Turner, 2. Dalle opere giovanili al viaggio in Italia, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Turner – Opere della Tate”, aperta dal 22 marzo al 26 agosto 2018 al Chiostro del Bramante, che espone una selezione della collezione di acquerelli e “goauche”,78 opere su carta, per lo più  incompiute e bozzetti preliminari, più 7 oli su tela, che fu assegnata alla Tate come “patrimonio nazionale” da una Corte inglese salvandola dalla dispersione. La mostra è  promossa dalla Regione Lazio e da Roma Capitale, dall’Ambasciata Britannica di Roma edalBritish Council, ed è prodotta e organizzata da DartChiostro del Bramante in associazione con Tate. Curatore della mostra e del Catalogo di Skira Editore, David Blayney Brown della Tate.

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Abbiamo delineato in precedenza la figura di Turner e la peculiarità della sua espressione artistica, quasi esclusivamente legata al paesaggio, un tema quanto mai diffuso, ma da lui declinato in modo del tutto personale con una delicatezza e insieme un’intensità non riscontrabile in nessun altro autore. Esprime immediatezza ed autenticità delle percezioni che l’hanno ispirato e insieme il sentimento alla base di manifestazioni così intime e interiori da penetrare nell’animo.

Inoltre abbiamo sottolineato la peculiarità di una mostra che presenta quasi tutti acquerelli e “gouache”, su carta – con pochi anche se significativi oli su tela –  incompiuti o perché abbandonati in itinere o per costituire studi preliminari di opere più o meno portate  a termine; anzi,  la discriminazione tra le diverse ipotesi è uno dei motivi intriganti che viene proposto al visitatore.

Pannelli esplicativi ne documentano l’influenza su artisti come Twombly per “le campiture di colori e le atmosfere indefinite” da cui nasce “una visione immersiva, che mette in contatto lo spettatore con una dimensione intima e suggestiva”, Rothko  per i “livelli galleggianti di luce velata” che configurano i suoi “infiniti senza forma” astratti; Turrel, per la comune definizione dello spazio mediante la luce in cui “i confini spaziali sono dissolti, i contorni “indefiniti e impalpabili” liberandosi dalla forma per “un accesso diretto alla dimensione spirituale dell’essere umano”.

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E soprattutto viene ricordata l’influenza che ebbe sugli impressionisti e in particolare su Monet, che vide le sue opere alla National Gallery nel periodo in cui si era rifugiato a Londra con Pizzarro per fuggire dalla guerra franco-prussiana, e sentiva l’artista molto vicino per la comune attitudine a ricercare con viaggi nel proprio paese e all’estero i paesaggi ispiratori; e a rendere il fascino delle condizioni mutevoli nelle ore del giorno con “la registrazione en plein air del dato atmosferico e degli effetti di luce e colore” in modo suggestivo, di qui gli “effetti di nebbia” su Senna e Tamigi.

La visione delle opere esposte nelle varie sezioni fa entrare in un mondo fluttuante ed evanescente, proiettato nell’interiorità dell’artista mentre rappresenta l’esteriorità della natura, una sorta di ossimoro che Turner riesce a declinare con una delicatezza e un’efficacia veramente straordinarie.

Le opere giovanili, dall’architettura al paesaggio

Abbiamo già accennato ai primi passi del  suo percorso formativo, con l’iscrizione alla Royal Academy School, fu però determinante la collaborazione da disegnatore topografo a studi di architetti, tra cui Thomas Malton, che considerava il suo “vero maestro”; e con James Wyatt, con il cui nome firmò anche una propria opera, non si sa se per rendergli omaggio oppure per prendere le distanze  dai lavori topografici sentendosi spinto verso la pittura paesaggistica.

Infatti i suoi disegni di prospettive degli edifici erano comunque impreziositi da sfondi paesaggistici che  presero sempre più il sopravvento fino a diventare l’oggetto esclusivo del suo interesse e della sua arte. Si può pensare che l’attenzione al modo con cui presentava gli edifici lo fece soffermare sulle differenze nelle varie ore del giorno, da Michael Angelo Rockler prese la “pratica graduale” dei colori, inseriti uno per volta iniziando dal più chiaro, mentre fu formativa l’abitudine di fare copie e “d’aprés” di altri artisti  nella Adelphi Accademy” del collezionista Thomas Monro.

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L’altro elemento formativo, una volta manifestata la sua vera vocazione pittorica, furono i viaggi estivi alla ricerca di ispirazione per le opere da esporre all’Accademia o richieste su commissione. Inizia dai dintorni di Londra, poi visita la parte meridionale e occidentale dell’Inghilterra, il Galles e la Scozia meridionale, nella prima fase non può andare oltre la Manica per la guerra con la Francia, poi all’inizio dell’800 potrà  approdare in Europa, dalla Svizzera all’Italia.

Le prime opere esposte, molte  di 20 x 30 cm fino a un massimo di 60 cm, con qualche eccezione, presentano già le caratteristiche che diverranno poi evidenti allontanandosi sempre più dalla forma.

“Veduta della gola dell’Aniene” 1791, e “Mulino a vento su un colle che domina un ampio paesaggio con fiume tortuoso” 1794-95, riflette l’impressione avuta in una visita nei luoghi, nel primo un albero in primo piano si sporge su un torrente, nel secondo un mulino a vento svetta nel cielo, le immagini sono nitide e nei dettagli, ma è solo l’inizio.

Tra loro, nell’anno intermedio, “Il Pantheon, la mattina dopo l’incendio” 1792, un’opera inconsueta, omaggio a Wyatt –  l’architetto del celebre teatro londinese con cui collaborava – di tipo topografico per la prospettiva dettagliata della facciata, ma con in primo piano vigili del fuoco e la gente che si affolla nella luce dell’alba, l’atmosfera è livida con colori diffusi appena accennati.

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Tra il 1795 e il 1797due  acquerelli di dimensioni minuscole, intorno ai 20 cm, insoliti per motivi diversi, “Donna anziana nella cucina di una casa di campagna” è un interno intimistico, molto raro per lui, che ricorda i dipinti sulla quotidianità del periodo d’oro dell’arte olandese; mentre “Chiaro di luna sul mare e scogliere in lontananza” non è romantico come sembrerebbe dal titolo, ma fosco, un cielo minaccioso e acque altrettanto cupe, con uno squarcio di luce tra cielo e mare.

Nel triennio successivo, 1798-1800, cominciamo a vedere il Turner dal cromatismo delicato e dai toni soffusi  nelle visioni paesistiche con castelli o altri insediamenti appena delineati: “Castello di Norham, studio a colori ”  e “Richmond, Yorkshire, studio a colori”, “Veduta del lago a Stourhead con mlino ad acqua” e  l’interno senza paesaggio della “Cattedrale di Durham”con le navate gotiche,  “Veduta di Fonthill Abbey” e “Il  castello di Caernarvon, Galles del Nord”, i due di maggiori dimensioni, 1 m x 70 cm. .

Siamo entrati nel 1800, solo paesaggio con larghe campiture sempre più chiare in “Bardo altre figure e un gruppo di danzatori” e “Il massacro dei bardi da parte di Edoardo I”, “Blair Athall, veduta verso Killiecrankie” e “Lach Long, mattino”,  un equilibrio compositivo tra pieno e vuoto, chiaro e scuro che produce  un bell’effetto d’insieme.

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Il primi acquerelli sul  paesaggio inglese e i suoi colori  

Nei suoi viaggi dei primi dell’800 per conoscere paesaggi cui ispirarsi, riesce a fare  anche una puntata nelle Alpi Svizzere e in Francia, approfittando della pace di Amiens. Ma poi l’inasprirsi dei rapporti dell’Inghilterra con il continente  gli impedirà di raggiungere il continente fino al 1815, quando con la caduta di Napoleone si riaprono  le frontiere. Fino ad allora esplorail suo paese, in particolare la costa meridionale.

Rispetto alle opere precedenti scopriamo il colore, prima appena accennato in tonalità neutre, ora ben più evidente, anche per l’uso frequente della carta celeste che costituisce la base cromatica sucui lavorare con i toni chiari e i toni scuri  mantenendo ampi squarci del coloredifondo.

Nel 1804  apre a Londra una mostra personale di una propria galleria dove preferisce esporre le sue opere invece che nella Royal Academy perchè ritiene che in questa sono collocate troppo in alto o troppo fitte sulle pareti o addirittura in sale secondarie, quindi con scarsa visibilità per i visitatori.

Il 1805 lo vede soggiornare in campagna sul Tamigi, e dipingere addirittura “en plen air”: cosa eccezionale per lui, solito fare schizzi che solo raramente colora, tale è la sua capacità di mantenere nella memoria le tonalità cromatiche delle situazioni ambientali da riportare nel dipinto finale..

Di tale anno vediamo esposti 4 acquerelli, tutti con persone o animali  a vivificare paesaggi ameni: 2 sul fiume londinese, “Il Tamigi nei pressi di Isleworth con una barca in primo piano e alcune chiatte” e “Il Tamigi e il Kew Bridge con Brentfort Eyot in primo piano e Strand-on-Green che si intravede tra le arcate, Bassa marea”; due sulle campagna alberata, in un clima arcadico: “Veduta di Syon House e Kew Palace da Isleworth (Il nido del Cigno)” e “Il guado”.

E, sempre del 1805,  2 oli su piallaccio di mogano con il cielo da protagonista, “Il Tamigi nei pressi dei Walton Bridges”, spettacolare commozione della distesa d’acqua con case, alberi, e un cielo che sembra riflettere la luminosità dell’acqua; “Veduta di Windsor da Lower Hope”,  il cielo come una scenografia dove si addensano le nuvole con uno squarcio di azzurro che fa da sfondo e cornice a una pianura con alberi sparsi e un profilo abitativo appena delineato.

Due dipinti a olio sono esposti, sempre del 1805: “Del biennio successivo, 1806-07,  sono esposte 2 opere pressoché monocromatiche, seppia, da antica stampa sia nella forma che nel contenuto, “Ponte e capre”  e “La quinta piaga d’Egitto”; e il dipinto a olio su tela “La chiesa e il mulino di Goring” dal cromatismo ugualmente spento; analogo carattere  La cattedrale di Lindisforne”  e “Molino nei pressi della Grande Chartreuse”, quest’ultima del 1812-15, invece in “Gordale Scar” 1808, tra le rocce spunta l’azzurro del cielo..

Viene nominato  professore di prospettiva alla Royal Academy nel 1807, anno  in cui realizza l’olio su piallaccio di legno esposto in mostra, “St Catherine Hill, Guildford”, il cielo con le nuvole e lo squarcio di azzurro occupa metà della composizione, nella metà inferiore una collinetta con gruppi folti di alberi e i consueti vaghi profili abitativi sullo sfondo.

Negli anni seguenti realizza alcune grandi opere per illustrare le sue conferenze annuali, chiamate “Lecture Diagram”: vediamo esposte “Immagine n. 26 per la conferenza:  interno della Great Room presso la Somerset House, Londra”  e “Immagine n. 65 per la conferenza: interno di prigione”, entrambe del 1810, nella cura minuziosa dei dettagli  appare evidente la sua formazione di disegnatore topografico..

Ben diverse 3 opere del 1816-18, “La cascata di Mill Gill nei pressi di Askrigg Wensleydale”, Il faro di Eddistone” e “Studio per ‘Il Naufragio di una East Indiaman”  in cui i volumi hanno  contorni tanto indistinti da sconfinare nell’astrazione.

Sono molto diverse, questa volta non nella forma ma nel cromatismo,4 opere realizzate tra il 1814 e il 1817: irrompe il colore, soprattutto il celeste della carta utilizzata, nel cielo e nell’acqua in “Relitto o relitti sul fiume Tamar: crepuscolo”, nel cielo in “Il castello di Hylton”  e, più sfumato, in “Kirkby Lonsdale”, nell’orizzonte in Il Brent Tor e la valle di Lydford Devon”.

La varietà delle manifestazioni artistiche – nella forma da definita ad astratta, nel colore dal monocromatico seppia al celeste abbagliante – si trova nel “Liber studiorum”, che dal 1808 le ricomprende classificando i vari tipi di paesaggio – come architettonico o storico, marino o montuoso, fino al pastorale – nei loro aspetti naturalistici e  ideali piuttosto che in quelli realistici, per questo il titolo dato a questa sezione è “Natura e ideali. Inghilterra”. Modello per la raccolta  motivata di acquerelli e pitture a olio di Turner fu il “Liber veritatis” in cui Claude Lorrain, al quale il nostro artista si ispirava, aveva raccolto le incisioni tratte dai suoi disegni paesaggistici;

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La riapertura delle frontiere, il viaggio in Italia

Dopo il 1815, con la pace che consentiva finalmente  di spostarsi nel continente, Turner poteva dare alimento alla sua vocazione paesaggistica con una serie di viaggi, iniziati nel 1817  e ripetuti per il trentennio successivo,  i paesi in cui soggiornò più a lungo il Belgio e i Paesi Bassi, la Germania e l’Italia, storicamente  meta dei “Grand Tour” di artisti e letterati. Nei suoi viaggi non sempre seguiva gli itinerari consueti, si muoveva anche tra le catene montuose e il corso dei maggiori fiumi alla ricerca di scorci paesaggistici nuovi e insoliti.

Il primo soggiorno in Italia si svolse dal novembre del 1819 alla metà del 1820, venne a Roma per la nomina ad accademico d’onore dell’Accademia di San Luca e si fermò per sei mesi. Ma non fu questo soggiorno a fargli conoscere le antichità e la campagna romana,  nella sua formazione aveva attinto alle collezioni  di disegni, incisioni e dipinti  risultanti dai “Grand Tour”, e si era impegnato nel copiare maestri antichi e moderni del paesaggio romano.

Ciò era avvenuto soprattutto tra il 1794 e il 1798 allorché – con l’aiuto di Girtin che disegnava mentre lui colorava ad acquerello – aveva  prodotto copie della collezione di disegni di Thomas Monro,  lo psichiatra nella cui dimora a Londra, all’Adelphi Terrace, aveva soggiornato a questo fine. Molti di questi disegni erano di John Robert Cozenz, curato da Monro, che  aveva fatto due  viaggi in Italia nella seconda parte del ‘700  con  una serie di disegni e dipinti del paesaggio, senza dettagli realistici, ma con una luce che sfumava i contorni creando un’atmosfera di sogno. Sarà la caratteristica peculiare degli acquerelli di Turner che – scrive Curzi – “si pone da subito su percorsi molto lontani da quella ‘strana’ esigenza di restituire il resale esattamente come appare e dunque, il confronto con il contesto romano, culla del paesaggio classicista, della visione arcadica della natura non avrebbe dovuto riservare per lui particolari sorprese”.

Invece, l’impatto delle evocazioni artistiche e letterarie – comprese  le “rimembranze” di autori classici – di monumenti e ambienti, con la realtà che finalmente aveva sotto i suoi occhi dovette essere così sconvolgente che fece pochi acquerelli e nessun quadro a olio, bensì  moltissimi disegni.

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Valter Curzi scopre che nell’itinerario verso  Roma lungo la via Flaminia, aveva attraversato l’Umbria, e si era fermato tra Osimo, Loreto e Recanati facendo degli schizzi del paesaggio marchigiano; osserva che,  contemporaneamente,  in quegli stessi luoghi Giacomo Leopardi componeva “L’infinito“, ma non lega l’accostamento a questa occasionale coincidenza, bensì  al fatto che “i due artisti condividano sorprendentemente lo stesso sentimento lirico nei confronti del paesaggio”. Nel senso che la visione della natura e la sua “restituzione”, con lo strumento letterario o pittorico, sono “per entrambi, occasione di un’immersione nella dimensione interiore più profonda e insieme riflessione sul tempo, sulla storia, sul destino dell’uomo”. E spiega: “Se a Turner è estraneo il pessimismo esistenziale del poeta di Recanati, tangenze con la pittura dell’artista inglese si ritrovano nella concezione dell”indefinito’ e della ‘rimembranza’”. Per concludere: “Ne risulta uno spazio ‘vago’ e ‘indefinito’, per dirla alla Leopardi, particolarmente efficace nel rendere l’idea di uno smarrimento dell’anima di fronte alle forze sovrastanti della natura”.  

Prima di Roma era stato a Venezia, visita anche Napoli, e la luce mediterranea gli ispira una brillante tonalità cromatica, accentuando la tendenza a un maggior uso del colore, già notata in precedenza, sarà un momento importante nel suo percorso artistico. Questo aspetto appare evidente in “Veduta dell’arco di Tito e del tempio di Venere e Roma dall’arco di Costantino e dalla Meta Sudans, Roma” 1819, con l’azzurro abbagliante tendente al blu del cielo, mentre “Venezia, San Giorgio  maggiore, primo mattino”, dello stesso anno, è  molto sfumata, con il cielo che albeggia sul giallo soffuso .e l’effetto suggestivo del campanile che si riflette delicatamente sulla laguna.  

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Sarà ancora a Roma nel 1828, e addirittura farà un’esposizione di due suoi dipinti “italiani”; che richiamarono molti visitatori ma  la novità del suo approccio al paesaggio non fu apprezzata, tanto che non tornerà più nella città eterna. Vediamo esposte 4  opere di piccola dimensione, 20-30 cm,  ad acquerello, penna e grafite, del 1826-27, realizzati per illustrare il poema “Italy” di Samuel Rogers: “Marengo”  e “Banditti” [sic]  “Il Foro” e “Una villa al chiaro di luna”,  e un’altra, ugualmente piccola, del 1832, con “Castel Sant’Angelo”  e il ponte monumentale contornato di statue con lo sciamare del popolo sulle rive del Tevere dove due barchette che scendono lungo il corso del fiume si avvicinano alle arcate. Del 1835 l’olio su tela “L’arco do Costantino, Roma”, a differenza di Cstel Sant’Angelo, e del Foro, che sono al centro nitidamente riprodotti, qui in primo piano spicca l’albero a sinistra, che richiama quello molto meno folto del “Paesaggio italiano  idealizzato…” del 1828-29, mentre l’arco di Costantino si individua appena sulla destra  quasi incorporato nell’atmosfera che trascolora, una visione certamente suggestiva.  .

L’attrazione che esercita su di lui la città antica con i suoi spazi soprattutto ideali che danno il senso della storia appare evidente in quest’ultima opera e  nel tondo sul Foro romano, mentre la città moderna è evocata dallo scorcio notturno della villa, con i segni della festa da ballo;  nelle altre due illustrazioni Napoleone sul cavallo bianco alla testa del suo esercito nella celebre battaglia, raffigurato come il celebre ritratto di David che aveva visto nel viaggio a Parigi del 1802; e i banditi nel loro bivacco tra le rocce, un’immagine suggestiva, ricordo delle sue escursioni in montagna.

Non fu solo Italia nel periodo che precede gli anni ’30, c’è ancora il suo paese attraverso una serie di opere sul Sud dell’Inghilterra. Ne parleremo prossimamente nella prosecuzione della visita, insieme alle opere degli anni successivi,  in cui proseguiranno i viaggi e si rafforzerà luce e colore, fino alle opere della maturità artistica ed esistenziale. 

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Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, http://www.chiostrodelbramante.it   Catalogo: “Turner. Opere della Tate” , a cura di David Blayney Brown, , Skira, marzo 2018, pp. 150, formato 28,5 x 24,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è uscito, in questo sito, il 17 giugno u.s., il terzo e ultimo uscirà il 7 luglio p. v., con altre 10 immagini ciascuno.  Per gli autori citati, cfr.  i nostri articoli,  in questo sito, su  Hiroshige 14, 19 giugno 2018, 5 luglio 2018, su  Hokusai il 2, 8, 27 dicembre 2017, su Monet 9 gennaio 2018.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Dart con la Tate e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “L’arco di Costantino, Roma” 1835;  seguono, “Veduta dell’arco di Tito e del tempio di Venere a Roma  dall’arco di Costantino e dalla Meta Sudans Roma” 1819, e “Veduta di Folkestone dal mare” 1822-24; poi, “Le elezioni a Northampton, 6 dicembre 1830” 1830-31, e “Il castello di  Harlech”  1834-35; quindi, “Marly-sur-Seine. Inizio a colori” 1829-30, e “Passo montano” 1830; inoltre, “Land’s End, Cornovaglia” 1834, e  “Il Tamigi nei pressi di Isleworth con una barca in primo piano e alcune chiatte” 1805; infine, la vista dall’interno del Chiostro del Bramante. 

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Hiroshige, 2. Le stazioni di posta di Tokaido e Kisokaido, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Inizia la  visita alla mostra “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, che dal 1° marzo al 29 luglio 2018 espone alle Scuderie del Quirinale  230 opere, xilografie policrome e dipinti su rotolo,  di Utagawa Hiroshige e si inserisce nelle iniziative per il 150° anniversario dei rapporti bilaterali Italia- Giappone. Patrocinata dall’Agenzia per  gli Affari Culturali del Giappone, dall’Ambasciata del Giappone in Italia e dall’Università degli Studi di Milano, realizzazione di Ales S.p.A, presidente e A.D. Mario De Simoni,  edi MondoMostre Skira, con il Museum of Fine Arts di Boston e curata da Rossella Menegazzo con Sarah E. Thompson. Catalogo Skira a cura della Menegazzo.

Abbiamo delineato le principali caratteristiche della maestria paesaggistica di Hiroshige, inquadrando la sua opera nel contesto storico e socio-economico della prima metà del 1800, anche nei rapporti con l’altro grande paesaggista Hokusai, dal quale si differenziava per la sua “natura calma” e il suo senso poetico rispetto alla drammaticità delle raffigurazioni del precursore estroso e imprevedibile. Furono capifila del genere artistico in voga all’epoca, l’Okiyo-e che trasformava  le opere pittoriche in multipli attraverso xilografie cromatiche ottenute mediante l’incisione su legno e l’inchiostratura con matrici colorate fino alla stampa in migliaia di copie per la vasta diffusione richiesta da un mercato in continua espansione.

I traffici tra le due capitali – quella tradizionale Kyoto e quella amministrativa Edo, l’odierna Tokio – erano in forte sviluppo, sia per i movimenti dei dignitari delle provincie con il loro seguito dovuti alle “residenze alternative”  ad Edo richieste loro dall’imperatore per controllarne e coordinarne l’attività, sia per la crescita degli scambi commerciali e il forte incremento degli spostamenti turistici conseguente al maggiore benessere della borghesia emergente, fino ai pellegrinaggi religiosi in continua espansione. Tutto questo fece moltiplicare le locande, i punti di sosta e ristoro, per cui ai motivi di attrazione ambientali si aggiunsero quelli derivanti dall’impetuoso sviluppo che trasformò Edo da villaggio di pescatori a metropoli e le due vie di collegamento in arterie punteggiate in tutto il percorso da stazioni di posta pittoresche e piene di vita.  

Le stampe artistiche dell’Okiyo-e – multipli con caratteristiche di esemplari unici per le diverse sfumature nell’inchiostrazione cromatica – erano molto richieste come souvenir dai viaggiatori e come modo per conoscere le attrazioni dei luoghi per chi non poteva visitarli. Ebbero forte eco anche in Occidente, tanto che sia Monet e altri impressionisti, sia soprattutto Van Gogh ne trassero ispirazione nelle loro opere inserendovi citazioni esplicite negli sfondi e facendone vere e proprie copie e “d’aprés”.  

Tra le serie artistiche di Hiroshige spiccano quelle sui due grandi itinerari che collegavano le due capitali, il percorso costiero e quello più movimentato nell’interno tra i monti, e quella sulla nuova capitale Edo, ma oltre al genere paesaggistico, nel quale è stato un maestro indiscusso, si è segnalato anche negli altri generi dell’arte giapponese, con la raffigurazione della beltà femminile e degli attori,  di fiori, uccelli e pesci, e nelle forme espressive diverse dall’Okiyo-e, i dipinti tradizionali sui rotoli di carta e di seta.

Questa produzione, quanto mai vasta e diversificata, trova nella mostra una rappresentazione fedele ed esauriente, nelle oltre 200 opere esposte ci sono quasi interamente le principali serie. Le passeremo in rassegna, cominciando dalle opere dell’esordio, soffermandoci poi sulle serie di Okiyo-e, per finire nella produzione pittorica tradizionale, con la beltà femminile, i fiori, uccelli e pesci e le ultime opere.  

Le opere iniziali

Molto diverse dai celebri cicli degli anni successivi le prime opere esposte, che risalgono al 1820, aveva 23 anni essendo nato nel 1797, e dall’età di 15 anni era nell’atelier del maestro Utagawa Toyohiro dove, dopo 5 anni di apprendistato, iniziò la carriera artistica nel 1817, a 20 anni esatti; viene citato come fatto eloquente che il suo primo disegno lo fece a 10 anni di età, quindi ci fu in lui una lungo noviziato.

Sono molto diversi dalle opere successive i due trittici affollati di soggetti, con caratteristiche peculiari che li differenziano nettamente tra loro.

Il primo rappresenta una scena di tipo teatrale in ambiente domestico,  “Parodia di uno spettacolo privato di kyogen” 1821-22,  rivela il gusto per la scenografia e la cura quasi topografica nel rappresentare le stanze viste dall’alto in prospettiva con le scene che si svolgono all’interno in ambienti nettamente separati, una scena è quella principale con una serie di figure molto ben delineate, la maestria figurativa è del tutto evidente. D’altra parte è il periodo in cui era avviato a raffigurare gli attori e le beltà femminili, periodo protrattosi per un decennio, dal 1817 al 1828 quando, alla scomparsa del caposcuola Toyohiro prese il suo posto nella rappresentazione dei paesaggi ed ebbe subito un successo strepitoso.

L’altro trittico, “La vita di Minamoto Yorimitsu” 1825, dedicato alla leggenda del guerriero del XII secolo che combatté il clan dei Taira, è invece una composizione con soggetti fantastici, divini e spettrali, scene cruente  e molto agitate, spesso poco distinguibili tanto è fitto l’addensarsi di soggetti ed elementi con significati allegorici tutti da decifrare. Nel magma molto intricato, quasi inestricabile, sono ben visibili i volti dei protagonisti, sembrano maschere di attori drammatici, il tema che allora gli era affidato.

Precede nel tempo queste opere la  “Lavorazione delle conchiglie nel cortile interno del tempio  di Asakusa” 1820, con un’immagine femminile al centro di tipo occidentale, ben diversa dalle rappresentazioni delle beltà giapponesi, sotto un albero tra animali allegorici di vario tipo, piante e arabeschi, non c’è traccia di conchiglie in questo foglio, forse erano nelle altre due parti del trittico che non sono visibili.

Invece è tipicamente giapponese la figura femminile in primo piano in Pioggia notturna sullo steccato” 1821-22, che si sporge verso la staccionata nella caratteristica posizione “a schiena di gatto” con le stecche nei capelli, una lunga pipa in mano, indossa un kimono la cui parte inferiore è molto elaborata, non appartiene alle beltà della scuola di Toyohiro bensì richiama fedelmente le figure femminili di Eisen, l’artista con il quale ebbe un confronto diretto trovandosi a succedere a lui in una celebre serie paesaggistica, come vedremo. C’è in alto un tondo, come una finestra sull’esterno, si vedono due piccole figure femminili, una sembra riprodurre in piccolo quella alla staccionata, l’altra si ripara con un ombrello dalla pioggia. 

Calligrafico con 3 figure in basso  e una panoramica sui tetti dell’abitato in alto “Il Kannon di questo tempio” 1827, è  un’istantanea di vita quotidiana ripresa in un negozio dove la venditrice forse di profumi e incensi si rivolge verso una figura che porta una scatola sulle spalle mentre un’altra è seduta di spalle accigliata tenendo le mani sulle ginocchia davanti a un tavolino con sopra  due vasi fioriti.

Le ultime due opere dell’esordio appartengono al genere dei “surinomo”,  le stampe raffinate per impieghi particolari, come biglietti augurali o inviti per incontri speciali, ricorrenze e festività  riservati alle categorie più elevate, ne vediamo 2 distanziati di oltre un decennio, ““La danza delle gru” 1821, e “Carte di poesie in scatole laccate”  1833, periodo in cui esplose lo straordinario fervore paesaggistico dell’artista. Il primo mostra 7 figure di danzatori in pose differenti, molto dinamiche e vivaci,  con motivi floreali appena accennati, il secondo raffigura delle scatole, variamente istoriate, con intorno delle carte poetiche per un gioco, allora in voga per il primo giorno dell’anno negli ambienti colti, che consisteva nell’indovinare il seguito di una poesia di cui venivano recitati i primi  tre versi, andavano completati con i due successivi, il pensiero torna, “mutatis mutandis”,  al “gioco delle perle di vetro” di Herman Hesse.

Queste prime opere sono state solo un assaggio, la scena muta radicalmente con le spettacolari e suggestive immagini di viaggio nei due itinerari molto frequentati da Kyoto ad Edo, il cuore della sua produzione artistica molto diffusa con la tecnica dell’Okino-e, di cui si è detto in precedenza.

Le 55 immagini della principale serie sulle stazioni di posta del Tokaido

Immediato innalzamento di tono con la serie delle “Cinquantatre stazioni di posta del Tokaido”, interamente presentata dalla mostra nell’edizione “Tokaido Hoeido” con l’aggiunta delle due stazioni di partenza e di arrivo.  Ha il pregio ulteriore di essere l’edizione originaria ed originale, quella del 1833-34, cui seguirono ripubblicazioni e ritorno sugli stessi temi  fino al 1855 per il successo travolgente della prima serie che fece mobilitare gli editori in iniziative successive.  

E’ una ricca esposizione di 55 opere nelle quali si esprimono le caratteristiche dell’arte paesaggistica di Hiroshige, la “natura calma” e il senso poetico, l’atmosfera creata nell’ambiente dalle diverse condizioni meteorologiche e la presenza umana, in un insieme integrato e compenetrato nei suoi molteplici elementi, all’interno di una visione cosmica molto suggestiva.

I soggetti rappresentati sono le località di sosta, ristoro e pernottamento che si trovavano sulla “strada del mare Orientale”, la principale arteria costiera tra le due capitali, Kyoto, quella storica, Edo, quella amministrativa emergente in un impetuoso sviluppo per i motivi di cui si è già detto. Erano 500 chilometri pianeggianti percorsi a piedi, a cavallo o in carrozza, a seconda del censo, e si può comprendere l’importanza delle stazioni di posta che ogni 10 chilometri si sforzavano di offrire al viaggiatore ciò di cui aveva bisogno e l’immagine più attraente del territorio attraversato. Il romanzo di Jippensha Ikku, “A piedi lungo il Tokaido” del 1802, con le avventure di percorso di due simpatici imbroglioni, e la guida di cinque anni precedente, “Tokaido meisho zue” del 1797, avevano  diffuso la conoscenza dell’itinerario,  alle illustrazioni della guida si ispirarono Hiroshige e il predecessore Hokusai, almeno per i siti che non riuscirono a visitare per una conoscenza diretta.  

La maestria di Hiroshige fu di non limitarsi a rendere le attrazioni esteriori dei luoghi presentati, ma lo stato d‘animo del viaggiatore cui concorrevano circostanze ambientali, come le condizioni meteorologiche, e la presenza umana, ben diversa da quella che compariva nelle immagini classiche, dove figuravano letterati e poeti, filosofi e religiosi, ora invece è la gente comune impegnata nelle occupazioni quotidiane in un clima di operosità e dinamismo, segno di energia e vitalità.  

Al centro della rappresentazione così animata c’è l’elemento di maggiore attrazione del luogo, che ne sarebbe diventato il “testimonial” da tutti riconosciuto, uno scorcio paesaggistico con un ponte o una costruzione, una prospettiva ravvicinata con scene di vita, di qui la delicatezza della scelta e della resa spettacolare con un impatto visivo di effetto immediato.

La diffusione tra il 1830 e il 1832, con travolgente successo, delle “Trentasei vedute del monte Fuji” del grande Hokusai, il maestro indiscusso del paesaggio, avrebbe potuto scoraggiare ad affrontare una simile  concorrenza, ma così non fu, e nel 1933-34  un successo altrettanto travolgente arrise alla prima edizione presentata in mostra delle “Cinquantatre stazioni di poste del Tokaido” di Hiroshige cui seguirono, come vedremo, le varianti e le nuove serie sullo stesso itinerario.

E’ giocoforza non poterne dare una descrizione puntuale come abbiamo fatto per le prime opere, ora siamo costretti a sottolineare soltanto alcuni aspetti comuni che ci hanno maggiormente colpito, totalmente diversi, lo ripetiamo, dalle prime opere in una mutazione quasi incredibile ma vera. 

Non più affollamento e intrico di immagini, ma scansione molto netta come se le singole componenti fossero scolpite, la xilografia si prestava con le incisioni su legno come bassorilievi. C’è sempre un elemento dominante della composizione, spesso evidenziato anche in senso prospettico e comunque con il suo volume prevalente, in una netta evidenza della forma come espressione del contenuto.

Oltre al nome della stazione, nel titolo è indicata chiaramente la scena che viene rappresenta, il “testimonial” scelto che si dovrà imprimere nella memoria dei viaggiatori e degli altri interessati. Piuttosto che citare le stazioni, che dicono poco a chi non conosce quei luoghi, crediamo più interessante richiamare alcuni di questi titoli per evocare le scene che sono rappresentate.  

I soggetti spiccano nel clima di “natura calma” tipico di Hiroshige, con l’acqua del mare e i contorni del territorio. Vediamo nei titoli i molti “Fiumi” e i molti “Ponti”, il “Lago” e  la “Riva”, il “Monte” e il “Promontorio”, l’“Altopiano” e l’“Area di confine”, il “Traghetto” e la “Banchina”, la “Strada” e il “Crocevia”, il “Villaggio” e  il “Santuario”

L’atmosfera è ripresa in diverse ore del giorno, “Veduta mattutina” e “Nebbia mattutina”, “Alba” e “Scena al crepuscolo”, e nei vari fattori climatici “Scroscio improvviso” e “Pioggia di primavera”, “Pioggia delle lacrime di Tora” e “Desolazione dell’inverno”, “Neve di sera”  e  “Sereno dopo  una nevicata”. Poi,  “Bancarella da tè” e “Negozio da tè”, “Celebri tessuti” e “Celebri strisce di zucca essiccate”, “Casa da tè” e “Fiera dei cavalli di inizio estate” rendono il colore locale, mentre “Cambio di uomini e cavalli” e “Partenza all’alba” danno il senso del movimento di viaggiatori nella stazione di posta. L’accoglienza è personalizzata in “Inserviente di una locanda” e “Donne che intrattengono i viaggiatori”,ma tutte le composizioni intendono mostrare un clima accogliente. 

Scorrendo la galleria delle 53 stazioni più 2, vediamo tutto questo rappresentato con una straordinaria maestria, mediante tonalità delicate che smorzano i volumi imponenti, in uno straordinario equilibrio compositivo con i primi piani e le prospettive che creano un clima da favola. Si resta senza fiato nel vedere le casette allineate, la fuga dei tetti e gli alberi, i ponti e le barche, quasi sempre la presenza umana varia e pittoresca che anima la scena offrendo lo spettacolo quotidiano tipico del luogo. Sono tante tessere di un mosaico fantastico, combinandole si ricompone il “puzzle” del fascino dell’Oriente in un itinerario così carico di motivi storici e valori artistici.

Le altre serie sul Tokaido e la serie del Kisokaido

Alle 55 immagini della serie ora presentata se ne aggiungono, sempre per il Tokaido,  8 della stessa serie pubblicate dal 1841-44 al 1847-52 fino al 1855, a riprova della loro longevità, tra loro “Il palazzo imperiale”,La riva distante del fiume”, e il “Portale di accesso al santuario di Atsuta”.

In più 2 immagini dalle “Celebri vedute delle cinquantatre stazioni” del 1855, in formato verticale, “Lo spaventoso passo di Satta” e “Viaggiatori che si fermano alla locanda”, e 2 immagini dalle “Cinquantatre accoppiate sul Tokaido” del 1845-46 che aggiungono al paesaggio un riquadro con un fumetto dedicato a un protagonista del luogo, la “Storia di un tagliabambù” e “Il monaco Ikkuy e la cortigiana Jigoku”. Seguono 4 immagini dalle “Cinquantatre illustrazioni del Tokaido”, al luogo è riservato un riquadro-finestra mentre il primo piano è della beltà femminile, come in Eisen, sono “L’approdo” e “Il ponte”, “Il Fuji” e “Clienti che si fermano alla locanda”, con 4 disegni per la serie non tradotti in xilografie, interessanti perché c’è integralmente la mano del maestro senza l’incisione e stampa dell’Okiyo-e, dai titoli: “Ragazza di città in pellegrinaggio” e “Viaggiatori che soggiornano durante una nevicata”, “I celebri prodotti locali” e “Via vai di gente di ogni classe dentro la capitale”.Infine 2 “Immagini ritagliate del Tokaido”,  particolsri isolati di vedute con i nomi come dei collage, ci sono 5 comparti con figure umane e di paesaggi.

Siamo giunti così alle opere dedicate all’itinerario alternativo rispetto al Tokaido, meno frequentato perché più accidentato dato che non si snodava sulla costa ma tra le montagne, quindi offriva la possibilità di inquadrature alternative, anche per questo percorso c’era una guida, “Le illustrazioni dei luoghi famosi del Kisokaido” del 1895, altra fonte preziosa di immagini.   

Laserie “Tra le sessantanove stazioni di posta del Kisokaido”  fu pubblicata tra il 1837 e il 1843 e proseguì quella iniziata nel 1835 da Eisen che aveva raffigurato 24 stazioni in uno stile fortemente influenzato da Hokusai. Eisen era specializzato sulla beltà femminile, in cui ha lasciato opere memorabili, piuttosto che sul paesaggio, forse per questo non ebbe successo e gli editori a un certo punto gli affiancarono  Hiroshige che lo sostituì quando fu costretto a rinunciare.

Durò sei anni il lavoro su questa serie, in cui perfezionò la visione cosmica con gli elementi ambientali e meteorologici, naturali e umani in un clima poetico e in un’atmosfera soffusa; e introdusse delle innovazioni sia nella stesura del colore sempre discreto nei suoi accostamenti, sia nei contorni e nelle linee direttrici, compresa la ricerca di un certo astrattismo.

Non ebbe lo stesso successo delle serie precedenti anche perché il Giappone in quegli anni fu colpito da una crisi che produsse miseria e drammi sociali e personali, una situazione quindi opposta al boom economico in cui lo sviluppo degli scambi, con le altre motivazioni amministrative e religiose, aveva dato un forte impulso alla mobilità e al turismo e quindi alle vendite delle stampe.

Della crisi, aggravatasi nel 1836-38, soffrì direttamente anche Hiroshige che al pari di Hokusai cadde nell’indigenza pur se mitigata dalle residue disponibilità ereditarie; in aggiunta, l’anno dopo la punta più acuta della crisi, nel 1839,  si aggiunse la perdita della prima moglie, passeranno otto anni prima che si sposasse di nuovo, mentre la sua arte subiva gli inevitabili contraccolpi di questa situazione esistenziale.

Sono 6 le opere di questa serie esposte in mostra, a differenza di quelle sul Tokaido il titolo non contiene la descrizione della scena ma soltanto il nome della stazione di posta. Presentano tutte forme e  volumi che si stagliano nettamente pur nel cromatismo delicato, in tutte ci sono delle persone integrate con le loro attività nell’ambiente, in 3 di esse si vede un ponte con degli alberi, l’acqua è presente in tutte tranne nella stazione ripresa sotto una nevicata che cade su alcune figure a cavallo, l’elemento umano sempre presente fuso con gli elementi naturali. C’e anche una vivacissima scena di un interno su due piani con gli abitanti sorpresi nell’intimità come dall’irruzione di un fotografo, veramente magistrale come viene resa la vita nella stazione di posta.

La curatrice Rossella Menegazzo conclude la presentazione di questa sezione della mostra affermando che Hiroshige “seppe ottenere una levità e un senso quasi religioso nelle sue rappresentazioni della natura che non hanno eguali” – anche rispetto ad Hukosai con il quale si è confrontato direttamente sulle stazioni del Tokaido per il quale il maestro più anziano aveva realizzato ben 7 edizioni – “utilizzando da una parte la tecnica di sfumatura del bokashi, dall’altra elementi innovativi della pittura occidentale , spostandosi poco alla volta verso il formato verticale che caratterizzò la sua produzione degli anni cinquanta, con primissimi piani esagerati e secondi piani lontanissimi che anticipano la fotografia”.

Di questo sviluppo parleremo prossimamente nel commentare le restanti 5 sezioni della mostra, che comprendono altri soggetti come “fiori, uccelli e pesci”, “parodie umoristiche”, oltre alla “produzione pittorica”, e si concludono in bellezza con altre visioni paesaggistiche dei “luoghi lontani” e della “capitale orientale”.  


Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it.  Catalogo “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, a cura di Rossella Menegazzo,  Skira 2018, pp. 290, formato  28,5 x 24,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra  è uscito, in questo sito, il  14 giugno 2018, il terzo e ultimo uscirà il 5 luglio, con altre 10 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito,  su Hokusai  2, 8, 27 dicembre 2017, su Monet 9 gennaio 2018, su Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018, sull’arte giapponese,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state in parte fornite dall’organizzazione, in parte tratte dal Catalogo, si ringrazia Ales S.p.A. e l’Editore,  con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” 1858; seguono, “Hakone: vista dal lago” 1833-34, e “Niekawa” 1835-38;  poi, “Veduta del traghetto (Arai Watashibune no zu)” 1833-34, e “Odawara. Il fiume Sakawa” 1833-34; quindi, “Agamatsu” 1838-42, e “Nihanbashi. Veduta delle nuvole all’alba” 1855;  inoltre, “Shono. Scroscio improvviso” 1833-34, e “Nagakubo”  1836-38; in chiusura, “Shinmachi” 1835-38.

Hiroshige, 1. Il maestro della pioggia, della foschia e della neve, alle Scuderie

di Romano Maria di Levante

La mostra “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, espone dal 1° marzo al 29 luglio 2018 alle Scuderie del Quirinale  230 opere tra xilografie policrome e dipinti su rotolo di Utagawa Hiroshige che danno del Giappone, nelle  bellezze paesaggistiche e in altre raffigurazioni, un’immagine suggestiva in cui la modernità si fonde con la tradizione. Prosegue idealmente le iniziative del 2016 per il 150° anniversario dei rapporti bilaterali Italia- Giappone,  con  il patrocinio dell’Agenzia per  gli Affari Culturali del Giappone, dell’Ambasciata del Giappone in Italia e dell’Università degli Studi di Milano. Realizzata da Ales S.p.A, presidente e A.D. Mario De Simoni,  eda MondoMostre Skira, con la collaborazione del Musum of Fine Arts di Boston. La mostra è a cura di Rossella Menegazzo – che ha curato anche il catalogo Skira – con Sarah E. Thompson, e ha tenuto uno dei due incontri all’Istituto Giapponese di Cultura, sulla “Natura calma di Hiroshige” il 13 aprile, preceduto da un incontro il 16 marzo con il Consigliere dell’Agenzia per gli Affari culturali del Giappone Kmamoto Tatsuya sull’ “Architettura in epoca Edo”. Una serie di “Laboratori e attività culturali” e appositi “Laboratori per le scuole” completano il  programma. Dal 21 settembre al 3 febbraio 2019, la mostrava a Bologna,  al Museo Civico Archeologico.

Dopo la  mostra di Hokusai all’Ara Pacis, quella di Hiroshige alle Scuderie del Quirinale, una staffetta prestigiosa dei due massimi artisti del paesaggio giapponese in due tra le più importanti sedi espositive romane, quasi un passaggio di  testimone. Considerando poi che quasi in contemporanea, al Vittoriano c’è Monet e al Chiostro del Bramante c’è Turner, a Roma è stato calato un vero poker d’assi  dei sommi paesaggisti collegati tra loro da fili non certo invisibili, considerando i rapporti tra i giapponesi e l’influsso su Monet esercitato da loro e da Turner.

Il celebre “ponte giapponese” sullo “stagno delle ninfee” di Monet è di diretta derivazione dal “ponte a tamburo” del santuario di  Hiroshige, e anche Degas con le ballerine e Tolouse-Lautrec con le grafiche ne furono influenzati, Ma soprattutto lo fu Van Gogh, che non solo ne parla in molte lettere al fratello Theo in termini elogiativi, sostenendo l’esigenza di raccogliere le stampe giapponesi e farne una mostra, ma fa copie fedeli di opere di Hiroshige, come il “Susino fiorito” ripreso dal “Giardino dei susini”, con  il primissimo piano dei rami dell’albero, il “Ponte sotto la pioggia” ripreso  da “Acquazzone ad Atake”, il “Paesaggio marino” dalla “Veduta dei gorghi di Naruto ad Awa”; mentre nel “Ritratto di père Tanguy”  sullo sfondo ci sono varie stampe di Hiroshige.

L’artista, nato alle soglie dell’800, è della generazione successiva ad Hokusai, nato nel 1760, ma è vissuto soltanto 60 anni mentre Hokusai 90 anni; sono scomparsi rispettivamente nel 1958 il più giovane e nel 1950 l’altro che ha dipinto  fino all’ultimo, per cui per parecchi anni le loro vite artistiche si sono sovrapposte non solo in termini cronologici mas anche realizzativi per la coincidenza dei soggetti rappresentati e del contesto storico, della tecnica e delle forme espressive.

Il contesto storico  e socioeconomico

Il soggetto è stato soprattutto il paesaggio giapponese, cui si sono aggiunti per entrambi dei temi minori, legati a tradizioni particolari. E non si è trattato di visioni estemporanee, quanto di intere serie riferite a località ben precise, per di più poste su itinerari altrettanto precisi, in particolare le vie di comunicazione dell’antica capitale Kyoto con Edo, l’odierna Tokyo, il centro dei commerci e degli affari, attrazione per visitatori mossi dalle motivazioni più varie, in particolare la Via Tokaido.

Lo sviluppo esplosivo di questa nuova capitale, oltre a questi fattori di natura economica, era spinto anche da un elemento legato a quanto di più arcaico ci possa essere, il potere imperiale e la struttura  della società giapponese con 260 feudi.  Per esercitare il necessario controllo sui signori feudali delle province, l’imperatore li chiamava periodicamente a Edo per una “residenza alternativa” prolungata, con il loro seguito molto numeroso, per cui le due principali  arterie erano sempre animate, anche perché questo rappresentava un potente elemento di richiamo per flussi di visitatori.  Pure i pellegrinaggi verso i  luoghi di culto shintoisti e buddhisti erano in auge sin  dalla fine del 1700,

Tutto  ciò alimentava una “cultura del viaggio” sempre più diffusa, che divenne presto anche di tipo turistico, con l’emergere di una borghesia che disponeva di risorse economiche crescenti e quando era libera dai pressanti impegni di lavoro voleva soddisfare i propri desideri di evasione, per cui visitare i luoghi più attraenti era uno dei bisogni più sentiti.

A catena, questo fece moltiplicare i punti di ristoro e di sosta nelle località maggiormente investite da questi flussi, poste lungo la direttrice  di collegamento tra le due capitali: due erano le principali arterie, una sulla costa, più agevole  e più frequentata, l’altra nell’interno tra i monti.

La catena non finisce qui, questo movimento che anima la società giapponese e ha diretti riflessi sull’economia e sul territorio. si trasmette anche all’arte per la volontà dei viaggiatori – quale che fosse il motivo del viaggio – di mantenere un ricordo dei luoghi visitati portando con sé le relative immagini in modo che restassero non soltanto impresse negli occhi  e nella memoria, ma fissate su apposite stampe, la cui disponibilità serviva anche a coloro che non potevano visitare i luoghi ma volevano conoscere le meraviglie descritte da chi li aveva visti.

Queste stampe venivano vendute in primo luogo nelle botteghe degli editori, e a questo riguardo citiamo una circostanza illuminante sulle difficoltà e le prospettive di una simile operazione. La serie di Hiroshige sulle “Vedute famose della capitale orientale” pubblicata dopo il 1932 ebbe un diffusione e un successo molto maggiore di quello della precedente serie di Hokusai  del 1831-32, anche perché, a differenza del precedente, che si trovava nel centro cittadino,  il negozio dell’editore Kikakudo di Hiroshige era ubicato in un punto di passaggio obbligato per i visitatori della capitale che li acquistavano come ricordo al pari dei “souvenir” odierni..  

L’Ukiyo-e, con  i multipli a stampa

Si sviluppa così  la diffusione dell’Ukiyo-e, i multipli a stampa nei quali eccelse Hiroshige come il predecessore Hokusai, che ebbero ovviamente una produzione anche di pittura tradizionale su rotolo, ma con l’Ukiyo-e poterono diffondere la loro produzione su una scala molto vasta.

La precedente mostra di Hokusai ci aveva già fatto conoscere questa speciale tecnica, nella mostra di Hiroshige  un video ha mostrato le diverse fasi della produzione di tali stampe: l’opera dell’artista è  la prima fase cui segue l’incisione su legno dei contorni dell’opera da lui preparata che sovrapposta alla tavola crea la falsariga per l’incisore; poi interviene l’inchiostratura con diverse matrici, una per ogni colore cosicché ciascun “multiplo” viene ad avere sfumature diverse quasi come opera unica. All’editore  il coordinamento delle varie fasi, dopo la scelta dell’artista. Di tutte queste fasi la presentazione visiva, con tutti i particolari, dallo scalpello che scava i solchi nel legno seguendo un verso ben preciso, all’inchiostrazione con i pigmenti cromatici sulle matrici strofinando in modo magistrale per regolarne l’intensità, ai cuscinetti e a tutto il resto.  

Venivano commissionate intere serie, come abbiamo visto per Hokusai, che rappresentavano i luoghi più suggestivi, altrettante “stazioni di posta” sul percorso tra le due capitali; altre serie riguardavano diverse visioni di una località o un ambiente speciale, come il vulcano Fuji ed Edo.

Non sempre le località raffigurate venivano viste veramente dall’artista e si trattava di raffigurazioni dal vero, spesso si ispirava a guide di viaggio, anche se affermava di averne avuto una visione diretta, come abbiamo visto anche in Hokusai.

D’altra parte, basarsi su una rappresentazione e non sulla realtà, non contraddiceva la concezione artistica giapponese mutuata dai maestri cinesi, incentrata sul verosimile rispetto al vero come modo di trascendere il reale per l’ideale.

Hiroshige e Hokusai

Hiroshige in tal modo riesce a dare una visione poetica della natura, con la peculiarità di considerarla in comunione con i fenomeni atmosferici e con elementi derivanti dalla presenza dell’uomo: è chiamato il “pittore della pioggia” e “della neve” per questo motivo, inoltre nelle sue opere appare spesso l’elemento umano non a sé stante, ma funzionale alla natura rappresentata.

E’ più soffuso e delicato di Hokusai che mette maggiore forza rappresentativa in una sorta di visione eroica della natura, anche se, naturalmente, non mancano opere nelle quali si vede chiaramente l’influenza del predecessore, una di queste è quella ispirata alla “grande onda”.

Vediamo in Hiroshige poche opere dedicate alla beltà femminile, un tema che Hokusai non mancò di coltivare, anche se in misura inferiore rispetto ad Eisen, del quale nella sua mostra all’Ara Pacis è stata presentata una galleria straordinaria di “geishe” ed altre bellezze, riprese con sontuosi kimono in stanze sulle cui pareti spicca un quadretto o una finestra con la panoramica ambientale.  

Un ‘ultima notazione per definire sommariamente l’espressione artistica di Hiroshige:  la straordinaria modernità delle sue inquadrature, di taglio cinematografico  con primissimi piani di elementi secondari, come una staccionata o un ramo, e il soggetto principale, il paesaggio, in secondo piano, per lo più animato da un’umanità che vi sembra connaturata senza distinguersi  ma facendone parte integralmente nella fusione cosmica che incorpora anche i fattori metereologici. 

In queste inquadrature appaiono evidenti gli influssi occidentali, assorbiti nella scuola di Toyohiro, in particolare per il senso della prospettiva di tipo geometrico e il chiaroscuro; questo si esprime o mediante un  punto centrale come fuoco su cui convergono le direttrici della composizione in senso prospettico, o con la graduazione cromatica mediante tonalità appropriate date dal chiaroscuro.

Dai  primi ritratti di attori teatrali al  paesaggio

Hiroshige fu avviato presto sulla strada dell’arte, nato nel 1797 iniziò nel 1806 a studiare pittura classica e tra il 1810 e il 1811 entrò nello studio  di Utagawa Toyohiro dove era destinato ai ritratti di  attori di teatro kaakuki e ritratti femminili, nonché a illustrazioni di poesie umoristiche.  Scomparso il maestro nel 1828, poté invece dedicarsi al paesaggio e prese il nome con cui è universalmente conosciuto., altro suo soggetto  minore i fiori e gli uccelli dipinti su rotolo. 

A 35 anni la scelta dell’arte in via esclusiva: pur discendendo da una famiglia di samurai, per la quale aveva ereditato dal padre Ando Gen il mestiere di ufficiale dei pompieri, nel 1832 lo cede ad Ando Nakajiro, suo fratello o figlio, rinunciando al suo rango di funzionario dell’amministrazione dello “shogun”.

Ecco come maturò tale decisione:  aveva fatto  parte della delegazione itinerante verso Edo,  disegnando  una serie di appunti grafici, li mostrò  a due editori, Takenouchi Magohachi e Tsuruya Kiemon i quali ne pubblicarono insieme 11 fogli, altri 44 li pubblicò  il primo editore con il marchio di Hoeido.  

Nacque così  la serie “Tra le cinquantatre stazioni di posta del Tokaido”, il principale itinerario sulla costa tra Kyoto ed Edo, ripubblicata nel 1834 in 2 album dall’editore Yomo Ryusui. L’immediato successo ottenuto è ancora più rilevante, considerando che questa serie entrò in competizione con le “Trentasei vedute del monte Fuji” con cui il grande Hokusai aveva toccato il vertice nell’arte dell’ “Ukiyo-e”. Seguì nel 1837 la serie “Sessantanove stazioni di posta del Kisokaido”,  l’altro itinerario all’interno, iniziata da Eisen e da lui completata con maggiore successo rispetto all’altro artista. Ricordiamo anche la serie, dello stesso 1832, “Tra le ventotto visioni della luna”, in formato verticale, la cui peculiarità è che solo due “visioni” hanno visto la stampa, “La luna attraverso le foglie d’acero” e “Luna crescente”, le altre restano come opere singole, in tutte la raffinatezza cromatica con la luce diffusa crea un’atmosfera suggestiva. 

Le sue vicende familiari: nel 1839 muore la  prima moglie, dopo sei anni, nel 1845,il figlio, che lo porta ad  adottare, secondo la consuetudine, l’allievo  Shigenobu, che prese il nome di Hiroshige II; nel 1847 si risposa con Oyasu, di una famiglia do contadini, gli dà la serenità necessaria per la sua arte, espressione di uno stato d’animo in comunione con la natura e i suoi elementi. Sono anni di intensa attività, tra il 1843  e il 1847 realizza le “Illustrazioni delle storie dei tempi antichi“e nel 1848 “La vendetta dei fratelli Soga”, collabora  con artisti quali Utagawa Kunisada e Utagawa Kuniyoshi, è la volta della serie “Cinquantatre stazioni  del Tokaido in coppia” e dei “Famosi ristoranti della capitale orientale”, fino alle “Cento vedute celebri di Edo” tra il 1856 e il 1858, e alla serie “Trentasei vedute del monte Fuji“, il tema prediletto da Hokusai, stampato dopo la sua morte nel 1858.

Ebbe degli eredi diretti, Hiroshige II cui si aggiunse Hiroshige III, che  seguirono le sue orme nel dipingere paesaggi seguendo il suo stile ma senza esprimere una propria personalità.

L’arte di Hiroshige

Abbiamo accennato alle peculiarità dell’arte di Hiroshige, ora vogliamo approfondire la visione fornita, e ci sembra che la migliore sintesi è data dal titolo della monografia scritta nel 1801 da Mary McNeil Fenollosa, consorte del grande collezionista Ernst Fenollosa, “Hiroshige, l’artista della Foschia, Neve e Pioggia”, che coglie la caratteristica saliente.

Lo attestano alcuni titoli della serie principale,  “Tra le cinquantatre stazioni di posta del Tokaido”,  che insieme alla stazione rappresentata  recano la sottolineatura, “Nebbia mattutina”, “Scroscio improvviso”, “Neve di sera”. per la predominanza degli agenti atmosferici  nella composizione come espressione di qualcosa di molto profondo: la visione cosmica della quale gli elementi paesaggistici dominanti sono vivificati, per così dire, dall’intervento della natura con i suoi fattori climatici e meteorologici, e dell’uomo con le modifiche che anche lui apporta.  

Fattori naturali molto variabili, come lo sono nella realtà, che agiscono quasi fosse uno spettacolo teatrale insieme agli altri protagonisti, il sole o la luna, il cielo con le sue nuvole, le rocce o i fiori, il mare o la campagna; e soprattutto l’uomo con la presenza diretta o con le sue realizzazioni, in particolare ponti e costruzioni, che si integrano nell’ambiente naturale, nei suoi aspetti paesaggistici e meteorologici,  quasi fossero della stessa sostanza, partecipi dello stesso destino comune.

Gli stessi primi piani dal  taglio fotografico, anzi cinematografico, delle composizioni paesaggistiche evidenziano l’importanza di elementi secondari, siano essi naturali o artificiali, come un albero o una staccionata, o umani, come figure in movimento, nel vivacizzare la scena, che non ha la piattezza impersonale delle cartoline ma fissa un attimo  cui contribuiscono natura ed uomo come agenti attivi che determinano l’atmosfera caratteristica del luogo. In questo risiede il sentimento poetico che pervade la composizione.   

Non va considerata una superficiale scelta scenica o stilistica, ma il riflesso del suo profondo spirito religioso, dato che la religione più autenticamente giapponese, lo shintoismo, considera la natura e l’uomo,  con la stessa divinità, espressioni di un principio che  pervade le diverse manifestazioni  senza perdere la sua forza unificante e la sua energia vitale.

Aver portato questa concezione  filosofica, nella sua complessità,  nelle stampe largamente diffuse,  è uno dei meriti straordinari che vanno riconosciuti a questo artista: trasmette un messaggio religioso non attraverso l’arte sacra, come in Occidente, ma con un’arte prettamente popolare  che fa del paesaggio il palcoscenico per la realtà e per la trascendenza.

La misura di questa operazione si trova nella vastità dell’opera di Hiroshige, pubblicò più di 5.000 stampe, ciascuna riprodotta in migliaia di copie, fino a 20.000 per le più richieste dal mercato, multipli “personalizzati” con varie sfumature cromatiche nella tecnica dell'”Ukiyo-e”; e illustrò  120 libri. Sul  mercato le stampe erano accessibili a tutte le classi sociali per il basso costo, le illustrazioni sui libri portavano il messaggio estetico-filosofico-religioso ai livelli più istruiti.

Questa  crescente diffusione delle stampe aveva alla base la nuova “cultura del viaggio” sempre più sentita nel paese  dovuta, come si è accennato,  al continuo intensificarsi dei viaggi, dai pellegrinaggi religiosi agli spostamenti istituzionali per le “residenze alternative”, dai traffici e commerci di un’economia in sviluppo agli spostamenti turistici visti come compensazione di un’attività lavorativa quanto mai intensa.  

Entrando ancora di più nelle sue composizioni, si nota l’estrema cura dei dettagli, le figure umane spesso sono molto piccole e mai al centro della scena, ripresa lateralmente e seguendo la diagonale,  in modo da non sovrastare la raffigurazione ma da integrarsi perfettamente nell’insieme. L’artista cerca di rendere l’animazione dei luoghi, lo si vede nella rappresentazione delle locande che accolgono i viaggiatori, con lampade accese e scene anche esilaranti degli avventori; sui ponti, tra le opere dell’uomo più rappresentate,  spesso c’è animazione,  sono  un simbolo di unione tra sponde opposte,  un altro messaggio.

Nelle scene corali dei cortei di dignitari verso la “residenza alternativa”, a volte riprese su ponti,  c’è  la modernità del “reportage”, quasi fosse il “paparazzo” che immortala la scena. Delle volte è ripresa dall’alto, quasi planando sopra al paesaggio.

Va precisato che non tutte le opere destinate alla stampa Ukiyo-e hanno trovato questo sbocco, in particolare molte dedicate alla beltà femminile sono rimaste come bozzetti preparatori; questa circostanza fa ripensare all’analoga constatazione fatta su Turner, per il quale la gran parte degli acquerelli e “gouache” è incompiuta e  deve anche a questo il fascino indefinibile.

Ci sono pure bozzetti tradotti in stampe con delle varianti apportate successivamente, anche per effetto dei contatti dell’artista con incisore e  stampatore, i quali non avevano un ruolo meramente esecutivo, e non solo nell’inchiostrazione differenziata che faceva dei multipli opere “uniche”.

Naturalmente, l’arte di Hiroshige si è espressa oltre che nella forma popolare dei “multipli” a stampa dell’Ukiyo-e – peraltro modernissima, avendo a mente le attuali “serigrafie” di ogni tipo –  anche nei dipinti non di serie, con l’inchiostro e i colori applicati nei rotoli tradizionali, di stampo cinese, sulla carta o sulla seta.

Il supporto non dipinto fa da contrappunto all’immagine delineata con leggerezza per rendere l’atmosfera in modo soffuso, diversamente dalla drammaticità  che è invece la caratteristica di Hokusai. E non si esprime solo nel paesaggio, pur di gran lunga prevalente, ma anche in immagini di fiori e uccelli sia nel loro contesto ambientale, sia isolandoli con una precisione da manuale scientifico.

Premesso quanto sopra sull’arte di Hirishige, è il momento di vedere praticamente come tutto questo si esprima ai livelli di eccellenza  nelle opere esposte in mostra, ne parleremo prossimamente.  

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, a cura di Rossella Menegazzo,  Skira 2018, pp. 290, formato  28,5 x 24,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli successivi sulla mostra usciranno, in questo sito, il  19 giugno e  5 luglio p.v.,  con altre 10 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito, su Hokusai  2, 8, 27 dicembre 2017,  su Monet 9 gennaio 2018,  sull’arte giapponese,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.  

Foto

Le immagini sono state in parte fornite dall’organizzazione, in parte tratte dal Catalogo, si ringrazia Ales S.p.A. e l’Editore,  con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Ohashi. Acquazzone ad Atake” 1857;  seguono, “Monti e fiumi lungo la strada Kiso” 1857, e “Kameido. L’area antistante il santuario Tenjin” 1856; poi,”Yokkaichi: fiume Mie anche conosciuto come il Primo Tokaido o il Grande Tokaido” 1822-34, e “Pappagallo su un ramo di pino” 1830-35; quindi, “Peonie” 1853, e “Genji dell’Est [Capitolo 12]. Il Giardino innevato” 1854; inoltre, “Oiso. Pioggia delle lacrime di Tora [del ventottesimo giorno del quinto mese] 1833-34, e “Minowa, Kanasugi, MIkawashima” 1857; in chiusura, “Awa. I gorghi di Naruto” 1855.

Gambino e Tentolini, farfalle e maglie d’acciaio alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Russo, dal 22 maggio al 12 giugno 2018 la mostra “Doppio volo” espone le opere di due artisti, Michael Gambino e Giorgio Tentolini, diversi per la forma espressiva e i materiali usati, accomunati  da un elemento comune che Marco Di Capua – curatore della mostra e del catalogo bilingue di Manfredi Edizioni – indica nella leggerezza. E con la leggerezza volano non solo le farfalle, ma anche figure solidamente ancorate al terreno per di più in maglie d’acciaio. 

L’esposizione nella Galleria Russo è binaria, da un lato nugoli di farfalle che si affollanino a configurare carte grografiche, visi e volano intorno a libri celebri; dall’altro grandi  figure assorte nella loro classicità realizzate con un altro tipo di addensamenti, maglie di acciaio sovrapposte e non solo, anche strati di tulle e di carta pergamena.

Di Capua cita l’elogio della leggerezza,  con cui si addensa “ciò che è minuscolo, numeroso e volatile”, del porta russo Josif Brodskij ,  che arriva ad amare e far amare oltre ai granelli di sabbia e al pulviscolo luminoso, perfino le fastidiose zanzare, figurarsi le deliziose farfalle, aggiungiamo noi.  E, riguardo alle farfalle, ricorda la celebre immagine di Edward Laurenz secondo cui un loro battito d’ali in Brasile può provocare un tornado nel Texas, citazione quanto mai appropriata per le farfalle dell’esposizione perché coprono ogni parte del planisfero.  Sul piano pittorico evoca la rivolta puntiforme di Seurat.

I  due artisti che espongono queste opere all’insegna della leggerezza nel “comporre e cucire a piccolo punto le immagini”, sono Michael Gambino per l’epopea delle farfalle, Giorgio Tentolini per le grandi figure in maglie d’acciaio sovrapposte e nei piccoli  intarsi in tulle e carta pergamena. Guardiamoli un po’ da vicino.


Michael Gambino, la leggerezza delle farfalle

L’artista è  trentenne, di origini italo-americane, una formazione prima in Scienze e Biologia poi in Arti visive all’Accademia di Belle Arti di Brera, risiede e lavora tra Varese a Brescia. 4 mostre  personali dal 2012, di cui l’ultima a Piacenza con Tentolini, e  25 mostre collettive a partire dal 2011.

Una sua composizione, con le farfalle che formano l’immagine dell’Europa, è stata scelta per la promozione a capitale europea della cultura nel 2019  di Ravenna, città dove nelle collezioni permanenti del Museo d’arte è stata acquisita nel 2014 un’altra sua opera; nel 2017 ciò è avvenuto nella collezione della Fondazione “L’Arsenale” di Iseo e nel 2018  le sue invenzioni artistiche sono entrate nella decorazione del “concept Hotel Elizabeth Unique”, nelle stanze e  nel soffitto del corridoio. Ha avuto anche l’invito a presentare un logo per la candidatura di Roma alle Olimpiadi, poi abortita.

Protagoniste della sua espressione artistica sono le farfalle, non come soggetti  ma come elementi costitutivi di composizioni impalpabili in quanto su carta leggera, ritagliate e conficcate con degli spillini in modo da non aderire al fondo ma restare in una sospensione che ne accentua l’estrema leggerezza. Oltre all’effetto visivo di evanescenza e movimento le farfalle danno la sensazione di una forza vitale che si rigenera con l’energia biologica che hanno al loro interno. 

Del resto la farfalla, ricorda Di Capua, è simbolo della metamorfosi della materia organica – che l’artista ha approfondito nei suoi studi di biologia – per il modo con cui viene alla luce, e in quanto tale “diventa metafora dell’armonia universale che lega tutti gli aspetti della vita, in continuo mutamento”.  E cita la teoria di Lorenz di “un sistema logico di connessioni e ricorrenze cicliche che regola l’andamento di avvenimenti a notevole distanza spaziale e temporale tra loro, di cui l’effetto farfalla rappresenta il principio generatore”,  l’innesco della  valanga dal Brasile al Texas, titolo di una sua conferenza del matematico nel 1972,  che in “Jurassic Park” divenne da Pechino a New York, ma solo come pioggia. 

“Nella poetica di Gambino, questa meravigliosa creatura dalle ali variopinte diventa il tassello per rappresentare la globalità delle dinamiche che governano l’andamento degli equilibri, sociali, naturali, politici ed economici del nostro pianeta”. Creatura trattata con delicatezza, senza sterminarne migliaia come Hirst, Damien l’Ammazzamosche, per farne composizioni ingentilite dalla loro bellezza cromatica ma con l’orrore dello sterminio anche se giustificato dal termine del loro ciclo vitale.

L’uso della carta con le deliziose immagini ritagliate ne rende il fascino senza sacrificarle all’arte, e fa dire a Di Capua: “I milioni di battiti di farfalla che costellano un’ora della nostra  vita umana  potrebbero essere le sillabe e le vocali di un linguaggio  vasto e incomprensibile  che ci sta dicendo qualcosa”.

Su questo “qualcosa” si esercita la ricerca dei soggetti nei quali rendere tale effetto, illustrato dalla leggerezza delle farfalle di carta che si addensano e si librano, ritagliate a mano e appuntate nel quadro, in alcuni casi fosforescente.

Due soggetti spiccano in modo particolare, le carte geografiche di  continenti e nazioni  composte dagli addensamenti di lepidotteri in cui gli stati o le regioni sono distinti dal diverso cromatismo, e libri d’epoca  intorno ai quali le farfalle si librano irradiandosi in raggiere, in scie e spirali verso l’alto volatili e leggere.

Per i soggetti geografici vediamo esposti  “Planisfero” 2013  e “World”  2016, differenziati per il diverso cromatismo dei continenti rappresentati in modo simile, “Le Americhe. Effetto farfalla” 2013  e “Promised Land” 2015, l’Europa; come singole nazioni, “Italian Republic” e “France” , entrambi 2014, “United States” 2015.  In tutti, farfalle di carta fissate e addensate in modo molto compatto in un cromatismo omogeneo differenziato per Nazioni  nei continenti e per Regioni nella rappresentazione delle singole nazioni.

Ben diverso l’effetto irradiazione, scia e spirale delle farfalle intorno ai libri d’epoca in composizioni quadrate. Si irradiano in modo concentrico in “Believe” e “Atlas”, entrambi 2014, “Neologismi 1891” del 2015,  e in 5 opere del 2016, “Vita di Boheme” e  “Manzoni, Adelchi”, “Leopardi, Canti” e “Rime nuove”, “Dreams” ed “Existence Shakespeare”,  insieme  a un “unicum” dell’artista, “Ritratto di William Shakespeare”, omposto da farfalle variopinte che si addensano nella testa e sembrano staccarsi dalla nuca alle spalle, e a “Shakespeare words” 2016,  le farfalle-parole volano a destra come se portassero il libro. Queste 3 opere furono esposte nella mostra della Galleria Russo sul famoso drammaturgo inglese.


Si  irradiano sulla destra anche in  “Rome 1875”, “History of Music” e “The pocket world”, tutti del 2015,e “Fosca”  2016. L’artista si sbizzarrisce nel dare al volo delle farfalle le più diverse configurazioni, come gli stormi che vediamo formarsi  nel cielo di Roma dando corpo alle figurazioni più diverse e mutevoli in un volo che prende sempre nuove direzioni.  Così formano un arabesco in “Royal Academy 1902” 2015, delle volute ad arco in “Extraordinary Journeys”,  “Knowledge” e “After the History”, anch’essi del 2015,  “La donna e il burattino” 2016, e delle spirali verso l’alto, quasi il “fil di fumo” della Butterfly  in  “Le mille e una notte” 2015, e “A Midsummer Night’s Dream” . Tutti hanno il libro al centro con le farfalle che gli danno dinamismo, e la fluorescenza dello sfondo accresce la luminosità della composizione.

Non è tutto, composizioni rettangolari molto compatte, senza gli spazi bianchi degli “sciami” di farfalle intorno ai libri, sono formati da ritagli a forma di farfalle di carte geografiche in “Mental geography” 2014 e  “History of Italy” 2015, “Fiumi, Laghi , Mari e Oceani” 2017  e “Flutter Atlas” 2018, l’opera più recente esposta insieme a “The None Symphonies of Beethoven” anch’essa dell’anno in corso con le farfalle ritagliate su carta da musica.

Così conclude Di Capua: “Le farfalle, di cui questo artista  ha così cura da crearle ad una ad una  e di assieparle, spillandole, come bouquet di fiori, sono il simbolo della bellezza e, accompagnato da un fruscio coloratissimo, di un passaggio: la trasformazione, la vita breve, una porta stretta tra l’esistenza, la sua fine, e la rinascita”.


 Giorgio Tentolini, la leggerezza delle maglie d’acciaio

Dalle farfalle alle maglie d’acciaio  il  passo sembrerebbe molto lungo, ma non è così, sono accomunate dalla leggerezza compositiva che accomuna i due artisti, come abbiamo detto all’inizio.

Comunque abbreviamo la distanza citando inizialmente i 14 strati di tulle bianco  intagliati a mano della serie “Pagan Poetry”, del 2014,  3 tondi classici, “Meleager”, gli intarsi su carta pergamena, di Tentolini, 7 fogli di carta  intagliati  e sovrapposti a fondale nero su pergamena ne abbiamo 10 nel 2017, “Santa Maria dei Miracoli” e “Rovine del Foro”, “Capriccio architettonico” e la serie “Edge” sulle città, “Venezia”, “Arezzo” e “Siracusa”, “Cairo” e  “New  York”, e 5 nel 2018  su “Venezia” e “New York”, delicati bassorilievi che  riproducono una o due persone che camminano viste per lo più di spalle.

Ma facciamo la conoscenza con Tentolini, dopo aver premesso questa sua linea artistica molto originale. Quarantenne, diplomato in Design  e Comunicazione all’Università del Progetto di Reggio Emilia, dopo una formazione presso l’Istituto d’Arti Toschi di Parma. 15 mostre personali dal 2005 ad oggi, oltre 40 mostre collettive, dal 2002,  anche all’estero, in particolare a Londra, Berlino, Amsterdam. Come per Gambino, la sua collaborazione con la Galleria Russo, iniziata nel 2017, ha portato le sue opere dall’inizio dell’anno in corso  nella decorazione del “concept Hotel Elizabeth Unique”, nelle stanze, nella Hall e nei corridoi. 

A parte le opere citate, la sua specialità è utilizzare un materiale ben più duro come le maglie d’acciaio sovrapposte, con il quale riesce a comporre volti e figure dando uno straordinario senso di leggerezza. Viste da lontano non sembrano fatte di maglie circolari annodate, ma appaiono il risultato di disegni ornamentali arabescati con ombreggiature. Le ombre invece sono date dall’addensarsi delle maglie che viene dosato in modo magistrale. 

La perizia artigianale, per così dire, si associa alla creazione artistica nel produrre un risultato sorprendente per la sua assoluta unicità, tanto più se lo colleghimo all’effetto ottenuto utilizzando invece del materiale pesante e duro dell’acciaio quello leggero e morbido del tulle, e della carta pergamena.

Il curatore Di Capua le chiama “armature” e ne parla così: “Combina fragilità e resistenza, che sembra togliere e levare nell’attimo stesso in cui al contrario aggiunge, in un processo molto delicato in cui l’affiorare coincide con il velare e infine con il ri-velare”.  Togliere e levare come nella concezione michelangiolesca della scultura che libera la figura imprigionata dal blocco di marmo, qui per realizzare i chiaroscuri che danno rilievo deve aggiungere maglie d’acciaio o strati di tulle e di carta pergamena.

In effetti sembra di avere dinanzi dei bassorilievi con le opere in tulle e pergamena sopra citate, e delle statue a tutto tondo con quelle in maglie d’acciaio. All’effetto scultoreo se ne aggiunge uno pittorico, per la ricerca della forma e dei chiaroscuri, la prima impressione è che si tratti di disegni ornati con arabeschi per creare le ombreggiature, mentre la rivelazione che non è disegno si ha avvicinandosi allorchè appare evidente l’addensarsi delle maglie d’acciaio o degli strati di materiale tenero.  

Il curatore ne parla in questi termini: “Al netto di ogni divisione o sintesi di pittura e scultura, qui entra in gioco il disegno come origine, fonte e acme del fare artistico. Tuttavia è un disegno che ne contiene molti, è un’unità che si stratifica lentamente lasciando a noi i compito di scoprirla molteplice, volto indefinibile che quanto più appare tanto più si allontana”, effetto ottico straordinario cui se ne aggiunge un altro, per le maglie d’acciaio, dato dal materiale: “Accorrono, come un’increspatura di microbagliori sulla superficie, piccolissime onde metalliche e luminose a ingabbiarne/proteggerne l’essenza ombrosa”. 

E’ l'”essenza ombrosa” a colpire in modo particolare, data dalle “cotte di maglie” ferrrose che avvolgono i corpi in una originalissima “tessitura”; mentre, quasi in senso inverso, è il vuoto insieme alla forma e al volume a comporre le figure. “Tentolini – è sempre Di Capua – tocca  pensierose e ineffabili e classiche icone contemporanee rendendole misteriosamente grate al vuoto che le genera  – la forma è vuoto, il vuoto è forma – inevitabilmente purificandole”.

Guardiamole queste icone contemporanee che ci circondano sulle pareti della Galleria Russo: ci sono quelle sui modelli scultorei classici,  sembrano grandi statue che si confrontano con gli originali dei grandi maestriu dell’antichità, pur se con un materiale diametralmente opposto come le maglie d’acciaio rispetto al marmo; e i volti in primo piano, alcuni di soggetti classici, altri di giovaani moderni  di cui vengono indicati semplicemente i nomi, fino agli occhi enormemente ingranditi. 

Si ispira ai modelli classici la serie recentissima del 2018, “Pagan Poetry”, con le figure avvenenti e seducenti delle dee ed eroine, a partire nientemeno che dalla “Venere di Milo”, mutila come l’originale, la “Venere Cnidia” e la “Venere Capitolina”,  l’ “Afrodite di Mrnophantos” e “L’Amitié”; e le figure imponenti e autorevoli  dell’“Hermes Ludovisi”, l””Atleta tipo Monteverdi” e il “Torso maschile”. 

Fanno parte della serie anche i volti in primo piano dell’ “Athena Lemnia” in due atteggiamenti, e dell”“Amazzone ferita”, “Flora” e “Antinoo Capitolino”, che hanno un parallelo  nei citati tondi di “Apollo”, “Melanger”  e “Roman Head” in tulle.

Tra i volti moderni troviamo “Cristiano (Youth)” e i visi femminili della serie “Elementi per una teoria delle Jeune_Fille”, del 2017, il  titolo evoca una ricerca personale al di là dei riferimenti classici, per fissare i vari “movimenti” del volto .  Ed ecco “Cecilia” ed “Anna  Milo”, “Lisa” e “Victoria Gan”, “”Karol” e “Grace”,  “Calin Joy”, Mesh” e “Simon”,  mentre “Sui Hue”  e “Neda” sono riprese nel “movimento 2”.

E’ una ricerca ancora più penetrante quella sui particolari degli occhi, in un primissimo piano l’occhio occupa un tondo di un metro di diametro: è la serie “Lapse”, sempre del 2017. Le “10 reti in metallo, intagliate a nano e sovrapposte a fondale bianco”  formano l’occhio con la pupilla, le ciglia e la parte di sopracciglai sovrastante, sembrerebbe incredibile che con le maglie d’acciaio si possa dare corpo alla vista, eppure l’artista riescee a dar eespressioni diverse, lo vediamo in “Terzo sguardo” e “Quarto sguardo”.  

Abbiamo anche un’immagine quasi fotografica, oltre quelle delle figure in tulle e pergamena e dei corpi statuari, dei primi piani dei volti e dei primissimi piani degli occhi, in maglie d’acciaio. Si tratta di “Burt Bacharach – Portrait in Music”.  anch’essa in “10 reti di metallo intagliate  a mano e sovrapposte a fondale bianco” ma con una “tessitura” più sottile e un’ombreggiatura più intensa, come risultato il busto del compositore è quasi nero.  L’opera è del 2018, che prepari un ulteriore sviluppo nell’uso di una tecnica originalissima in cui forse c’è ancora tanto da esplorare?  E’ un interrogativo che lasciamo aperto.  

Scomporre e ricomporre

Descritte le opere dei due artisti nella loro radicale diversità si possono apprezzare ancora meglio gli elementi comuni sottolineati dal curatore Di Capua. Abbiamo anticipato quello della leggerezza, che dà il titolo alla mostra ispirando il “Doppio volo”. Ma ce n’è un altro, i componenti di composizioni così originali sono minuti: “Tutto è piccolo, se ci fai caso. Voglio dire che qui agiscono elementi capaci di disaggregare e di ricomporre pazientemente qualcosa di importante – una terra, anzi la Terra, o un volto – mostrandoci come tutto è composto e, magari, proprio per questo vuoto, impermanente”. Per concludere: “Mi colpisce soprattutto, sia in Giorgio Tentolini che in Michael Gambino, questa cura e passione per ciò che pur minuto disegna il grande”. In altre parole: “Qui abbiamo due artisti che dell’arte, e dei pensieri che in qualche modo le si addensano attorno, amano e contano e raccontano alcune particelle elementari”. 

Del resto, non è fatto di atomi, a loro volta composti da elettroni e neutroni, anche l’infinitamente grande?  Ma qui abbiamo la “cucitura” magistrale, di maglie d’acciaio, strati di tulle o carta pergamena, che ci sembra assolutamente inedita. E con risultati che ci sono apparsi spettacolari. Attendiamo fiduciosi  che l’evoluzione in corso ci dia nuove sorprese. 


Info

Galleria Russo, via Alibert  20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, . Catalogo  “Doppio volo. Giorgio  Tentolini, Michaerl Gambino”, a cura di Marco Di Capua, Manfredi Edizioni, maggio 2018, pp. 120, formato 22,5 x 22,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra citata alla Galleria Russo di celebrazione di Shakespeare con opere di 7 artisti (tra cui Michael Gambino), cfr. il nostro articolo in questo sito il 25 aprile 2016. 

Foto

Le immagini sono state riprese nella Galleria Russo alla presentazione della mostra, si ringrazia il titolare della galleria, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  Di Michael Gambino: in apertura, “Planisfero” 2013;  seguono “Flutter Atlas”   2018, e “Le Americhe. Effetto farfalle”  2013; poi, “History of Italy” 2015, e “The Pocket World” 2015; quindi, “Ritratto di William Shakespeare” 2016, e “Royal Academy, 1902”  2015. Di Giorgio Tentolini, del 2018, “Amazzone ferita”  e “Venus Cnidia” con “Afrodite di Menophantos”; inoltre,  “Flora”   e  “Venus Cnidia” con “Venere di Milo”; ancora, “Meleager” 2014, e “Atleta tipo Monteverdi” con “Hermes Ludovisi” e “Torso maschile”; in chiusura, “Christiano (Youth)”, con “Cecilia” e “Amazzone ferita”..

Patterson e Quinn, il concettualismo spettacolare alla Muciaccia

di Romano Maria Levante

Dal  24 maggio al 14 luglio 2018 alla Galleria Mucciaccia di Roma, la mostra  “Richard Patterson  e Ged Quinn” presenta una serie di opere di due artisti inglesi che hanno dato un’impronta particolare all’arte concettuale non rinunciando a un uso spettacolare del mezzo pittorico per calarsi nei problemi di una società inquieta e confusa per la perdita dei valori e l’assenza di prospettive. La mostra è curata da Catherine Loewe, Catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.

I due artisti presentati in parallelo alla Galleria Mucciaccia  di Roma sono inglesi formatisi nel clima degli anni ’80 allorché, nell’era della Tatcher,  il Regno Unito era in preda a un profondo ripensamento sul piano sociale, culturale e politico, con movimenti iconoclasti  in una situazione economica resa precaria dal degrado urbano e dalla disoccupazione crescente. 

L’arte era attirata dal tema cruciale dei valori perduti senza prospettive positive con quello che viene definito il “post-Punk graffiante”,  ma anche, in direzione opposta,  dall’evasione  verso motivi fantastici e mondani, dal cabarettismo al divismo, nel clima reso precario dalla disoccupazione, in un “Nuovo Romanticismo”.

Catherine Loewe, la curatrice, nel  descrivere questo scenario,  sottolinea come la divisione  sopra delineata  venne superata dal convergere di una serie di fonti, dalla letteratura alla filosofia, dal cinema alla musica, dalla pubblicità alla moda, mentre l’arte prese le direzioni più diverse dal cubismo all’espressionismo astratto, dal Neo impressionismo alla Pop art, dal Minimalismo al Concettualismo che sembrò segnare il superamento della pittura.

Invece per i due artisti britannici il Concettualismo che pone l’idea al centro dell’opera, al di là della forma espressiva che può anche mancare, viene vissuto con gli strumenti pittorici, anche se contaminati da altri ingredienti,  questo accresce il loro valore perché, pur riconoscendo “la condizione post moderna di frattura, decostruzione, analisi e affanno”, vi partecipano rivendicando “la lotta dell’immagine, il suo  potere simbolico,la sua bellezza a volte fastidiosa”.  Il loro concettualismo, dunque, non rinuncia, dunque, a servirsi del lato estetico e figurativo dell’arte, al contrario se ne avvale per rafforzare, con la spettacolarità che ne deriva, l’idea,il  concetto su cui si basa la loro creazione.

“Un’operazione che può essere considerata senza ombra di dubbio rivoluzionaria”, commenta la Loewe, e ne definisce così i risultati: “Possiamo dire di rimanere con gli occhi incollati  quando ammiriamo una loro opera, affascinati dall’assoluto talento che manifesta, che sia di grandi o ridotte dimensioni, astratta o realistica, non importa quanto sia di lusso la superficie su cui si presenta, di certo s può definire tutt’altro che compiacente”.

 E aggiunge: “L’idea di pittura di Patterson e Quinnè quella della resa di un pensiero visibile, , di una lettura testuale, di un itinerario  personale fatto di tornanti e curve, , che sia in grado insomma di percorrere mete mondane o sublimi”. 

Per concludere: Si tratta di un’arte in cui le relazioni tra cose si scontrano metaforicamente  e letteralmente , un’arte che offusca ma chiarisce nello stesso tempo”.

Con questa presentazione della curatrice, passiamo ai due artisti  considerandoli ovviamente in modo separato, con l’ansia di verificare tali  intriganti premesse, commentando le loro opere che a uns prima visione d’insieme  hanno un impatto cromatico e compositivo veramente spettacolare.

Richard Patterson, astrazione e figurativo

E’ un artista che utilizza, oltre alla pittura, fotografia  e stampa, i suoi quadri sono anche multistrato realizzati con una serie di tecniche compreso il “ready made”,  in una contaminazione e compresenza che non consentono di classificarne lo stile.

Ma il suo concettualismo che pone l’idea al centro della composizione, pur se si avvale di effimere componenti  prese  dalla pubblicità e dal cinema, dal pop e quant’altro – ha  fondamenta filosofico come provano i suoi scritti.

La Loewe commenta così: “Le sue opere possono essere viste come maschere o schermi che nascondono  una meditazione melanconica  sulla condizione contemporanea”.

Dalle sue confidenze all’amico  curatore museale Toby Kamps abbiamo appreso  la sua competenza e il suo amore per le auto sportive, in particolare la Jaguar e la sua immersione nella contemporaneità in tutti i suoi aspetti, con i suoi commenti graffianti e disinibiti.

 Sulla pittura confida, è il 26 agosto 2016: “E’ buffo – quando vivevo a Londra, e specialmente alla scuola d’arte, avevo l’idea romantica che per essere un pittore avrei idealmente avuto bisogno della luce del Sud della Francia e che quello era il motivo per cui gli inglesi  non erano famosi per i dipinto veramente espansivi che denotano il desiderio per la vita. Invece, la luce inglese sembrava descrivere gli interni oscurati dei pub con troppi alcolici, sembrava essere momentaneamente celebrativa, poi malinconica., poi cospirante contro i nemici percepiti negli studi vicini, quindi generalmente offensiva ingaggiando il  massimo narcisismo, inventando soprannomi poco lusinghieri per altri artidti, incredibilmente spiritosa – pur mantenendo i livelli di metaironia di sospensione  dell’incredulità, e poi usando prevalentemente vernice marrone – o senza alcuna vernice, prima di passare a tutte le varianti di colore pantone tutti insieme in una sorta di mary Quant Explosion (che sarebbe stato un buon nome per una band)… Ora capisco che la luce di Londra può essere davvero  la luce dei pittori. Dei  pittori moderni”.

In un  altro momento, il  2 dicembre 2016:  “Avrebbero dovuto mettere un po’ di arte nelle automobili. Basta porre una piccola opera di Rauschenberg sul sedile passeggero o qualcosa del genere. Questo sarebbe stato ancor più spinto. Non  si è ancora arrivati al punto in cui l’arte moderna  consiste nel costruire sculture  dove puoi parcheggiare la tua moto d’epoca. Don Judd c’è quasi arrivato. Fa sculture che hanno le dimensioni giuste  per contenere bici più automobili, ma non è riuscito a fare due più due. Molto vicino. Eppure così lontano”.

E infine, il 28 febbraio 2017: “Picabia e de Chirico sono sempre stati influenti su di me. Ho scritto la mia tesi sui tardi Gaston e de Chirico nell’86”.

L’attenzione alla pittura è molto viva, e la notizia sull’influenza di De Chirico  conferma quanto emerge dalle sue opere, l’immagine dell’artista che emerge anche dalle altre confidenze è di un personaggio disinibito e immerso nella contemporaneità più dissacrante, ma ancorato a dei valori e parametri artistici ben radicati.

Dalle opere esposte emerge uno straordinario eclettismo, si va dalle opere astratte con cromatismo leggero, fino ai colori violenti, alle composizioni con inserite fotografie, ai volti  che appaiono nitidi in un contorno variegato.

Le due prime opere che vediamo,  “Three Times a Lady” 1999, e  “Come to Mama”  2000, presentano lo stesso soggetto, una figura in piedi di impatto scultoreo, con due vesti cromatiche opposte, il primo con macchie di colri intensi come da pennellate violente, il secondo con un’uniforme rivestimento scuro, la cui superficie lucida, però, crea giochi di luce che rendono la figura viva e dinamica quanto quella colorata.

“The Wedding Party”, 2005,  e “Country Life” 2014,  sono due composizioni astratte , la prima con colore dominante arancio e rosso in pennellate orizzontali, la seconda in tinta più delicata, sul giallo chiaro, anche qui con larghe campiture anche se in varie direzioni.

Altrettanto astratta “Marianne Leflange”, i diversi colori  accostati in modo armonioso non identificano alcun ritratto, come invece avviene per “Hester van Toojerstraap”, 2014, in cui le sembianze  sono abbastanza delineate pur se  l’approssimazione lo rende un grottesco d’aprés di un celebre van Gogh..Il grande olandese non è citato, come invece avviene per un altro grande in “Woman  at Her Toileet (after Degas)” 2014, c’è qualche sagoma che ricorda vagamente l’artista citato, ma non quanto Van Gogh l’altro.

Accostiamo a questo dipinto, per la delicatezza delle sagome immerse in un cromatismo verde variegato, “Blanco”  2015, di bianco ci sono delle striature che rischiarano una composizione che ricorda un acquario.E’  invece di un verde dominante molto intenso con inseriti motivi rossi e gialli dati con forti pennellate, “The Cherry Toolshed Door”  2014, come gli altri  in un astrattismo fortemente cromatico.

Più cupi appaiono due dipinti del 2015, “A Matter of Life and Death”, dove il richiamo alla morte potrebbe spiegare il nero dominante  e  “Those sunny domes! those caveas of ice”, diversi dai precedenti anche sul piano compositivo, sebbene non si identifichi la raffigurazione; non siamo nell’astrattismo pittorico degli altri citati,  utilizza in modo quasi simile nei due dipinti sfere e strisce quasi fossero dei college gemelli.

Ci sono due opere con elementi figurativi,  “Small Arm” 1996, il braccio sinistro con la manica della camicia arrotolata in primo piano, e   “Christina” 2009, addirittura unafotografia molto nitida della ragazza in motocicletta su base di alluminio con sotto una aggiunta pittorica, che ci introduce, per così dire, ai due dipinti nei quali spiccano chiaramente dei volti e non solo.

Il “non solo” riguarda i  grandi seni nudi della ragazza di cui si vede in alto il viso fino agli occhi, con sotto una sorta di autoritratto dell’artista invecchiato, mentre  la bocca della ragazza con la bella dentatura si ritrova due volte  tra grandi macchie celesti, è intitolata “Portrait o fan Artista s an Older man”. 2009.

Sono due visi giovani quelli che spiccano in “Modern Love” , l’opera più recente tra quelle esposte essendo del 2017, in primo piano la figura maschile, viso e busto, sulla sinistra il profilo del viso femminile, tutto molto nitido in ineccepibile figurativo con  uno sfondo anch’esso ineccepibile.

Questi cospicui inserimenti figurativi li troviamo anche in opere non esposte, due3 anch’esse recenti, “The Studio”, una immagine quasi fotografica di un uomo chino che lascia le sue orme sulla neve, forse nella tormenta, e “Dr. Soaper”,  un uomo seduto alla scrivania, tutto figurativo,  quadri alla parete e applique compresi, le mani che stringono un foglio, ma la testa è sostituita da un viluppo cromatico astratto. Mentre in “Back at the Dealership Culture Station  no. 5”  le immagini dell’uomo avanti all’auto rossa e dello scorcio della gamba femminile con la pistola, collegati da alcune linee colorate,  sono figurative, l’opera è del 2005!

Ged Quinn,  pittorialismo fotografico

Anche Quin, come Patterson, utilizza  dei supporti fotografici alla pittura, ma in modo molto diverso, e il suo non è mai astrattismo,  i suoi quadri  hanno una base prevalente figurativa sulla quale sono inseriti altri elementi, anche di tipo astratto ma con  fondali paesaggistici.

David Elliot gli riconosce il  merito di non aver rinunciato alla pittura quando, con la sua formazione negli anni ’80,  poteva essere invogliato a farlo dato che le avanguardie rifiutavano il risveglio pittorico in atto in quel periodo. E precisa: “Lo sviluppo di Quinn dagli anni ’90 fino ad oggi, è stato caratterizzato dal rifiuto delle associazioni, degli stili, o delle  formule semplici del post-modernismo, in uno spostamento in avanti verso una pratica sintetica che ha accresciuto mezzi visuali ormai assodati di sviluppo della coscienza o di creazione della conoscenza”.

Anche se le fotografie e le pellicole, i fotomontaggi e  i media digitali  hanno avuto notevole influenza in lui, non ha dato esclusività a questi apporti, ma si è mosso “verso un attacco più dolce, più aperto, che metta insieme  immagine, illusione, influenza attraverso la pittura”.  Nel suo“Hegel’s Happy End” del 2012 , non esposto in mostra, che segnerebbe il rifiuto  “dell’iterazione visuale dell’idea Hegeliana di tesi-antitesi-sintesitesi”, questa contaminazione di diversi elementi  è espressa mediante un vaso di fiori spettacolare alla Bruegel, con alla base del vaso, sotto all’esplosione floreale, la fotografia di una madre col suo bambino in un giardino, mentre  alato del vaso ci sono un piccolo busto di Hegel inserito in uno strano basamento ligneo a destra e  un altro piccolo basamento con sopra una composizione di piccole sfere a grappolo .

Hegel non è il solo personaggio cui fa riferimento Elliott nell’inquadrare la figura  el’opera di Quinn. Cita anche  Kurt Schwitters , l’inventore del “Merz”, le lettere finali di Kommerz, con il quale assemblava in modo casuale i più svariati elementi senza valore, dai biglietti del tram e dalle carte di caramelle ai ritagli di giornale e oggetti buttati via.  I suoi “Mertzbau” , caotici in modo incomprensibile, riflettevano un’intuizione che, secondo Elliott,  era “basata su un ordine  insospettabile, innocente, primordiale”.

Non è un mero riferimento culturale, nell’opera di Quinn anch’essa non esposta in mostra, “What the Lark Said (Death and the Maiden”, inserisce al centro di un paesaggio con alberi, corso d’acque e cielo solcato da nuvole, il “Merzbau” con una serie di riferimenti che vanno fino ad Auschwitz.

Non possiamo soffermarci  su questo pur fondamentale dipinto, un altro personaggio citato in relazione a Quinn è Aby Warburg, grande teorico e critico dell’arte tedesco, sostenitore della tesi dell'”enpatia”, cioè l’idealizzazione con la bella forma delle paure per una nuova consapevolezza. Quinn ne trasse elementi per “trattenere  lo spazio ‘teatrale’ del punto di prospettiva evanescente sovrapponendolo ad una superficie luccicante fatta di immagini diverse, connesse cripticamente da gesti, sensazioni, movimento spazio ed ethos più che dalle parole”.

Ma c’è anche Heidegger tra i personaggi evocati da  Elliott, e questa volta appare in un dipinto esposto in mostra, di 50 x 60 cm, piccole dimensioni rispetto agli altri, “The Book of Two Ways” 2013, raffigura la testa del pensatore giovane che guarda avanti, inghirlandata  da una pellicola di film, sul viso le lettere “ridi cul”, il busto a metà vestito, nella parte inferiore nudo con nel petto un tatuaggio da carcerato con “aprée moi le deluge” in alfabeto morse e la piccola ‘immagine dell’attrice Linda Lovelace, che diede scandalo nel film hard”deep Throat” con le mani giunte, come lo sono le  mani grandi di Heidegger, incapsulato alla Bacon in una gabbia, o un acquario, a sinistra in alto un calice entro un “pergolato celeste” definito “wagneriano”,

“In questo ‘libro delle due direzioni’ – commenta Elliott – Quinn ha innescato Heidegger come punto di ingresso visivo per una meditazione  che tocca la dialettica della realtà e l’apparenza, il comportamento e l’intenzione, la presunzione e l’attenzione, la menzogna e la verità, all’interno di un quadro storico e psicologico  che è consapevole, ma non governato da moralità o religione”. Con questo effetto: “Come richiede il sogegtto, questo quadro  di dilemma esistenziale deve essere lasciato aperto  in modo che gli spettatori possano rimuginare sulle proprie conclusioni”.

Un  dipinto di composizione per molti aspetti simile è “Saint Paul”  2014, il santo rivoluzionario convertito al Cristianesimo raffigurato con il volto macchiato del messicano terrorista rivoluzionario Carlos, nei cui occhiali si riflette il segnale stradale di Tarso, in una composizione con elementi cubisti e due fotografie alla base, che ci introducono a una sua caratteristica essenziale.

Dello stesso anno 2014  un’opera aderente alla precedente, “Peter, Paul and Mary”,  un altro  Paolo martire della nostra epoca, Pier Paolo Pasolini, il volto ferito in un’immagine di tipo  fotografico in primo piano con gente compunta sullo sfondo, lo scrittore regista progettava di concludere la sua “trilogia della morte” con un film su San Paolo, questa circostanza   insieme al binomio santità-passione che accompagna il regista, poeta e scrittore  trasgressivo, colpì  Quinn.

Così Elliott commenta i tre dipinti ora citati: “”Presa insieme, la trinità di Quinn su Heidegger, San Paolo/Carlos e San Pietro-Paolo/Pier Paolo Pasolini-è una meditazione critica su idee di santità e martirio e traduzione estetica di ideologia, filosofia e religione  che tiene conto della morte post-romantica  dell’idealismo e delle vicissitudini contemporanee della complessità morale.

Dai ritratti simbolici si passa ai paesaggi altrettanto simbolici, per lo più oscurati, in stile figurativo, dove fanno irruzione elementi astratti quali nature morte e fotografie da album di famiglia.

Ne sono esposti 5 tutti di grandi dimensioni,. sui 3 metri per 2, molto spettacolari. dal 2013 al 2017. “Every Fosaken Instance . Each Leisure ly Disaster” 2013, evoca il disastro in una scena quasi  bucolica, la figura adagiata nel bosco quasi riposasse, appoggiata a una sorta di lapide.

Ancora più aperta la scena di “Rose, Cherry, Iron Rust, Flamingo” 2014,  un paesaggio sereno con alberi, prati e colline in lontananza, poche immagini fotografiche e molto piccole sparse nel verde.

Dello stesso 2014  “Events Arrive on Doves’ Feet”, visione paesaggistica ravvicinata rispetto alla precedente, con due fotografie e, al centro, il “Merzbau” di cui abbiamo parlato all’inizio.

In “Belas Forgets the Scissors” 2016, invece, le fotografie dominano la scena paesaggistica ancora più aperta delle precedenti,ne abbiamo contato quasi 50, di tutti i tipi, alcuni ritratti e molto altro.

L’ultimo di questa serie e più recente, del 2017, “Plane, Plank, Nameless Bridge” ha una visione paesaggistica assimilabile alla  precedente, con 15 fotografie di varia dimensione tra cui una carta geografica e altri elementi sulla destra che sconfinano nell’astrazione.

Dai paesaggi aperti e aprichi alle cupe costruzioni carcerarie, edifici-bunker che sembrano casematte, simbolo angoscioso della privazione della libertà, sono del 2017, come se la ricerca fin qui condotta negli spazi aperti avesse portato a questo approdo: si tratta di “Geography Correct”  e “Model for Contempt”, i titoli sono eloquenti  Ma non si deve pensare alla perdita di speranza, al riguardo è significativa questa considerazione di Elliott: “Sebbene il potere, e il suo potenziale abuso, sia una preoccupazione evidente nei dipinti di Quinn, non vi è ideologia , sistema o intento didattico prevalente. L’intuizione, come sempre, mantiene il sopravvento”.

C’è  un’osservazione più generale, sempre Elliott, nel riportare il giudizio dei critici che vedono nell’opera di Quinn “sintomi ‘maniacali’ della Melanconia – una risposta storicamente depressiva e nevrastenica ad azioni., emozioni ed idee che non possono essere tollerate”, commenta così: “Ma mentre Quinn cita spesso la malinconia nel suo lavoro, la smaschera  anche con una cocciuta ironia che distoglie l’attenzione dai dettagli, dagli eventi o dalle narrazioni verso una considerazione del perché tutti i diversi  elementi sono stati messi insieme in questo modo”. 

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Dal lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Catalogo  bilingue italiano-inglese.  ; dal catalogo sono tartte le citazioni del testo. Il nostro articolo sulla precedente mostra alla galleria Mucciaccia : “Eyedentity”, Stefane Graff”, “Daniel Jouseff. Flags”,  è uscito in questo sito il

Asdrubali, lo spazio istantaneo e il “Navigator” di Negri, al Museo Bilotti

di Romano Maria Levante

La mostra “Gianni Asdrubali. lo spazio impossibile” espone al Museo Bilotti presso l’Arancera di Villa Borghese a Roma, dal 16 aprile al 10 giugno 2018, le sue caratteristiche composizioni fatte di segni concatenati  molto  particolari in una concezione di spazio sofisticata  e problematica, sono 16 gruppi di “pitture industriali su tela” dai caratteristici intrecci nell’omogeneità cromatica di ogni opera,  all’interno di un’ampia gamma di tonalità pastello; la mostra è a cura di Marco Tonelli, che ha curato anche  il catalogo di Preraro Editore. In contemporanea la mostra “Matteo Negri, Navigator Roma”. a cura di Laura Cherubini, catalogo Silvana Editoriale, sembra  invece all’estremo della semplicità trattandosi dell’esposizione di un poliedro argentato nei diversi angoli di Villa Borghese, ma anch’essa presenta aspetti reconditi . 

Lo “spazio impossibile” di Asdrubali 

E’ una mostra sorprendentemente, in apparenza  monocorde, a parte le varianti cromatiche, dato che le composizioni sono costituite da intrecci segnici con molti elementi di simmetria, e le varianti non sono molte tra una composizione e l’altra. L’impressione di omogeneità è la prima che si ricava. 

Ma basta conoscere la biografia dell’artista per non limitarsi a una  considerazione superficiale. La sua ricerca è iniziata negli anni ’80. e si è mossa intorno alla contrapposizione e fusione degli opposti per conseguire un nuovo ordine, che concili forma e antiforma, ed esprima le contraddizioni della vita che trovano sempre un punto di equilibrio.  

L’avvio della  sua costruzione pittorica è il vuoto considerato come fonte di  energia, come tensione vitale perché l’assenza più che la presenza  può  provocare il pensiero, quindi  l’azione e il movimento .  Sentire che l’azione deriva dal vuoto considerato  protagonista  e non negazione  non può che sorprendere  e comunque incuriosire e spinge ad approfondire le basi concettuali dell’arte di Asdrubali.

E per questo cominciamo dalle sue parole: “Non c’è spazio, piuttosto  si tratta del suo annullamento, schiacciamento e annullamento delle dimensioni , delle velocità. Questo schiacciamento delle dimensioni nella frontalità della superficie tende a gettare l’infinito – tutto l’infinito del dietro  – nel davanti e nel fuori dalla superficie”. Ed ecco il suo pensiero sulle visioni dello spazio infinito: “Un’opera d’arte è tale quando il suo limite è illimitato, per cui non c’è bisogno di uscire dal ‘quadro’, ovvero di sconfinare dall’opera verso il fuori, perché il fuori è già nell’opera. Fuori dal limite dell’opera non c’è l’infinito ma solo il quotidiano”.

Una concezione, la sua, che lo porta a cercare l’arte nella natura senza scavare nel profondo, perché le forze naturali operano nella superficie , dove tutto si manifesta: “la necessità, l’istinto, il piacere”. Sicchè “la profondità è nella superficie”.

Siamo ancora alla compresenza degli opposti, agli ossimeri  virtuali, e in questo contesto i canoni  classici della pittura, , spazio e tempo, forma e struttura, colore e bordo del quadro, anche se restano fondamentali, vengono rivisti.

“Lo spazio, il vuoto è nella materia stessa, e la profondità non è al di qua o al di là delle superfici, ma nella superficie stessa”, concezione sfociata  nel suo caratteristico “segno.spazio” tradottosi  in titoli criptici  che sprimono,  secondo il curatore Marco Tonelli, “un’identità indistinguibile e primigenia della sua pittura, come se volesse definire un campo di mattoni fondamentali”.  E lo spazio è legato a un’istantaneità  di ordine filosofico  intesa come attimo presente,  “una superficie compressa, bidimensionale o unidimensionale dove avviene tutto , dove tutto è già avvenuto e dove tutto continuerà ad avvenire” sempre secondo Tonelli.

Il curatore fa riferimenti alla fisica subnucleare e ai campi granulari per gli elementi primari, parlando do “scenario quantistico di Asdrubali”. E lo applica al rapporto tra lo stimolo mentale che determina un gesto e il suo effetto, “che non è decidibile (appunto non programmabile né progettabile), è una sorta di azione di cui consoci il punto di partenza, osservi quello di arrivo, sai il perché, ma non cosa c’è nel mezzo né come si sia arrivati alla superficie organica visibile sulla superficie della tela”.  E’ inconoscibile, o almeno non è possibile direzionarlo, né  a livello della fisica né nell’azione concreta. ma proprio da questo vuoto nasce la potente energia come nella creazione del mondo, che esplode sulla tela nella pittura di Asdrubali,.

Una pittura legata al pensiero la sua, dunque, di  tipo gestuale,  che si manifesta in un rapporto temporale tutto da definire tra l’impulso mentale e la realizzazione. “Se la pittura di Asdrubali è istantanea, è spazio-tempo reificato, come si relaziona col fatto che ha bisogno di tempo e di spazio ordinari per manifestarsi?”

Forse la risposta si trova in queste parole dell’artista: “Si tratta di iniziare il tempo, cioè di far partire un evento in stato contraddittorio, dove l’inizio è contemporaneamente la fine.  L’annullamento di queste distanze tra inizio e fine è lo stato contraddittorio di un’impossibilità che permette, attraverso la tensione del vuoto, lo scatenarsi di un’azione nel tentativo di raggiungere quel punto limite di un tutto che non c’è”.

Delineato per sommi capi il complesso retroterra concettuale della sua pittura, vediamo che  i caratteri salienti sono nodi e trame, legacci e strutture che si ripetono, sia pure con varianti significative, a dimostrazione che vuole spezzare la materia, e farlo velocemente nella misura temporale quantistica.

Addirittura il curatore individua “il pacchetto quantizzato, quella dimensione fondamentale, oggettivamente misurabile per ogni opera o addirittura per ogni serie di opere, quella dimensione costante, quel quanto di energia che dà origine alla struttura complessa”.  E aggiunge che “la pittura di Asdrubali è non solo otticamente tagliata ai margini, ai bordi, ma lo è anche fisicamente, nel senso che nel dipingerla ha dipinto effettivamente anche il vuoto a fianco della tela, dando luogo a figure interrotte che però si ricollegano in ogni senso in un vero e proprio multi verso… Il gesto del pennello non si interrompe sulla tela ma, per completarsi e rendersi visibile sulla superficie, continua oltre”.  

Non dimentichiamo che per l’artista la tela è un “campo di forze che confluiscono in essa  e che non nascono in realtà dal gesto (in esso semmai si traducono), bensì da una struttura mentale e spaziale insieme , da un vuoto che sulla superficie si rende istantaneo , si fa spazio e tempo, senza perdere la sua caratteristica di autonomia e di originari età”. In questo processo  conta l’attrito delle superfici come conta il colore, nell’unidimensionalità e nella sovrapposi zio ne di strati, nella  corrispondenza tra gesto e segno, nella riduzione della forma a geometria,  del colore come sintesi e misura di tempo ed energia.

“Non più il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, come per l’euclideo Kant – commenta  Tonelli – ma il vuoto intorno a me  e lo spazio dentro di me”  in un’accezione non euclidea ma quantistica  e relativistica che assimilando tempo e spazio in una sola dimensione curva  sembrerebbe sfociare su un a pittura con piani incurvati, mentre quelli di Asdrubali sono schiacciati. 

Il motivo è che non tutto della sua concezione viene portato alle estreme conseguenze, il curatore lo spiega così: “Semplicemente la sua rice4ca pittorica ha dovuto guardare oltre le dimensioni psichiche e fisiche della pittura tradizionale, senza negarne l’esistenza bidimensionale, senza rinunciare alla pratica pittorica in sé, all’uso del colore e del pennello, insomma radicalizzando quegli elementi fondamentali non per negare , azzerare o concettualizzare, ma per  provare a rifondare la pittura nella sua contrattezza fisica, nei suoi collassi istantanei di materia, forza, gesto, energia, segno, immagine”. E cero non è poco!-

La sua non è vera astrazione, Lorenzo Mango lo ha accostato a Pollock vedendo in entrambi una “tessitura strettissima tra fisicità, emozione, gesto, intuizione estetica, genesi della forma”. Flavio Caroli lo ha collegato al movimento “Nyuova geometria” diffusosi a livello internazionale a metà degli anni ’80,  definendo la sua “astrazione eroica”. Filiberto Menna ha parlato di “pittura di affermazione” Bruno Corà vi vede una “spazialità sferica, adimensionale, indescrivibile a parole”.

Cerchiamo di descrivere le opere esposte, la missione impossibile constatata da Corà.

La sequenza  di opere  di Asdrubali in un trentennio

Molte le caratteristiche comuni delle opere di Asdrubali, in una continuità di contenuti unita ad un’evoluzione stilistica evidente senza interruzioni né brusche innovazioni. La caratteristica più evidente è la dimensione delle opere, sempre notevole, fino quasi a 4 metri, come se invece di pitture, come sono nella sostanza, fossero installazioni di un’altra generazione più avanzata, anzi avveniristica, del resto è collegata alla quantistica nella complessa costruzione gestuale e nei rapporti spazio-tempo. non solo, ma nelle parole di Corà, tutti i dipinti “si dimostrano ‘aperti’ sui quattro lati e interpretano il limite che tuttavia non rappresentano, essendo essi stessi limite esemplare del processo pittorico”.

Partendo dal lontano “Muro magico” del 1979, si passa a “Bestia”, 1986,  con le “Nuove Geometrie” e “Aggancio”, le prime grandi tele di “pittura industriale” con figure in bianco incorniciate su fondo nero, che si rafforza in “Eroica” nel 1988.  Per Mango “questa essenzialità si disarticolava, si frantumava, il segno  si moltiplicava e la superficie, anziché essere il luogo della  un’apparizione momentanea, diventava occasione di una costruzione segmentata ed analitica”.  

Il colore interviene nel 1990 con “Malumazac”, in particolare il celeste e il rosso, dove “ciò che emerge è la sintesi, la concentrazione attorno ad una unità, ad un segno-gesto  che non si espande sulla superficie ma la anima stagliandosi al suo interno come un’isola di energia”.  

Poi nel 1992 sembra si torni indietro, al bianco e nero, con “Tromboleide”, con la vistosa variante della  trasformazione delle grandi geometrie in un viluppo labirintico di segni, la “figurazione futura” da non confondersi con l’astrazione perché, come scrive sempre Mango, “”il Tromboloide in quanto corpo  della pittura non è né astratto né figurativo. E’ segno assoluto”. Si sviluppa così: “I Tromboloidi montati l’uno sull’altro fino ad invadere la parete creano un ritmo tratto, sincopato, ellittico. Il segno dell’uno si infrange dentro quello dell’altro, la netta essenziale semplicità, il timbro cristallino dell’immagine… assume i toni e il respiro tonante  del grande affresco”.   

Alle geometrie bianco-nere possiamo riferire le parole di Corà:”La tensione è continua, ma il gesto è segmentato, come i segni a pittura acrilica  che tracciano sulla tela i diversi tipi di rete nervosa”. Ed ecco come: “Sulla tela preparata in bianco, Asdrubali  stende un reticolo nero e sul nero un reticolo bianco molto diluito, al punto che gran parte di essa lascia trasparire il nero sottostante”. 

Siamo al 2000, “Tetrazoide” riporta le grandi geometrie in nero, che nel 2001 si sciolgono in percorsi con lo sporadico intervento del viola, finché nel 2004  con “Azota” l’evoluzione porta l’artista  alla forma espressiva che si consoliderà sempre più mantenendo il nuovo orientamento. Quale? Gli intrecci non di segni astratti ma di elementi materici che ricordano i cesti di vimini, in colorazioni discrete ma precise sul verde e il celeste.

Un ritorno alle geometrie bianche su fondo nero nel 2006 con “Stoide”, mentre con “Zigroma” nel 2008  torna dominante, a parte una insolita colorazione gialla, bianco che resta in “Steztastess” del 2011 ma reintroducendo i segni materici che ricordano il viluppo di vimini.  

Questa linea evolutiva esplode in  “Maciada” nel 2014, con i viluppi in verde e nero. E si rafforza ulteriormente in “Zeimekke” del 2015  nei colori rosso, verde e viola. Nelle superfici colorate – osserva Corà – “in ogni tracciato del colore si distinguono zone di diversa intensità e saturazione cromatica dovute al gesto che al contempo stende e asporta il colore  a causa della tensione e della rapidità”. Con questo effetto: “Le zone di minore intensità cromatica, quelel cioè dove l’acrilico è stato steso e sottratto, si rendono dialettiche con quelle parti ‘vuote’ da segni e da colore che occhieggiano e contribuiscono alla forte l’aspetto  mentale. La sperimentazione sui materiali apapre imprescindibile”lte rontalità dell’intera pittura”.

A riprova della continuità espressiva, nell’evoluzione, con “Sverzeke” del 2016 tornano i viluppi in bianco-nero pur se prevalgono quelli cromatici, in verde, celeste e rosso. Ma poi, nel 2017, con “Zanorre” e “Zesenne” l’esplosione dei viluppi cromatici è assoluta e incontrastata, in verde e celeste, viola e rosso, i colori fondamentali del “quark”, per ricollegarci al riferimento quantistico.

In conclusione, torniamo alle basi poste da Asdrubali alla sua arte: “Io costruisco il  vuoto”, e ribadisce “si può dire che la mia pittura è piena di vuoto”. E perché piena? “Il vuoto è solido come il marmo”. Un ossimoro intrigante che riconduce ai misteri insondabili dell’arte e, se si vuole, della scienza, tanto più nei campi avveniristici della quantistica cui l’artista si riferisce espressamente.

Il “Navigator” di Matteo Negri approda a Villa Borgese

“L’operazione di Matteo Negri è  tutta nell’interrogarsi sul senso della scultura nell’epoca della de materializzazione digitale . La tensione è quella a trattenere reale e virtuale insieme. Nonostante la  grande attenzione alle materie è forte l’aspetto mentale. La sperimentazione sui materiali appare imprescindibile”. Così  presenta la mostra la curatrice Laura Cherubini .con l’invito implicito a non fermarsi alle apparenze, un semplice poliedro dimensioni contenute,il “Navigator”, itinerante per Villa Borghese, ripreso in istantanee che lo inquadrano nell’ambiente, tradotte in cartoline esposte.

E basta scorrere l’itinerario artistico dell’autore per entrare in sintonia con una realtà ben più complessa. Nella sua formazione all’Accademia delle Belle Arti di Brera  ha imparato dal maestro Paolo Gallerani la conoscenza dei materiali più diversi e soprattutto del disegno; ma poi ha mostrato uno spirito ironico e creativo, servendosi anche della meccanica nelle macchine che si battono su un ring, nelle bombe di profondità  e nelle mine colorate in cui fa “slittare” la violenza verso una dimensione ludica, e della caratteristica superficie forata del “lego” per le fusioni in bronzo dei “lego bricks”, fino alle torsioni che portano ai “Nodi”. Ivan Quaroni lo collega sia alla Pop Art e al Minimalismo americano, sia all’Astrattismo europeo.  

Questo un decennio fa, mentre nel 2015 sorprende ancora con la sfera fluorescente che disegna su un tappeto delle lettere casuali e con lavori cui viene dato il titolo in giapponese di “Kamigami”  “Kamigami”‘  nei quali la scultura riflette su superfici a specchio immagini che sono fotografate. Precorre il “Navigator” e consente di decifrarne il significato recondito, che attiene ai rapporti tra scultura (l’oggetto riflesso) e pittura (le immagini fotografate) e tra i diversi punti di vista, tra unicità  (della pittura) e molteplicità (della scultura).

In questo secondo caso l’osservatore non è più in posizione statica ma si muove di propria iniziativa per cogliere le differenze plastiche; addirittura il “Progetto per casa Testori” – ha scritto Daniele Capra –  spinge “il visitatore ad essere nel contempo osservatore e uomo in movimento,cioè spettatore e ballerino”, dato che viene costretto a girare intorno alla casa per guardare dalle finestre all’esterno le opere poste nelle stanze all’interno; per lo più sculture che però si guardano da un punto di vista “unico”, statico,  senza girarci intorno come avviene quando sono accessibili, ma poiché si gira intorno all’edificio c’è pure il dinamismo. Tuttto ciò fa dire a Giuseppe Frangi che sono “sculture pitture” e all’artista che “non si tratta di una mostra di scultura o di pittura ma è una mostra che riflette sul ruolo  dell’opera ‘pubblica”.

A questo punto nella produzione artistica di Negri irrompe “Navigator”,  due coni sovrapposti uniti alla base, come una trottola, che Albero Fiz definisce “una specie di scultura portatile, un oggetto specchiante e misterioso che si attiva solo in relazione all’ambiente circostante”, e lo fa tra continue interferenze luminose “in un vortice d’immagini che sovrappongono e si ribaltano senza lasciare segni tangibili”.  

La prima comparsa della cultura-trottola fu plateale, la lanciò  in mare dal molo di Boccadasse a Genova, per far combaciare la sua superficie reale con quella riflessa nell’acqua; ma parallelamente la fotografò  sospesa mentre rifletteva “l’attorno urbano e sociale”, sono sue parole. Con “Navigator” si va ancora avanti, il nome viene dal titolo di un film di fantascienza del 1986  con un ‘astronave dalla stessa superficie argentata le immagini del paesaggio terrestre attraversato; nel film l’intelligenza aliena è all’interno e vuole scoprire ciò che c’è all’esterno guidata da un bambino. Lo stesso “Navigator” all’apparenza una trottola infantile, che va alla scoperta dei misteri più intriganti.  

E quale migliore collocazione di Villa Borghese, dove il cardinal Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V. volle non solo una varietà sterminata di piante, essenze e fiori, ma tempietti deliziosi e costruzioni monumentali, statue e bassorilievi, che ne fanno  uno straordinario museo en plein air. In questo ambiente favoloso, dice l’artista, “il luogo incantevole diventa lo scenario che ho immaginato nelle stanze. Che in questo modo diventa lo specchio della condizione incantevole del giardino”.

Vediamo “Navigator” appeso all’interno Museo Bilotti, ma ciò che conta sono le fotografie che lo ritraggono  negli angoli più caratteristici del parco, ciascuno dei quali ha una sua storia che viene declinata con tutte le sue valenze, anche simboliche: ed ecco il doppio prisma argentato riflettere il panorama lontano o le evidenze ambientali e artistiche vicine nella Terrazza del Pincio e nella Fontana del Mosè, nel Viale dei bambini con i busti del Bramante e nei Giardini Umberto I, vicino ai  Templi di Diana e di Esculapio, a Piazza di Siena e all’Arancera con i suoi fregi artistici fino a “entrare” nel Museo Bilotti e collocarsi al centro della sala con esposte immagini del tour esterno./ 

Sono ben 61 le Stampe fine art prestige su cartoncino formato cm. 10 x 15,  tipo cartolina, che ne documentano l’escursione romana nel 2018. Non è un mero tour fotografico, è un momento importante del percorso artistico di Matteo Negri che – sono le parole conclusive della curatrice Cherubini – “si situa nella continua dialettica tra scultura e pittura, tra senso del tatto e senso della vista e ci parla del tempo dell’attesa e della necessità d’instaurare una nuova relazione con lo spazio. Un en plein air tra quattro mura stupefatte di spazio…”.

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Museo Carlo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, Roma. Dal lunedì al    ore     Ingresso euro    . Mostra Asdrubali, catalogo: Gianni Asdrubali, “Lo spazio impossibile“, a cura di Marco Tonelli, Prearo editore 2018, pp. 188, formato  23 x 27; Mostra Negri, Matteo Negri, “Navigator Roma”, Silvana Editoriale, aprile 2018, pp.98, formato 15,5 x 20,5, bilingue italiano-inglese.Dai due Cataloghi indicati sono tratte le citazioni del testo.

World Press Photo, le migliori fotografie del 2017 al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Una galleria di eventi verificatisi in ogni parte del mondo nella mostra delle fotografie  vincitrici del “World Press Photo”, al Palazzo Esposizioni di Roma,  concorso che ogni anno passa in rassegna queste testimonianze di prima mano con la documentazione di  momenti molto intensi vissuti nella cronaca quotidiana, fissati in immagini  eloquenti

L’annuale “World Press Photo” presenta le fotografie premiate nel  grande concorso che mobilita il vastissimo mondo dei fotoreporter presenti soprattutto nelle aree critiche anche a rischio della vita. E’ un premio istituito nel 1955 da alcuni fotografi olandesi  che volevano diffondere le loro immagini ma hanno dato il via a una rassegna di scala mondiale  cresciuta di anno in anno, per cui dopo 60 anni hanno partecipato  4548 fotografi  di 125 paesi. E il presidente della Giuria, Magdalena Herrera ha sottolineato il notevole lavoro  dei 17 giurati, coadiuvati da 2 segretari, per visionare le 74.048 fotografie del 2017 presentate, in due turni di scrutinio entro 20 giorni.

Il direttore generale della Fondazione “World Press Photo”, Lars Boering, ha ricordato i cambiamenti  avutesi nella narrazione giornalistica, e nella connessa documentazione fotografica, affermando che “la fotografia dovrebbe essere, e sicuramente è, uno dei mezzi più adatti in assoluto a offrire  spunti di riflessione e di conversazione”. Ed ecco la sua definizione: “La fotografia veritiera e di qualità non si limita a mostrare qualcosa, ma racconta qualcosa. Comunica visivamente con l’osservatore sensibile al suo contenuto”.

I criteri di valutazione della Giuria

Sui criteri adottati nel giudizio finale si sofferma la presentazione dei risultati da parte della presidente Hererra.  Ebbene, alla domanda “cosa rende speciale una foto, cosa rende speciale un a storia?” viene data una chiara risposta, premettendo che nel giudizio “ognuno di noi deve cercare di ignorare i propri pregiudizi”, e nel confronto con le valutazioni altrui  deve avere “il diritto di dubitare, la possibilità di cambiare idea”. I criteri emersi spontaneamente vengono così enunciati: “Volevamo essere sorpresi; volevamo essere colpiti; volevamo vedere nuovi approcci”. E, n particolare: “Le foto singole devono conquistare, ammaliare. Devono risaltare con la loro carica di emozione, empatia e forza”. Ancora più direttamente: “L’accuratezza dell’istante. Il momento espressivo”.

Nulla sulla qualità tecnica,  e nulla sulla qualità artistica. Sulla prima  puntano le aspettative dei giurati : “Professionalità e rispetto dell’argomento, un approccio nuovo e stimolante, originalità e, infine, lo scostamento dal tipo di lavoro già noto”, in  fondo  imperativi del lavoro giornalistico, qualità, inventiva, innovazione oltre che autenticità. Mentre sulla seconda, la qualità artistica, nessun’attenzione,  d’altra parte è un premio giornalistico, che privilegia la capacità di cogliere l’attimo per fissare un momento storico, per questo anche l’imperfezione si traduce in un pregio perché attesta l’assoluta autenticità.

Viene espressa dal Presidente della Giuria la soddisfazione  “nel tirare fuori tutte le voci e fare in modo che venissero ascoltate, anche se discordanti, coinvolgendo tutti in una discussione proficua prima del voto finale” sulle foto “selezionate da una Giuria composta da autentici appassionati della fotografia”.

Le sezioni sono 8, Volti e Spot News, Notizie generali e Storie d’attualità, Ambiente e Sport, Natura  e Progetti a lungo termine, per le prime 7 due podi con 3 premiati, uno per le foto singole e l’altro per i “reportage”., per i progetti a lungo termine un podio unico.

Nella Giuria, du  membri per Francia e Regno Unito, Stati Uniti e Singapore, un membro per Argentina/Spagna e Paesi Bassi,  Danimarca e Germania, Algeria e Costa d’Avorio, Brasile, Palestina e Turchia; due segretari, di Spagna e Stati Uniti. Nessun italiano.

I vincitori nelle foto singole

Le foto singole dovrebbero avere un’efficacia shockante, sintetizzare l’evento in modo essenziale, la galleria dei premiati promette queste emozioni, ma vedremo nel passare in rassegna le foto prescelte se le immagini rispondono alle attese, certamente pressanti dopo una siffatta selezione.

Nella categoria “Volti”  vince lo svedese Magnus Wennman con una foto del 2 marzo che riprende due ragazze distese per la “sindrome della rassegnazione” che colpisce finora soltanto profughi in Svezia; solo l’eccezionalità del fatto spiega il premio, non l’immagine, apparentemente banale.  Analogamente per il 2^ gradino del podio, lo conquista l’italiano Alessio Mamo che il 10 luglio fotografa una ragazza irachena con una maschera che copre il volto ferito da un missile in Irak,  Sul 3° gradino il cinese Li Haifeng, qui la “curiosità” è data da una casa-grotta primordiale ma salubre scavata nella collina con le pareti foderate di terra  dove vivono da sempre due fratelli, qui la qualità dell’immagine è notevole con l’effetto di luce caravaggesco in un interno altamente pittorico.

Lo “Spot News” punta  di per sè sull’evento eclatante colto nell’attimo imperdibile in cui si verifica, per questo il 1° premio è andato a  Ronaldo Schemidt che riprende un manifestante ventottenne, Josè Victor Salazar Balza, con la schiena in fiamme dopo aver preso fuoco durante una protesta contro il regime venezuelano. E’ la fotografia proclamata “Foto dell’anno” come vincitrice assoluta del “World  Press Photo”,  e questo ci è sembrato eccessivo anche perché la maschera antigas del manifestante nuoce all’immediatezza drammatica. A una scena affollata è andato invece il 2^ premio, rende con efficacia l’attentato del 12 agosto compiuto a Charlottesville negli Usa con un’auto lanciata sui manifestanti antirazzisti, autore l’americano Ryan M. Kelly. Del tutta diversa la foto cui è andato il 3^ premio, del serbo Goran Tomasevic, l’ombra della testa di cuoio irachena dopo aver ucciso a Mosul un attentatore il cui corrpo è steso a terra, c’è per altri versi l’immediatezza del celebre “Morte del legionario”.

Anche nella sezione “Notizie generali” il 1^ premio  a una foto che fissa un momento di morte. qui i corpi a terra semicoperti da teli di profughi di Myanmar fuggiti in barca e annegati, è del 28 settembre, autore l’australiano Patrick Brown, ha i notevoli pregi artistici dei bassorilievi. Il 2^ premio a Richard Tsong-Taatarii che ha fissato l’abbraccio all’afroamericano Thompson dopo il suo discorso il 18 giugno per l’amico Castile ucciso da un agente poi assolto, in primo piano il suo viso, in secondo piano un pugno alzato come alle Olimpiadi di Città del Messico. Dalle immagini ravvicinate alla vasta panoramica con il 3° premio, Md Masfiqur Akhtar Sohan, del Bangladesh, riprende dall’alto i profughi del suo paese che il 9 settembre guadano le case cui la polizia birmana ha dato fuoco  oltre il confine, forse il premio è andato alla qualità pittorica della panoramica.

Sono queste tutte storie, comunque la sezione “Storie d’attualità”  sembra voler marcare maggiormente il carattere narrativo di vicende, non di semplici momenti.  Il 1° premio alle foto del tedesco Jesco Denzel che il 24 febbraio riprende una barca di turisti tra barche di locali nella baraccopoli galleggiante nigeriana di Lagos, una metafora della miseria che assedia il benessere. A una vicenda inconsueta documentata  dall’italiano Giulio Di Sturco è andato il 2° premio,nella foto il medico thailandese mostra il 3 febbraio alla sua paziente transessuale in un ospedale di Bangkok l’esito dell’intervento, non si sa se il premio va all’irriverenza dell’immagine o alla materia scabrosa.  Cambia tutto con il 3° premio allo svedese  Roger Turesson, con una panoramica  della folla di spettatori allo stadio per la partenza della maratona di Pyongyang , mentre una guardia solitaria che sorveglia impettita l’uscita, questo contrasto oltre al bel carattere calligrafico merita il premio.

Nella  sezione “Ambiente” il 1^ premio a un inconsueto primo piano nella foto del sudafricano  Neil Aldridge,  un rinoceronte cucciolo in procinto di essere immesso di nuovo il 21 settembre nell’ambiente naturale del Botswana per preservare una razza a rischio di  estinzione per i bracconieri, il motivo del premio  francamente ci sfugge, la benda rossa sembra una costrizione, non una tutela. Ben più espressiva dell’ambiente con le sue insidie ci è sembrata la foto, cui è andato il 2° premio,  del tedesco Thomas P. Peschak che il 1° maggio riprende nell’antartide sudafricano un albatro  con la testa grigia arrossata dal sangue per il morso dei topi che hanno invaso il suo habitat naturale. Altrettanto eloquente il messaggio che viene dalla foto che ha avuto il 3° premio, dello stesso Peschak, sul rischio di estinzione evocato il 1° marzo con una panoramica sullo sparuto gruppo di pinguini ripresi ad Halifax in Nabibia, mentre in primo piano si vede la foto scatatta nello steso punto prima di fine ‘800,con una colonia allora d 00,000 esemplari.

Dall’Ambiente alla “Natura” il passo è breve, come tra “Notizie generali” e “Storie d’attualità”.  I premi sono andati a primi piani di rari esemplari, indubbiamente belli, ma la natura non è solo questo. All’aquila di mare testa bianca fotografata il 14 febbraio dall’americano  Corey Arnold  mentre fruga tra i bidoni della spazzatura  di un supermercato in Alaska il 1° premio, in omaggio al messaggio che trasmette; il 2° premio ai pinguini salta rocce ripresi il 18 aprile mentre saltano tra un masso e l’altro nell’antartico sudafricano dal tedesco Peschak, già insignito del 2° e 3° premio nella sezione Ambiente, a riprova della evidente  convergenza tra le due sezioni;  il 3° premio all’immagine subacquea del pesce volante  ripreso il 18 agosto dall’americano Michael Patrick O’ Neil, la sua velocità forse rende straordinario averne fissato l’immagine, di qui il premio.

Per l’ultima sezione, “Sport”, sono state premiate tre documentazioni molto diverse: Il 1°premio al britannico Oliver Scarff che il 28 febbraio ha ripreso una accanita mischia in una contea del Regno Unito, per una partita di football arcaico, un bianco e nero il cui pregio sta solo nell’aver ripreso il furore collettivo, lo sport ci sembra entrarci ben poco. A un’altra mischia fotografata il 17 giugno dall’irlandese Stephen Mc Carthy il 2^ premio, questa volta di rugby, quindi fa parte del gioco, il pregio è nella composizione pittorica dell’immagine, sulla mischia una grande pennacchio di fumo, forse un petardo, gli spettatori solo intravisti nel fondo scuro, protagonista la fumata che s’innalza. E’ la foto del francese Erik Sampers, cui è andato il 3° premio, la più spettacolare, riprende il 14 aprile la partenza di una tappa della “Maratona della sabbia” nel Sahara, il contrappunto tra le dune del deserto sconfinato e le piccole figure dei maratoneti  fa sentire l’impegno sovrumano dei partecipanti che si avventurano verso l’ignoto, un messaggio inedito in omaggio allo sport.

I “reportage” premiati

Nei “reportage” non è un’immagine, ma una sequenza, a trasmettere la narrazione dell’evento, pur senza perdere la capacità di trasmettere il messaggio con immediatezza e forza espressiva. Passiamo in rassegna  i “reportage” premiati alla ricerca di ciò che non abbiamo trovato nelle foto singole,

Seguiamo lo stesso ordine tematico  per facilitare gli opportuni raffronti, iniziando con “I volti”, e troviamo subito immagini e vicende coinvolgenti. Il 1° premio ai ritratti di ragazze nigeriane rapite dai miliziani di Boko Aram, un crimine che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. L’australiano Adam Ferguson ne presenta 6, le ha fotografate a Miduguri in Nigeria dal 29 agosto al 22 settembre, nell’oscurità avvolte in abiti colorati, il volto semicoperto, erano destinate ad attentati suicidi ma sono riuscite a fuggire, il fotografo riesce a creare un’atmosfera misteriosa  e inquieta. Ancora a delle immagini di ragazze il 2° premio, l’americana Anna Boyiazis ne  fotografa alcune di Zanzibar in tutt’altra atmosfera, riprese nell’acqua mentre si godono la libertà di imparare a nuotare superando con costumi da bagno integrali, con il Progetto Panje, le rigorose restrizioni islamiche. I “volti” del 3° premio nella realtà sono 4nudi  di prostitute, di cui si indica nome e storia,  riprese tra il 29 marzo e il 7 dicembre nelle loro case di San Pietroburgo dalla russa Tatiana Vinogradova, l’immagine che ritrae  dal retro Alena distesa sensualmente richiama un famoso nudo pittorico.

Cambia tutto con “Spot News”, irrompono gli eventi tragici che sconvolgono il mondo, il 1° premio all’americano David Becker che il 1° ottobre riprende la strage compiuta da Stephen Paddock a Las Vegas, 56 morti, nel contrasto tra i rutilanti edifici di sfondo alla tragicità del primo piano. Il 2° premio al britannico Toby Melville per le foto del 22 marzo all’attentato di Khalid Masood: lanciando il Suv sul marciapiede  del ponte di Westminster semina la morte,  5 uccisi  e 40 feriti, coglie momenti singoli, come gli occhi sbarrati della turista americana che ha perso il marito. Alle fiamme che investono un manifestante il 3° premio, lo stesso evento che ha avuto il !° premio nelle foto singole, ma ripreso il 3 maggio da un altro fotografo, il venezuelano Juan Barreto,  che allarga il campo oltre  Salazar Balza in un’immagine ancora più sconvolgente di quella di Schemidt, oltretutto proclamata foto dell’anno, non foss’altro perché non si vede la maschera antigas.

La pace non torna nei “reportage” premiati nella sezione “Notizie generali”, all’irlandese Ivor Prickett il 1° premio per delle immagini, riprese dal 16 gennaio al 16 settembre,  sulla riconquista di Mosul da parte degli iracheni, alcune mostrano l’atteggiamento attonito o disperato di due donne dinanzi alla morte di familiari, altre gli effetti di un’autobomba con attentatore suicida e un bambino usato come scudo umano, accudito dai soldati che hanno arrestato il presunto padre, straordinaria l’immagine della fila alla distribuzione del cibo, con in primo piano donne intabarrate nei burka e bambine che si stringono a loro. Tragedia anche nelle foto del canadese Kevin Frayer, cui è andato il 2° premio per aver documentato, dal 19 settembre al 2 novembre,  il dramma che sconvolge il Myanmar riprendendo la fila dolente di profughi nel Bangladesh in una bella immagine calligrafica, e, in sequenza, la disperazione dei bambini e la spossatezza di una famiglia che ha raggiunto la meta, un’immagine toccante, da iconografia cristiana, che meritava di più. Profughi anche nel “reportage” cui è andato il 3° premio,  una sequenza molto intensa dell’italiano Francesco Pistilli che ha ripreso afghani e altri  bloccati in Serbia, i loro occhi e la desolazione restano impressi.

Le “Storie d’attualità” ci offrono, con il 1° premio  all’egiziano Heba Khamis,   la sequenza agghiacciante, ripresa dal 6 novembre al 7 dicembre, della pratica tribale in Camerun di appiattire i seni delle bambine per ritardarne lo sviluppo nell’assurdo intento di proteggerle dalle avance sessuali, i volti tristi delle vittime di questi abusi sono eloquenti. Dal medioevo africano alla modernità consumistica nel “reportage” cui è andato il 2° premio, dell’americano George Steinmetz che, tra il 13 giugno 2016 e il 9 luglio 2017, riprende una coppia cinese a colazione davanti ai grattacieli di Shangai e migliaia di tavolini alla festa del gambero  nello Jiangsu, poi allevamenti estensivi di cetrioli di mare e polli, ed essiccazione di alghe marine, nulla di eclatante, ma almeno rasserenante. E’ solo una pausa, con il 3° premio torna l’attualità inquieta, il norvegese Espen Rasmussen  fotografa, dal 23 settembre al 1° ottobre,  dimostranti di estrema destra  dopo il raduno di Charlottesville, già interessato da un altro premio, il leader dei My Brothers Threepers, Danny Bollinger,  disteso sul divano col revolver in pugno, fino alla fierezza di Tommy Kinder col suo fucile a Fort Creek in West Virginia, il ritratto della rude tradizione  americana dei West-

Con la sezione “Ambiente”  i paradossi e le criticità del pianeta.  il 1° premio alla società olandese NOOR Images documenta l’invadenza dei rifiuti nella società consumistica con foto riprese dal 23 febbraio al 9 luglio a Lagos in Nigeria, Tokyo in Giappone, San Paolo in Brasile,  discariche e stabilimenti di riciclo si succedono in immagini che rendono con efficacia l’entità del fenomeno. Dai problema dei rifiuti a quello speculare dell’alimentazione, il 2­ premio è andato all’italiano Luca Locatelli che, dal 2 ottobre 2016 al 9 marzo 2017,  ha ritratto vastissime distese di produzioni specialistiche in serre in Olanda, con questi metodi avanzati il piccolo paese è diventato il secondo esportatore al mondo dopo gli USA. Con il 3° premio, allo spagnolo  Daniel Beltrà, per il “reportage” dal 19 gennaio al 18 febbraio, l’ambiente  torna con prepotenza nella stupenda immagine degli ibis rossi che sorvolano  la pianura alluvionata brasiliana nello stato dell’Amapà, ma ci sono anche le immagini ammonitrici della deforestazione dell’Amazzonia.

Nella sezione “Natura”  l’ambiente dovrebbe manifestare la sua conturbante bellezza. Con il 1° premio all’americana Ami Vitale  viene dato il riconoscimento alla sequenza, ripresa tra il29 settembre 2016 e il 23 febbraio 2017, dei cuccioli di elefante nutriti e riabilitati per il reinserimento, con un primo piano veramente suggestivo del cucciolo accarezzato amorevolmente.  Dagli elefantini alle scimmie con il 2° premio all’olandese Jasper Doest che, dal 15 gennaio 2016 al 2 ottobre 2017  ha ripreso i macachi che vivono con l’uomo e vengono addestrati, con tutto il rispetto possiamo dire di non aver compreso le ragioni del premio. Invece ci sembra più che meritato, anzi lo avremmo messo al primo posto, il 3° premio al tedesco Thomas P. Peschak, con delle immagini  straordinarie riprese dal 13 aprile al 22 agosto nell’arcipelago delle Galapagos,  dalle iguane marine  ai granchi rpresi nell’habitat acquatico,  fino  alle testuggini in un  cratere vulcanico.

E siamo all’ultima sezione, “Sport”, con il 1° premio al belga Alain Schroeder, che dal 17 al 25 settembre ha ripreso, nell’isola di Sumbawa in Indonesia, delle gare ippiche  con fantini giovanissimi su piccoli destrieri senza sella, ebbene, due immagini ci sono sembrate straordinarie, la ripresa frontale di una gara con tre concorrenti in corda sfrenata e il cavallo che si rinfresca con ancora in groppa il piccolo fantino nudo, i corpi nervosi sembrano ancora in corda, per noi è la foro dell’anno. Il livello scende notevolmente con il 2° premio, il colombiano Juan D. Arredondo ha documentato, tra il 16 e il 25 settembre, la trasformazione delle Forze Armate Rivoluzionarie colombiane  in movimento pacifico riprendendo partite di calcio maschili e femminili tra squadre formate da ex ribelli e vittime del conflitto, anche di questo premio ci sfugge la motivazione. Mentre per il 3° premio, assegnato a un reportage dal 18 al 22 febbraio sulla scuola spagnola di Almeria per ragazzi avviati alla corrida, abbiamo apprezzato la panoramica dell’area con tanti apprendisti toreri  che si addestrano, senza che vi sia il toro, e la bella immagine in cui un ragazzo fa da toro e l’altro lo attende con la muleta, il colore è suggestivo, l’atmosfera coinvolgente.

I tre migliori progetti speciali

Non è finita con l’ultima sezione, ci sono anche i “Progetti speciali”  con un podio unico. Il 1° premio al progetto Io sono Waldviertel”, seguito dal 19 luglio 2012 al 29 agosto 2017 dall’olandese Carla Kogelman che ogni estate ha trascorso diverse settimane con due sorelle, Hannah e Alena che vivono  in un villaggio bioenergetico austriaco con autoproduzione dell’energia necessaria.  Le sorelle vengono riprese in tutti i modi, alcuni primi piani sono veramente intriganti. Dalla bioenergia autoprodotta alla grande diga al confine tra Etiopia e Kenia, fondamentale per l’energia, e l’irrigazione, divenuta attrazione turistica con i suoi 240 metri di altezza. Il 2° premio à andato al progetto “Omo Change” dell’italiano Fausto Podavini, che, tra il 24 luglio 2011 e il 14 novembre 2017, ne ha seguito l’impatto sulla Valle dell’Omo e lo ha documentato con una serie di immagini  che vanno dagli indigeni, agli alberi secolari, agli allevamenti, alle infrastrutture e l’ambiente, le più spettacolari quelle della grande diga Gibe III e del delta dove l’Omo sfocia nel lagoTyrkana. Il progetto che ha avuto il 3°  premio fa tornare  al clima di violenza che tormenta il mondo, lo spagnolo Javier Arcenillas dal 5 agosto 2010 al 12 agosto 2017 ha seguito la violenza endemica in America Latina con le forze che la alimentano e la volontà della popolazione in cerca di pace. Fot impressionanti di violenza e di rabbia popolare, pestaggi e rapine, pistole e manette,

Concludiamo così la nostra rassegna di tutti i premiati nelle diverse sezioni, come foto singole e “repottage”; al di là delle riserve che possono esserci sulle specifiche assegnazioni dei premi – e che abbiamo sinceramente dichiarato esplicitamente  – non vi è dubbio che la galleria di immagini di Palazzo Esposizioni è coinvolgente, ci si sente al centro di quanto si è mosso nel mondo in un anno intenso come il 2017,  nella testimonianza visiva  dei protagonisti e testimoni diretti. Nomi e date per ciascun evento sono la prova dell’autenticità stringente che caratterizza il giornalismo, con l’approfondimento  che interviene nel giornalismo d’inchiesta e di denuncia. Nelle fotografie premiate  troviamo tutto questo ai massimi livelli, forse manca l’arte, ma non si può avere tutto.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Human, il futuro della specie umana nella mostra al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al  Palazzo Esposizioni, dal 27 febbraio al 1° luglio 2018,  la mostra“Human + Il futuro della nostra specie” presenta  una serie di evidenze sulle realizzazioni tecnologiche nelle direttrici scientifiche più avanzate riguardanti in particolare il potenziamento delle capacità umane e le prospettive dell’esistenza con tutte le implicazioni della rivoluzione già in  atto che anticipa il futuro. La mostra, realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, con un Team curatoriale di 9 membri e un  Comitato consultivo con 46 componentiè, a cura di Cathrine Kramer, che ha curato anche il catalogo bilingue.

Il Palazzo Esposizioni prosegue nella sua meritoria attività volta di approfondimento e  divulgazione, di tematiche legate al mondo scientifico : da “Astri e particelle” e “Darwin”  del 2009 a “Dna” del 2017 attraverso  “Meteoriti”“Numeri” e “Cibo”  del 2016.

Ora è il turno di “Human +” proiettato nel “futuro della nostra specie”, come recita il sottotitolo: futuro evocato attraverso avveniristiche ricerche e sperimentazioni scientifiche  evocate attraverso  le evidenze progettuali  delle sofisticate tecnologie e dei campi di applicazione sempre nuovi, documentate in modo esauriente nei pannelli illustrativi.

I traguardi raggiunti dalla scienza – come spiega il Commissario del palazzo Esposizioni Innocenzo Cipolletta – vengono presentati “in parallelo ad altri aspetti della cultura contemporanea”,  dato che “l’arte fa da ponte con la scienza dando  una diversa interpretazione della realtà, sollecitando interrogativi e un approccio dialettico”.  Ciò che viene evidenziato soprattutto sono le potenzialità dell’essere umano, in gran parte inespresse, e la possibilità di mobilitarle  per “un futuro migliore con vantaggi che sino a poco tempo fa erano solo un’utopia”.

Il potenziamento delle facoltà umane al centro della mostra

Punto centrale di “Human +” è il potenziamento artificiale delle facoltà umane, realizzato anche attraverso protesi e interventi più o meno invasivi, che non deve essere visto come un fatto inedito connesso agli eccessi del modernismo, perché dalla scrittura agli occhiali alle lenti a contatto  si è sempre fatto così con le tecnologie esistenti al momento, che oggi  hanno moltiplicato la loro straordinaria potenza.  L’uso della tecnologa per progredire ha favorito la crescita della popolazione umana,  dai 200 milioni di 2000 anni fa agli attuali 7 miliardi, in condizioni di vita di gran lunga migliori.

D’altra parte, come ha ricordato la ricercatrice Juliana Adelman, intervistata dal curatore della mostra, “siamo una specie come un’altra che deve soddisfare esigenze specifiche per sopravvivere, Gli esseri umani si sono  dimostrati incredibilmente adattabili  e così hanno avuto un successo straordinario nel gioco della sopravvivenza”.  ma oggi le cose sono diventate più difficili: “Oggi abbiamo di fronte un futuro che sembra mettere a repentaglio proprio questo successo”. Cita l’esplosione demografica, l’impoverimento dellei i cambiamenti ambientali globali che “lasceranno tutti un segno indelebile sul futuro della nostra specie”. E si chiede: “L’ingegno umano riuscirà a trovare una via d’uscita dalla nostra situazione attuale?

Secondo Mc  Luhan  “la tecnologia è la cosa più umana che abbiamo”, come estensione di noi stessi  tale dar aumentare le nostre capacità ma anche da moltiplicare le nostre ansie perché  al cambiamento non corrisponde sempre un effettivo progresso. Ed è proprio questo un nodo cruciale che il titolo della mostra evoca aggiungendo un + ad “Human” nel senso di dare una direzione positiva all’azione della tecnologia.

Viene evocato il rischio che l’ampliamento artificiale di certe capacità può comportare la perdita delle abilità tradizionali, E sulle abilità viene sottolineato che sono proprio i diversamente abili, colpiti da minorazioni fisiche, ad essere  le avanguardie delle tecnologie di potenziamento effettivamente impiegate; al punto da ipotizzare delle Olimpiadi Extraspeciali riservate  a coloro che vengono dotati di superpoteri con protesi particolarmente avanzate; già nell’atletica abbiamo visto come le protesi a gambe di ghepardo sostitutive degli arti inferiori  fanno superare del tutto un handicap motorio apparentemente incolmabile.

Oltre ai diversamente abili un importante campo di applicazione è quello militare soprattutto negli USA per i reduci dalle guerre, in particolare iraq e Afghanistan  che hanno riportato gravi  mutilazioni per le quali vengono studiate protesi non soltanto meccaniche ma anche neurali controlla te da un’interfaccia cervello-computer.

Le linee di sviluppo maggiormente esplorate sono quelle del trapianto degli organi, tanto che è stato istituito il “New Organ Prize” che si propone di assegnare 10 milioni di dollari a chi trapianterà un nuovo organo entro il 2020. Il movimento transumanista è impegnato per il prolungamento della vita e della giovinezza, anche attraverso le cellule staminali che permettono di creare parti del corpo da sostituire a quelle deteriorate con l’età ed i cloni, finora evocati nella letteratura fantascientifica.

Viene ipotizzato che l’Homo sapiens sarà superato dall’Homo evolutus , in grado di controllare il proprio destino biologico, del resto le conoscenze sul DNA e sulle possibilità di modificarlo pongono già su questa strada. ma non vengono ignorate le conseguenze sul piano sociale, ecologico e ambientale che fanno ritenere utopiche le prospettive avveniristiche di prolungare la vita in modo indefinito mediante la medicina rigenerativa.

Se questo è vero,  non può essere nascosto neppure quello che viene definito “il rovescio della medaglia del principio di precauzione”,  cioè “i costi e l’etica dell’inazione” insita nella volontà autolesionista di  “non perseguire i miglioramenti del benessere umano nei modi desiderati da individui o gruppi, fatto sempre salvo, ovviamente, che questi miglioramenti non violino i diritti degli altri”.

Tanto più che nel momento attuale le possibilità sono moltiplicate – come ha detto Charles Spillane,docente e ricercatore, anche lui intervistato dal curatore della mostra – “per via dei progressi tecnologici convergenti nel campo della robotica e delle nanotecnologie, dell’informatica, con l’intelligenza artificiale, delle scienze cognitive e delle biotecnologie”, considerando che “le tecnologie convergenti tendono a generare innovazioni rivoluzionarie” che offrono “entusiasmanti possibilità per il potenziamento umano”. .

Dopo queste anticipazioni, la presentazione della mostra conclude così: “A metà tra un negozio di dolciumi e una farmacia, “Human+” ci propone un mondo di pillole, promesse e protesi alla Alice nel paese delle meraviglie. I progetti in mostra sottolineano la natura fragile  e imprevedibile dei possibili percorsi futuri, invitandoci a riflettere sui diversi aspetti , costi e conseguenze  inattese del potenziamento dell’essere umano”.

in sostanza vengono presentati progetti in fase avanzata di realizzazione che danno un’idea sulle prospettive concrete di potenziare le capacità umane e pongono al contempo l’accento sulle scelte che dovranno venire compiute, soprattutto a livello collettivo perché sul piano individuale già avvengono, se si considera il numero di coloro, peraltro sempre più ridotto, che rifiutano  computer  e posta elettronica  subendo in tal modo, più o meno consapevolmente,  limitazioni nella vita personale e professionale.

E, aspetto di particolare interesse per un sito culturale, la rassegna tecnologica  è corredata da opere di  artisti, la cui importanza va oltre la mera testimonianza. Infatti,  la prospettiva “basata totalmente, o quasi, su una idea di progresso basata  totalmente, o quasi, su un’idea di progresso all’insegna dell’idea di miglioramento tecnologico” viene opportunamente integrata, se non corretta: “A ben guardare – afferma Valentino Catricalà di “Mondo digitale”– , una nuova rilettura di questa visione può partire proprio dagli artisti selezionati nella sezione italiana di questa mostra, il cui principio  di selezione si è basato soprattutto sul tentativo di dare uno sguardo nuovo,più contemporaneo, a questi fenomeni”.

Protesi e interventi, strumenti e robot, macchine e cyborgismo

“Capacità aumentate”, la 1^ sezione della mostra, riguarda i metodi fisici, chimici e biologici che possono essere adottati per potenziare la mente  e il corpo.  Sono presentate diverse protesi, tra quelle realizzate alcune sostituiscono parti del corpo deficitarie, altre servono a potenziare le prestazioni della persona, fino al congegno che stimola emozioni particolari.

La prima protesi presentata è quella in fibre di carbonio modellata sulle Gambe del ghepardo per Aimee Mullins, nata senza peroni, con le gambe amputate sotto al ginocchio. Era destinata a una sedia a rotelle mentre ai giochi  paraolimpici del 1996 ha stabilito addirittura i record mondiali dei 100, 200  metri piani e salto in lungo, è sfilata sulle passerelle di moda e nel 2011 è diventata ambasciatrice globale per una grande casa di cosmetici, l’Oreal Paris, una icona positiva.

Sono esposte anche le Protesi a basso costo del programma FabLab, dell’House of Natural Fiber Sprint,in particolare regolabili per gli arti inferiori a un costo di produzione  addirittura inferiore a 50 dollari, in tal modo offrono la possibilità di far fronte a una domanda di protesi in forte crescita ostacolata dagli alti costi che invece vengono abbattuti.. Gli utenti finali sono coinvolti nel progetto realizzato con una rete globale di altre 400 FabLab, che va, MIT di Boston ad Amsterdam, da Nuova Delhi all’Indonesia.

Nello stesso campo incontriamo il “Progetto per arti alternativi” creato da una designer di protesi ortopediche, Sophie de Oliveira Barata su sollecitazione di una ragazza, Polyanna Hope, che ogni anno le chiedeva una protesi diversa, e di una cantautrice e modella, Vikatoria Modesta, che le commissionava protesi alternative per la gamba sinistra amputata in grado di cambiare la percezione della disabilità valorizzandola come bellezza, ha progettato anche un braccio bionico.

Sulla bellezza, “Tagliare lungo la linea” mostra la performance dell’artista Regina José Galindo, che ha fatto evidenziare con un pennarello da un famoso chirurgo plastico venezuelano, Billy Spence, le parti del corpo che avrebbe  modificato per raggiungere i canoni della bellezza, in tal modo il corpo viene paradossalmente decostruito in forme astratte su aspettative irrealistiche.

Impressionante la provocazione del performer anticonformista americano Bryan Lewis Sauders che dal 1995 dipinge “Un autoritratto al giorno”, ne ha realizzati 10.000 e intende proseguire ponendosi al centro delle raffigurazioni del mondo, e per meglio esplorare la percezione di se stesso lo ha fatto anche assumendo ogni giorno droga e .registrando i suoi cambiamenti correndo gravi rischi.

In questa ricerca che va fino all’autolesionismo si inserisce l’Impianto a Los Angeles del terzo orecchio dell’artista Serlac”nel braccio sinistro per il progetto “Extra Ear” in una serie di grandi fotografie dell’australiana Lina Sellars della serie “Obliquo” che è “situata tra il teatro chirurgico e la teatralità del barocco”.

Un “Casco deceleratore”,di Lorenz Potthast, esposto in mostra, dà una “percezione personalizzata” al rallentatore che muta il rapporto con il tempo nel divario verso la percezione temporale, nelle modalità “Auto” automatica, “Press” scelta autonoma, “Scroll” in sequenza scorrendo nel tempo.

Si può indossare anche la “Macchina Avatar”, di Marc Owens, che trasmette scene di vita reale come fossero di una terza persona in una “visione extracorporea di se stesso in tempo reale”, mescolando spazi reali a spazi virtuali  che sono regolati da norme e comportamenti sociali diversi.

Ugualmente indossabili i prototipi della serie “Superpoteri animali”,di Chris Woebken e Kenichi Okada, con i quali si possono acquisire le capacità straordinarie, ad esempio, degli uccelli e delle formiche, a seconda dell’apparato scelto, migliorando così il proprio rapporto empatico con questi esseri.

Ci si avvicina così alla disumanizzazione tecnologica del Cyborgismo attraverso il “Braccio sismico e la testa sonocromatica”realizzati dalla Cybor Foundation applicando la cibernetica alla biologia. L’antenna installata nel cranio del fondatore, Neil Harbisson,gli fa percepire i colori visibili e invisibili come onde sonore anche provenienti da televisione, cellulari, Internet. e  i terremoti.

“NoBody’s Perfect”, che conclude la sezione, è un documentario del regista tedesco  Niko Von Glasgow, sulla paradossale proposta a 11 colpiti dalle deformazioni del Talidomide di posare nude per un libro fotografico in grado di evocare curiosità, entusiasmo od orrore secondo i casi con cui hanno reagito a tale proposta.

Relazioni umane e tecnologiche in ottica avveniristica

La 2^ sezione, “Incontrare gli altri”, è sull’invadenza nella vita dell’intelligenza artificiale, . e si apre con “Area V  5”, di Louis.Philippe Demers, ul dialogo con le macchine mediante gli occhi e il disagio creato dai robot.

Due Robot indisciplinati”, di Heidi Kumao, rovesciano il tradizionale concetto delle macchine perfette e ubbidienti  e si ribellano ad ogni indicazione comportandosi in modo del tutto incontrollabile.

Ma c’è anche il primo libro scritto da un computer, “True Love” una variante di Anna  Karenina in cui l’intelligenza artificiale ha cercato di rendere in vero amore basandosi su 17 classici smembrati e ricomposti nel 2008 in un’opera del tutto nuova dal caporedattore russo Alexander Prokopovic.

Si torna agli animali e agli Avatar con “Tardigotchi”, un microorganismo vivente e un suo Avatar artificiale convivono in una sfera di ottone, ma hanno comportamenti differenti pur se  correlati, autori gli artisti Douglas Easterly e Matt Kenyon con il progettista Tiago Rorke.

Un “Dispositivo empatico improvvisato“, degli stessi autori ora citati,  traduce i dati del sito web sul numero di soldati americani uccisi in punture al braccio dell’utente per mantenere viva la sua attenzione ad ogni messaggio.

Impressionanti le immagini dei robot ritratti nei laboratori di ricerca dal francese Yves Gellie, , sono denominati “Versione umana 2.0” per il loro aspetto umanoide non solo esteriore, entreranno nella vita quotidiana.

“Utopia  di chi?” è un video dell’artista multimediale cinese Cao Fei che mostra il contrasto tra aspirazioni dei lavoratori e vita quotidiana, in un sistema in cui mentre le macchine sono dotate di intelligenza, gli uomini sono portati ad agire come macchine rinunciando alla propria creatività.

In un ambiente artistico è nata anche La macchina per essere un altro”, del  BeAnotherLab, che fa vivere esperienze altrui come le proprie mediante un visore con il quale si osserva il mondo “nei panni degli altri”.

E’ ispirata anch’essa alle relazioni sociali, questa volta molto strette,  la Teledildonica per relazioni a distanza”,della Kiiro di Amsterdam, vicina al quartiere a luci rosse: consente “rapporti sessuali tattili via computer”, assicura la Kiiro,  “potrai connetterti intimamente con chiunque, dovunque”.

I rapporti con l’ambiente e la natura

Dal rapporti personali a quelli naturali, nella 3^ sezione, “Essere artefici del proprio ambiente”, il Progetto di impollinazione umana” dell’americana Laura Allcorn con il kit per l’impollinazione manuale fa sentire la responsabilità di sostituirsi alle api per assicurare la necessaria impollinazione.

E rispetto alla natura va fronteggiata la possibile carenza di cibo rispetto alla sovra popolazione, con “Foraggeri” dei britannici Anthony Dunne Fiona, dispositivi di biologia sintetica per realizzare “batteri dello stomaco” in grado di incrementare i valori nutritivi degli alimenti sempre più scarsi.

Sempre in campo alimentare “Il nostro pane quotidiano”,un film di Nikolaus Geyrhalter con cui vengono mostrati i sistemi e le tecnologie delle moderne aziende per massimizzare la produzione.

Un altro film dello stesso autore presenta uno scenario sulla fragilità della vita umana con la fine dell’era industriale,  la disgregazione e desolazione del pianeta, si intitola “Homo sapiens”.

L’impatto dei progressi della scienza, e delle biotecnologie, con l’interazione tra cultura e natura è al centro della rassegna di “Organismi europei”,  per lo più geneticamente modificati, del Center for PostNatural History, che fa riflettere sulla loro diversità nella storia naturale  e postnaturale.

In “Nuova città: macchine di produzione umana e post-umana” il regista cinematografico australiano Liam Young presenta immagini urbane con le profondi distorsioni indotte dalle nuove tecnologie, una fabbrica sconfinata con schiere di robot e il corpo umano è come una macchina.

La genetica del futuro, la durata della vita

Nella 4^ sezione, “La vita ai limiti”, ci si pone l’interrogativo sui limiti della manipolazione genetica negli organismi viventi, si inizia con le manipolazioni del corpo umano, nelle Trasfigurazioni”di Agatha Haines si vedono 5 sculture di neonati su cui si è intervenuti. chirurgicamente per modificare il loro corpo positivamente, evidenti i problemi etici e non solo.

Dopo questa problematica,  quella dei “Futuri riproduttividi Zoe Papadopoulou e Anna Smajdor, esplora i mutamenti indotti dalle metodologie di procreazione assistita e dalle  tecniche genetiche, come i gameti artificiali da cellule staminali,da cellule somatiche incidenti sull’origine della vita.

Le Bambole scacciapensieri semiventi”sono sculture di ingegneria tissutale realizzate dal 2000  dal “Tissue Culture and Art Project”, si tratta dell’uso delle cellule  viventi per rigenerare tessuti e, potenzialmente, organi, le bambole sono il simbolo di una fase ancora carica di dubbi e di speranze.

Speranze che riguardano anche la possibilità di rallentare fino a invertire l’invecchiamento Il progetto di Jaeim Paik esplora le conseguenze familiari e sociali di Quando vivremo fino a 150 anni”, con sei generazioni che si troverebbero a vivere insieme e gli inevitabili modelli alternativi.

Abbiamo specularmente la problematica dell’interruzione anticipata della vita con le Montagne russe eutanasiche”,macchine che con le accelerazioni e rallentamenti visualizzano i diversi effetti, dall’euforia al brivido nella “scultura cinetica” del “viaggio fatale”, autore Julijnas Urbonas.

L’eutanasia e anche la fine naturale dell’esistenza evocano “La vita dopo la morte”,  non sul piano religioso ma tecnologico, viene mantenuta in una batteria  a secco che raccoglie e mantiene il potenziale elettrico del corpo, in questo modo James Auger e Jimmi Loizeau hanno  reso possibile conservare la propria energia o quella dei propri cari se si vuole la certezza di mantenere la vita.

L’umanità nelle sculture cinetiche e digitali e nelle macchine

E siamo alla patte artistica della 4^ Sezione dal titolo “Umano, sovrumano”.  che inizia con “Ghostwriter”, del collettivo Aos di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, che scrive la nostra autobiografia a nostra insaputa con algoritmi che utilizzano i frammenti del nostro essere digitale attraverso le tracce che lasciamo  nei social network, e mail, carte di credito, ecc.

Questo evoca il controllo della nostro immagine sulla rete, cui è dedicata “Obscurity”del net-artist Paolo Sirio, che ha clonato i principali siti web per nascondere le informazioni su 15 milioni di arrestati negli Usa sfuocando le immagini all’insegna di un loro diritto alla “privacy”.

Siamo invece nella “tortura programmata” della macchina informatica con “J3RR1”, del gruppo romano “None collective”, è sottoposta a stress continuo e cerca di migliorarsi senza sapere come.

Ed ecco la scultura cinetica Leonardo sogna le nuvole”, di Donato Piccolo, che riproduce il volto di “Guerriero” di Leonardo da Vinci, ritenuto il suo, muove le labbra ed espelle fumo, con un atteggiamento disteso in rapporto sereno con la macchina, e non potrebbe essere altrimenti.

Dello stesso autore Sebastiano (il Nottambulo)”,scultura ispirata al modello del ritratto ancora di Leonardo da Vinci, con la figura piegata e dei pennarelli che disegnano mossi da bracci robotici, vari significati filosofici insieme al segno dell’accoglienza della tecnologia fino a scherzarci sopra.

Altri bracci robotici in “Equilibrium variant”, di Roberto Pugliese, questa volta c’è un microfono da un alto del braccio, dall’altro uno speaker in un rapporto uomo-macchina in cui si cerca di continuo un equilibrio sempre instabile attraverso due bracci robotici che si rincorrono incessantemente.

Si torna alla scultura, questa volta digitale, con “Matter”, dell’artista visivo londinese Quayola, un blocco di materia che muta continuamente, passando da varie forme all’informe, si tratta del “Pensatore” di Roden, definito “il corpo della tradizione scultorea occidentale”, e in quanto tale metafora di noi stessi e del sottile confine tra percezione razionale e visiva, formale e informale.

Abbiamo citato tutte  le realizzazioni presentate in mostra in modo quanto mai coinvolgente, in una sorta di galleria tecnologica che apre gli occhi su quanto di avveniristico viene esplorato e fa anche riflettere sulle prospettive e insieme le incognite che si aprono nel futuro che è già iniziato.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale, Roma, Catalogo “Human +. Il futuro della nostra specie”, a cura di Cathrine Kramer,  Azienda Speciale Palaexpo, Science Gallery at Trinity College of Dublin., pp- 160. formato 17 x 23, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le precedenti mostre al Palazzo Esposizioni su temi scientifici cfr. i nostri articoli, in questo sito:

Anamorfosi, la magia delle immagini “ricostruite” a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

La mostra “Curiose riflessioni. Jean-Francois Niceron, le anomorfosi e la magia delle immagini”, presenta, a Palazzo Barberini, dal 7 marzo al 3 giugno 2018,   alcune opere realizzate dall’artista francese con la tecnica dell’anamorfismo, su cui scrisse anche un trattato, tecnica che viene fatta conoscere nei suoi aspetti tecnici, legati alla prospettiva e alla rifrazione ottica, e negli i aspetti psicologici di “immagini riflesse che fanno riflettere”.  Ma mostra, che rientra  nel programma didattico per il  2018 di divulgazione didattica e scientifica sui rapporti tra Arte, Geometria e Matematica, è a cura di Maurizia Cicconi e Michele Di Monte.  

La  direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica continua nella valorizzazione della propria sterminata collezione ponendo di volta in volta sotto i  riflettori di una mostra temporanea una componente particolare,  associando ad essa  opere di raffronto con prestiti  mirati da altri musei. Anche in questo caso ci sono 2 opere da appositi prestiti,  che si aggiungono a  un gruppo di opere della collezione della Galleria molto speciali.  

Il  trattato di Niceron sull’anamorfismo, in francese e latino

Sono le cosiddette “anamorfiche”, opere che per risultare comprensibili devono essere osservate dal solo punto di vista nella posizione corretta, oppure attraverso un apposito strumento. E’ un fenomeno che suscitò molto interesse nel 1600, con l’avvento del barocco, nell’ambito degli studi di geometria prospettiva e di ottica, dopo che nel 1500  si era dedicata speciale attenzione alla prospettiva.

Alla base dell’interesse per questa curiosità ottica oltre alla motivazione scientifica ve ne fu una  culturale:  nelle concezioni estetiche del ‘600 imperava il fascino dell’illusione rispetto alla realtà, l’attrazione per i contrasti fino  ai paradossi, e  veniva ritenuta  dominante l’esperienza  visiva con le sue metafore. Il tutto illustrato in un trattato  del teologo e matematico francese Jean-Francois Niceron  (1613-1646), pubblicato  in francese a soli 25 anni, nel 1638, l’anno della prima messa sacerdotale,  e dalla versione  in latino uscita postuma nel 1646, pochi mesi dopo la sua morte. 

Non si limitò a definirne gli aspetti teorici, come “pittore di anamorfosi”, realizzò un affresco con i canoni dell’anamorfismo a Roma, nei corridoi di un convento a Trinità dei Monti,  e anamorfi circolari decrittate da uno specchio cilindrico, nonché una serie di altre opere esposte in mostra. 

Sono introdotte da un esemplare del suo trattato in francese Le Perspective curieuse, magie  artificielle des effects mervelleuux de l’optique  par la vision  directe”,e della seconda opera, la versione in  latino, Thaumaturgus opticus, seu Admiranda Optice, per radiun directum…”,  esposte con un’apparecchiatura digitale che consente di sfogliarne virtualmente le pagine e vederne il testo corredato da disegni e immagini. La prospettiva lineare viene analizzata in 4 libri, dopo gli aspetti generali delle anamorfosi nel  primo, nel secondo quelle piane, nel terzo le immagini catottriche e nel quarto le anamorfosi diotriche. Nell’opera in francese, in 25 tavole, disegnate da lui e incise da Jean Blanchin, si trova esemplificata la costruzione prospettica e la pratica pittorica; in apertura, un gruppo di putti, nell’incisione di Pierre Daret, impegnati negli esperimenti ottici descritti nel trattato,  osservando la ricostruzione  catottrica con uno specchio cilindrico, un cono a specchio e un cannocchiale prismatico. Nell’opera in latino c’è una tavola, la n. 33, in cui si ricostruisce la realizzazione della pittura murale anamorfa nel convento di Trinità dei Monti  

Non è disegnato, ma esposto a disposizione dei visitatori  uno strumento da lui utilizzato, il suo  “Cannocchiale anamorfico”, con il quale si possono vedere immagini insolite; ma il clou della mostra sono le sue pitture anamorfiche, veramente insolite e intriganti. Ne parleremo dopo aver illustrato l’anamorfismo, la natura di tale  fenomeno e la sua presenza in pittura.

Le premesse dell’anamorfismo nel ‘500, il forte sviluppo nel ‘600 con Niceron

Queste  premesse risalgono al 1500,”, allorchè l’anamorfismo fu analizzato non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico, del  resto l’ambivalenza della visione della realtà deformata in base al punto di vista era molto stimolante anche sul piano filosofico. Si citano i trattati di Barbaro, Lomazzo e Danti, considerati approssimativi, ma estesi all’aspetto teorico e a quello pratico, e il dipinto anamorfico di Hans Holbein, che, risale al 1533, è un ritratto duplice di “Ambasciatori”.

Ma è nel 1600, il secolo dell’ottica, che ci fu l’escalation, nel 1638 uscì la “Dioptrique” di Cartesio, sullo sdoppiamento della luce, ma già nel 1627 il celebre pittore francese Simon Vouet realizzò la prima anamorfosi cilindrica europea, il disegno  “Otto satiri  che osservano uno specchio anamorfico con un elefante”, forse l’ispirazione fu orientale. Dalla sua opera  Hans Trosxchel ricavò un’incisione con scritto “Format et illustrat”, cioè “realizza e spiega”  forme insolite incomprensibili. Seguirono ritratti e figure anamorfiche in Italia e in Francia in rapida diffusione fino a divenire di moda. 

Si può capire come in questo contesto uno dei più valenti matematici francesi del 1600 , Jean-.Francois Niceron, interessato in modo particolare alla geometria e all’ottica, potè compiere  passi decisivi. Come Bartoli, che era predicatore gesuita,  era un religioso, si formò presso le scuole dei Minimi di san Francesco di Paola, che era stato a lungo in Francia, come novizio studiò nei collegi di Nevers e Nigernn, ma per le sue doti  soltanto dopo pochi mesi fu ammesso  all’esclusivo Collegio  di Place Royale  ed entrò nell’ordine.  

L’ingresso nel prestigioso collegio parigino fu fondamentale,  per l’elevato livello culturale dell’istituto,  vi insegnava padre Marin Mersenne, teologo intimo amico di Cartesio, che eccelleva nella matematica e nella filosofia ed era in stretto contatto non solo con scienziati e filosofi francesi richiamati  dalla biblioteca molto fornita, ma anche con gli scienziati europei con i quali aveva rapporti epistolari. Tra i frequentatori  del cenacolo parigino di Mersenne vi era anche un consigliere del re Luigi XIII, Louis Hesslin, con cui Niceron strinse amicizia e così poteva utilizzare uno dei tanti strumenti scientifici di Hesslin, uno spettrografo molto preciso, addirittura se ne servì a Roma, a Trinità dei Monti per il grande affresco anamorfico.  

Nel 1630  era stato pubblicato“Perspective cylindrique et conique” , di Jean.Lous Vaulezard, che spiegava come immagini incomprensibili e deformate su una superficie piana fossero ricomposte in modo intelligibile viste riflesse su uno specchio cilindrico. su un cilindro a specchio. Non era una novità assoluta, dopo il disegno sull’anamorfosi cilindrica di Vouet nel 1627, ma diede la spinta decisiva a Niceron che l’anno dopo lo studio di  Valuezard, a 18 anni, fornì il disegno per il ritratto anamorfico di Jacques d’Auzolles de Lapeyre, un matematico sessantenne  che ne fece un’incisione inserita nel suo famoso trattato sulla cronologia pubblicato a Parigi nel 1638, “Mercure charitable”

In questo stesso 1638 Niceron pubblica la sua opera teorica in francese, citata all’inizio, presentata come un “divertissement”, tanto da scrivere di voler “occuparsi delle gentilezze della prospettiva curiosa, le quali, come hanno divertito lui e diustrattolo dalla serietà degli studi teologici, potranno non essere sgradevoli ai curiosi”.

Ma è evidentemente riduttivo, che non si trattasse soltanto di una curiosità lo dimostrano le opere scientifiche in materia, sopra citate, a partire dalla “Dioptrique” di Cartesio, e quelle successive, sulle  implicazioni psicologiche dell’anamorfismo, data la tendenza del barocco, in cui si era entrati, per le metafore e il fascino dell’illusione. Emanuele Tesauro nel 1654  scrisse “Cannocchiale aristotelico”, in chiave barocca  con nel frontespizio l’immagine della pittura  in un’anamorfosi cilindrica cui tre anni dopo   dedicò uno scritto elogiativo dal titolo “Il cilindro” definendolo “novello ritrovo di acutissimo ingegno”.  Così altri insigni personaggi e letterati, come Filippo Picinelli e Daniello Bartoli che scrisse dei trattati in materia.

Finché nel “secolo dei lumi”,  50  anni dopo la  morte di Niceron, addirittura Leibnitz, dall’alto della sua sapienza scientifica e filosofica, fa rifermento all’anamorfismo sia  nella sua opera del 1704, “Nouveaux Essais sur l’entendement human”, per spiegare le  “idee chiare e distinte sia  nell’opera del 1710, “Essais de Théodicée” e per il contrasto tra la presenza del male e la volontà di Dio,  così spiegato: “Le apparenti deformità dei nostri piccoli mondi si raccolgono in bellezza nel grande  e non hanno in sé nulla che si opponga all’unità di un principio universale”. Come nell’anamorfismo basta avere la visione corretta. 

Ma torniamo  a Niceron, lo troviamo nel 1639, l’anno dopo la pubblicazione delle “perspective curieeuse…”, a Roma come insegnante nel Collegio del suo ordine, quello del Minimi, a Trinità dei Monti. La sua caratura è tale che a 25 anni entra in quella che viene definita “la roccaforte politica e diplomatica dei reali francesi”, e riceve un’ulteriore spinta nel suo percorso anamorfico dal padre superiore Emmanuel Maignan, allora trentasettenne, specialista nella rappresentazione della volta celeste con la gnomonica, morirà nello stesso anno in cui scomparve Niceron a 33 anni,  nel 1646.

Addirittura tra i due nasce una vera e propria gara nel convento a Trinità dei Monti, dove Maignan ha realizzato un “astrolabio catottrico” nel 1637. Niceron nel 1642 dipinge in un corridoio un’opera monumentale di tipo anamorfico, con cui mette in pratica le sue teorie, raffigurando “San Giovanni Evangelista  che scrive l’Apocalisse nell’isola di Patmos”; nel corridoio opposto Maignan ritrae il fondatore dell’ordine, san Francesco di Paola, anch’egli in modo anamorfico.  

Cos’è l’anamorfismo 

Cos’è, dunque, quest’anamorfismo, di cui abbiamo dato soltanto un’indicazione sommaria? L’etimologia greca ne evoca la funzione di ricostruire la forma, partendo dalla prospettiva  esplorata sin dal ‘400 da grandi architetti come Brunelleschi e da grandi pittori come Piero della Francesca. Si parla di “perspectiva artificialis”, lineare, costruita immaginando l’osservatore posto di fronte, posizione dalla quale si può vedere l’opera con le sue componenti nella giusta prospettiva. Ma se il punto di vista si sposta lateralmente e la composizione viene raffigurata in una prospettiva laterale od obliqua,  si crea una “dissociazione o sdoppiamento” perché gli oggetti non saranno più riconoscibili dalla posizione frontale risultando deformati in modo più o meno vistoso.  

Per averne la visione corretta, con la relativa riconoscibilità, si dovrà “ricostruire”, “riformare”  l’immagine spostandosi dove  è stata costruita la proiezione prospettica; e allora avviene che l’oggetto è come se uscisse dal quadro e si ponesse non nella sua profondità ma tra la superficie dipinta e l’osservatore. Una teoria della  relatività pittorica, che cambia il punto di vista della realtà.  

Non finisce qui, non solo può mutare il punto di vista con le conseguenze cui si è accennato, ma la stessa superficie del piano su cui è raffigurata l’immagine può essere modificata e deformata, nel qual caso si ha lo sdoppiamento dell’immagine per altra via. 

A parte questa variante, quanto sopra si può verificare visivamente nel convento a Roma di Trinità dei Monti, nei quali le immagini dipinte rispettivamente da Niceron e Maignan viste da vicino percorrendo i due corridoi di cui si è detto, sono piccole figure immerse nel paesaggio, mentre ls visione d’insieme di scorcio dei 20 metri di parete del corridoio dà tutt’un’altra imamgine, tanto che Niceron ha intitolato il dipinto “L’apocalisse dell’ottica” nel senso di “rivelazione”, nel caso del significato della presenza di san Giovanni a Patmos.  

La “ricostruzione” dell’immagine, oltre che  mutando punto di vista e assumendo quello corretto, può avvenire utilizzando appositi strumenti, come il cono ma soprattutto il cilindro anamorfico di cui Niceron perfezionò l’utilizzazione. Si tratta della cosiddetta “catroptica”, per la quale si può vedere correttamente l’immagine, altrimenti indecifrabile se si guarda sulla superficie in cui è raffigurata, soltanto riflessa sulla superficie di uno specchio curvo, a forma conica o cilindrica, la cui “deformazione” compensa e corregge quella dell’immagine dipinta rendendola riconoscibile.  

Così si conclude la presentazione: La morale ‘anamorfica’, che pure non sfuggiva agli autori del Seicento, è che, talvolta,una doppia deviazione della verità è necessaria per ricondurci inaspettatamente alla verità stessa, se non a una verità ulteriore. Le anamorfi catoptriche non sono solo immagini riflesse, sono anche immagini che dovrebbero far riflettere”. 

Le opere ad “anamorfosi catottrica” presenti in mostra  

Guardiamo in pratica queste immagini, che fanno parte delle 4 opere delle Gallerie Nazionaili di Arte Antica, raramente esposte per le difficoltà di presentarle in modo adeguato, sono ritratti del 1635, quando l’artista aveva 22 anni, acquistate dal Ministero dell’Educazione Nazionale nel 1937 appositamente per le collezioni.  

Sono tutte ad “anamorfosi catottrica”, due ritraggono il Re  di Francia: la prima il “Ritratto di re Luigi XIII“, a  mezzo busto, con l’armatura, sopra la tunica da cui emerge  un colletto. L’altra “Re Luigi XIII davanti al crocifisso”, è inginocchiato con in testa la corona e sulle spalle la cappa con i gigli reali francesi, sopra un tavolo a fianco a lui un piccolo crocifisso di ebano con il Cristo in avorio, un angelo ha nella sinistra una tromba, nella destra due stemmi, lo scudo araldico dei Navarra, catene dorate su fondo rosso, e di Francia, gigli dorati in campo azzurro, molto deteriorato.  

La terza opera è dedicata al santo fondatore dell’ordine dei Minimi a cui l’autore appartiene, “San Francesco di Paola”,  forse l’immagine è ispirata a un’opera di Simon Vouet che lo conosceva e stimava, Niceron lo considerava un’autorità nell’applicare alla pittura  i dettami dell’ottica, di Vouet il frontespizio dell’opera in latino del nostro artista. . L’opera esposta sembra fosse destinata al Collegio dei Minimi di Palace Royale dove Niceron era stato ammesso per i suoi meriti. Il modo con cui ha raffigurato in modo anamorfico il santo, seguendo un procedimento semplificato,  è descritto  nel trattato in francese, “Perspective curieuse… “, pubblicato tre anni dopo questa e le altre 3 opere.  

La quarta e ultima opera esposta di Niceron, “Coppia di amanti”,  è piuttosto intima, l’uomo giarda la donna e cerca di accarezzarle la gamba nuda sotto la veste, mentre vicino a loro una donna cerca di ascoltare ciò che si dicono; il massimo studioso dell’anamorfosi, Jurgis Baitrusitis, proprio per l’erotismo alquanto lascivo ha messo in dubbio il riferimento a Niceron, per la sua spiritualità. Ma potrebbe essere, invece, il rifugio nell’anamorfosi per una rappresentazione erotica da nascondere.  

Il “Ritratto di Jean-Louis Niceron”  di Michel Lasne,  rinomato illustratore francese, allievo di Rubens e Van Dyck, incisore ufficiale del re Luigi XIII dal 1633, autore  di molti ritratti della famiglia reale. L’opera, prestata dall’Istituto Centrale per la Grafica, è l’unica raffigurazione di cui si dispone del nostro artista:  un’immagine ascetica  che lo ritrae in piedi, giovanissimo, nel saio dell’ordine religioso dei Minimi, e insieme simbolica, tiene con la destra una tavola indicata da un compasso, è la n. 13 di quelle dell’opera in latino recante  il prospetto di una sfera con piramidi a base quadrata, un nuovo tema rispetto all’edizione in francese, che può far pensare all’intenzione di ampliarla, vanificata dalla morte; altro riferimento simbolico, o il convento di Trinità dei Monti del suo soggiorno romano che si vede sotto un drappo sollevato. Questo ritratto è anch’esso inserito nell’opera latina della quale, ripetiamo, riproduce una delle tavola in essa contenuta, con una iscrizione che reca la data della sua morte e la giovane del soggiorno romano del 1642, e le parole celebrative: “Egregiis animi dotibus et singulari” e “theseos peritia celebris”,  

Le cinque opere sopra descritte vanno viste in una determinata prospettiva e angolazione per poterne ben decifrare le figure in esse rappresentate.  A tale riguardo ci si può sbizzarrire con il “Gioco ottico”, una ricostruzione effettuata nel 20018 dell’anamorfosi diottrica realizzata da Niceron nel 1642, prestata dal Museo Galileo di Storia e Scienza di Firenze. Si tratta di un dipinto con alcune teste di turchi che circondano un trofeo con tante bandiere, posto in verticale su una tavola orizzontale su cui è appoggiato un cannocchiale e lente poliedrica; guardando il dipinto con il cannocchiale, la lente attraverso rifrazioni multiple ricompone tanti frammenti in una figura unitaria al posto delle tante teste, è il ritratto del  granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici vissuto dal 1610 al 1670, Come per il ritratto di re Luigi XIII, il procedimento è spiegato ed illustrato in 3 tavole dell’edizione in francese del trattato di Niceron, la 23,  24 e 25.  In particolare, viene descritta la sfaccettatura delle lenti necessarie e si producono due esempi di ricomposizione di diverse immagini frammentate in un’unica immagine unitaria: la figura di re Luigi XIII si forma con la fusione di 12 ritratti di regnanti turchi,la figura di  papa Urbano VIII Barberini  con la ricomposizione diottrica di 14 busti di pontefici e padri della chiesa intorno al busto di Cristo. 

Sono immagini non solo riflesse, ma che fanno riflettere, abbiamo ricordato  in precedenza. A questo punto possiamo concludere che le vie dell’anamorfosi sono infinite, come le vie del Signore. Oltre a far riflettere sui tanti volti della realtà e dell’illusione che ne rappresenta il risvolto, fa pensare ai tanti modi per l’esaltazione celebrativa, la fusione di tanti re o pontefici nell’immagine del  re e del papa la cui potenza appare assommare tutte le altre. E’ proprio vero che non si tratta soltanto di un fatto tecnico ma ha forti componenti psicologiche e non solo. 

E’ merito della direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica aver fatto conoscere e toccare con mano, è il caso di dirlo,  una forma d’arte così singolare, dopo aver portato a Roma i rari dipinti di Arciboldo con le figure reversibili che rappresentano un sorta di anamorfismo, pur molto diverso.  

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Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie: scolaresche, studenti di determinate scuole letterarie e artistiche, membri ICOM, guide e interpreti turistici,  persone con handicap,   giornalisti. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org. 

Foto 

Le immagini sono state  tratte dai siti web ” lasinodoro.it” per l’anamorfismo a Trinità dei Monti, mentre per le installazioni della mostra, e la riproduzione di chiusura dell’opera di Simon Vouet: Eight Satyrs Admiring the Amnamorphesam, soprattutto da “arttribune.it”,  photo di Alberto Novelli, inoltre  “europejournal.eu” e “GDS.it”, “orizzontecultura.com” e “twitter.com”. Si ringraziano i titolari dei siti e i proprietari dei diritti per l’opportunità offerta, precisando che l’intento è meramente illustrativo senza la pur minima finalità economica nè pubblicitaria, pertanto siamo pronti a eliminarle subito, dietro semplice richiesta, se i titolari non ne gradissero la pubblicazione a corredo del nostro articolo sulla mostra.  

Identità e bandiere, alla Galleria Mucciaccia

di Romano Maria Levante

La mostra “Eyedentity” di Stefane Graff,  artista franco-inglese che vive a Londra,espone alla Galleria Mucciaccia di Roma, dal 23 marzo al 5 maggio 2018 con la direzione artistica di Massimiliano Mucciaccia,  un’ampia serie di opere, alcune molto spettacolari,  che evocano il tema dell’identità con i suoi risvolti psicologici e umani. Nello stesso periodo la mostra “Flags” di  Daniel Jousseff espone una serie di dipinti raffiguranti bandiere. Le due mostre contemporanee  confermano la vitalità  della galleria e la presenza qualificata  nel panorama espositivo dell’arte contemporanea.

“Eydentity”,  di Stefane Graff

Come indica il titolo, è  una mostra all’insegna dell’identità, vista soprattutto  sotto l’aspetto della dissimulazione. E questa si impernia sull’oscuramento degli occhi con un rettangolo nero, perché la loro distanza, a parte l’espressione, è essenziale per il riconoscimento.

“Per Graff – commenta James Putnam nell’introdurre la mostra offre una specie di velo di protezione per i suoi soggetti, mentre nello stesso tempo evoca un’aura di mistero, che innesta curiosità nello spettatore”.

Suo ispiratore è  Freud secondo cui – si legge in “Il Perturbante” del 1919 – “ciò che è dissimulato non solo è nascosto gli altri, ma anche a sé stessi”,  riferendosi espressamente “all’idea di essere privati dei propri occhi”; di qui la “scatola nera” che li copre.  L’ombra  rimanda a Jung, per il quale  “l’accettazione del lato oscuro della personalità è essenziale per raggiungere la conoscenza di sé”.  

In una intervista a Costantino d’Orazio, l’artista ha detto che “il riquadro nero è come una porta aperta. Vediamo ciò che vogliamo vedere. vediamo i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre fantasie riflessi attraverso questa porta”.

Una ricerca dalle solide basi filosofiche, dunque, di un artista che, oltretutto, non si è limitato all’identità umana,  interessato anche a quella delle opere d’arte  dipingendo dei dittici rivelatori.

I suoi dipinti soprattutto su  tela, ma anche su alluminio e tavola di legno, hanno una base fotografica. la fotografia per lui è uno strumento fondamentale. che ha usato in modo particolarmente penetrante nella serie di foto segnaletiche, come vedremo.  

L’artista presenta se stesso con  una originale iniziativa del 2007 per seguire la crescita di un bambino dall’età infantile all’età adulta, sollecitato da scritti esistenziali. Non essendo realistico scattare una foto a un soggetto esterno ogni due settimane per trent’anni, ha semplificato scattando a se stesso una fotografia al giorno per un anno, ottenendo 364 immagini in bianco e nero con lo stesso abito; la 350^ foto à della sola giacca appesa. Ha guardato la sequenza fotografica nel 2017, dopo 10 anni e ha vivacizzato le immagini forzatamente statiche con il getto di sostanze chimiche che hanno dato una colorazione dal blu al rosso, dal giallo al bianco a seconda del tempi di permanenza sulla carta, fino all’effetto di una fiamma.

Ne è nata la serie  “Mind on Fire”, datata appunto 2007-2017. Il fuoco sembra invadere il volto serio e composto dell’artista, nelle 39 foto presentate, che richiamano quelle formato tessera, in giacca e cravatta scure, fiammate che si propagano in modo casuale. Veramente geniale la trasformazione, anzi trasfigurazione, di immagini normali, per non dire banali, in qualcosa di fortemente dinamico.

Lo stravolgimento del volto, fino deformarne l’espressione e a renderlo irriconoscibile avviene anche dissestano i volti con una sorta di effetto movimento, in un cubismo picassiano di tipo fotografico, lo si vede nella serie “Glitch Paintings”, del 2016.  L’idea nacque dalle distorsioni che una tempesta elettrica produsse sulle immagini del suo televisore,poi da lui fotografate e reiterate spostando a mano l’antenna. ne abbiamo esempi in“The Yellow Line” e “Man in a Grey Suit”, “Rear Window” e “Bar Gazer”, “Arab Spring” e “Prime Time”; in altri casi i volti sono nascosti  da una sovrapposizione scura che li copre interamente, come  per le due figure femminili di  “Decapitated Dressed” o ne taglia la metà superiore, come in “Forget me Knot” e “The Philosopher’s Beard”.

Neppure il Papa si sottrae a questa operazione, come vediamo in “Pixelate Pope”, è la parte inferiore del viso di profilo ad essere decomposta mentre sulla destra sui accalcano immagini nere anch’esse rese indefinite; parte inferiore del volto nascosta anche  in “Syriana”, opèra di grandi dimensioni, 1,20 per 2 metri, in cui l’intera composizione sembra venire decomposta per piani orizzontali.  

Finora immagini singole, in un’opera dell’anno successivo, il 2017,  “The Jury”, 2017, sono i volti di una diecina di figure componenti la giuria a dissolversi, dello stesso anno “The Virdict” in cui, però. dei 6 giudici ritratti soltanto la metà hanno il volto moderatamente sformato  per tale effetto discorsivo.

Queste serie più recenti  sono un’evoluzione della tendenza ad occultare l’identità in vari modi, che, nella prima fase dell’itinerario artistico si era espressa nei cosiddetti “ Blacks Box Paintings, una vasta serie di immagini fotografiche, le più antiche risalgono al 1996, le più recenti al 2017,  con gli occhi dei soggetti ripresi coperti da un rettangolo nero. Questo procedimento lo avevamo visto diversi anni fa in una mostra al Festival romano della Fotografia, nella serie intitolata “Proibito”. “La scatola nera, afferma James Putnam, “è come un vuoto che non solo rappresenta la perdita della vista, ma è anche un simbolo di crisi d’identità, che è un fenomeno crescente nella società contemporanea”.

Abbiamo immagini di figure singole:  tra gli uomini, “The interview”, 2004-17, che oltre alla figura “schermata”, in primo piano,  reca sulla parete una diecina di ritratti tutti con gli occhi coperti,  “Victorian Painter” e “Fernando de Valdes” del 2006, “De Stael” e “Action Jackson I” del 2007;  tra le donne  “Woman with a Rubber Tyre”, 1997,  “Baillemens Histériques” 2009. e “Dreamer”, 2013-14; tra ragazzi, “Boy in a Black Suit”, 1995, tra i bimbi, “Original Sin I e II”, 2014.  C’è anche la coppia di “Kiss”, 2005, gli occhi schermati  mentre si baciano strettamente abbracciati.

Poi, piccoli gruppi dagli occhi schermati non con i consueti rettangoli neri, ma con strisce avvolgenti, rosa in   “The Collaborators” , 2007, con 3 uomini, e nere in “Triple Cross”, 2008, con 3 donne., e in “Russian Protocol”, 2014,  con 5 teste che spuntano su un tavolo. 5 figure felici in “The Boat Ride”, 2013.

Gruppi molto più numerosi, con gli occhi schermati delle persone quasi in posa, da” The Irascibles” con 15 persone – in un’opera vediamo l’autoritratto vicino a questo quadro – a “Ecole des Beaux Arts I“, con 25 persone di cui solo una non schermata, entrambi del 1996, “Passengers”, 2007, con una diecina di persone dagli occhi schermati, e “Crimson Ball” in cui le strisce nere spiccano sull’immagine del ballo in un rosso quasi in dissolvenza; sul rosso sfumato anche “Turkish Manifesto”, 1996, 10 volti schermati rivolti verso l’alto, mentre in “Turkish Spectators”, 2014, le figure dagli occhi schermati sono oltre un centinaio.

Nella stessa logica  di stile e di contenuto la serie “Banquets”, più spettacolare per le grandi dimensioni della maggior parte delle opere esposte. I commensali guardano tutti verso  chi li sta fotografando, e in questo modo si rivolgono allosservatore con gli occhi coperti dal rettangolo nero, una contraddizione; come è contraddittorio il loro stare insieme ma nel contempo essere isolati. Nel contempo l’osservatore si sente attirato nella scena, come se si aggiungesse un posto a tavola. 

Si va da “The Banquet”, 1994-95,  con la particolarità che il centinaio di persone in abito da sera guardano tutte l’osservatore pur con gli occhi schermati, come fossero in posa, a  “The Brasserie”, 2013-14,un solo tavolo imbandito  con una quindicina di persone; poi, del 2013, “Banquet Triptch”, un trittico lungo quasi 6 metri per quasi 2 e mezzo di altezza, e “The Jewish Banquet”, di 1,80 x 3,60, del 2014,  “Bipolar Banquet”,  di 2 x 3 metri, e “Contorsionist Banquet”, con una contorsionista sul  tavolo centrale  tra oltre 100 commensali tutti dagli occhi schermati.

Ugualmente schermati gli occhi della serie “Photographers” , dal 2013 al 2017, individuati da un numero progressivo, con in più una certa rarefazione in dissolvenza delle immagini, che vedremo tra poco accentuarsi in altre serie fino alla scomposizione, e il rettangolo nero sugli occhi, una contraddizione ironica con la loro attività, vi è anche una striscia di colore come nei provini fotografici. E’ evidente che si tratta di un omaggio ai pionieri della fotografia, da lui tanto utilizzata.

Una declinazione che potremmo dire opposta del concetto di identità, rispetto all’oscuramento degli occhi con le strisce nere visto finora, è la serie delle foto segnaletiche  , intitolata “Mugshots”: sono una ventina, per ciascuno viene esibito lo scatto frontale e di profilo, nel riquadro nome e matricola. i soggetti sono rigidi per l’attesa dello scatto nei lunghi tempi di posa con le macchine fotografiche dl tempo, “Per lui, secondo Putnam, “rappresentano anche una opposizione simbolica alla sorveglianza e alla accessibilità on line dei dati personali”, e si ricollegano “anche al suo fascino verso la fisionomia umana, o al giudizio della personalità dato in base all’aspetto del viso”,  speculare all’oscuramento identitario tramite i rettangoli neri  a copertura degli occhi.

Sono tutte del 2017 –  a parte alcune intitolate “Photofit” alquanto differenziate dalle altre – le segnaletiche intitolate “E’ proibito sorridere”, realizzate con soggetti fotografati a Roma durante un evento nella Galleria Mucciaccia, altra prova evidente della sua caratura artistica e organizzativa. Li ha definiti “ritratti anti-identitari”,  identificati da un numero  mentre i nomi sono anagrammati, e questo “oscura e sovverte la loro vera identità”; le serigrafie sono invecchiate artificialmente e in tal modo ha  ottenuto quella che lui stesso chiama “una perfetta combinazione tra pittura e fotografia, utilizzando insieme vernice e materiale fotografico”. 

Ma oltre all’aspetto tecnico esalta l’aspetto umano di quest’operazione: “Durante la ricerca dei soggetti di questa serie, sono rimasto spesso molto impressionato dall’entusiasmo e dal desiderio di partecipazione delle persone.  Che cosa ci dice questo comportamento sulla psiche umana? Quale straordinaria propensione hanno mostrato queste persone ad assumere il ruolo di un criminale e posare  come un gangster o un condannato!”  Non si dà una risposta, ma pensiamo che sia evidente nella stessa sua impostazione, che sottolinea “gli errori di identificazione e le false convinzioni”, i soggetti si sono sentiti non identificati come rei ma come possibili vittime di errori giudiziari, .

Oltre alle foto singole ci sono quelle intitolate “Eye Totem” con un’acrobatica  moltiplicazione degli occhi che allungano a dismisura il viso del soggetto fotografato, maschile e femminile;  dopo la schermatura degli occhi la loro moltiplicazione ci  sembra un fatto rimarchevole. Tanto più che nel “Black Box Mugshots 2” ci sono 18  strisce costituite da  un insieme di foto frontali di visi, prese dalle segnaletiche, ma sorprendentemente con gli occhi schermati ds una linea nera continua.  

Negli anni più recenti a queste forme espressive basate sulla negazione dell’identità e, specularmente, sulla sua esibizione in negativo, sì è aggiunta una quella intitolata “Mille-Feuille”, in cui le immagini non sono schermate ma le identità vengono rese evanescenti da una particolare “sfuocatura,  risultante da una parziale scomposizione realizzata mediante le 100 strisce separate del pannello di legno sul quale le immagini sono dipinte, che vengono opportunamente deviate.  L’idea fu data all’artista da una nuova anomalia nello schermo del suo computer mentre ritoccava un’immagine digitale, il risultato richiama lo sfarfallio: “L’immagine – spiega Putnam – inizia come una foto e diventa un dipinto, le sue parti si separano e si risistemano,  diventa tridimensionale, al contempo pittura e scultura”, evocando anche in questo modo “il tema dell’identità, come personalità dissociata, trauma e memoria frammentaria”.

In due opere del 2015 quest’operazione è soltanto accennata, “Colin Campbell Ross”, dove la composizione si avverte appena nel busto, mentre il volto è nitido, è un “olio su legno e un meccanismo di motorizzazione” non meglio identificato, evoca un tragico scambio di identità per cui un innocente viene impicacto nel 1922 a Melbourne per un omicidio non comemsso. “Schoenberg”, è un volto meno nitido del primo, attraversato soltanto da vibrazioni grafiche. C’è anche “Skull”, un teschio. appena  sfiorato dalla scomposizione.  

Nello stesso anno irrompe un’opera di notevoli dimensioni, lunga quasi 5 metri e alta 1,5, , “Mille-Feuille Banquet“, in cui la scomposizione  altera leggermente, ma in modo evidente, i volti delle centinaia di persone che banchettano, una variante notevole alla schermatura della serie “Banquet”degli anni immediatamente precedenti.  Segue, nel 2016, “School”, lungo più di 2 metri, la tipica classe di ragazze con il grembiule e il colletto bianco schierata, a fianco la maestra, e addirittura il suo “Self Portrait”, quasi avesse voluto sperimentare su se stesso, la peculiare formula espressiva adottata ; poi, nel 2017, “Walking Man” e “Running Man”, che riecheggiano la “Ragazza che corre sul balcone” di Duchamp, anche loro di dimensioni consistenti, 2 m di lunghezza per 1 m di altezza.  Nell’anno c’è anche un ritratto,  “Mayakovsky”, non solo il volto ma la figura seduta, in cui la scomposizione è molto accentuata, e ancora di più lo era in “Unseated Nude”, del 2015,  un’opera propriamente  cubista. 

Non si esaurisce nelle opere fin qui descritte  la feconda e poliedrica attività artistica dell’autore, in “Black Box Paintings” ci sono delle schermature non ai volti ma a particolari dell’ambiente, come in “Metaphysical Seaescape”, 1997 –  anno nel quale abbiamo anche un sorprendente “Freud’s Window”, o delle costruzioni raffigurate, come in “Sonderzugdepot”, 2013,  “Catatonics”, 2014,  “Cabin”, 2015.  Inoltre , sempre tra il 2013 e il 2015, figure intere quali “The Green Mask” e  “Male Nude Study (Back)” e volti in “Eye Operation”, “Restraining Order” ed “Exit Wound”.

E’ un lungo itinerario, quello dell’artista, in un’inquietudine creativa che lo ha portato a esplorare sempre nuove strade  all’insegna dell’identità declinata in modi sempre diversi.  Si può misurare l’ampiezza  del tragitto compiuto considerando la radicale diversità delle prime opere, dalla serie “Constrictions” del 1991, fotografie in bianco e nero segnate da forti contrasti luminosi, con figure nude legate da corde quasi evocando i legacci delle mummie, riferimento divenuto diretto nella serie immediatamente successiva “Earthworks and Mummifications” ispirata da suoi studi sulla mummificazione dell’antico Egitto al Cairo e a Luxor, che si sono tradotti anche in teste modellate nell’argilla e bendate nei modi delle mummie. Con il progetto immediatamente precedente.

Alcune opere risalgono al periodo 1991-97: citiamo  i multipli di “Vulvas” e“Testament”,gli inquietanti “Head” e “Ancien Portrait”, gli enigmatici “Akhenaten’s Dream” e “Mummification Triptych”. Molte altre sono del primo quinquennio del 2000, per lo più senza figure umane,  dai 3 sull’ocra, “Ochre Diptych”, “Ochre Wall”, “Ochre and Grey Composition”  ai 3 rossi “Remparts Rouge”, “Haqqi (Mon Droit)”, “Steps to Kasbah”,  a 3 allusivi, “East Meets West, West Eats Meat”, “Voodoo Fetish” e infine “Marche et Cache”. 

In quest’ultimo, del 2005, da una piccola finestra  in un parete di tronchi di legno assemblati in modo rudimentale, si affacciano due piccole figure in abiti locali: non sono schermate, esprimono una presenza umana, un’identità rivendicata  che prendiamo come conclusione a un percorso nel quale tante identità sono state nascoste o mimetizzate. conclude Putnam la sua presentazione: “Mentre la sua opera si ricollega alla dissimulazione, Graff paragona il processo creativo ad uno scavo nell’inconscio dove vi è qualcosa di nascosto che aspetta di essere rivelato”. Ed è un’osservazione  che fa riflettere perché attiene alla sfera più intima e riservata di ciascuno.

“Flags”, di Daniel Jouseff

Un’ “identità” molto diversa quella alla base dell’altra mostra, un’identità mancante, quella di  Daniel Jouseff , che ricerca attraverso le bandiere, “Flags” di tutti i tipi  dipinte a forti colori. La curatrice Louise Hamilton le efibisce “bandiere per manifestare i propri pensieri”, ed è ababstanza singolare ssendo la bandiera simbolo di un’identità nazionale che l’autore sente di non avere. Ma non si sente neppure “citttadino del mondo”,la mente torna all’ “ebreo errante” senza pace. 

Non si sente “cittadino  del mondo”, perché, come afferma lui stesso, “sono nato e cresciuto in un paese, ma le mie tradizioni erano radicate in un altro”.  Poi  è entrato in scena un terzo paese, e come risultato sente di non appartenere a nessun luogo. ma avverte sempre la forte sensazione dell’attraversamento dei confini. Quando si va da una nazione all’altra pensando di superare una barriera e di andare in un mondo diverso dal proprio, ma se non si sa a quale mondo si appartiene, come cambia questa sensazione?  

L’artista esprime  artisticamente le sue emozioni  attraverso un viaggio ideale reso da mappe, terre e  bandiere, soprattutto in queste ultime mette tutta la propria inquietudine che lo spinge alla ricerca di una identità virtuale.  

Intervistato da Giulia Abate afferma: “Il mio lavoro è la chiave per scoprire  e comprendere pienamente la mia origine … E le bandiere sono il simbolo per eccellenza dell’identità e del senso di appartenenza” . Proprio perché rappresentano  vaste comunità nazionali  con la loro storia e la loro cultura, le loro tradizioni e i loro costumi. Ma all’artista manca la bandiera, quindi il  senso di appartenenza che dà l’identità: “Io ho vissuto in esilio, nella diaspora, ho da sempre desiderato una casa e posso sventolare la mia bandiera finchè voglio, ma come si può trovare la propria casa quando non sai  dove cercarla?”. 

Per dire il vero la sua sembrerebbe a prima vista una storia normale, nato  in Svezia a Vaxjo nel 1975 e trasferito a Stoccolma dove vive tuttora, dal 2003. Sente tuttavia due culture sovrapposte in lui, aramaica e svedese, perché  una guerra culturale ha privato i genitori della propria lingua, con le cultura araba e turca ulteriormente sovrapposte.  “Non ho la pelle abbastanza scura per esser un mediorientale, ma non sono nemmeno abbastanza biondo per essere uno svedese, allora ho provato ad essere entrambi”, questa la confessione finale. Ne è nato “il caos con il quale mi confronto ogni giorno. Forse le bandiere rappresentano proprio questo mio costante conflitto interiore”. 

Vediamo esposte una quindicina di “flags” dipinte per lo più a olio su tela nel 2017 e 2018,  tutte di fantasia, senza riferimenti a bandiere esistenti. Dalle grandi  “Black/ yellow flag”  su legno e “Black/ black/  flag”,  di 1 metro di altezza,  alle piccole  “Small red  and yellow flag”   e “Small yellow and green flag”, alte circa 30 cm, con i piccoli triangoli giallo e verde su fondo rosso e giallo. Poi le più grandi, alte quasi 1 metro e mezzo, “Multicoloured flag pink” e  “Multicoloured flag with stripes”,  con strisce verticali  con sopra 3 triangoli, entrambe su tessuto. Alte  80 cm -1 metro  le quasi monocromatiche “Flaf/pink/white” e “Greenwhite flag”, quasi solo rosa e verde, e  le bicromatiche “Flag/ blue/ pink” e “Flag/ geren/ orange” in acrilico su carta. In matita e inchiostro su carta  “Graphite grey wood flag“, inchiostro su legno in  “Black/ red wood flag” e “Flag/ wood“, la più piccola di tutte, alta 19 cm. 

Sono esposte due opere identitarie in modo diverso, come   “Yellow border/ satellite”, “Camouflage / border / satellite” e “Borden patrol” con la scritta “Operation Gate Keeper”; e  altre molto differenti,  come “The book of San Michele decostructed”, copertina e due pagine aperte con dei segni azzurri di cancellature, ben diverse da quelle celebri del nostro Isgrò; e  un  singolare “U.S. President” scritto su una lavagna, “Searching for Illegals”, una scritta nera su fondo rosa. 

Ma rimangono impresse le sue “Flags” per lo più bicolori, e il significato che l’artista attribuisce loro: “Le bandiere rappresentano un processo continuo di attraversamento dei confini e il risultato della mia ricerca di una casa, della mia vera identità”. Ha esposto a Stoccolma nel 1916 e nel 1917 e nel Texas nel “Pop Austin International Show”, ma nella mostra attuale la metà sono opere del 2018,  quindi inedite, e di questo va dato merito alla Galleria  Mucciaccia.  

Vogliamo concludere citando il suo “Self portrait” del 2017: si ritrae con il cappello  e i colori della giubba di Arlecchino: evidentemente continua lo spaesamento e la ricerca di una identità, sarebbe interessante seguirne gli sviluppi,  

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Dal lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Cataloghi bilingue italiano-inglese: “Eyedentity”, Stefane Graff”,  Galleria Mucciaccia, febbraio 2018, pp. 330, formato 25 x 29. “Daniel Jouseff. Flags”,  Mucciaccia Contemporary  a cura di Louise  Hamilton, pp.60, formato 20 x 21. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli, in cultura.inabruzzo.it per Duchamp; in fotografia.guidaconsumatore,it per “Proibito”  (questi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).