di squallore di una famiglia, fanno parte della serie “Immagini del ‘mondo dei vinti'”, libro fotografico pubblicato nel 1977 dopo che nel 1977 Nuto Revelli pubblicò “Il mondo dei vinti”,con racconti sulla povertà delle campagne del Nord, un mondo in via di sparizione che la Agosti, colpita da quelle storie, volle subito esplorare; fino a seguire 20 anni dopo le famiglie piemontesi emigrate in Argentina e darne conto nella serie “El Paraiso: entrada provvisoria”,pure alcune di queste immagini sono in mostra.

Dall’emarginazione alla violenza politica  riflessa nelle fotografie di  Giovanna Borghese sulle ragazze di Prima linea dietro le sbarre e su  Sindona che prende un caffè, non quello che lo uccise in carcere ma il riferimento è evidente, sul primo terrorista pentito Patrizio Peci in tribunale e la banda Cutolo ammanettata,  gli anni di piombo e la delinquenza camorristica in evidenza.  Violenza questa volta ripresa direttamente e non solo riflessa negli scatti di Letizia Battaglia: rivediamo  la tremenda scena dell’omicidio di Piersanti Mattarella con il fratello Sergio, l’attuale Presidente della Repubblica che lo prende in braccio portandolo fuori dall’auto dove è stato colpito a morte, e il triplice omicidio a Palermo, questa volta in un interno con tre corpi riversi o a terra, mentre un manifesto gioioso alla parete crea un contrasto drammatico. “La bambina e il buio” è un’immagine simbolica che accompagna  queste scene, il buio della ragione con i mostri generati e l’innocenza.

Nei primi anni ’90  troviamo le immagini sorridenti  della serie Piedras Negras di Lina Pallotta,mentre nella seconda metà del decennio  Isabella Balena nella serie “Questa guerra non è mia” presenta i muri colpiti dai proiettile a Mostar, poi salta al 2011 e 2013 con i profughi di Lampedusa e non solo.  ad altri profughi.  Mentre Francesca Volpi documenta nel 2016 la guerra in Ucraina con due immagini forti, un morto coperto da un telo e una famiglia nel rifugio antiaereo-

Ritratti in posa veri e propri con Elena Givone, Michela Palermo e Serena Ghizzoni,dal 2007 al 2016,  a colori e molto curati, c’è anche un fiore, quasi un ritorno al pittorialismo. Sbrigative, invece, le foto di Allegra martin, una quotidianità  “Senza titolo”.

Cosa pensare del femminismo

Intrigante a partire dal titolo la 2^ sezione, nella quale si dà esprime – osserva  la curatrice Raffaella Perna –  “l’uso militante e politico della fotografia, concepita come strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato  che esplora le differenze di genere”. E come fanno questo?  “Per queste autrici la fotografia è un mezzo per costruire  relazioni, scambi e nuove strategie di espressione del femminile” , ed è usato oltre che per smontare gli stereotipi di genere, “sia per esplorare i nessi tra corpo e identità femminile, sia per rivendicare le istanze del vissuto a partire dalla consapevolezza che ‘il personale è politico’”, uno degli slogan del ’68.

Guardiamo come questo si traduce nelle fotografie esposte, cominciando da quella che ha dato il titolo alla sezione, “Cosa ne pensi del movimento femminista”, la foto del 1974  di Paola Mattioli che ritrae una scatola di cipria con l’immagine di un raduno femminista e in fondo uno specchietto nel quale, secondo l’autrice, il padre, cui era destinata, avrebbe vista riflesso il proprio volto e quello delle femministe del raduno  “ricambiandone lo sguardo”, in modo da essere portato a meditare sulla propria posizione verso il femminismo.

Da questa elucubrazione alquanto criptica  alle plateali rivendicazioni tra il 1970 e il 1973, di Agnese di Donato che in “Donne non si nasce, si diventa” presenta l’immagine in primo piano della giovane donna realizzata e sicura di sé che avanza gridando con il pugno alzato mentre dietro lei nella foto da bambina timorosa; e in “Chi era costui?” mostra l’uomo-oggetto  con il corpo nudo o con la pelliccia dato in pasto alla pubblicità come avviene  purtroppo sistematicamente per il corpo delle donne. Mentre il “New feminism” di Marinella Senatore, del 2016, mostra una “majorette” su un panno giallo-rosso, con altre piccole figure e un bambino, l’effetto cromatico è assicurato.

Liliana Bianchesi documenta le manifestazioni femministe ma al contempo nella serie  “Le casalinghe” riprende  il lavoro domestico con immagini di tutt’altro segno. Anche Nicole Gravier  , nella serie “Miti e cicli, fotoromanzi” entra in modo allusivo nella quotidianità della donna.

Dalle immagini tradizionali sull’amore di Tomaso Binga a quelle da decifrare di Lucia Marcucci, un grande disco telefonico tra le mani con un bel sorriso da un lato, un disco  con la celebre istantanea di Kennedy e a lato Jacqueline nell’abito rosa sull’auto dell’attentato e la scritta a mano “felici e contenti” preceduta da “vissero” cancellato con un tratto di penna. Terribile !!

Meno angosciosa, il che è tutto dire, la serie “Le streghe” di Libera Mmazzoleni con “Il bacio” e “Il volo” in cui la figura femminile fotografata è tra figure disegnate come nelle xilografie.

Lineare  “L’invenzione del femminile” di Marcella Capagnano, con  tre espressioni di “regalità Line”, e “Fiore rosso” di Verita Monselles, c’è il fiore con  un bel corpo nudo e un drappo rosso.

Abbiamo iniziato a commentare la sezione citando Paola Mattioli  e concludiamo con la stessa autrice, come fondatrice del gruppo “Ci vediamo mercoledì”, una sorta di collettivo fotografico le cui componenti operavano sia individualmente che in coppia, e comunque si avvalevano di esperienze comuni,  incontrandosi nel giorno fissato per  confrontare i rispettivi lavori e discuterne. Ne venne il volume “Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo” dal quale sono tartte le immagini esposte, della Mattioli, Diane Bond, Silvia Truppi, e Bundi Alberti. Adriana Monti e Mecedes Cuman, Ci sono strisce quasi da pellicola cinematografica,  con figure efemminili e ombre, visi e figure.

Identità e relazione

La 3^ sezione è alquanto “concettuale”, per così dire, perché imperniata sui temi legati allidentità e al corpo in un’attenzione alla “storia familiare, il quotidiano, l’affettività e la memoria individuale, concepita, quest’ultima, come momento cruciale per entrare in relazione con l’altro ne con la storia collettiva”, sono parole della curatrice Perna.  Non ci si preoccupa della resa estetica dell’immagine, quanto della resa emotiva ed evocatrice.  

Il diapason lo tocca Moira Ricci  che nella serie  “20.12.53. 10.08.04” e simili, inserisce la propria immagine in vecchie foto di famiglia con la madre, quasi a voler rendere attuale il  passato, si inserisce anche tra i genitori in viaggio di nozze, commovente come guarda la madre mentre stira.

Sono interni moderni riferiti anch’essi al passato nelle immagini di Alessandra Spranzi, mentre Daniela Esposito esprime il sentimento filiale con una collana  i cui capi sono stretti   tra i denti suoi e della madre, Bruna Ginammi in “Ritratto di mia madre” si ritrae quasi distesa sulle sue ginocchia, e Anna di Prospero un autoritratto con la madre che scherza con lei  chiudendole gli occhi no.  Giada Ripa, invece,   presenta due figure tatuate, un nativo e un bel nudo di giovane donna.  

Volti da Giulia Caira e Malena Mazza  e negli scatti di Polaroid di Irene Ferrara con “Ho preso le distanze”,  sono 33, i volti in primo piano sono metà, le altre foto con figure in campo lungo. ma i volti sono coperti da un rettangolo bianco da Marina Bacigalupo, in realtà mancano perché tagliati dalla figura per essere usati come foto tessera dato che la macchinetta per questo servizio ne faceva 4 e i clienti per risparmiare chiedevano una foto sola di cui veniva preso il volto in un fototessera più economica, l’autrice li ha trovati nel più antico studio fotografico di Gulu  nel nord dell’Uganda. Risultato? Senza il volto l’attenzione è presa maggiormente dai particolari della figura che in “Dittici” di Paola Petri passa quasi inosservata nella sua normalità, cappotto e mani in tasca. . La figura si nota, eccome nelle 3 immagini di Betty Lee, ritraggono una fanciulla discinta e procace.   

Vedere oltre

L’ultima sezione “va oltre” nel senso di superare anche i limiti del mezzo fotografico per aprirsi ai video e ad altre forme espressive, siamo nei tempi recenti in cui non  vi è più il tentativo di accreditarsi come forma d’arte pittorica e, d’altra parte, la pittura come le arti figurative tradizionali sono sconvolte dall’irrompere delle installazioni, a parte l’arte concettuale in merito ai contenuti.

Particolarmente significativa a questo riguardo l0opera “Lucciole” di Paola Di Bello, non si tratta di una fotografia con la fotocamera, la lastra fotografica è impressionata direttamente dalla luce di  25 lucciole prese in campagna e fatte strisciare sulla pellicola in bianco e nero; l’immagine si forma nel contatto con la realtà senza intermediazione e nella realtà ci sono gli esseri di cui Pasolini aveva lamentato la scomparsa e l’autrice vuole forse certificare non solo l’esistenza ma la resistenza.

Altra opera che viene evidenziata è quella di Rà Di Martino, un video realizzato intorno a una foto d’archivio che risale alla Grande Guerra, dei civili che guardano un finto carro armato, di quelli usati come deterrente verso il nemico, il video al finto carro ne fa seguire uno vero che passa per le vie di Bolzano. La mente ci torna al “dummy tank” dei nostalgici leghisti veneti irredentisti della “Serenissima” che per un trattore trasformato in carro armatosi sono fatti anni di carcere, la finzione è stata presa per realtà e hanno subito la pena prevista per i veri movimenti insurrezionali.

Le opere esposte di Marialba Russo e Silvia Camporesi sono immagini  oniriche, come “L’incanto” e sfumate come “L’isola di San Michele”, anche “Pompei” di Cristina Omenetto è una visionemolto particolareDi Sara Rossi a3 immagini di edifici, mentre di Ga Casolaro un interno buio con una finestra che si affaccia su un parcheggio fitto di auto in sosta. E poi 3 volti che si dipanano da un corpo di Monica Carocci, suo anche uno scheletro appeso, di Francesca Catastini “Medusa”, un corpo femminile di profilo visto in controluce con l’animale marino nello stomaco.

Per il resto gli  oggetti  di Claudia Petraroli, Francesca Rivetti , Bruna Esposito e Raffaella Mariniello, e le astrazioni geometriche di Marzia Migliora e Luisa Lambri, Vittoria Gerardi e Grazia Todaro. La mente è tornata alla fotografia astratta, anche più sofisticata, di De Antonis-

La curatrice spiega così  queste visioni così diverse e sorprendenti: “La natura apparentemente oggettiva e ‘fredda’ della fotografia viene usata per rappresentare storie, percezioni e ambienti con un forte tasso di coinvolgimento personale”.  E usata per questo scopo “la fotografia non è autoreferenziale e fine a se stessa, ma è un modo per porsi in diverso rapporto con il mondo, adottando un punto di vista nuovo e uni sguardo altro”. La fotografia astratta è stata considerata perfino maggiormente aderente alla realtà di quella figurativa che fissa artificiosamente l’attimo mentre poi tutto cambia e viene espresso con l’astrazione meno che mai con l’istantanea,  Anche queste riflessioni nascono da una mostra  sui generis ma quanto mai attuale e coinvolgente.

Turner, 3. Il “turista annuale” fino all’epilogo, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Turner – Opere della Tate”, che espone,  dal 22 marzo al 26 agosto 2018 al Chiostro del Bramante, 78 opere su carta, per lo più acquerelli, con qualche “goauche”, e 7 oli su tela, tratte dalla ricca collezione della Tate Britain cui fu assegnata come “patrimonio nazionale” da una Corte inglese. Promotori  Regione Lazio e Roma Capitale, Ambasciata Britannica di Roma e British Council, realizzata da DartChiostro del Bramante in associazione con Tate. Curatore di  mostra e Catalogo di Skira Editore, David Blayney Brown, Tate.

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Abbiamo dato conto della prima parte della nostra visita alla mostra, dopo aver delineato le peculiarità della visione paesaggistica di Turner espressa soprattutto nella forma insolita delle opere su carta, per lo più acquerelli, spesso incompiute o perché l’idea è stata abbandonata dall’artista oppure perché tradotte in opere a olio su tela.

Forse anche questa particolarità contribuisce alla suggestione che esercitano, nelle loro tonalità sfumate, in maggior parte senza forme delineate ma quasi evanescenti,  in una visione che è stata accostata da Valter Curzi a quella dell'”Infinito” di Giacomo Leopardi, parallelo intrigante.

Il cromatismo è altrettanto tenue e delicato in un’evoluzione che fa irrompere la luce e il colore, molte volte contenuto nel supporto cartaceo celeste su cui le pennellate dell’artista creano delle immagini in dissolvenza lasciano  emergere i colori del cielo e delle acque.

Nella rassegna delle opere esposte ci siamo fermati alla terza sezione, dopo aver dato conto della prima, “Dall’architettura al paesaggio: opere giovanili“,  e della seconda, “Natura e ideali: Inghilterra (1805-1815 circa)”. La terza sezione, “In patria e all’estero (1815-1830”, inizia con le opere legate al viaggio in Italia del 1819, le abbiamo commentate ricordando anche le circostanze del soggiorno a Roma, dopo la sosta a Venezia lungo l’itinerario e prima della visita a Napoli. Non abbiamo parlato invece dei successivi viaggi nel Sud dell’Inghilterra, e delle opere conseguenti, lo facciamo subito per poi passare alle altre 3 sezioni, “Luce e colore”,  “Turista annuale” e “Maestro e mago: le opere della maturità” completando una visita coinvolgente ed emozionante

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Le vedute dell’Inghilterra fino al 1830

La volontà di ricercare sempre nuovi paesaggi da reinterpretare nella trasposizione artistica per renderne fascino e atmosfera, al di là degli aspetti realistici, che lo ha portato anche in Italia, gli fa battere continuamente gli ambienti del suo paese  che lo attirano di più.

Ha avuto  molte commissioni, a partire dal 1811 con l’avvio del “Liber Studiorum”, di cui abbiamo parlato in precedenza, che gliene procurerà altre in seguito. Tra le prime le “Vedute pittoresche  lungo la costa meridionale dell’Inghilterra”, con la costa dal Kent al Somerset, seguite  dai “Fiumi del Devon”,e da “La storia del Richmondshire”, in mostra è esposto “Il castello di Arundel sul fiume Arun”, visione idilliaca con delle capre o simili sul costone prospiciente il castello delineato appena al centro dell’immagine.

I  toni sono sempre smorzati, ma irrompe il colore in altre opere,  come  “Relitto o relitti  sul fiume Tamar, Crepuscolo”, e “Kirkby Lonsdale” che abbiamo già citato nel commentare la seconda sezione della mostra, mentre “Studio per ‘Il naufragio di una East Indiaman'”, anch’esso già citato,  è una composizione di volumi preparatoria di un  acquerello realizzato per il grande collezionista e  mecenate Fawkes che seguirà da vicino il suo percorso artistico. ospitandolo a Farnley Hall.

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Turner realizzò per lui una serie di 20 acquerelli sull’interno e l’esterno della sua residenza e una serie di 50 vedute del Reno, sulla base degli schizzi a matita vergati sugli album che portava sempre con sé, replicandoli sull’apposita carta che poi colorava ad acquerello avendo a mente le tonalità ambientali che lo avevano colpito.

Fawkes fece addirittura una mostra nel 1819 nella propria abitazione londinese, dove espose gli acquerelli di Tuner insieme  ad opere di artisti contemporanei conosciuti,  riuscì ad attirare l’attenzione su di lui, furono apprezzate  le sue opere, molte delle quali preparatorie e incompiute, on particolare le “goauche” sulla residenza di Farnley delle quali fu scritto: “Gli schizzi di un maestro possiedono maggior fascino dell’elaborato finale; a qualsiasi persona dotata di gusto essi offrono la possibilità di dare sfogo alla propria immaginazione per riempire gli spazi lasciati vuoti e completare il tracciato solo abbozzato”.

Oltre alle opere sulla residenza di Fawkes, fece  quelle sulla dimora di campagna nel Sussex di  un altro importante suo protettore, Lord Egremont, di cui riprodusse gli interni e il parco di Perworth, in modo particolarmente sentito dato che non gli erano state commissionate, come quelle per Fawkes, ma le aveva realizzate spontaneamente sentendosi come a casa sua a Perworth. Sono in “goauche”, su fogli celesti che attirano un forte cromatismo, le vedute sono inondate di luce. Poiché non sono destinate al pubblico può sperimentare questa  forma espressiva più intensa rispetto a quella fatta di toni smorzati e velature, che abbiamo notato in particolare nell’acquerello veneziano.

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Vediamo “Tramonto sul parco dalla terrazza di Petworth house”  , suggestivi effetti di luce che si innalzano verso il cielo all’orizzonte su una campagna con alcuni alberi di un verde intenso; e “La Somerset room con vista della sala da pranzo quadrata e dello scalone al di là di essa”, la maestria topografica degli inizi in due interni contigui, le pareti come in una quadreria. L’interesse culturale è ancora più esplicito in “L’artista e i suoi ammiratori”, dove si raffigura in piedi mentre dipinge al cavalletto con delle modelle al centro di una stanza ariosa, e in “La North Gaillerydi notte: alcune figure contemplano la statua del ‘San Michele che sconfigge Satana’  di Flaxman”,  anchequi la topografia al servizio dell’arte, con la statua che spicca nell’oscurità.

Sono  opere realizzate nello stesso anno, il 1827. Degli anni immediatamente  precedenti vediamo .“Veduta di Folkestone dal mare” 1822-24, .“Scarborough” 1825, e “Aldborough nel Suffolk” 1826. deliziose immagini in un cromatismo pronunciato e al contempo discreto, in cui al centro della scena marina, con barche e velieri, c’è l’elemento umano  in simbiosi con l’ambiente naturale; mentre in “Il castello di Arundel sul fiume Arun”  1824, la simbiosi è con gli animali del piccolo gregge sul costone prospiciente il castello appena delineato al centro, quasi in dissolvenza. Né figure umane né animali in “Il faro di Shields”, 1826, una palla di luce proiettata nell’orizzonte diviso tra cielo e mare n presenta. L’artista fu impegnato nelle serie “I fiumi dell’Inghilterra” e “I porti dell’Inghilterra”– commissionategli da Cooke, un altro dei vari collezionisti-mecenati che ha avuto vicini – per cui acquistò molta dimestichezza in queste raffigurazioni.

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Molto diverse  “Le elezioni a Northampton 6 dicembre 1830” e “I funerali di Sir Thompson Lawrence; schizzo eseguito a memoria”, l’opera di maggiori dimensioni,  in entrambe  torna la maestria topografica nella prima imponenti edifici svettano come sfondi teatrali alla folla che si accalca con cartelli e un balcone anch’esso affollato in primo piano sulla sinistra dal  notevole effetto prospettico; nella seconda la topografia è nella prospettiva dello scalone sterminato con i dignitari e la gente, visione immaginata dall’artista  imponente come non mai per rendere omaggio al presidente della Royal Academy cui era legato da una amicizia consolidatasi negli anni tanto che fu tra quelli che portarono in spalla il feretro, quindi snche lo schizzo non è stato preso “in loco”..

Luce e colore

Alcune opere tra la fine degli  anni ’20 -e i primi anni ’30  forniscono lo spunto per un’ulteriore riflessione sulla “Luce e il colore” in Turner, questo, infatti, il titolo della 4^ sezione della mostra.

Lo stesso artista si esprimeva su questo tema, affermando che non seguiva “pedissequamente un procedimento prestabilito”, ma proseguiva nelle ricerche sul colore fino a quando “non erano in grado di esprimere l’idea che aveva in testa”. Non si trattava di affermazioni teoriche, per non dire astratte, le metteva in atto chiamando”Colour beginning” i suoi tentativi in questa direzione.

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Al riguardo dobbiamo ricordare che, a differenza degli impressionisti, non usava dipingere “en plein air”, quindi non registrava dal vivo le modulazioni cromatiche delle diverse ore del giorno nei più diversi scenari ambientali perché avrebbero preso troppo tempo, mentre lui prediligeva la rapidità. 

Perciò si limitava a disegnare “in loco” dei rapidi schizzi, mentre la traduzione di queste sensazioni visive in opere pittoriche avveniva successivamente in studio; a questo punto si trattava di  applicare  ai contorni schizzati sommariamente e rielaborati anch’essi, il colore che aveva sedimentato nella memoria con la sua straordinaria capacità di fissarlo nella mente con una particolarità: che in questo  modo interveniva anche l’immaginazione, che si aggiungeva alla memoria fotografica  nella definizione cromatica realizzata con una tecnica sopraffina.

I “Colour beginning” presentano, dunque, un notevole interesse in quanto consentono di penetrare nel processo formativo delle sue opere che, come abbiamo appena visto, era molto personale e ben diverso dagli altri cultori del paesaggio. un aspetto emerge sugli altri, il carattere assolutamente soggettivo  della colorazione, pur se riferita a paesaggi e qualche volta  anche a momenti della giornata ben identificati, in cui al realismo della memoria si aggiunge  la fantasia dell’immaginazione, ottenendo come  risultato  un’atmosfera di carattere onirico per le sfumature tonali accomunate a forme  spesso appena delineate con una suggestiva dissolvenza.

Del resto, il carattere di “incompiuto” è l’aspetto dominante non solo di queste opere e della maggior parte di quelle esposte in mostra, ma anche del modo con cui realizzava le opere a olio, per definizione definitive, al punto di completarle, in occasione delle mostre,  addirittura nelle sale della Royal Academy ‘; nei giorni precedenti l’apertura nei cosiddetti “varnishing days”.

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Moltissimi sono i “Colour beginning” che l’artista conservava nel suo studio, sebbene fossero incompiuti, spesso soltanto abbozzati, su cui non sarebbe tornato per tradurli nell’opera finita, e questo fa pensare che attribuisse loro notevole importanza ritenendoli giustamente innovativi, e ne  ricevesse una gratificazione di carattere estetico.

Come esempio di questi “Colour beginning”  vengono presentati in mostra 6 acquerelli, molto più indefiniti e in dissolvenza delle altre opere fin qui citate, tanto da sconfinare tutti nell’astrazione, ma non sarebbe questa l’interpretazione giusta, sono “iniziazioni” sul colore e sulla luce, con sfumati  addensamenti cromatici nei quali  le forme non contano, anche se non si può parlare di “informale”.

Sembrano gemelli per la loro composizione simmetrica i 3 “Colour beginning”  “Paesaggio italiano idealizzato con alberi  che dominano un lago o una baia, illuminato da un sole basso”, “Marrly-sur Seine”  e “Passo montano”,  del 1828-30,  a sinistra una forma scura a sinistra, nel primo un albero, nel terzo sembra un tunnel, chiara a destra con forme indistinte.

Una forma scura ancora meno decifrabile  nella coppia del 1834, “Lasand’s End, Cornovaglia” e “Un relitto, forse relativo a ‘Il faro di Longships, Land’s End'”, in composizioni dalle forme indistinte, che si riscontrano anche in “IL castello di Harlech”, stesso anno, peraltro più decifrabile  nel verde azzurro nel cielo, e nella massa gialla al centro che delinea la struttura del castello.

Il  “turista annuale”  negli anni ‘30

Cambia completamente la scena artistica quando si entra  nel campo dell’incisione di molte sue opere: gli incisori impegnati nella  trasposizione dell’opera  dell’artista talvolta inserivano dei particolari colmando vuoti ritenuti eccessivi, c’era la stessa collaborazione tra artista ed esecutori delle fasi successive che si aveva, “mutatis mutandis”, per l’Okiyo-e di Hokusai e di Hiroshige,.

Le opere di Turner con questa destinazione  sono notevolmente più definite di quelle appena descritte, pur mantenendo il loro carattere sfumato,  c’è una chiara riconoscibilità delle forme e una precisione di dettagli in un cromatismo molto più netto e intenso, lo vediamo nelle opere esposte.

A differenza dell’Okiyo-e, il cui procedimento distruggeva la matrice pittorica, dopo l’incisione i disegni originali venivano restituiti all’artista – come ha testimoniato Rogers del quale abbiamo visto l’illustrazione di “Italy”  – e venivano conservati, anche per le esposizioni che ci sono state  da parte degli editori e committenti, Cooke  ne espose un certo numero nella sua casa di Soho Sqare nel 1823, Heath una quarantina a Piccadilly nel 1829, Moon, Boys e Graves una settantina a Pal Mall nel 1833. 

Turner era molto richiesto come illustratore, oltre a “Italy” di Rogers, cui è seguito “Poems”, citiamo eccellenze come Byron e Milton. Il primo incarico venne da  Walter Scott nel 1818, ma è del 1835 la serie “Illustrazione per i racconti di Waverley” di cui fa parte “Il castello di Edimburgo: la marcia degli Highlander” 1834-35,  con due figure nitide in primo piano che sfumano poi nella massa ordinata in marcia verso il castello in dissolvenza, anche qui come un miraggio. Analoga forma compositiva nella visione dall’alto di “L’abbazia di Dryburg” 1832.

Ricordiamo anche gli incarichi dagli editori per dei libri paesaggistici riccamente illustrati. Citiamo tra questi i tre libri di viaggio “Turner’s Annual Tour”, pubblicati nel 1833-35, che hanno ispirato evidentemente il titolo della  4^ sezione della mostra, espressione dei  viaggi incessanti compiuti da Turner, anche negli anni ’30  in Europa, dopo  quelli degli anni ’20 in Francia lungo la Senna e in Belgio, in Lussemburgo e in Germania.

In mostra è esposto “Jumièges” 1832,tratto da questa serie, una barca ben nitida su uno sfondo invece in dissolvenza in cui si intravede un castello come un miraggio, sotto un cielo  che si schiarisce un po’ nell’opera analoga  dello stesso anno , “Honfleur, la Normandia vista da ovest”. Mentre in “Il Leyen Burg a Gonfort”  e “Dinant, Bouvignes e Crèvecoeur, tramonto” il cielo vira decisamente all’azzurro, come l’acqua marina in cui sembra specchiarsi, con i volumi ben delineati anche se sempre ne senza tratti decisi.  

Portava con sé gli acquerelli arrotolati insieme agli album degli schizzi, ma il colore continuava ad aggiungerlo successivamente sui contorni a matita, in qualche caso la sera stessa nella locanda, per il resto rientrato a Londra.Ci sono delle eccezioni rilevanti che ne farebbero un antesignano degli impressionisti, e la mostra fa uno “scoop” a presentarle, 2 acquerelli che, secondo la testimonianza di un compagno, sarebbero stati eseguiti completamente “en plein air”, quindi compresa anche la colorazione. Si tratta di due opere gemelle del 1836, di poco meno di 30 cm di lato, dalla diversa visione prospettica dello stesso paesaggio montuoso, con analoga definizione delle forme e dei volumi e cromatismo molto simile; “Veduta del Glacier du Bois da sopra Chamonix con le Aiguelels du Dru e l’Aiguelle Verte in alto: sera”, e “Veduta del monte Bianco e del Glacier des Bossons da sopra Chamonix: sera”.

Per concludere con il “turista annuale” due coppie di opere agli antipodi: da un lato 2 nitide visioni topografiche gemelle, “Louviers: la strada principale con una diligenza” 1827-29, e “Il Gros -Horloge a Rouen, Normandia”; dall’altro  2 visioni oniriche, “Il castello di Bamburgh, Northumberland” 1837, che nella prima emerge appena dal suolo, nella seconda si distingue appena dalle nuvole, sono studi preliminari per un’opera definita nel catalogo dello stesso anno, “Uno dei più splendidi acquerelli al mondo”. Ancora più indefinito,  l’olio su tela “Mare in tempesta con delfini” 1835-40, una delle opere di maggiori dimensioni esposte in mostra. di

L’ultima fase negli anni ’40 fino all’epilogo

Un artista con peculiarità molto evidenti e personali, al punto da riconoscere al volo una sua opera, e nel contempo in continua evoluzione sia nell’uso del colore che nella definizione della forma, ne abbiamo visto finora esempi molto significativi nelle opere esposte in mostra. Nell’ultimo periodo cui è dedicata la 6^ sezione conclusiva, “Maestro e mago: le ultime opere”,  si accentuano alcune sue peculiarità rendendolo ancora più moderno, anzi anticipatore delle avanguardie successive.

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Il terzo viaggio a Venezia nel 1840 lo mise di nuovo a contatto con un ambiente molto speciale, il cielo che si riflette sulla laguna con mutazioni continue, ne fu fortemente impressionato nelle numerose riprese che ne fece nelle diverse ore della giornata. di qui la dissoluzione delle forme architettoniche nel colore, già notata in precedenza, assume aspetti particolarmente lirici, al punto che fu definito “un mago con il controllo degli spiriti della terra, dell’Aria, del Fuoco e dell’Acqua”. Lo vediamo nelle 4 opere esposte, 3 acquerelli, “Venezia: veduta immaginaria dell’Arsenale”,  “Venezia : Veduta della laguna al tramonto” e “Rio Sal L:uca e Palazzo Grimani e la chiesa di San Luca”,  e un olio su tela, “Venezia, il molo e palazzo Ducale”, opere nelle quali con intensità diversa si verifica tale magia, senza mai perdere di vista le forme più evocative.

Anche in ambienti molto diversi, come quelli montuosi, esplorati nei suoi viaggi sulle Alpi  tra il 1841 e il 1844, coglie la magie dei riflessi del cielo sulle acque, qui si tratta dei laghi alpini e dell’atmosfera particolare che fa stemperare le forme nel colore soffuso., ricordiamo al riguardo l’azzurro ne i già citati “Leyen Burg” e “Dinant, Biuvignes e Crévecoeur”. Invece in  “Il lago di Lucerna con la Rigi” 1841-42 un biancore indistinto accomuna cielo e lago, in modo analogo, anche se con qualche rapida pennellata di azzurro nel cielo, “La costa” 1840-45..omologazione ripetuta nella “Veduta del lago di Ginevra e della Dent d’oche da sopra losanna” 1841però con una ben maggiore definizione  che rende l’acquerello quasi totalmente figurativo, come la calligrafica e insieme evanescente “Veduta di Passau di Ilzstadt” 1840, mentre “Reichenau e l’alto Reno” 1842-43 richiamano opere già citate dai volumi compositi, qui alquanto definiti.

“Mare e cielo” sono raffigurati, senza altre precisazioni, in 2 opere del 1845accomunate dalle intense striature giallo-arancio del cielo e il biancore del mare, mentre in “Pioggia sul mare nei pressi di Boulogne”  1845, ritroviamo i colori naturali,i nembi scaricano vistosamente acqua.

Una vera tempesta, marina come “Tempesta” 1843-46, anche qui un nembo nero incombe dall’alto, e “Tempesta sui monti” 1842-43, dove però non manca il laghetto con l’acqua celeste. Negli ultimi viaggi nel Nord della Francia studiava in modo particolare queste perturbazioni, e comunque, i mutamenti meteorologici lo interessavano sempre di più e li rendeva stemperando i colori e scomponendo le forme e i volumi rendendoli indistinti ma pur sempre evocativi.

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Dopo la tempesta i colori dell’iride nel cielo, “Ehrenbreinstein con arcobaleno” 1840 , con il semicerchio luminoso sopra all’abitato che si intravede appena al centro della scena, ci sembra la  migliore conclusione di questo viaggio paesistico senza fine, tra cielo e mare, monti e laghi. Come ci sembra la migliore conclusione in senso anche esistenziale l“Interno della chiesa di Notre- Dame et Saint-Laurent”.1845, siamo sull’orlo di una vita vissuta immedesimandosi nella natura, negli archi delineati vagamente dai colori non c’è nulla di topografico, ma di profondamente, intensamente spirituale.

Per il visitatore le emozioni non sono finite, già nel salire i 43 gradini che portano dal piano inferiore a quello superiore del Chiostro, si è sentito avvolto dalle deliziose volute floreali dell'”opera site specific” di Michael Lin  intitolata “Segui la scia dei fiori”.

Ora, al termine della visita, una sorpresa, l’immersione nella dissolvenza delle opere di Turner in una stanza che ne ripropone la magia attraverso le frequenze della luce che si tramutano in note fluttuando nello spazio e nel tempo  fino  a far perdere la percezione dei suoni mentre i colori si trasfigurano. E’ come trovarsi nel “castello di Bamburgh” nella magia di un’atmosfera  che ripropone la suggestione delle opere di Turner aggiungendo l’udito alla vista, Straordinario!

Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, http://www.chiostrodelbramante.it   Catalogo: “Turner. Opere della Tate” , a cura di David Blayney Brown, , Skira, marzo 2018, pp. 150, formato 28,5 x 24,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli precedenti sono usciti in questo sito il 17 giugno e 4 luglio  u.s. con altre 10 immagini ciascuno   Per gli autori citati, cfr.  i nostri articoli,  in questo sito, suHiroshige 14, 19 giugno 2018, 5 luglio 2018, su Hokusai il 2, 8, 27 dicembre 2017, su Monet 9 gennaio 2018. 

Foto

Le immagini sono state riprese nel Chiostro del Bramante, alla presentazione della mostra, si ringraziano la Dart con la Tate  c i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Venezia, il molo e Palazzo Ducale”  esposto nel 1844; seguono, “Il castello di Bamburgh, Northumberland” 1837, e altra immagine di “Il castello di Bamburgh, Northumberland” 1837;  poi, “La costa” 1830.45, e “Mare e cielo” 1845; quindi, “Reichenau e l’Alto Reno” 1842-43, e “Veduta del Glacier du Bois da sopra Chamonix  con le Aiguilles du Dru e l’Aiguille Verte in alto, sera” 1836; inoltre, “Veduta del lago di Ginevra e della Dent d’Oche da sopra Losanna” 1841; infine, “St Catherine’s Hill, Guildford” 1807 e, in chiusura,  la suggestiva ‘nstallazione del  “Castello di Bamburgh” all’interno della mostra in un’istantanea che fiisa un momento visivo e sonoro. 

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di Romano Maria Levante

Nella sede di Civita, a piazza Venezia a Roma, il 13 giugno 2018 è stato presentato l’“VIII Festival europeo Vie Francigene, Cammini, Ways, Chemins 2018”, promosso dall’Associazione Europea delle Vie Francigene con la collaborazione di Civita.  Il tema cui si riferiscono i 500 eventi del 2018 è “Cammino. Il cibo dell’anima”, e si inquadra nell’“Anno Europeo del patrimonio Culturale” e nell’“Anno del Cibo italiano”  del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dopo l’ “Anno dei Borghi” del 2017 e l’ “Anno dei Cammini” del 2016, iniziative volte a valorizzare le straordinarie potenzialità del nostro territorio. Ha presentato  e moderato l’incontro Sandro Polci, Direttore del Festival, con interessanti siparietti esplicativi.

Una mattinata di discussioni all’ultimo piano di Palazzetto Venezia, così intensa che non c’è stato il tempo di godere della splendida vista sul Vittoriano dalla terrazza adiacente alla sala conferenze, come nelle precedenti occasioni nelle quali venivano presentati anche dei cibi tipici per la “bisaccia del pellegrino”.

Saluti e introduzioni: Maccanico, Costa e Tedeschi

Ha introdotto l’incontro il vice Presidente di Civita,  Nicola Maccanico,  sottolineando che “l’Europa non è soltanto economia, è anche cultura dalla quale nasce una condivisione che unisce”. Il turismo rischia di essere schiacciato nel dibattito sui beni culturali, ma “i percorsi dei Cammini, come le Vie Francigene, uniscono agricoltura, beni culturali e turismo”. Le Francigene con il Festival rappresentano “un interessante laboratorio per dare sostanza a un elemento fondamentale di unione dell’Europa nelle sue diversità”.

E’ seguito un video di saluto di Silvia Costa, della Commissione cultura del Parlamento Europeo, che ha inquadrato l’iniziativa nell’Anno europeo del patrimonio culturale.

Il presidente dell’Associazione Europea delle Vie Francigene, Mario Tedeschi, ha ricordato l’evoluzione dell’idea del percorso europeo dei Cammini, dal 2011 ad oggi, della quale il Festival è lo specchio, e ne ha indicato i fattori principali: il primo è l’elemento europeo, imprescindibile, si è partiti dall’Italia estendendosi via via a Svizzera, Francia, Regno Unito, con l’adesione all’associazione di Calais, nella sua posizione di frontiera, che ne testimonia il valore europeo; il secondo fattore è il  collegamento ad altri progetti, come la “via Germanica” nel versante orientale verso l’Est, e ad altre peculiarità come i “Borghi autentici”.

“Il progetto si basa su un asse ben preciso – ha affermato –  ma ciò che abbiamo percepito con piacere è che ha una forza espansiva, è diventato qualcosa che spinge a collaborazioni sempre più vaste, è l’elemento più importante. Il Festival lo rappresenta, non è più solo il Festival dei Cammini italiani della Via Francigena, ma delle vie  europee”.  

Pertanto si deve far leva sulla stretta connessione tra il nostro turismo e l’agricoltura, dato che gran parte dell’itinerario si sviluppa in zone agricole, montane e collinari; così vengono promossi i piccoli borghi, le aree interne e lo sviluppo rurale. “Emerge un progetto che diventa una filosofia e si traduce anche in una politica”.

Il direttore del Festival,  i presidenti di Federparchi e Legambiente.

L’incontro entra sempre più nel vivo con la presentazione del direttore del Festival Sandro Polci, che ha sottolineato come “i Cammini vengono considerati cibo dell’anima nell’anno del cibo. All’insegna del paesaggio, con la sua cultura e agricoltura,  cioè ‘cultura coltivata’. Borghi e cibo sono ‘cultura coltivata’”.   

Non sono mancate citazioni colte, sono stati evocati Pier Paolo Pasolini del film “La rabbia”, secondo il quale “con la fine di contadini e artigiani ci sarebbe stata la fine della storia”, e Sandro Petrini che sostiene l’importanza di “conoscere la storia di un alimento, da dove viene,  da quali mani è stato preparato, per gustarlo meglio”.

A questo punto vengono fornite delle cifre eloquenti: i borghi rappresentano il 70%  della superficie del paese con il 30% della popolazione, il 92%  dei prodotti DOP e il 79% dei vini pregiati proviene da comuni con meno di 5 mila abitanti; la loro superficie biologica è di 270 ettari rispetto a 67 ettari dei centri maggiori. Il 15% delle imprese agricole è gestito dai giovani, il 30% dalle donne, il 6,5% da stranieri.  

Dalle cifre ai messaggi sofisticati e intriganti,  si parla di “sensualità culinaria, di certezza qualitativa delle filiere enogastronomiche e di atteggiamenti proattivi rivolti a hearthcare e wellness”; poi alle iniziative, come le azioni di volontariato di Legambiente che vanno  dal ripristino dei sentieri alla pulizia delle spiagge, fino alla “citizen science”; e alle proposte di “Cammini italiani”, “Da Francesco a Francesco” da Assisi a Roma.  

Il presidente della Federparchi, Giampiero Sammuri, afferma che la superficie protetta va considerata “non come vincolo, ma come soggetto attivo.  Il cammino non è ‘slow’, lento, ma ha la velocità giusta che ti va vedere, ti fa parlare, ti fa riflettere, non è mera tranquillità ma rapporto con la  natura con ciò che suscita”.

Si parla ancora del modo di camminare, il camminare cadenzato e costante porta alla concentrazione, la padronanza di sé e del proprio corpo fa crescere l’autostima, nelle Ville venete il territorio è organizzato “a passo d’uomo”.

E poi una curiosità, il labirinto di mais più grande d’Europa  con i suoi 8 ettari di piante distribuite in modo labirintico; anche le nuove tecnologie producono “effetti speciali” sorprendenti, a riprova che è un settore vivo e dinamico, per nulla statico. Non ci sono limiti di età, viene ricordato il caso della signora ottantenne che ha percorso ben 7 mila dei 10 mila km della Via Romea Germanica.   

Inoltre si cita il programma “Guida con i piedi”, e l’accordo con la Società Autostrade per grandi cartelli nelle aree di servizio in prossimità dei Cammini della Via Francigena.  

Vengono proiettate alcune immagini: i 100 mq di tela con coloranti vegetali su cui 1300 persone hanno lasciato l’impronta dei piedi, è il manifesto dei Cammini, c’è il finale allegro dei bambini felici con i piedi nella vernice; e il cammino di 800 Km sulla sedia a rotelle spinto da un amico, “Ti porto io” è il toccante messaggio, perché “ti spingo io” con la mia amicizia.

C’è anche l’intermezzo poetico, con i versi di Ernst Junger:  “Quando tutto è silenzio, pietre, animali  e piante diventano fratelli e sorelle e comunicano ciò che è nascosto, Un arcobaleno invisibile circonda quello visibile”. E le cose cominciamo a parlare nella loro lingua universale.

Incalzano gli interventi, il presidente nazionale della Legambiente, Stefano Ciofani, osserva che il Festival ha il merito di far emergere il lavoro fatto per migliorare il principale Cammino. “Quando si parla di cultura, turismo, paesaggio, ambiente, la via Francigena è l’esempio classico della tessitura di questi aspetti. Si sono create strette relazioni tra amministrazioni, soggetti economici, associazioni, e cittadini, ed è stata costruita una rete nella quale ognuno ha un proprio ruolo. Il volontariato promosso da Legambiente ha consentito di recuperare sentieri e beni culturali, creando le migliori condizioni per usufruirne appieno”.

Per alcuni temi essenziali come lo sviluppo aree interne e la tutela dell’ambiente, il Festival giunge al momento giusto, l’inizio della nuova esperienza governativa in cui si parla di muri e di chiusure, mentre va portata avanti una linea alternativa di apertura dei confini. “E’ una lunga traversata, un cammino da proseguire con iniziative che contribuiscano a raccontare un altro paese che c’è ed è vivo, e crede nell’Europa dell’accoglienza e dello sviluppo alternativo”. 

Gli esponenti di associazioni interessate

Simonetta Giordani di “Atlanta” insiste su questo tema dicendo che è  stata già fatta molta strada, ma “è il momento di ricordare l’altra Europa e lo straordinario motore di coesione sociale sviluppo economico che è la cultura”. Fondamentale la valorizzazione del patrimonio storico e artistico, è importante che nell’azione di governo il turismo abbia un ruolo centrale,  come industria dell’ospitalità con eccellenze territoriali, sul piano ambientale ed enogastronomico, storico-artistico e religioso”.

Poiché il turismo così inteso incontra il patrimonio diffuso nel territorio, la Via Francigena coglie l’anima del nostro paese, percepito nel mondo come accogliente  e ben preservato nelle sue straordinarie eccellenze.

 Ma sono importanti anche le infrastrutture, per questo occorre alimentare un circuito virtuoso tra operatori pubblici e privati del settore al fine di attrarre sempre più i viaggiatori e visitatori.

Occorre fare sistema e realizzare una cabina di regia ai massimi livelli con i rappresentanti delle Regioni, le Camere di commercio e i Ministeri interessati, superando i problemi posti dalle competenze regionali sul turismo e dalle funzioni centrali prima unite ai beni culturali, ora alle risorse agricole. In questo quadro alquanto complesso, si deve lavorare sulle priorità, ottimizzando l’impiego dei consistenti fondi europei in modo coordinato.

Poi qualche notizia su “Atlanta”, con riferimento alle 100 aree di servizio in cui si propongono itinerari particolari, e ai concerti lirici a Santa Cecilia con repertorio di autori italiani.

E’ la volta di Alberto Renzi, vice presidente di “Movimento tellurico”, che parla di “un viaggio nelle terre mutate”, quelle colpite dal terremoto, citando l’esperienza vissuta a Campotosto, un antico borgo nella montagna abruzzese, con un lago artificiale che rifornisce una centrale idroelettrica, 300 abitanti sparsi costituiti in comunità.

Il Cammino da Fabriano all’Aquila è come un’infrastruttura immateriale, ma ne sono state realizzate anche di leggere per creare prospettive di rinascita e di sviluppo, “il progetto attuato è un’infrastruttura leggera che non crolla”, non si può permettere che scompaiano gli abitanti locali altrimenti finisce la storia, come ha detto Pasolini, “non si deve lasciare l’Appennino solo”.

Il presidente dell’Associazione Via Romea Germanica, Rodolfo Valentini, ricorda che è un percorso creato dal nulla, mentre ora è tutto segnato e riportato sul sito, sono tre tappe nelle quali si incontrano dei dislivelli, la più bella arriva a Ravenna; e parla dei canali di bonifica, lungo le valli di Comacchio nella bruma della Pianura padana come di un itinerario affascinante, per nulla noioso.

Segue la citazione gustosa dei “lama” allevati a Bolzano, portati a Roma con un cammino a piedi di 50 giorni, e mostrati  anche nelle scuole romane. Poi una critica: “Gli operatori economici non hanno capito l’importanza di promuovere il turismo dei Cammini che passa vicino, non ne parlano neppure”. Un’indifferenza che va superata.

La parola passa a Stefania Monteverde, assessore alla Cultura del Comune di Macerata.  Afferma che “i comuni  della marca sono uniti per creare un percorso condiviso, i Cammini passano anche attraverso le città fino al culmine nel capoluogo dove arte e architettura urbana sono integrate, così la collina”.

E qui la sorpresa, un tunnel per salire a piedi sulla collina è stato reso attraente con un anamorfismo artistico, mentre si procede nel cammino, ecco immagini virtuali e musica, perché Macerata è la città della musica.

L’intervento del presidente dell’Unione Monti Azzurri Giampiero Feliciotticita i 15 comuni terremotati, non tutti noti, dei quali si occupa l’Unione, nei quali occorre “ripartire dalle cose belle non toccate dal terremoto facendo leva su ciò che non è stato danneggiato, valorizzando ciò che la natura ci ha dato con una visione positiva e attiva. Parlare solo in negativo influisce ingiustamente su un territorio già colpito, va adottato un metodo adeguato in modo da far vivere tali comuni”.

E indica una pista ciclabile come corridoio ecologico che attraversa la vallata con un anello di crinali, borghi e colline, sono le “infrastrutture leggere”  per rivitalizzare vasti comprensori con oneri molto limitati. Insiste sulla ricerca di  nuove idee, per aprire le menti, lo fanno da tre anni, è necessario organizzare anche sistemi alternativi come il “taxi sociale” non potendo avere servizi pubblici tradizionali, non si deve abbandonare la popolazione ma aiutarla a superare l’isolamento.

Attraverso i Cammini si può far tornare la gente nei luoghi spopolati, dove ci sono i prodotti DOP, i vini, l’olio, anche la società Autostrade collabora, naturalmente non bisogna pensare ai grandi numeri. Grazie alla via Francigena è possibile valorizzare la natura e ciò che è integro, con i Cammini si può riportare economia e serenità anche nelle zone colpite dal terremoto promuovendo una “resilienza” dovuta all’amore per i luoghi e i borghi.

La voce dei rappresentanti del territorio

Stefania Monteverde, assessore alla Cultura del Comune di Macerata, afferma che “i comuni della marca sono uniti per creare un percorso condiviso, i Cammini passano anche attraverso le città fino al culmine nel capoluogo dove arte e architettura urbana sono integrate, così la collina”.

E qui la sorpresa, un tunnel per salire a piedi sulla collina è stato reso attraente con un anamorfismo artistico, mentre si procede nel cammino, ecco immagini virtuali e musica, perché Macerata è la città della musica.

Segue l’intervento non previsto di un esponente della Regione Puglia, che riferendosi al “Cammino come cibo dell’anima” elogia la caratteristica del Sud di trasformare le debolezze in opportunità: Napoli e Bari, capitali del Mezzogiorno,  non sono collegate dall’alta velocità, ma c’è un’infrastruttura immateriale intorno alla quale costruire una programma di rilancio. “Sembrava impossibile sviluppare un movimento di Cammini e camminatori, invece è divenuto realtà, vi è un sistema integrato oltre all’asse Francigena che costituisce la nervatura e l’infrastruttura immateriale su cui si inseriscono elementi artistici e religiosi  storici e tradizionali, in particolare la transumanza”.  Le regioni del Sud hanno costituito un percorso comune, un tratto importante del Cammino fino a Gerusalemme in un  sistema italiano ed europeo.

E prende la parola brevemente il rappresentante della Toscana, parla dei Cammini nella prospettiva della sua regione.

I due interventi finali, i presidenti delle Pro loco e dei Borghi autentici

L’ultimo intervento prima delle conclusioni è del presidente dell’Associazione Nazionale Pro Loco, che riunisce gli organismi presenti nei borghi sparsi sul territorio che con le loro iniziative  ne animano la vita creando le più diverse attrazioni turistiche.

Anche lui ricorda il grande lavoro svolto per intessere le relazioni necessarie come potente strumento in grado di  animare il mondo del Cammino in Italia, e definisce “eccezionale” il contributo dato dal Festival: “Il Cammino fa attraversare il territorio in modo consapevole, fa ammirare il paesaggio, fa entrare nei piccoli borghi, li fa crescere dando loro vitalità, non è solo cibo dell’anima ma animazione quotidiana da parte di ognuno a contatto con la natura e il territorio”.

 E aggiunge: “Le Pro loco fanno parte di questo mondo, fatto di volontari che lavorano per la promozione del territorio, e chiedono solo di avvalersi delle opportunità per far si che in questi piccoli borghi ogni luogo diventi un punto di riferimento per i Cammini e offra i propri beni, culturali e storico-artistici, ambientali e gastronomici, passando dal cibo dell’anima al cibo del corpo” per il benessere dei visitatori e dei residenti .

E siamo alle conclusioni di Ivan Stomeo, presidente dell’Associazione Borghi Autentici d’Italia, da non confondere con il Club dei Borghi più Belli d’Italia dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, lui stesso ci ha spiegato che la sua associazione guarda alle comunità residenti, mentre il Club alla bellezza esteriore.

Rivolge una critica alle politiche per il territorio, “poche hanno riguardato i piccoli comuni, sebbene rappresentino il 70% del territorio nazionale”.  E sui Cammini, e le vie Francigene: “Camminare vuol dire anche controllare il territorio, chi cammina non fa solo turismo ma anche protezione del territorio,  in quanto comunica le anomalie incontrate. Cosa questa molto importante per quello che era chiamato il giardino d’Europa, ma in cui ogni giorno aumenta il degrado, dalla cementificazione agli impianti dannosi per l’ambiente come le pale eoliche. Nelle innovazioni ci si dimentica del paesaggio, per questo occorre un  controllo collettivo, dobbiamo sentire il dovere di rispettare il territorio per le generazioni future. In questo si inserisce il cibo buono, che vuol dire tutelare anche l’agricoltura”.

A tal fine vanno salvaguardati i piccoli borghi nei quali “c’è bisogno di comunità sostenibili e anche responsabili per le quali accoglienza e solidarietà fanno parte della cultura e delle tradizioni”.  Ponendosi nell’ottica personale e individuale, sostiene che “è necessario un atteggiamento olistico, sistemico, che contemperi percezione sensoriale e azioni fisiche nelle azioni quotidiane, ‘mens sana in corpore sano'”.  

C’è da fare i conti con le innovazioni più invasive: “Va cercato l’equilibrio tra lo strumento digitale e la dimensione fisica e multisensoriale contro le patologie da ‘pigrizia telematica’ verso le quali per fortuna negli ultimi dieci anni è emersa una forte ‘resilienza’”.

La conclusione ci riporta alla visione complessiva dell’Italia che, nonostante le ingiurie subite per mano dell’uomo, mantiene un’immagine quanto mai positiva nel mondo, e al riguardo si citano i risultati di un’indagine del 2017: “L’Italia è sinonimo di ‘qualità della vita’ (concetto poliedrico   relativo ai luoghi, al cibo, alla cultura) di creatività, inventiva e atteggiamento inclusivo nel rispetto dell’altro, l’immagine percepita del Bel Paese è positiva per la cucina, il patrimonio artistico, la moda”.

Un commento finale

Il nostro commento finale è che se la percezione è quella molto positiva appena riportata, non resta che tradurla in flussi turistici all’altezza delle eccellenze di cui fanno parte i piccoli borghi distribuiti sul territorio con le loro attrattive incomparabili,  i quali rappresentano una filiera da promuovere con strumenti adeguati che si aggiunge a quelle delle città d’arte e delle riviere marittime.

L'”anno dei borghi” del 2017 non deve restare come segnale di attenzione isolato, ma rappresentare l’avvio di una politica attiva che si avvalga di tutti i mezzi, partcolarmente penetranti e innovativi,  e di risorse adeguate per rivitalizzarli e renderli attrattivi sui circuiti turistici nazionali e internazionali.

Tale politica deve mettere in atto anche adeguate contromisure per lo spopolamento che non significa abbandono – perché i “fuorusciti” per necessità  restano legati al “natio borgo selvaggio” – ma può privare i luoghi dei servizi necessari da garantire assolutamente per i visitatori, in modo che non si limitino a un turismo “mordi e fuggi”, ma tornino alle antiche e nobili abitudini della “villeggiatura”. 

Photo 

Le immagini saranno inserite prossimamente

Hiroshige,3. Fiori e animali, luoghi lontani e la capitale, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla mostra “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, che espone 230 xilografie policrome e dipinti su rotolo, di Utawaga Hiroshige, dal 1° marzo al 29 luglio 2018, alle Scuderie del Quirinale nell’ambito delle iniziative per il 150° anniversario dei rapporti bilaterali Italia- Giappone. Con il patrocinio dell’Agenzia per  gli Affari Culturali del Giappone, dell’Ambasciata del Giappone in Italia e dell’Università degli Studi di Milano, è stata realizzata da Ales S.p.A, presidente e A.D. Mario De Simoni,  e  MondoMostre Skira, con il Museum of Fine Arts di Boston, a cura di Rossella Menegazzo – con Sarah E. Thompson – che ha curato anche il catalogo Skira.

Abbiamo delineato i principali caratteri dell’arte di Hiroshige, anche rispetto al suo predecessore e in parte contemporaneo Hokusai, soprattutto in campo paesaggistico, inquadrandola nel periodo storico in cui si sviluppò notevolmente la vendita di stampe che illustravano i luoghi maggiormente frequentati, a partire dai due itinerari che collegavano la capitale storica Kyoto con l’emergente capitale amministrativa Edo, 500 chilometri con una stazione di posta per la sosta e il ristoro ogni 10 km. Le xilografie policrome in cui l’opera dell’artista era tradotta in multipli attraverso le stampe dell’Okino-e – il sistema editoriale di cui si sono indicate le modalità – venivano richieste come ricordo dei luoghi e come conoscenza per chi non poteva raggiungerli, con una importante funzione promozionale. Dopo aver descritto la prima sezione della mostra con le opere iniziali, ci siamo soffermati sulle serie delle 53 stazioni di posta del Tokaido e le 69 stazioni del Kisokaido.

E’ il momento di passare alle altre 5 sezioni, iniziando con le più lontane dall’arte paesaggistica, Fiori e animali, Umorismo e  Parodia, e dalla Produzione pittorica, ben  diversa dalla xilografica.

Fiori e animali

Le più collegate all’ambiente sembrerebbero le opere che ne raffigurano gli “abitanti” diversi dall’uomo, gli animali, cioè i pesci per le acque e gli uccelli per i boschi, le piante  e l’atmosfera.

Non sono, tuttavia, inseriti in composizioni ambientali, bensì ripresi in primo piano, spesso con un approccio scientifico abbinato a quello artistico, che appare nella minuziosa riproduzione dei dettagli come fossero copiati dal vero, anzi sono messi nelle posizioni in cui si vedono meglio.  Questo rende la raffigurazione semplice e lineare, ma non asettica e fredda, c’è tanta vitalità negli esseri i quali popolano idealmente la “natura calma” di Hiroshige che si fa sentire pur se non si vede.

Vi sono anche delle scritte in alto, versi poetici riprodotti in modo calligrafico in modo che non sempre si formano parole, ma fili d’erba che si stendono sopra la figura, in un fondo luminoso.

Sono questi gli elementi comuni di rappresentazioni ben diverse, come differenti sono, del resto, le rispettive situazioni naturali e ambientali, realizzate in parte nella prima fase artistica 1932-33, in parte in quella più avanzata, tra il 1840 e il 1842, fino al 1853.

I pesci,  nel consueto formato orizzontale, si trovano nella parte inferiore su uno sfondo chiaro tendente al celeste che vorrebbe ricordare l’acqua senza cercare di riprodurla; gli uccelli sono su dei rametti, spesso con dei fiori, nel più raro formato verticale alto e stretto, inseriti in modo asimmetrico in modo che da formare dei vuoti con la sola pianta, dai quali nasce il respiro della composizione, per gli ampi  spazi di libertà nei quali possono spiccare il volo.

Della serie “Grandi pesci”, compresi i molluschi, sono esposte 10 opere, 6 del primo periodo, “Orecchie di mare” e “Ayu”, “Pagro” e “Sugarello” con “Gamberetto”, “Pesci cappone ” con “Pesce piatto” e “Aragosta” con “Gamberi”, 4 del secondo, “Carpo” e “Scrofano”, “Sgombro” e “Spigola”. Sono immagini distensive, i primi piani dei corpi sembrano offrirsi alla vista, da soli o con altri, affiancati della stessa specie o di altre specie.

Le 15 immagini dei “Fiori e uccelli”  sono poetiche, non solo per i versi appesi come fili d’erba, ma per la grazia e l’armonia con cui gli uccelli si posano sui rametti o si librano nel volo.  L’uccello è per lo più al centro dell’immagine appollaiato, vediamo “Pappagallo su un ramo di pino” e “Uccello del paradiso e susino in fiore”, “Fagiano e crisantemi” e  “Iris e garzetta”, Fringuello e camelia”; lo vediamo in basso in “Beccacce di mare e canne”, “Anatre mandarine con piante acquatiche  e bambù”, e dominare dall’alto in  “Martin pescatore e ortensie” e “Fringuello e clematis”; spicca il fiore in “Pavone e peonie” e soprattutto in “Peonie” dove non c’è l’uccello, mentre “Drago tra le nuvole” è una composizione quasi astratta.

Umorismo e parodia

Le parodie di eventi antichi o di storie classiche sono un altro filone minore coltivato da Hiroshige su richiesta degli editori che si facevano concorrenza anche su questo segmento del mercato. Sono esposte circa 15 opere, metà del 1940-45, metà del 1852-54.

Delle prime fanno parte alcune singolari, della serie “Ombre cinesi improvvisate”1840-42, 4 riquadri illustrati occupati rispettivamente dalle figure e dalle loro ombre che proiettano le sagome dei soggetti dei titoli, la sagoma del “Monte Fuji” e del “Pino con nuove radici”. 

La “Cronaca della Grande Pace” 1843-47,  composizione con un gran numero di soggetti ed elementi, ricorda l’affollarsi nelle prime opere in un magma inestricabile sebbene qui vi sia maggiore definizione delle figure;  la parodia umoristica è data dalla lotta tra l’esercito del sake, con i guerrieri-bottiglia, e l’esercito del riso, con i guerrieri-palline, in un gustoso succedersi di trovate. Ricorda le prime opere anche “Taira Kiyomori vede comparire dei fantasmi” 1844-45, per la maschera da attore teatrale in primo piano a destra, è divertente il pullulare di teste fantasmatiche, è un trittico in cui nella terza parte c’è una dolce figura femminile in un interno labirintico.

Altri 4 trittici spettacolari sono della serie “Genji alla moda”, a due a due quasi simmetrici. Nella prima “coppia” abbiamo “Gara di pittura. Veduta di Sagano” 1853, sulla sinistra due deliziose figure femminili, una seduta, l’altra in piedi, in una terrazza con lo sfondo di un panorama incantevole, lago e colline, prati e alberi, che prosegue allargandosi sulle altre due parti del trittico; e “Akashi”, le due figure femminili sono a destra, si sporgono anch’esse dalla terrazza, il panorama si distende a sinistra con l’acqua, l’isola con barche, la spiaggia con piante e lampioni. La seconda “coppia” è accomunata dalle condizioni ambientali, “Veduta con la neve” 1853 e “Giardino innevato” 1854, anche qui l’interesse dell’artista alla meteorologia del territorio, le figure sono poste ai due estremi del trittico, al centro il manto bianco  e l’acqua celeste.

Figure singole nella serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati della balia”, si tratta di un espediente consueto all’epoca, qui vediamo due raffigurazioni quasi araldiche,  “L’imperatore Koko” e “Chunagon Yakamochi”, 1845-48,con i versi poetici come fili d’erba.

Invece una sorta di mercato, con tante “Figure del teatro nei panni dei commercianti e dei clienti” che contrattano a due a due, sciorinando al propria mercanzia, in due opere simmetriche della serie “Fiorenti attività a Jorurimachi” 1852, in ciascuna oltre 15 figure, le più diverse tra loro. 

La produzione pittorica

Intitolare così la sezione non vuol dire che non sia vera pittura quella finora descritta. E’ pittura di altissima qualità, ma si tratta di xilografie policrome tradotte in stampe multiple con il procedimento dell’Ukino-e che va dal disegno cromatico all’incisione con inchiostrazione, quindi diverse dalla pittura tradizionale. Neppure questa manca nella vasta e poliedrica produzione di Hiroshige, e proprio perché l’artista eccelle nell’Ukino-e è ancora più interessante approfondire le caratteristiche  e il livello dei suoi dipinti pittorici, anche su rotolo di carta e seta.

Vediamo innanzitutto  3 vedute paesaggistiche molto delicate, rispetto alla brillantezza cromatica delle stampe Ukino-e, i colori qui sono soffusi e appena percepibili nelle composizioni equilibrate e discrete dove le figure umane, pur presenti come sempre nell’artista, sono tratteggiate appena in dimensioni minuscole che si notano appena. In due c’è il mare, “Enoshima”  1848-54 e “Passaggio intorno al monte Matsuchi” 1850, nella terza la “Veduta di in paesaggio di montagna” 1848-54.    

Non stiamo a descrivere la dovizia di particolari anche minuti, sono dipinti orizzontali mentre si stendono verticalmente gli altri presentati, nei quali troviamo temi diversi, ancora il paesaggio declinato nelle varianti climatiche delle diverse stagioni e la beltà femminile in primo piano. Così nel trittico verticale “Tre vedute”1850, in primavera, estate e autunno, sui fianchi della montagna nascosta parzialmente dalle nuvole si notano i segni delle stagioni nella vegetazione, è un’immagine suggestiva nella sua parziale dissolvenza; e nel set di 4 rotoli “Meguro nelle quattro stagioni” 1856-58 dove – pur nell’estrema delicatezza della composizione con le forme appena delineate sulle quali piovono i versi delle scritte che si snodano dall’alto come dei fili d’erba – si riesce a percepire la primavera nei bianchi ciliegi in fiore e l’estate nella foschia sotto la luce della luna, l’autunno per le foglie arrossate degli aceri, e l’inverno per la distesa di neve.

Poi due dittici molto diversi, “La cascata di Nunobiki”, “maschile” e “femminile” 1850, con due salti dell’acqua, più alto e copioso quello della seconda cascata; e “Takasago” 1854-58, due immagini speculari, con un grande albero verde al centro sulla spiaggia le cui parti quasi combaciano, e due figure simili poste ai suoi piedi che puliscono il terreno.

In tutti i dipinti ora descritti abbiamo rappresentazioni realistiche con molto dettagli, derivanti da visite dirette nelle località con gli schizzi disegnati sul posto e ripresi poi nella realizzazione con pennellate veloci; ciò è dimostrato dalla firma “Ryusai sha” in queste opere, dove “sha” vuol dire “vera copia”, “ripresa dal vero”, o comunque dagli schizzi, il termine analogo “shashin” verrà utilizzato nella fotografia per indicare la copia. E’ un’evoluzione di ispirazione occidentale perché l’arte giapponese non tendeva al vero volendo trascendere la realtà per sublimazioni e simbolismi.

Sulla figura femminile 4 dipinti verticali, “Beltà dopo il bagno” e “Beltà“, 1848-54, cui si aggiungono “Cortigiana tayù il primo giorno di agosto” 1848-60, e “Destino” 1848-54. Nei primi due la beltà è rappresentata da ritratti a figura intera di “geishe” senza alcun contorno ambientale, con gesti istintivi e riservati con i quali si sistemano l’elegante kimono; anche nel terzo c’è una cortigiana ripresa mentre cammina in parata con pesanti vestimenti a più strati, mentre nel quarto le figure sono due, più piccole, intente  a tagliare alla base con pialla e zappa una sorta di alto tronco che in realtà è l’ideogramma che ha dato il titolo all’opera. La Menegazzo commenta: “Forse la rappresentazione scherzosa del modo di dire maschile secondo cui le donne sono affascinanti, ma anche ‘tolgono la vita’ (inochikiri)”.

Torna l’Okiyo-e del paesaggio con “i luoghi lontani”

Abbiamo commentato in precedenza le due serie sugli itinerari tra le due capitali. Kyoto ed Edo, le “Cinquantatre stazioni di posta del Tokaido”  e le “Sessantanove stazioni di posta del Kisokaido”, mettendo in evidenza le caratteristiche peculiari dell’arte paesaggistica di Hiroshige, anche raffrontato a Hokusai, e citando i particolari ambientali su cui si è soffermato maggiormente.

Ma oltre a queste, ci sono molte altre serie paesaggistiche sulle tante località delle province dell’impero che l’artista – al pari degli altri maggiori paesaggisti – veniva chiamato a realizzare dagli editori i quali nel suo caso, come per Hokusai, erano  spinti dallo strepitoso successo ottenuto. 

Così venivano conosciute le attrazioni anche di terre lontane che il comune viaggiatore non avrebbe potuto visitare e questo dava un ulteriore impulso alla “cultura del viaggio” indotta dalla crescita economica, dall’incremento degli scambi oltre che dai movimenti turistici e religiosi in tutto il paese che si andava aprendo per l’imperiosa richiesta occidentale, dopo l’isolamento secolare .

La mostra ne dà conto con una selezione di 25 opere appartenenti ad 8 serie più alcune a sé stanti, realizzate nell’arco di 25 anni, 3 nel 1832-35 subito dopo la consacrazione artistica e popolare con le stazioni di Tokaido, 5 dopo tre lustri, tra il 1852 e l’anno della scomparsa, il 1858.

E del 1832 la serie “Luoghi celebri del nostro paese”,  vediamo esposte l’“Illustrazione della grotta  a Enoshima nella provincia di Sagami” con un’onda che preannuncia quella più celebre di un quarto di secolo dopo; e la “Cascata di Nunobiki” che ci riporta la mente alle ben più vertiginose cascate di Hokusai. 

Seguono i “Luoghi celebri di Kyoto” del 1834, due opere sull’attenzione dell’artista alle stagioni, con  il celeste luminoso della primavera in “Ciliegi in piena fioritura ad Arashiyama”, il gelido biancore  dell’inverno in “Il santuario di Gion con la neve”.  E, in rapida sequenza temporale, le “Otto vedute di Omi” del 1834-35, con la speciale sensibilità riconosciuta all’artista alle condizioni meteorologiche, evidente in “Neve di sera a Hira”che copre i tetti e la montagna e “Pioggia notturna a Karasaki”, spettacolari le fittissime linee verticali che portano acqua dal cielo, le ritroveremo nell'”Acquazzone ad Atake” che Van Gogh riprese nel suo “Ponte sotto la pioggia”. Ancora in successione, nel 1835-36 la serie “Otto vedute di Kanazawa” con la deliziosa ““Discesa delle oche selvatiche a Hirakata”, planano su tre lingue di terra sul mare, nella più lunga una fuga di alberi, nelle altre due le donne curve nei loro lavori.

Un salto di 15 anni ed ecco il trittico isolato “Folla di visitatori al tempio di Benzaiten a Enoshima nella provincia di Sagami in occasione dell’esposizione delle immagini sacre” 1852, venti anni prima la piccola onda, ora l’increspatura del mare con la spettacolare processione tra la spiaggia, l’istmo e l’isola sacra; l’altro trittico esposto, del 1853, “Luna riflessa sulla superficie delle risaie a Sarashina nella provincia di Shinano”  è una delle visioni più splendide delle grandi figure di gentildonne in un ambiente naturale dall’intenso cromatismo, tra il verde del prato e il celeste del cielo e dell’acqua, il rosso ruggine dell’albero e il grigio del monte, stupendo!

Ma ecco di nuovo le serie, i “Luoghi celebri delle province di Awa, Kazusa e Shimosa”  1852, con due splendide immagini, 2 gentildonne vengono portate a riva dalla barca sulle spalle degli inservienti che guadano il breve tratto di mare in fila indiana con i bagagli,  i titoli sono “Il litorale di Hoda nella provincia di Awa” e “Kisarazu nella provincia di Kazusa”. Nella serie verticale “Illustrazioni di luoghi celebri delle sessanta e oltre province” del 1853-55, oltre a “Kazuke. Il monte Haruna sotto la neve” e “Kii [la baia di] Wakanoura” troviamo “Awa. I gorghi di Naruto”, un’onda che viene inevitabilmente confrontata con “La grande onda” di Hokusai, molto diversa ma altrettanto tempestosa a differenza dell’altra onda che vedremo di seguito.

Una leggera turbolenza del mare creata dalle rocce affioranti, che si stempera in lontananza, in un’altra immagine dello stesso luogo, “Veduta dei gorghi di Naruto ad Awa”, della serie “Neve, luna e fiori”,  1857, della quale è esposta anche una placida panoramica marina, “Veduta notturna degli otto luoghi celebri di Kanazawa”, e la massa montuosa in “Monti e fiumi lungo la strada Kiso” che riempie l’intera superficie del quadro con il suo biancore.

Dell’ultimo anno di vita, il 1858, oltre a 2 opere verticali della serie “Immagini ritagliate della strada per Oyama”,  sono esposte 3 opere, anch’esse verticali, della serie “Trentasei vedute del monte Fuji”,  impegnativa per il titolo identico a quello della serie  del 1830-32 che aveva segnato il travolgente successo e la fama sconfinata di Hokusai.

La prima delle 3  mostra “Il mare di Satta nella provincia di Suroga”: rispetto ai “gorghi di Naruto” del 1855 l’onda è molto più simile alla “grande onda” di Hokusai soprattutto con l’impetuoso spruzzo bianco che si infrange sulla destra, però le barche con le persone non lottano con i flutti ma sono lontane dalla risacca, dove il mare è una tavola, il volo dei pivieri e la pianta verde a sinistra rasserenano l’ambiente. Nelle altre 2 opere, “I dintorni di Koshigaya nella provincia di Musashi” e “La piana di Otsuki nella provincia di Kai”,una visione serena della campagna, in entrambe una distesa verde con i corsi d’acqua e il cono bianco del vulcano di sfondo; ma il motivo più rilevante riguarda i primissimi piani dell’albero e degli steli, un taglio fotografico che diverrà molto più evidente nell’ultima serie di cui parleremo a conclusione della rassegna.

Il culmine con Edo,  i luoghi celebri e le vedute della capitale orientale

E’ significativo che le serie su Edo aprano e chiudano il percorso artistico di Hiroshige, dato che è del periodo iniziale, 1831-32, la serie “Luoghi celebri della capitale orientale”, e dell’epilogo anche della vita, 1856-58, la serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.

Le 10 opere esposte ripropongono i motivi centrali della sua arte:  il trittico “Veduta dal vero del ponte di Nihonbashi, illustrazione del mercato del pesce”  reca la presenza continua dell’elemento umano, una miriade di persone indaffarate affollano il ponte e la banchina altrettanto brulica di persone, ne abbiamo contate oltre 200, l’altro trittico “Tokio [il teatro Kawarazaki]” ; mentre “Ciliegi in fiore lungo l’argine di Koganei” e “Fioritura dei ciliegi di sera a Nakanocho nel quartiere di Yoshiwara”, “Pesca di ayu nel fiume Tama sotto la luna autunnale” esprimono la calma della natura;  inoltre lo splendido trittico “Illustrazione generale del fiume Sumida.Veduta con la neve” e i 2 singoli, “Neve nell’area antistante il Tenmangu a Kameido” e “Acquazzone improvviso sul ponte di Nihonbashi”  mostrano la sua sensibilità per i fenomeni atmosferici, anch’essa una costante, quest’ultimo anticipa di un quarto di secolo l’ “Acquazzone ad Atake” copiato da Van Gogh, è esposto anche il trittico “Veduta del laghetto di Shinobazu e Ueno sotto la neve”, spiccano tre splendide figure femminili nella nevicata con i loro deliziosi ombrellini. 

Ci sono anche 3 opere con le vedute di santuari e dei pellegrini in visita, e 7 disegni, di cui 5 della “Serie degli attracchi dei traghetti di Katsushika”, ma è ora di passare alle “Cento vedute dei luoghi celebri di Edo”, il canto del cigno del grande artista  che è riuscito a introdurre un fattore di straordinaria modernità, prima soltanto accennato in opere quali “Luna serale sul ponte di Ryogoku” e altre già citate: si tratta del taglio fotografico con primi piani di elementi secondari che assumono un rilievo visivo per rendere l’immagine viva e dare profondità di campo alla scena unito alla  inquadratura ad altezza dello sguardo e non più dall’alto per meglio coinvolgere l’osservatore.

La capitale importanza dell’innovazione, anche nello sviluppo dell’arte fotografica, ci induce a citare, invece dei titoli delle opere esposte – tante, oltre 40 – i primi piani indicandone gli oggetti che diventano soggetti: scala e staccionata, amaca e ponte, festone e cancellata, lunghi steli e fronde pendenti, albero e rami, radici e ruota, zampe del cavallo e braccia, gambe dell’uomo. 

Si resta ammirati dinanzi a tale autentico miracolo: nella fase terminale del suo percorso artistico ed esistenziale Hiroshige è riuscito in un vero colpo di teatro, in senso stretto, dare alle sue immagini – tra cui l’“Acquazzone ad Atake” già da noi citato con riferimento a Van Gogh – una straordinaria immediatezza.

E’ un carattere cinematografico oltre che fotografico che lascia senza fiato; e lascia senza parole, per questo terminiamo il nostro viaggio virtuale nella capitale orientale e nelle altre meraviglie dell’artista con le parole conclusive della curatrice Menegazzo: “La natura calma, rasserenante di Hiroshige, la sua abilità nell’uso della linea curva o spezzata che si ripete in molte sue vedute cambiando da un punto di vista ampio e soprelevato a uno frontale ed esageratamente stretto, la dedizione e la serietà con cui lavorò incessantemente al tema del paesaggio fecero di lui una fonte di ispirazione primaria per gli artisti europei, superando in questo, con la sua disciplina, forse anche Hokusai, genio fuori dalle righe e dalla personalità tormentata e di più difficile controllo”. Il che è tutto dire, dato l’altissimo livello dell’arte paesaggistica del grande Hokusai.

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it.  Catalogo “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, a cura di Rossella Menegazzo,  Skira 2018, pp. 290, formato  28,5 x 24,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I  primi  due articoli  sulla mostra sono usciti,  in questo sito, il  14 e 19 giugno 2018, con altre 10 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito,  su Hokusai  2, 8, 27 dicembre 2017, su Monet 9 gennaio 2018, su Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018,  sull’arte giapponese,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.   

Foto

Le immagini sono state in parte fornite dall’organizzazione, in parte tratte dal Catalogo, si ringrazia Ales S.p.A. e l’Editore,  con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Kameido. Il giardino dei susini” 1857;  seguono, “Pagro  e pepe nero giapponese” 1832-33, e “Uccello del paradiso e susino in fiore” 1830-35; poi,”Trote” 1832-33, e “Beltà dopo il bagno” 1848-54;  quindi, “Luna riflessa sulla superficie delle risaie a Sarashina nella provincia di Shinano” 1853, e “Veduta con la neve” 1853; inoltre, “La costa di Hoda nella provincia di Awa” 1852, e “Il ponte di Yatsuni”  1856; in chiusura, “Traghetto di Haneda e santuario di Benten” 1856-58.

Bandiera, 1. 90 artisti italiani interpretano la nostra bandiera

Ripubblichiamo i due articoli usciti in www.arteculturaoggi.com il 14 e 15 gennaio 2014 collegandoli alla recensione alle mostre “Eyedentity” e “Flags”, anch’essa ripubblicata nel giorno dell'”Independence day”, in omaggio ai valori identitari che nella bandiera trovano l’espressione nazionale: un ponte ideale tra i nostri due mondi con una dedica speciale al prof. Steven E. Ostrow, una vita di insegnamento al Massachusetts Institute of Technology, il mitico MIT nel quale ha diffuso – e continua a farlo – la sua cultura classica di innamorato dell’Italia.

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nel “Sacrario delle Bandiere”,  la mostra “Novanta artisti per una Bandiera”  espone dal  22 novembre 2013  al 31 gennaio 2014  le interpretazioni della bandiera assegnata a ciascuno degli artisti che le hanno donate per un’iniziativa benefica: la costruzione dell’Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, la patria della Bandiera italiana, nelle cui strade sono state esposte 86 bandiere per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale nel 2011.

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Antonio Segui

L’arte al servizio della storia e anche della solidarietà, una bella combinazione. L’iniziativa è promossa dall’Associazione CuraRE Onlus con lo Stato Maggiore della Difesa e il Comune  di Reggio Emilia, a cura di Sandro Parmiggian, che l’ha realizzata a partire dalla ricerca degli artisti, e ha curato anche il Catalogo di Corsiero Editore con le 90 opere e le esaurienti schede biografiche.

Non è la prima mostra, tra quelle  di cui ci siamo occupati,  che riunisce un certo numero di artisti su un tema preordinato. Ricordiamo le mostre del 2009 “Mitografie” al Museo Carlo Billotti con una serie di artisti operanti a Roma ai quali fu chiesto di interpretare il tema del mito, e “Contemplazioni”, a Rimini sul tema della bellezza, con una scelta di opere già esistenti.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery/uid_14b8e8ceda5.jpgEugenio Carmi

Le particolarità di una mostra “unica” e irripetibile

Questa mostra è diversa in quanto gli artisti sono stati invitati a un’opera originale non su un tema ma su un “oggetto”, come avvenuto per un’altra mostra che ci piace ricordare, quella evocativa del ruolo dell’Ente comunale di Consumo di Roma sulla base della carta oleata che avvolgeva il  burro.

Nel caso attuale l'”oggetto” dato agli artisti per trarne ispirazione è la massima icona laica che si possa concepire, la Bandiera;  gli esemplari consegnati tutti diversi, perché tante sono le incarnazioni della bandiera, compresi gli Stati preunitari e i vessilli di occasioni particolari. La mobilitazione non poteva che essere massiccia, ben 90 artisti con altrettante opere, con nomi importanti, e la sede espositiva quanto mai prestigiosa, il “Sacrario delle Bandiere” al Vittoriano, l’Altare della Patria.

Ma c’è un’altra particolarità che rende unica la mostra: non è fine a se stessa, e già sarebbe un evento data l’importanza del tema e la qualità delle opere, ma è finalizzata alla costruzione di un Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore. A tale intento meritorio  sono destinati i  proventi dalla vendita delle opere, anche se l’importanza sul piano artistico è tale che al motivo umanitario si associa, nelle parole degli organizzatori, “l’obiettivo tuttavia di preservare l’integrità della rassegna e farne una sorta di raccolta permanente”.

Il Sindaco di Roma Ignazio Marino  ha collegato il tricolore alla finalità  per la donna e il bambino: “Un’unione rappresentata da quel verde, bianco e rosso simboli di rivoluzione, sovranità e libertà del popolo e simbolo di speranza. Di così tanta intensità è l’amore che lega una madre a un figlio. Infinito, sconfinato, unico,  profondo, viscerale. Un amore che va tutelato e protetto. E’ questo che si propone CuraRE Onlus con il suo ‘Ospedale dedicato alla Donna e al Bambino”. 

E la presidente di CuraRE Onlus Deanna Ferretti Veroni lo ha confermato sottolineando che la struttura si prenderà cura della donna e del bambino “integrando accoglienza, familiarità, confort, sapere, professionalità e tecnologia”,  per l'”impegno artistico, sociale, umanitario” degli artisti.

Mentre il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, tra i valori e principi comuni evocati dal Tricolore, simbolo dell’unità nazionale, ha citato, oltre a libertà e a democrazia, la giustizia sociale e la solidarietà.

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Walter Valentini

E’ un ospedale  a più piani di oltre 12.000 metri quadrati, quello che si intende realizzare, con le tecnologie e competenze più avanzate, le specialità cliniche dalla Ginecologia e ostetricia, compresa la Procreazione medicalmente assistita, alla Neonatologia, Pediatria e Neuropsichiatria infantile, con il relativo Blocco operatorio.

Perché ciò avvenga,  il sostegno degli artisti è decisivo ma non si manifesta con la pur generosa cessione di un’opera esistente, bensì con l’impegno a crearne una apposita ispirata non al Tricolore in generale, ma alla particolare bandiera  consegnata a ciascuno, con gli specifici colori e simboli.

Fuori dalla torre d’avorio nella quale viene spesso isolata la figura degli artisti, li vediamo  impegnati solidalmente nella soluzione di un problema sociale pressante come l’assistenza alla donna e al bambino. L’immersione nella realtà viva e pulsante non è limitata a questa partecipazione,  perché le bandiere consegnate loro per la traduzione artistica sono state esposte nel 2011, come accennato, nelle strade di Reggio Emilia, dove il tricolore è nato il 7 gennaio 1797,  per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia che ha visto un gran  numero di manifestazioni in tutto il Paese.

Si tratta delle bandiere degli Stati preunitari, giacobine e napoleoniche, dei moti e  insurrezioni popolari del Risorgimento, dell’Unità e del Regno d’Italia, fino ai diversi vessilli della Repubblica e a quelli utilizzati per obiettivi di valore civile e sociale, come nelle manifestazioni antimafia.

Tutte queste bandiere, dopo il bagno popolare di un anno nelle “Strade della bandiera” di Reggio Emilia – la manifestazione inaugurata dal presidente Giorgio Napolitano il 7 gennaio 2011 – sono finite negli studi dei 90 artisti.

Di qui la trasposizione, anzi la trasfigurazione artistica, qualcosa di straordinario che non ha precedenti, e ha visto gli artisti ispirarsi liberamente alla bandiera assegnata e ai suoi colori.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery/uid_14b8e8beb25.jpgUmberto Mariani

La partecipazione degli artisti al progetto benefico e patriottico

Ma prima di fare un excursus sulle opere realizzate, intendiamo soffermarci sulle riflessioni  nate nella complessa organizzazione dell’evento che ha richiesto la ricerca preliminare degli artisti disposti a partecipare a un’iniziativa fuori del comune.

Ne parla l’artefice dell’iniziativa, Sandro Parmiggiani,   partendo dalla considerazione che “gli artisti vivono con particolare fastidio, e con molte ragioni, la consuetudine di andare a bussare alle loro porte per chiedere un’opera da destinare a un qualche scopo benefico”. Tanto più in questo caso in cui si trattava di un tema predeterminato e di un’opera da realizzare appositamente e non da scegliere tra quelle disponibili e inutilizzate.

Se in passato il ruolo rivestito dall’artista era coerente con le richieste di partecipare ad eventi benefici con la sua autorevolezza, in seguito la sua figura è andata mutando, anche per la crescente mercificazione dell’arte in cui l’aspetto economico ha prevaricato quello artistico per cui le richieste di partecipare  a iniziative benefiche hanno privilegiato il primo aspetto scadendo di livello ed esponendosi a frequenti rifiuti; mentre l’artista per sua stessa natura  è aperto alla società e sensibile alle esigenze dettate dalla solidarietà e dalla partecipazione  alle iniziative comuni.

L’iniziativa legata alle Bandiere ha potuto ristabilire un rapporto fecondo con gli artisti coinvolgendoli in un progetto che alla valenza civile e umanitaria ha unito un forte contenuto artistico, per di più riferito a uno dei valori più nobili dell’identità nazionale, quello legato alla Bandiera. E non a una sola bandiera, ma alle 86 bandiere che riflettono una lunga storia di aspirazioni e di lotte, di vittorie e di sconfitte, approdata alla fine nel Tricolore nazionale.

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Lucio del Pezzo

Con la lunga esposizione agli agenti atmosferici nelle strade di Reggio Emilia hanno assunto lo stesso aspetto delle bandiere segnate dai campi di battaglia, in quelle date agli artisti c’era il segno del “vissuto”. La “street exibition” –  ha scritto Alberto Melloni   ha trasformato la città in “un museo a cielo aperto di grandi bandiere, messe come fitte quinte delle strade principali, a marcare le tappe e gli apporti che confluiscono nella bandiera nazionale in un percorso storicamente rigoroso”. 

Ha poi dato l’interpretazione della molteplicità di vessilli esposti che si è tradotta in una corrispondente  molteplicità delle opere d’arte a loro ispirate: “Un racconto muto che partendo dal tricolore francese dicesse le varianti di una metamorfosi nella quale non fosse il mito carducciano del ‘primo’ tricolore a costituire l’asse del discorso, ma al contrario il molteplice rifrangersi di un simbolo civile che, dopo la campagna napoleonica, si iscrive nella storia italiana, dalle bandiere degli Stati dell’Italia disunita”, fino alla Costituzione che ha posto “il tricolore come ultimo dei principi fondamentali”.  Al quale si sono aggiunti i vessilli del Quirinale, dell’UE e dell’ONU. 

Non sono stati posti vincoli alla personale interpretazione della specifica bandiera loro consegnata – scrive Parmiggiani –  da considerare solo “come un  punto di partenza da cui inoltrarsi nel loro cammino,  verso la realizzazione di un’opera che comunque recasse il segno della loro lingua, del loro stile”;  sono stati stimolati “a inoltrarsi su strade inesplorate, esperienze che, depositatesi nella memoria, fermenteranno nell’immaginario e saranno foriere di innovazioni nella loro opera”.

Ed ecco come gli artisti hanno risposto: “Alcuni sono intervenuti sulla bandiera stessa o su una sua parte, dipingendovi sopra o utilizzandola per creare un’opera-oggetto; altri ne hanno utilizzato frammenti per inserirli, attraverso il collage, nei loro lavori; altri ancora hanno creato un lavoro del tutto autonomo: la bandiera loro assegnata è diventata  fonte diretta di ispirazione per i possibili riferimenti di colori, di scritte, di forme disegnate”.

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Gabriella Benedini

Esposizioni delle opere e giudizi autorevoli

Le 90 opere sono state già esposte – “noblesse oblige” – a Reggio Emilia nei Chiostri di San Domenico, in una mostra inaugurata il 13 marzo 2013; poi sono state presentate il 2 giugno, nella festa della Repubblica,  alla sede dell’Accademia militare di Modena,  il cui legame con la bandiera è evidente.

Ma l’approdo al Vittoriano, l’Altare della patria, nel “Sacrario delle Bandiere”, è il culmine che l’iniziativa meritava di raggiungere: “Era un luogo cui appariva impensabile solo pensare, se non  come uno di quei ‘sogni’  che, parafrasando il testo teatrale di Indro Montanelli, ‘muoiono all’alba’”, scrive Parmiggiani, confidando sinceramente  come fosse inattesa l’apoteosi finale.

Nel “Sacrario delle Bandiere” la vastità dell’ambiente e la spettacolarità dei vessilli storici nelle  teche di vetro tutt’intorno fa sì che le opere degli artisti siano discrete, come a non voler turbare l’atmosfera quasi religiosa che vi si respira, una religione civile altrettanto coinvolgente. Ma proprio questa discrezione le fa inserire nello spazio centrale compenetrandole  nello spirito del luogo.

Il Catalogo riporta in elegante veste grafica per ogni artista l’opera realizzata a piena pagina e in aggiunta, riprodotta in piccolo, la bandiera assegnatagli cui si è ispirato; inoltre  una biografia esauriente che, riguardando 90 autori, concorre a formare una inedita, preziosa documentazione, come è preziosa la descrizione degli 86 vessilli, per ognuno dei quali si riassume la storia.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery/uid_14b8e9f8831.jpgGraziano Pompili

E’ un accurato lavoro di ricerca che rappresenta un ulteriore valore aggiunto del progetto, ma non basta: “Se l’Italia fosse un paese molto diverso – scrive ancora Melloni – chi compra queste opere potrebbe essere tentato di ridonarle alla  città, perché diventino subito patrimonio di tutti”, prospettiva auspicabile ma non certa, per cui aggiunge: “Se non fosse così, se non sarà così, un catalogo dirà cosa questa città avrebbe potuto dire di se stessa a valle di una celebrazione che l’ha vista partecipe con le sue strade e la sua gente”.

Un orgoglio cittadino espresso anche dal sindaco Graziano Delrio: “Ci piace pensare che il tricolore italiano, con il suo impulso alla solidarietà, libertà, convivenza, non potesse nascere in un luogo qualsiasi. Proprio questo luogo non qualsiasi, Reggio Emilia, ha accolto il 150esimo dell’Unità d’Italia” con le strade imbandierate e ne è nata  l’iniziativa benefica. Un orgoglio che Sonia Masini, presidente della Provincia di Reggio Emilia, ha espresso sottolineando il contributo significativo della sua terra nel “far germogliare le radici democratiche della nazione, a radicare i valori della libertà, dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica”.  E  Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato che Reggio Emilia “deve la sua fama, a livello nazionale e internazionale, anche alla cura e all’attenzione dell’universo materno-infantile”,  associando così il richiamo al motivo benefico alla matrice civile patriottica.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery/uid_14b8e9f431d.jpgHidetoshi Nagasawa

Le diverse interpretazioni del  tema-oggetto “bandiera”

Dal confronto tra l’opera e la relativa bandiera si può ripercorrere idealmente l’itinerario dell’ispirazione artistica, vedere come il soggetto proposto è stato recepito e trasfigurato.  In una ampia serie di opere la bandiera di base è riconoscibile, o nella forma e struttura complessiva dell’opera oppure nei soli colori, nell’intero dipinto oppure in una consistente parte di esso.

Altre opere ne danno un’interpretazione molto più libera fino a rendere del tutto irriconoscibile la fonte originaria di ispirazione. In qualche caso viene dichiarato espressamente il diverso contenuto, ma si sente sempre che la sensibilità civile e umana è stata sollecitata per cui il nuovo riferimento è altrettanto meritevole. Pensiamo ai valori insiti in  “Imagine” di Lennon, come a quelli sottesi in altre fonti di ispirazioni liberamente associate alla bandiera in una riflessione a raggio più vasto.

E’  uno spaccato di arte contemporanea quello che viene presentato, la cui “lettura” è facilitata dal Catalogo che nell’ampia biografia di ognuno dei 90 artisti inserisce i caratteri salienti del loro stile pittorico, rappresentando una guida preziosa per la mostra oltre che un’istruttiva antologia.

A questo punto visitiamo la mostra, nell’atmosfera magica del “Sacrario delle bandiere”, consapevoli che, dato il gran numero di artisti e delle rispettive opere, dovremo limitarci a una rassegna forzatamente rapida senza poterci soffermare ma dando qualche sommario accenno su ciascun artista, senza omissioni, per una testimonianza completa.  Ne daremo conto prossimamente.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery/uid_14b8e9eb4a2.jpgPiergiorgio Colomara

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel- 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una Bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito il 15 gennaio 2014.  Per le mostre citate cfr. i nostri articoli:  in questo sito, “43 artisti, la vecchia carta oleata ispira la modernità” 1° agosto 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e “Contemplazioni, bellezza e tradizione nella pittura italiana contemporanea” 4 agosto 2009.

Foto Le immagini sono state fornite dagli organizzatori della mostra che si ringraziano con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Antonio Segui, seguono  quelle di Eugenio Carmi e Walter Valentini; poi di Umberto Mariani e Lucio del Pezzo;  quindi di Gabrilla Benedini Graziano Pompili, inoltre di Hidetoshi Nagasawa e Piergiorgio Colomara; in chiusura,  la bandiera di Antonio Marras.