Anamorfosi, la magia delle immagini “ricostruite” a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

La mostra “Curiose riflessioni. Jean-Francois Niceron, le anomorfosi e la magia delle immagini”, presenta, a Palazzo Barberini, dal 7 marzo al 3 giugno 2018,   alcune opere realizzate dall’artista francese con la tecnica dell’anamorfismo, su cui scrisse anche un trattato, tecnica che viene fatta conoscere nei suoi aspetti tecnici, legati alla prospettiva e alla rifrazione ottica, e negli i aspetti psicologici di “immagini riflesse che fanno riflettere”.  Ma mostra, che rientra  nel programma didattico per il  2018 di divulgazione didattica e scientifica sui rapporti tra Arte, Geometria e Matematica, è a cura di Maurizia Cicconi e Michele Di Monte.  

La  direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica continua nella valorizzazione della propria sterminata collezione ponendo di volta in volta sotto i  riflettori di una mostra temporanea una componente particolare,  associando ad essa  opere di raffronto con prestiti  mirati da altri musei. Anche in questo caso ci sono 2 opere da appositi prestiti,  che si aggiungono a  un gruppo di opere della collezione della Galleria molto speciali.  

Il  trattato di Niceron sull’anamorfismo, in francese e latino

Sono le cosiddette “anamorfiche”, opere che per risultare comprensibili devono essere osservate dal solo punto di vista nella posizione corretta, oppure attraverso un apposito strumento. E’ un fenomeno che suscitò molto interesse nel 1600, con l’avvento del barocco, nell’ambito degli studi di geometria prospettiva e di ottica, dopo che nel 1500  si era dedicata speciale attenzione alla prospettiva.

Alla base dell’interesse per questa curiosità ottica oltre alla motivazione scientifica ve ne fu una  culturale:  nelle concezioni estetiche del ‘600 imperava il fascino dell’illusione rispetto alla realtà, l’attrazione per i contrasti fino  ai paradossi, e  veniva ritenuta  dominante l’esperienza  visiva con le sue metafore. Il tutto illustrato in un trattato  del teologo e matematico francese Jean-Francois Niceron  (1613-1646), pubblicato  in francese a soli 25 anni, nel 1638, l’anno della prima messa sacerdotale,  e dalla versione  in latino uscita postuma nel 1646, pochi mesi dopo la sua morte. 

Non si limitò a definirne gli aspetti teorici, come “pittore di anamorfosi”, realizzò un affresco con i canoni dell’anamorfismo a Roma, nei corridoi di un convento a Trinità dei Monti,  e anamorfi circolari decrittate da uno specchio cilindrico, nonché una serie di altre opere esposte in mostra. 

Sono introdotte da un esemplare del suo trattato in francese Le Perspective curieuse, magie  artificielle des effects mervelleuux de l’optique  par la vision  directe”,e della seconda opera, la versione in  latino, Thaumaturgus opticus, seu Admiranda Optice, per radiun directum…”,  esposte con un’apparecchiatura digitale che consente di sfogliarne virtualmente le pagine e vederne il testo corredato da disegni e immagini. La prospettiva lineare viene analizzata in 4 libri, dopo gli aspetti generali delle anamorfosi nel  primo, nel secondo quelle piane, nel terzo le immagini catottriche e nel quarto le anamorfosi diotriche. Nell’opera in francese, in 25 tavole, disegnate da lui e incise da Jean Blanchin, si trova esemplificata la costruzione prospettica e la pratica pittorica; in apertura, un gruppo di putti, nell’incisione di Pierre Daret, impegnati negli esperimenti ottici descritti nel trattato,  osservando la ricostruzione  catottrica con uno specchio cilindrico, un cono a specchio e un cannocchiale prismatico. Nell’opera in latino c’è una tavola, la n. 33, in cui si ricostruisce la realizzazione della pittura murale anamorfa nel convento di Trinità dei Monti  

Non è disegnato, ma esposto a disposizione dei visitatori  uno strumento da lui utilizzato, il suo  “Cannocchiale anamorfico”, con il quale si possono vedere immagini insolite; ma il clou della mostra sono le sue pitture anamorfiche, veramente insolite e intriganti. Ne parleremo dopo aver illustrato l’anamorfismo, la natura di tale  fenomeno e la sua presenza in pittura.

Le premesse dell’anamorfismo nel ‘500, il forte sviluppo nel ‘600 con Niceron

Queste  premesse risalgono al 1500,”, allorchè l’anamorfismo fu analizzato non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico, del  resto l’ambivalenza della visione della realtà deformata in base al punto di vista era molto stimolante anche sul piano filosofico. Si citano i trattati di Barbaro, Lomazzo e Danti, considerati approssimativi, ma estesi all’aspetto teorico e a quello pratico, e il dipinto anamorfico di Hans Holbein, che, risale al 1533, è un ritratto duplice di “Ambasciatori”.

Ma è nel 1600, il secolo dell’ottica, che ci fu l’escalation, nel 1638 uscì la “Dioptrique” di Cartesio, sullo sdoppiamento della luce, ma già nel 1627 il celebre pittore francese Simon Vouet realizzò la prima anamorfosi cilindrica europea, il disegno  “Otto satiri  che osservano uno specchio anamorfico con un elefante”, forse l’ispirazione fu orientale. Dalla sua opera  Hans Trosxchel ricavò un’incisione con scritto “Format et illustrat”, cioè “realizza e spiega”  forme insolite incomprensibili. Seguirono ritratti e figure anamorfiche in Italia e in Francia in rapida diffusione fino a divenire di moda. 

Si può capire come in questo contesto uno dei più valenti matematici francesi del 1600 , Jean-.Francois Niceron, interessato in modo particolare alla geometria e all’ottica, potè compiere  passi decisivi. Come Bartoli, che era predicatore gesuita,  era un religioso, si formò presso le scuole dei Minimi di san Francesco di Paola, che era stato a lungo in Francia, come novizio studiò nei collegi di Nevers e Nigernn, ma per le sue doti  soltanto dopo pochi mesi fu ammesso  all’esclusivo Collegio  di Place Royale  ed entrò nell’ordine.  

L’ingresso nel prestigioso collegio parigino fu fondamentale,  per l’elevato livello culturale dell’istituto,  vi insegnava padre Marin Mersenne, teologo intimo amico di Cartesio, che eccelleva nella matematica e nella filosofia ed era in stretto contatto non solo con scienziati e filosofi francesi richiamati  dalla biblioteca molto fornita, ma anche con gli scienziati europei con i quali aveva rapporti epistolari. Tra i frequentatori  del cenacolo parigino di Mersenne vi era anche un consigliere del re Luigi XIII, Louis Hesslin, con cui Niceron strinse amicizia e così poteva utilizzare uno dei tanti strumenti scientifici di Hesslin, uno spettrografo molto preciso, addirittura se ne servì a Roma, a Trinità dei Monti per il grande affresco anamorfico.  

Nel 1630  era stato pubblicato“Perspective cylindrique et conique” , di Jean.Lous Vaulezard, che spiegava come immagini incomprensibili e deformate su una superficie piana fossero ricomposte in modo intelligibile viste riflesse su uno specchio cilindrico. su un cilindro a specchio. Non era una novità assoluta, dopo il disegno sull’anamorfosi cilindrica di Vouet nel 1627, ma diede la spinta decisiva a Niceron che l’anno dopo lo studio di  Valuezard, a 18 anni, fornì il disegno per il ritratto anamorfico di Jacques d’Auzolles de Lapeyre, un matematico sessantenne  che ne fece un’incisione inserita nel suo famoso trattato sulla cronologia pubblicato a Parigi nel 1638, “Mercure charitable”

In questo stesso 1638 Niceron pubblica la sua opera teorica in francese, citata all’inizio, presentata come un “divertissement”, tanto da scrivere di voler “occuparsi delle gentilezze della prospettiva curiosa, le quali, come hanno divertito lui e diustrattolo dalla serietà degli studi teologici, potranno non essere sgradevoli ai curiosi”.

Ma è evidentemente riduttivo, che non si trattasse soltanto di una curiosità lo dimostrano le opere scientifiche in materia, sopra citate, a partire dalla “Dioptrique” di Cartesio, e quelle successive, sulle  implicazioni psicologiche dell’anamorfismo, data la tendenza del barocco, in cui si era entrati, per le metafore e il fascino dell’illusione. Emanuele Tesauro nel 1654  scrisse “Cannocchiale aristotelico”, in chiave barocca  con nel frontespizio l’immagine della pittura  in un’anamorfosi cilindrica cui tre anni dopo   dedicò uno scritto elogiativo dal titolo “Il cilindro” definendolo “novello ritrovo di acutissimo ingegno”.  Così altri insigni personaggi e letterati, come Filippo Picinelli e Daniello Bartoli che scrisse dei trattati in materia.

Finché nel “secolo dei lumi”,  50  anni dopo la  morte di Niceron, addirittura Leibnitz, dall’alto della sua sapienza scientifica e filosofica, fa rifermento all’anamorfismo sia  nella sua opera del 1704, “Nouveaux Essais sur l’entendement human”, per spiegare le  “idee chiare e distinte sia  nell’opera del 1710, “Essais de Théodicée” e per il contrasto tra la presenza del male e la volontà di Dio,  così spiegato: “Le apparenti deformità dei nostri piccoli mondi si raccolgono in bellezza nel grande  e non hanno in sé nulla che si opponga all’unità di un principio universale”. Come nell’anamorfismo basta avere la visione corretta. 

Ma torniamo  a Niceron, lo troviamo nel 1639, l’anno dopo la pubblicazione delle “perspective curieeuse…”, a Roma come insegnante nel Collegio del suo ordine, quello del Minimi, a Trinità dei Monti. La sua caratura è tale che a 25 anni entra in quella che viene definita “la roccaforte politica e diplomatica dei reali francesi”, e riceve un’ulteriore spinta nel suo percorso anamorfico dal padre superiore Emmanuel Maignan, allora trentasettenne, specialista nella rappresentazione della volta celeste con la gnomonica, morirà nello stesso anno in cui scomparve Niceron a 33 anni,  nel 1646.

Addirittura tra i due nasce una vera e propria gara nel convento a Trinità dei Monti, dove Maignan ha realizzato un “astrolabio catottrico” nel 1637. Niceron nel 1642 dipinge in un corridoio un’opera monumentale di tipo anamorfico, con cui mette in pratica le sue teorie, raffigurando “San Giovanni Evangelista  che scrive l’Apocalisse nell’isola di Patmos”; nel corridoio opposto Maignan ritrae il fondatore dell’ordine, san Francesco di Paola, anch’egli in modo anamorfico.  

Cos’è l’anamorfismo 

Cos’è, dunque, quest’anamorfismo, di cui abbiamo dato soltanto un’indicazione sommaria? L’etimologia greca ne evoca la funzione di ricostruire la forma, partendo dalla prospettiva  esplorata sin dal ‘400 da grandi architetti come Brunelleschi e da grandi pittori come Piero della Francesca. Si parla di “perspectiva artificialis”, lineare, costruita immaginando l’osservatore posto di fronte, posizione dalla quale si può vedere l’opera con le sue componenti nella giusta prospettiva. Ma se il punto di vista si sposta lateralmente e la composizione viene raffigurata in una prospettiva laterale od obliqua,  si crea una “dissociazione o sdoppiamento” perché gli oggetti non saranno più riconoscibili dalla posizione frontale risultando deformati in modo più o meno vistoso.  

Per averne la visione corretta, con la relativa riconoscibilità, si dovrà “ricostruire”, “riformare”  l’immagine spostandosi dove  è stata costruita la proiezione prospettica; e allora avviene che l’oggetto è come se uscisse dal quadro e si ponesse non nella sua profondità ma tra la superficie dipinta e l’osservatore. Una teoria della  relatività pittorica, che cambia il punto di vista della realtà.  

Non finisce qui, non solo può mutare il punto di vista con le conseguenze cui si è accennato, ma la stessa superficie del piano su cui è raffigurata l’immagine può essere modificata e deformata, nel qual caso si ha lo sdoppiamento dell’immagine per altra via. 

A parte questa variante, quanto sopra si può verificare visivamente nel convento a Roma di Trinità dei Monti, nei quali le immagini dipinte rispettivamente da Niceron e Maignan viste da vicino percorrendo i due corridoi di cui si è detto, sono piccole figure immerse nel paesaggio, mentre ls visione d’insieme di scorcio dei 20 metri di parete del corridoio dà tutt’un’altra imamgine, tanto che Niceron ha intitolato il dipinto “L’apocalisse dell’ottica” nel senso di “rivelazione”, nel caso del significato della presenza di san Giovanni a Patmos.  

La “ricostruzione” dell’immagine, oltre che  mutando punto di vista e assumendo quello corretto, può avvenire utilizzando appositi strumenti, come il cono ma soprattutto il cilindro anamorfico di cui Niceron perfezionò l’utilizzazione. Si tratta della cosiddetta “catroptica”, per la quale si può vedere correttamente l’immagine, altrimenti indecifrabile se si guarda sulla superficie in cui è raffigurata, soltanto riflessa sulla superficie di uno specchio curvo, a forma conica o cilindrica, la cui “deformazione” compensa e corregge quella dell’immagine dipinta rendendola riconoscibile.  

Così si conclude la presentazione: La morale ‘anamorfica’, che pure non sfuggiva agli autori del Seicento, è che, talvolta,una doppia deviazione della verità è necessaria per ricondurci inaspettatamente alla verità stessa, se non a una verità ulteriore. Le anamorfi catoptriche non sono solo immagini riflesse, sono anche immagini che dovrebbero far riflettere”. 

Le opere ad “anamorfosi catottrica” presenti in mostra  

Guardiamo in pratica queste immagini, che fanno parte delle 4 opere delle Gallerie Nazionaili di Arte Antica, raramente esposte per le difficoltà di presentarle in modo adeguato, sono ritratti del 1635, quando l’artista aveva 22 anni, acquistate dal Ministero dell’Educazione Nazionale nel 1937 appositamente per le collezioni.  

Sono tutte ad “anamorfosi catottrica”, due ritraggono il Re  di Francia: la prima il “Ritratto di re Luigi XIII“, a  mezzo busto, con l’armatura, sopra la tunica da cui emerge  un colletto. L’altra “Re Luigi XIII davanti al crocifisso”, è inginocchiato con in testa la corona e sulle spalle la cappa con i gigli reali francesi, sopra un tavolo a fianco a lui un piccolo crocifisso di ebano con il Cristo in avorio, un angelo ha nella sinistra una tromba, nella destra due stemmi, lo scudo araldico dei Navarra, catene dorate su fondo rosso, e di Francia, gigli dorati in campo azzurro, molto deteriorato.  

La terza opera è dedicata al santo fondatore dell’ordine dei Minimi a cui l’autore appartiene, “San Francesco di Paola”,  forse l’immagine è ispirata a un’opera di Simon Vouet che lo conosceva e stimava, Niceron lo considerava un’autorità nell’applicare alla pittura  i dettami dell’ottica, di Vouet il frontespizio dell’opera in latino del nostro artista. . L’opera esposta sembra fosse destinata al Collegio dei Minimi di Palace Royale dove Niceron era stato ammesso per i suoi meriti. Il modo con cui ha raffigurato in modo anamorfico il santo, seguendo un procedimento semplificato,  è descritto  nel trattato in francese, “Perspective curieuse… “, pubblicato tre anni dopo questa e le altre 3 opere.  

La quarta e ultima opera esposta di Niceron, “Coppia di amanti”,  è piuttosto intima, l’uomo giarda la donna e cerca di accarezzarle la gamba nuda sotto la veste, mentre vicino a loro una donna cerca di ascoltare ciò che si dicono; il massimo studioso dell’anamorfosi, Jurgis Baitrusitis, proprio per l’erotismo alquanto lascivo ha messo in dubbio il riferimento a Niceron, per la sua spiritualità. Ma potrebbe essere, invece, il rifugio nell’anamorfosi per una rappresentazione erotica da nascondere.  

Il “Ritratto di Jean-Louis Niceron”  di Michel Lasne,  rinomato illustratore francese, allievo di Rubens e Van Dyck, incisore ufficiale del re Luigi XIII dal 1633, autore  di molti ritratti della famiglia reale. L’opera, prestata dall’Istituto Centrale per la Grafica, è l’unica raffigurazione di cui si dispone del nostro artista:  un’immagine ascetica  che lo ritrae in piedi, giovanissimo, nel saio dell’ordine religioso dei Minimi, e insieme simbolica, tiene con la destra una tavola indicata da un compasso, è la n. 13 di quelle dell’opera in latino recante  il prospetto di una sfera con piramidi a base quadrata, un nuovo tema rispetto all’edizione in francese, che può far pensare all’intenzione di ampliarla, vanificata dalla morte; altro riferimento simbolico, o il convento di Trinità dei Monti del suo soggiorno romano che si vede sotto un drappo sollevato. Questo ritratto è anch’esso inserito nell’opera latina della quale, ripetiamo, riproduce una delle tavola in essa contenuta, con una iscrizione che reca la data della sua morte e la giovane del soggiorno romano del 1642, e le parole celebrative: “Egregiis animi dotibus et singulari” e “theseos peritia celebris”,  

Le cinque opere sopra descritte vanno viste in una determinata prospettiva e angolazione per poterne ben decifrare le figure in esse rappresentate.  A tale riguardo ci si può sbizzarrire con il “Gioco ottico”, una ricostruzione effettuata nel 20018 dell’anamorfosi diottrica realizzata da Niceron nel 1642, prestata dal Museo Galileo di Storia e Scienza di Firenze. Si tratta di un dipinto con alcune teste di turchi che circondano un trofeo con tante bandiere, posto in verticale su una tavola orizzontale su cui è appoggiato un cannocchiale e lente poliedrica; guardando il dipinto con il cannocchiale, la lente attraverso rifrazioni multiple ricompone tanti frammenti in una figura unitaria al posto delle tante teste, è il ritratto del  granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici vissuto dal 1610 al 1670, Come per il ritratto di re Luigi XIII, il procedimento è spiegato ed illustrato in 3 tavole dell’edizione in francese del trattato di Niceron, la 23,  24 e 25.  In particolare, viene descritta la sfaccettatura delle lenti necessarie e si producono due esempi di ricomposizione di diverse immagini frammentate in un’unica immagine unitaria: la figura di re Luigi XIII si forma con la fusione di 12 ritratti di regnanti turchi,la figura di  papa Urbano VIII Barberini  con la ricomposizione diottrica di 14 busti di pontefici e padri della chiesa intorno al busto di Cristo. 

Sono immagini non solo riflesse, ma che fanno riflettere, abbiamo ricordato  in precedenza. A questo punto possiamo concludere che le vie dell’anamorfosi sono infinite, come le vie del Signore. Oltre a far riflettere sui tanti volti della realtà e dell’illusione che ne rappresenta il risvolto, fa pensare ai tanti modi per l’esaltazione celebrativa, la fusione di tanti re o pontefici nell’immagine del  re e del papa la cui potenza appare assommare tutte le altre. E’ proprio vero che non si tratta soltanto di un fatto tecnico ma ha forti componenti psicologiche e non solo. 

E’ merito della direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica aver fatto conoscere e toccare con mano, è il caso di dirlo,  una forma d’arte così singolare, dopo aver portato a Roma i rari dipinti di Arciboldo con le figure reversibili che rappresentano un sorta di anamorfismo, pur molto diverso.  

Info

Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie: scolaresche, studenti di determinate scuole letterarie e artistiche, membri ICOM, guide e interpreti turistici,  persone con handicap,   giornalisti. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org. 

Foto 

Le immagini sono state  tratte dai siti web ” lasinodoro.it” per l’anamorfismo a Trinità dei Monti, mentre per le installazioni della mostra, e la riproduzione di chiusura dell’opera di Simon Vouet: Eight Satyrs Admiring the Amnamorphesam, soprattutto da “arttribune.it”,  photo di Alberto Novelli, inoltre  “europejournal.eu” e “GDS.it”, “orizzontecultura.com” e “twitter.com”. Si ringraziano i titolari dei siti e i proprietari dei diritti per l’opportunità offerta, precisando che l’intento è meramente illustrativo senza la pur minima finalità economica nè pubblicitaria, pertanto siamo pronti a eliminarle subito, dietro semplice richiesta, se i titolari non ne gradissero la pubblicazione a corredo del nostro articolo sulla mostra.  

Identità e bandiere, alla Galleria Mucciaccia

di Romano Maria Levante

La mostra “Eyedentity” di Stefane Graff,  artista franco-inglese che vive a Londra,espone alla Galleria Mucciaccia di Roma, dal 23 marzo al 5 maggio 2018 con la direzione artistica di Massimiliano Mucciaccia,  un’ampia serie di opere, alcune molto spettacolari,  che evocano il tema dell’identità con i suoi risvolti psicologici e umani. Nello stesso periodo la mostra “Flags” di  Daniel Jousseff espone una serie di dipinti raffiguranti bandiere. Le due mostre contemporanee  confermano la vitalità  della galleria e la presenza qualificata  nel panorama espositivo dell’arte contemporanea.

“Eydentity”,  di Stefane Graff

Come indica il titolo, è  una mostra all’insegna dell’identità, vista soprattutto  sotto l’aspetto della dissimulazione. E questa si impernia sull’oscuramento degli occhi con un rettangolo nero, perché la loro distanza, a parte l’espressione, è essenziale per il riconoscimento.

“Per Graff – commenta James Putnam nell’introdurre la mostra offre una specie di velo di protezione per i suoi soggetti, mentre nello stesso tempo evoca un’aura di mistero, che innesta curiosità nello spettatore”.

Suo ispiratore è  Freud secondo cui – si legge in “Il Perturbante” del 1919 – “ciò che è dissimulato non solo è nascosto gli altri, ma anche a sé stessi”,  riferendosi espressamente “all’idea di essere privati dei propri occhi”; di qui la “scatola nera” che li copre.  L’ombra  rimanda a Jung, per il quale  “l’accettazione del lato oscuro della personalità è essenziale per raggiungere la conoscenza di sé”.  

In una intervista a Costantino d’Orazio, l’artista ha detto che “il riquadro nero è come una porta aperta. Vediamo ciò che vogliamo vedere. vediamo i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre fantasie riflessi attraverso questa porta”.

Una ricerca dalle solide basi filosofiche, dunque, di un artista che, oltretutto, non si è limitato all’identità umana,  interessato anche a quella delle opere d’arte  dipingendo dei dittici rivelatori.

I suoi dipinti soprattutto su  tela, ma anche su alluminio e tavola di legno, hanno una base fotografica. la fotografia per lui è uno strumento fondamentale. che ha usato in modo particolarmente penetrante nella serie di foto segnaletiche, come vedremo.  

L’artista presenta se stesso con  una originale iniziativa del 2007 per seguire la crescita di un bambino dall’età infantile all’età adulta, sollecitato da scritti esistenziali. Non essendo realistico scattare una foto a un soggetto esterno ogni due settimane per trent’anni, ha semplificato scattando a se stesso una fotografia al giorno per un anno, ottenendo 364 immagini in bianco e nero con lo stesso abito; la 350^ foto à della sola giacca appesa. Ha guardato la sequenza fotografica nel 2017, dopo 10 anni e ha vivacizzato le immagini forzatamente statiche con il getto di sostanze chimiche che hanno dato una colorazione dal blu al rosso, dal giallo al bianco a seconda del tempi di permanenza sulla carta, fino all’effetto di una fiamma.

Ne è nata la serie  “Mind on Fire”, datata appunto 2007-2017. Il fuoco sembra invadere il volto serio e composto dell’artista, nelle 39 foto presentate, che richiamano quelle formato tessera, in giacca e cravatta scure, fiammate che si propagano in modo casuale. Veramente geniale la trasformazione, anzi trasfigurazione, di immagini normali, per non dire banali, in qualcosa di fortemente dinamico.

Lo stravolgimento del volto, fino deformarne l’espressione e a renderlo irriconoscibile avviene anche dissestano i volti con una sorta di effetto movimento, in un cubismo picassiano di tipo fotografico, lo si vede nella serie “Glitch Paintings”, del 2016.  L’idea nacque dalle distorsioni che una tempesta elettrica produsse sulle immagini del suo televisore,poi da lui fotografate e reiterate spostando a mano l’antenna. ne abbiamo esempi in“The Yellow Line” e “Man in a Grey Suit”, “Rear Window” e “Bar Gazer”, “Arab Spring” e “Prime Time”; in altri casi i volti sono nascosti  da una sovrapposizione scura che li copre interamente, come  per le due figure femminili di  “Decapitated Dressed” o ne taglia la metà superiore, come in “Forget me Knot” e “The Philosopher’s Beard”.

Neppure il Papa si sottrae a questa operazione, come vediamo in “Pixelate Pope”, è la parte inferiore del viso di profilo ad essere decomposta mentre sulla destra sui accalcano immagini nere anch’esse rese indefinite; parte inferiore del volto nascosta anche  in “Syriana”, opèra di grandi dimensioni, 1,20 per 2 metri, in cui l’intera composizione sembra venire decomposta per piani orizzontali.  

Finora immagini singole, in un’opera dell’anno successivo, il 2017,  “The Jury”, 2017, sono i volti di una diecina di figure componenti la giuria a dissolversi, dello stesso anno “The Virdict” in cui, però. dei 6 giudici ritratti soltanto la metà hanno il volto moderatamente sformato  per tale effetto discorsivo.

Queste serie più recenti  sono un’evoluzione della tendenza ad occultare l’identità in vari modi, che, nella prima fase dell’itinerario artistico si era espressa nei cosiddetti “ Blacks Box Paintings, una vasta serie di immagini fotografiche, le più antiche risalgono al 1996, le più recenti al 2017,  con gli occhi dei soggetti ripresi coperti da un rettangolo nero. Questo procedimento lo avevamo visto diversi anni fa in una mostra al Festival romano della Fotografia, nella serie intitolata “Proibito”. “La scatola nera, afferma James Putnam, “è come un vuoto che non solo rappresenta la perdita della vista, ma è anche un simbolo di crisi d’identità, che è un fenomeno crescente nella società contemporanea”.

Abbiamo immagini di figure singole:  tra gli uomini, “The interview”, 2004-17, che oltre alla figura “schermata”, in primo piano,  reca sulla parete una diecina di ritratti tutti con gli occhi coperti,  “Victorian Painter” e “Fernando de Valdes” del 2006, “De Stael” e “Action Jackson I” del 2007;  tra le donne  “Woman with a Rubber Tyre”, 1997,  “Baillemens Histériques” 2009. e “Dreamer”, 2013-14; tra ragazzi, “Boy in a Black Suit”, 1995, tra i bimbi, “Original Sin I e II”, 2014.  C’è anche la coppia di “Kiss”, 2005, gli occhi schermati  mentre si baciano strettamente abbracciati.

Poi, piccoli gruppi dagli occhi schermati non con i consueti rettangoli neri, ma con strisce avvolgenti, rosa in   “The Collaborators” , 2007, con 3 uomini, e nere in “Triple Cross”, 2008, con 3 donne., e in “Russian Protocol”, 2014,  con 5 teste che spuntano su un tavolo. 5 figure felici in “The Boat Ride”, 2013.

Gruppi molto più numerosi, con gli occhi schermati delle persone quasi in posa, da” The Irascibles” con 15 persone – in un’opera vediamo l’autoritratto vicino a questo quadro – a “Ecole des Beaux Arts I“, con 25 persone di cui solo una non schermata, entrambi del 1996, “Passengers”, 2007, con una diecina di persone dagli occhi schermati, e “Crimson Ball” in cui le strisce nere spiccano sull’immagine del ballo in un rosso quasi in dissolvenza; sul rosso sfumato anche “Turkish Manifesto”, 1996, 10 volti schermati rivolti verso l’alto, mentre in “Turkish Spectators”, 2014, le figure dagli occhi schermati sono oltre un centinaio.

Nella stessa logica  di stile e di contenuto la serie “Banquets”, più spettacolare per le grandi dimensioni della maggior parte delle opere esposte. I commensali guardano tutti verso  chi li sta fotografando, e in questo modo si rivolgono allosservatore con gli occhi coperti dal rettangolo nero, una contraddizione; come è contraddittorio il loro stare insieme ma nel contempo essere isolati. Nel contempo l’osservatore si sente attirato nella scena, come se si aggiungesse un posto a tavola. 

Si va da “The Banquet”, 1994-95,  con la particolarità che il centinaio di persone in abito da sera guardano tutte l’osservatore pur con gli occhi schermati, come fossero in posa, a  “The Brasserie”, 2013-14,un solo tavolo imbandito  con una quindicina di persone; poi, del 2013, “Banquet Triptch”, un trittico lungo quasi 6 metri per quasi 2 e mezzo di altezza, e “The Jewish Banquet”, di 1,80 x 3,60, del 2014,  “Bipolar Banquet”,  di 2 x 3 metri, e “Contorsionist Banquet”, con una contorsionista sul  tavolo centrale  tra oltre 100 commensali tutti dagli occhi schermati.

Ugualmente schermati gli occhi della serie “Photographers” , dal 2013 al 2017, individuati da un numero progressivo, con in più una certa rarefazione in dissolvenza delle immagini, che vedremo tra poco accentuarsi in altre serie fino alla scomposizione, e il rettangolo nero sugli occhi, una contraddizione ironica con la loro attività, vi è anche una striscia di colore come nei provini fotografici. E’ evidente che si tratta di un omaggio ai pionieri della fotografia, da lui tanto utilizzata.

Una declinazione che potremmo dire opposta del concetto di identità, rispetto all’oscuramento degli occhi con le strisce nere visto finora, è la serie delle foto segnaletiche  , intitolata “Mugshots”: sono una ventina, per ciascuno viene esibito lo scatto frontale e di profilo, nel riquadro nome e matricola. i soggetti sono rigidi per l’attesa dello scatto nei lunghi tempi di posa con le macchine fotografiche dl tempo, “Per lui, secondo Putnam, “rappresentano anche una opposizione simbolica alla sorveglianza e alla accessibilità on line dei dati personali”, e si ricollegano “anche al suo fascino verso la fisionomia umana, o al giudizio della personalità dato in base all’aspetto del viso”,  speculare all’oscuramento identitario tramite i rettangoli neri  a copertura degli occhi.

Sono tutte del 2017 –  a parte alcune intitolate “Photofit” alquanto differenziate dalle altre – le segnaletiche intitolate “E’ proibito sorridere”, realizzate con soggetti fotografati a Roma durante un evento nella Galleria Mucciaccia, altra prova evidente della sua caratura artistica e organizzativa. Li ha definiti “ritratti anti-identitari”,  identificati da un numero  mentre i nomi sono anagrammati, e questo “oscura e sovverte la loro vera identità”; le serigrafie sono invecchiate artificialmente e in tal modo ha  ottenuto quella che lui stesso chiama “una perfetta combinazione tra pittura e fotografia, utilizzando insieme vernice e materiale fotografico”. 

Ma oltre all’aspetto tecnico esalta l’aspetto umano di quest’operazione: “Durante la ricerca dei soggetti di questa serie, sono rimasto spesso molto impressionato dall’entusiasmo e dal desiderio di partecipazione delle persone.  Che cosa ci dice questo comportamento sulla psiche umana? Quale straordinaria propensione hanno mostrato queste persone ad assumere il ruolo di un criminale e posare  come un gangster o un condannato!”  Non si dà una risposta, ma pensiamo che sia evidente nella stessa sua impostazione, che sottolinea “gli errori di identificazione e le false convinzioni”, i soggetti si sono sentiti non identificati come rei ma come possibili vittime di errori giudiziari, .

Oltre alle foto singole ci sono quelle intitolate “Eye Totem” con un’acrobatica  moltiplicazione degli occhi che allungano a dismisura il viso del soggetto fotografato, maschile e femminile;  dopo la schermatura degli occhi la loro moltiplicazione ci  sembra un fatto rimarchevole. Tanto più che nel “Black Box Mugshots 2” ci sono 18  strisce costituite da  un insieme di foto frontali di visi, prese dalle segnaletiche, ma sorprendentemente con gli occhi schermati ds una linea nera continua.  

Negli anni più recenti a queste forme espressive basate sulla negazione dell’identità e, specularmente, sulla sua esibizione in negativo, sì è aggiunta una quella intitolata “Mille-Feuille”, in cui le immagini non sono schermate ma le identità vengono rese evanescenti da una particolare “sfuocatura,  risultante da una parziale scomposizione realizzata mediante le 100 strisce separate del pannello di legno sul quale le immagini sono dipinte, che vengono opportunamente deviate.  L’idea fu data all’artista da una nuova anomalia nello schermo del suo computer mentre ritoccava un’immagine digitale, il risultato richiama lo sfarfallio: “L’immagine – spiega Putnam – inizia come una foto e diventa un dipinto, le sue parti si separano e si risistemano,  diventa tridimensionale, al contempo pittura e scultura”, evocando anche in questo modo “il tema dell’identità, come personalità dissociata, trauma e memoria frammentaria”.

In due opere del 2015 quest’operazione è soltanto accennata, “Colin Campbell Ross”, dove la composizione si avverte appena nel busto, mentre il volto è nitido, è un “olio su legno e un meccanismo di motorizzazione” non meglio identificato, evoca un tragico scambio di identità per cui un innocente viene impicacto nel 1922 a Melbourne per un omicidio non comemsso. “Schoenberg”, è un volto meno nitido del primo, attraversato soltanto da vibrazioni grafiche. C’è anche “Skull”, un teschio. appena  sfiorato dalla scomposizione.  

Nello stesso anno irrompe un’opera di notevoli dimensioni, lunga quasi 5 metri e alta 1,5, , “Mille-Feuille Banquet“, in cui la scomposizione  altera leggermente, ma in modo evidente, i volti delle centinaia di persone che banchettano, una variante notevole alla schermatura della serie “Banquet”degli anni immediatamente precedenti.  Segue, nel 2016, “School”, lungo più di 2 metri, la tipica classe di ragazze con il grembiule e il colletto bianco schierata, a fianco la maestra, e addirittura il suo “Self Portrait”, quasi avesse voluto sperimentare su se stesso, la peculiare formula espressiva adottata ; poi, nel 2017, “Walking Man” e “Running Man”, che riecheggiano la “Ragazza che corre sul balcone” di Duchamp, anche loro di dimensioni consistenti, 2 m di lunghezza per 1 m di altezza.  Nell’anno c’è anche un ritratto,  “Mayakovsky”, non solo il volto ma la figura seduta, in cui la scomposizione è molto accentuata, e ancora di più lo era in “Unseated Nude”, del 2015,  un’opera propriamente  cubista. 

Non si esaurisce nelle opere fin qui descritte  la feconda e poliedrica attività artistica dell’autore, in “Black Box Paintings” ci sono delle schermature non ai volti ma a particolari dell’ambiente, come in “Metaphysical Seaescape”, 1997 –  anno nel quale abbiamo anche un sorprendente “Freud’s Window”, o delle costruzioni raffigurate, come in “Sonderzugdepot”, 2013,  “Catatonics”, 2014,  “Cabin”, 2015.  Inoltre , sempre tra il 2013 e il 2015, figure intere quali “The Green Mask” e  “Male Nude Study (Back)” e volti in “Eye Operation”, “Restraining Order” ed “Exit Wound”.

E’ un lungo itinerario, quello dell’artista, in un’inquietudine creativa che lo ha portato a esplorare sempre nuove strade  all’insegna dell’identità declinata in modi sempre diversi.  Si può misurare l’ampiezza  del tragitto compiuto considerando la radicale diversità delle prime opere, dalla serie “Constrictions” del 1991, fotografie in bianco e nero segnate da forti contrasti luminosi, con figure nude legate da corde quasi evocando i legacci delle mummie, riferimento divenuto diretto nella serie immediatamente successiva “Earthworks and Mummifications” ispirata da suoi studi sulla mummificazione dell’antico Egitto al Cairo e a Luxor, che si sono tradotti anche in teste modellate nell’argilla e bendate nei modi delle mummie. Con il progetto immediatamente precedente.

Alcune opere risalgono al periodo 1991-97: citiamo  i multipli di “Vulvas” e“Testament”,gli inquietanti “Head” e “Ancien Portrait”, gli enigmatici “Akhenaten’s Dream” e “Mummification Triptych”. Molte altre sono del primo quinquennio del 2000, per lo più senza figure umane,  dai 3 sull’ocra, “Ochre Diptych”, “Ochre Wall”, “Ochre and Grey Composition”  ai 3 rossi “Remparts Rouge”, “Haqqi (Mon Droit)”, “Steps to Kasbah”,  a 3 allusivi, “East Meets West, West Eats Meat”, “Voodoo Fetish” e infine “Marche et Cache”. 

In quest’ultimo, del 2005, da una piccola finestra  in un parete di tronchi di legno assemblati in modo rudimentale, si affacciano due piccole figure in abiti locali: non sono schermate, esprimono una presenza umana, un’identità rivendicata  che prendiamo come conclusione a un percorso nel quale tante identità sono state nascoste o mimetizzate. conclude Putnam la sua presentazione: “Mentre la sua opera si ricollega alla dissimulazione, Graff paragona il processo creativo ad uno scavo nell’inconscio dove vi è qualcosa di nascosto che aspetta di essere rivelato”. Ed è un’osservazione  che fa riflettere perché attiene alla sfera più intima e riservata di ciascuno.

“Flags”, di Daniel Jouseff

Un’ “identità” molto diversa quella alla base dell’altra mostra, un’identità mancante, quella di  Daniel Jouseff , che ricerca attraverso le bandiere, “Flags” di tutti i tipi  dipinte a forti colori. La curatrice Louise Hamilton le efibisce “bandiere per manifestare i propri pensieri”, ed è ababstanza singolare ssendo la bandiera simbolo di un’identità nazionale che l’autore sente di non avere. Ma non si sente neppure “citttadino del mondo”,la mente torna all’ “ebreo errante” senza pace. 

Non si sente “cittadino  del mondo”, perché, come afferma lui stesso, “sono nato e cresciuto in un paese, ma le mie tradizioni erano radicate in un altro”.  Poi  è entrato in scena un terzo paese, e come risultato sente di non appartenere a nessun luogo. ma avverte sempre la forte sensazione dell’attraversamento dei confini. Quando si va da una nazione all’altra pensando di superare una barriera e di andare in un mondo diverso dal proprio, ma se non si sa a quale mondo si appartiene, come cambia questa sensazione?  

L’artista esprime  artisticamente le sue emozioni  attraverso un viaggio ideale reso da mappe, terre e  bandiere, soprattutto in queste ultime mette tutta la propria inquietudine che lo spinge alla ricerca di una identità virtuale.  

Intervistato da Giulia Abate afferma: “Il mio lavoro è la chiave per scoprire  e comprendere pienamente la mia origine … E le bandiere sono il simbolo per eccellenza dell’identità e del senso di appartenenza” . Proprio perché rappresentano  vaste comunità nazionali  con la loro storia e la loro cultura, le loro tradizioni e i loro costumi. Ma all’artista manca la bandiera, quindi il  senso di appartenenza che dà l’identità: “Io ho vissuto in esilio, nella diaspora, ho da sempre desiderato una casa e posso sventolare la mia bandiera finchè voglio, ma come si può trovare la propria casa quando non sai  dove cercarla?”. 

Per dire il vero la sua sembrerebbe a prima vista una storia normale, nato  in Svezia a Vaxjo nel 1975 e trasferito a Stoccolma dove vive tuttora, dal 2003. Sente tuttavia due culture sovrapposte in lui, aramaica e svedese, perché  una guerra culturale ha privato i genitori della propria lingua, con le cultura araba e turca ulteriormente sovrapposte.  “Non ho la pelle abbastanza scura per esser un mediorientale, ma non sono nemmeno abbastanza biondo per essere uno svedese, allora ho provato ad essere entrambi”, questa la confessione finale. Ne è nato “il caos con il quale mi confronto ogni giorno. Forse le bandiere rappresentano proprio questo mio costante conflitto interiore”. 

Vediamo esposte una quindicina di “flags” dipinte per lo più a olio su tela nel 2017 e 2018,  tutte di fantasia, senza riferimenti a bandiere esistenti. Dalle grandi  “Black/ yellow flag”  su legno e “Black/ black/  flag”,  di 1 metro di altezza,  alle piccole  “Small red  and yellow flag”   e “Small yellow and green flag”, alte circa 30 cm, con i piccoli triangoli giallo e verde su fondo rosso e giallo. Poi le più grandi, alte quasi 1 metro e mezzo, “Multicoloured flag pink” e  “Multicoloured flag with stripes”,  con strisce verticali  con sopra 3 triangoli, entrambe su tessuto. Alte  80 cm -1 metro  le quasi monocromatiche “Flaf/pink/white” e “Greenwhite flag”, quasi solo rosa e verde, e  le bicromatiche “Flag/ blue/ pink” e “Flag/ geren/ orange” in acrilico su carta. In matita e inchiostro su carta  “Graphite grey wood flag“, inchiostro su legno in  “Black/ red wood flag” e “Flag/ wood“, la più piccola di tutte, alta 19 cm. 

Sono esposte due opere identitarie in modo diverso, come   “Yellow border/ satellite”, “Camouflage / border / satellite” e “Borden patrol” con la scritta “Operation Gate Keeper”; e  altre molto differenti,  come “The book of San Michele decostructed”, copertina e due pagine aperte con dei segni azzurri di cancellature, ben diverse da quelle celebri del nostro Isgrò; e  un  singolare “U.S. President” scritto su una lavagna, “Searching for Illegals”, una scritta nera su fondo rosa. 

Ma rimangono impresse le sue “Flags” per lo più bicolori, e il significato che l’artista attribuisce loro: “Le bandiere rappresentano un processo continuo di attraversamento dei confini e il risultato della mia ricerca di una casa, della mia vera identità”. Ha esposto a Stoccolma nel 1916 e nel 1917 e nel Texas nel “Pop Austin International Show”, ma nella mostra attuale la metà sono opere del 2018,  quindi inedite, e di questo va dato merito alla Galleria  Mucciaccia.  

Vogliamo concludere citando il suo “Self portrait” del 2017: si ritrae con il cappello  e i colori della giubba di Arlecchino: evidentemente continua lo spaesamento e la ricerca di una identità, sarebbe interessante seguirne gli sviluppi,  

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Dal lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Cataloghi bilingue italiano-inglese: “Eyedentity”, Stefane Graff”,  Galleria Mucciaccia, febbraio 2018, pp. 330, formato 25 x 29. “Daniel Jouseff. Flags”,  Mucciaccia Contemporary  a cura di Louise  Hamilton, pp.60, formato 20 x 21. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli, in cultura.inabruzzo.it per Duchamp; in fotografia.guidaconsumatore,it per “Proibito”  (questi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Tacchi, dall’autocancellazione al nuovo “spirito dell’arte”, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”,  aperta dal 7 febbraio all’8 maggio 2018  al Palazzo Esposizioni, promossa da Roma Capitale,  ideata, prodotta  organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con l’Archivio Cesare Tacchi. La  mostra è  a cura  di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi che hanno curato anche il ponderoso Catalogo dell’Azienda Palaexpo nel quale si dà conto dell’accurata ricerca compiuta, e si riportano i giudici dei critici con un ampio apparato documentale e fotografico e una monumentale biografia.

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Abbiamo ripercorso la prima parte dell’itinerario artistico di Cesare Tacchi, i dieci anni dall’esordio nel 1968,  nei quali il clima del “boom” economico lo portò a concentrare la sua attenzione sulle automobili, riprodotte  in particolari fissando su tela fogli che davano il senso della superficie metallica, e poi a prendere le distanze dall’affannosa corsa al benessere rappresentando il relax ozioso nelle poltrone con la rassicurante tappezzeria degli interni domestici. 

La pubblicità dominante nella vita e nella società emerge in questi anni nelle figure che ne trae inserendole nei suoi dipinti,  mentre resta convinto che faccia parte di un “meccanismo deformante che  non appartiene ad un processo fisico naturale. Cioè questo elemento (vita standard, economia pubblicitaria, regole fisse, il cartellone a colori schioccanti, il fumetto, lo spider, la donna , la televisione, ecc.) ha posto su uno stesso piano i valori esistenziali, negando la plasticità e la prospettiva di un vero rapporto umano”. Gli effetti sono conseguenti: “Con questo inquinamento totale delle masse, ogni momento dell’esistenza dell’uomo è condotta per mano dai feticci moderni con allettanti promesse e col suggerimento. Voglio dire tornando all’inizio, che tale condizionamento ha ormai preso forma di meccanismo in ognuno di noi, trasformando e svuotando i contatti con la natura e con il mondo dei fenomeni in cui viviamo”.

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Scrive queste parole nel maggio 1964, cerca di proteggersi con gli interni domestici rassicuranti, ma nel 1967  c’è  la svolta degli oggetti casalinghi di uso impossibile, poltrone non più accoglienti ma respingenti, sedie inutilizzabili o minacciose, porte bloccate, cornici senza quadro. Poi, con il maggio 1968, allo scoppio della contestazione,  la “Cancellazione d’artista”: non quella di Emilio Isgrò che annulla le parole inutili per lanciare messaggi, è la cancellazione di sé, la fine di tutto.

Lo fa per cercare un nuovo inizio su basi totalmente nuove, dando avvio alla seconda e molto più lunga fase del suo itinerario artistico, accuratamente analizzata dall’altra curatrice della mostra, Ilaria Bernardi che ci ha accompagnato nella visita alle opere successive al 1968, come Daniela Lancioni aveva fatto per quelle del primo decennio della imponente e articolata retrospettiva.

Il percorso a zig zag dopo la cancellazione d’artista

La Bernardi, nel ricordare che si tratta della parte meno nota della sua produzione, tanto che è definito “artista pop” o “artista delle tappezzerie”,  ne sottolinea l’importanza ritenendo che “la Cancellazione, anziché un drammatico atto di annientamento, abbia piuttosto costituito per lui un sollevante gesto di liberazione da tutti i condizionamenti e i diktat imposti dal sistema artistico e sociale coevo, in primis quelli del produrre, dell’apparire, dell’impegnarsi politicamente, del dover esserci in un modo originale ma sempre nei limiti di una ricerca  condivisa  e diffusasi internazionalmente. Cancellatosi come artista, Tacchi intraprende invece un solitario, ma ben più libero percorso che lo porta a moltiplicarsi pirandellianamente in uno, nessuno, centomila, tante sono le tecniche, le modalità operative e le tematiche da lui affrontate”.

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Seguiremo questo percorso non limitandoci alle opere esposte in mostra, cercando di individuarne i collegamenti, come abbiamo fatto per quelle del primo decennio, pur consapevoli delle sue parole: “Il mio percorso non è stato e non è lineare ma è un’esperienza fatta di cambiamenti, di trasformazioni e di sperimentazioni di vari linguaggi, forse volendo dire sempre la stessa cosa… e se si vuole cercare il filo che possa rendere le opere di un solo autore, basta zigzagare”. 

Come fare lo spiega la curatrice Bernardi all’inizio dell’accurata ricostruzione del periodo seguente la  “Cancellazione”: “L’unico modo per riconoscere i suoi connotati nel lavori successivi a quel gesto, è focalizzarsi su questi ultimi e da essi lasciarsi trasportare: o meglio, farsi guidare dalle libere associazioni di pensiero che ci inducono a collegarli l’uno all’altro, per analogia o per differenza, senza nemmeno seguire un esatto ordine cronologico né tentare di contestualizzarli nelle ricerche artistiche del periodo” . Più precisamente: “E’ solo percorrendo un itinerario a zigzag dal 1969 al 2014, attraverso quadri, sculture, performance, installazioni, ma anche attraverso il corpus dei coevi e inediti scritti , dei progetti rimasti incompiuti, dei disegni su carta, che rende possibile rintracciare il filo d’Arianna che li lega, e di conseguenza l’effettivo kunstwollen del loro autore”.

Percorreremo questo itinerario  con qualche citazione  di rilievo nell’interpretazione della sua arte.

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La fase nichilista, l'”afasia” e l’incomunicabilità con se stesso e l’esterno

Si parte dal significato della “Cancellazione d’artista” aggiungendo,  a quanto già osservato, la considerazione psicanalitica che fa la Bernardi secondo cui “l’impulso ad auto-annientarsi, con la  conseguente rinuncia al rapporto con il mondo, non è necessariamente dettato da una effettiva e masochistica volontà di scomparire, ma può sovente derivare da un desiderio opposto: attirare narcisisticamente l’attenzione su di sé, sul proprio disagio nei confronti della realtà circostante”. L’artista stesso ha confermato questa interpretazione affermando in una intervista del 2005: “E’ stata un’azione radicale, fatta perché mi sentivo inadeguato al contesto sociale e politico. Gesto inevitabilmente narcisistico”.

Un’azione a cui non segue l’inattività, bensì la ripresa su nuove basi,  cominciando con il progettoTestimone”, ottobre 1968-gennaio 1969,  una carta assorbente bianca e nera sul pavimento per accogliere le impronte di oggetti e persone che avrebbero firmato da testimoni per essere alla fine arrotolata e archiviata.  L’impronta dei piedi sottende al desiderio di “ripartire daccapo, dallo status di uomo-animale primordiale”, conclude la curatrice.

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Il progetto non fu realizzato, comunque l’incomunicabilità con il mondo e  con una parte di sé è espressa dal libro “659365”, del 1969, senza testo ma su ogni pagina del lato destro la sua fotografia mentre è intento vanamente  a telefonare al proprio numero, fino a riattaccare l’apparecchio nell’ultima foto. Nel 1970, “Tempocolo” e “Tempometro”, “Orologio” e “Typewriter” esprimono la stessa impossibilità all’uso normale di apparecchiature consuete come, r binocolo, orologio  e macchina da scrivere. Tornano anche i “Mobili impossibili”, definiti “mobili veri che si ribellano e si rendono inutilizzabili per scuotere l’osservatore ormai reso passivo e inerte dalle comodità della vita moderna” che l’artista aveva esaltato nella serie con le poltrone e le “tappezzerie” della prima metà degli anni ’60.

Nel 1972 le copertine scure, nera in “Il segreto della vita”, marrone in “Favola”, senza testi né figure, rappresentano il vuoto, come  “Lo schedario degli dei”  del tutto inservibile, contiene solo poche parole scelte con cura quanto insignificanti nelle schede sui miti divini, mentre “Strumento” rappresenta un archetto che non potrà mai produrre suono, manca la cassa armonica. Da parte sua il “Libro atmosferico”  secondo l’artista “può essere percosso con le nocche delle dita ottenendo  un suono di involucro contenente aria. Questo suono può essere ritmato come ad esempio per inviare un messaggio”. 

La curatrice Bernardi parla di “afasia” rispetto a   questi “tentativi negati di comunicare; o meglio simboli di una comunicazione riportata alla strumento comunicativo primario della mano”. A questo riguardo è molto significativa la serie  di 60  fotografie  di Claudio Abate,   “La mano che scrive”  muovendosi  da sinistra a destra e dall’alto in basso senza lasciare alcun segno, dunque nemmeno la mano permette di comunicare. Neanche la comunicazione verbale funziona, “Tu sei. Due basi per un colloquio” che vediamo esposte sembrano marcare la distanza nel dialogo che fu oggetto di una vera “performance”  in uno spazio affollato con i due interlocutori lontani. 

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Il ritorno allo stato primordiale, animale o infantile

E allora il ritorno allo stato primordiale diventa una via obbligata, e questo preclude l’uso di comodità per cui già nel 1969  aveva  progettato una camera da letto con i mobili inutilizzabili, dal letto con acqua, all’armadio bloccato, al giradischi con un disco silente; del resto, afferma in un francese maccheronico, le “formiche” pur senza comodità “vivono da milioni di anni”.

 “Cosa logica è cercare l’istinto animale”, ha scritto l’artista nello stesso anno rispetto all’opera “Senza titolo”, e nel 1972 lo  cerca con il progetto di un telo di plastica trasparente sospeso orizzontalmente a 80 cm dal suolo. Lo descrive così: “L’entrata nello spazio sottostante avverrà piegandosi carponi, con le mani e i piedi a terra. Si visiterà questo spazio  assumendo una posizione animale o per lo più  la posizione che assume l’uomo nei primi mesi di vita”.

La riappropriazione dello spazio avviene nello stesso anno con le due “perfomance” “Il Rito” e “Arativo. Luogo atto ad essere coltivato” in cui si sposta carponi  a terra. Nel primo bacia il pavimento muovendosi in senso centrifugo e antiorario, nel secondo si muove secondo la dinamica dell’aratro. Il luogo non è più artificioso e convenzionale, ma naturale, sono i primi segni della ripresa creativa, come sottolinea la Bernardi: “L’uomo-animale esce trasformato in un uomo-neonato che, pur camminando ancora carponi ed essendo ancora incapace di esprimersi a parole, può però iniziare  a (re)imparare a conoscere se stesso, gli altri e il mondo attraverso i cinque sensi”.

C’è stata in aprile a Roma la mostra “American Action Painting” , Tacchi è stato colpito dalla violenza cromatica delle campiture di forti colori su vaste superfici,  collega questa azione violenta alla sua ricerca dell’istinto animale, si sente pronto a “riapparire” con una  azione speculare e contraria a quella della “Cancellazione”, siamo sempre nel 1972, sono trascorsi quattro anni da allora, inquieti e tormentati.

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Nel frattempo, dal 1971 ha avuto l’incarico di insegnamento all’Accademia dell’Aquila, seguiranno incarichi in licei artistici di Roma  che manterrà per oltre 35 anni, fino al 2007 ,  la sua didattica applicata all’arte è basata sullo stimolo a conoscere e mettersi alla prova nel rapporto con gli allievi, un’altra risorsa per lui dopo il ritorno alla spontaneità dell’infanzia. Si  intitolerà “Tabula rasa”  una delle sue opere sugli elementi di base della pittura, si tratta di una grande superficie nella parete della Galleria La Tartaruga di Roma in cui lasciare il proprio segno con le mani, un progresso rispetto ai piedi della presenza animale di cui abbiamo già parlato.  Nel “Quadro elastico”  il segno da lasciare è geometrico scegliendo tra apposite forme in legno. Alla base di tutto c’è il bisogno di tornare a comunicare in modo autentico e genuino senza condizionamenti.

La riapparizione di “Painting” e il nuovo contatto con l’arte 

L’azione che lo riporta alla ribalta con una presenza visibile si intitola appunto “Painting”,  ma non si ispira al cromatismo violento delle opere degli artisti americani viste ad aprile: una trentina di fotografie di Elisabetta Catalano lo ritraggono mentre con un panno rimuove la vernice che rende opaca la lastra trasparente, per cui quando è eliminata completamente riappare l’artista eretto, non più carponi, con una presenza fortemente simbolica.

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C’era stato in precedenza un altro gesto analogo, ma aveva tolto una pellicola con riferimento all’azione teatrale che fa da schermo,  ora c’è qualcosa di più, si tratta della pittura. Seguirà, nel 1974, “Sentire… se dipingete chiudete gli occhi e cantate”, una grande tela dipinta di verde, forse nel segno dell’ “Action Painting”, e un orecchio di dimensioni normali al centro: pittorico,  sì, ma con una forte impronta concettuale, lui stesso dice: “La pittura è il codice  che serve di supporto ai test”, orecchio e occhio sono posti alla stessa altezza, per cui coincidono “il sentire e il guardare” , viene sottolineata così la comunicazione con l’osservatore  che ha carattere biunivoco.

Prima di parlare del suo ritorno alla pittura, citiamo la  personale del 1979 alla Galleria La Salita sempre di Roma, vediamo esposti diversi oggetti  di quella mostra, “Il triangolo si presenta al foro in quadrato”, li descrive così in un manoscritto dello stesso anno: “Il triangolo si presenta all’occhio in vista, poniamo ad esempio un triangolo che si dispone a fronte del foro, in questo caso esso viene inquadrato e ricevuto nella sua forma, nella sua sostanza, all’interno nella camera dell’oggetto globale, l’oggetto animale… il triangolo si presenta all’occhio dell’animale ed è inquadrato, assunta la forma estranea l’oggetto elabora, rigetta oppure produce sulla propria superficie se stesso in forma di altro, oppure geometrie errate o esatte, oppure giochi e giocattoli sulla superficie globale”.

E’ una definizione criptica, è il periodo in cui c’è l’approccio al teatro con “Enigma al teatro scientifico”, 1980, pantomina a base di cinque maschere di cartapesta e personaggi, tra cui lo stesso Tacchi, imprigionati in sacchi  con visibile solo la testa e al termine in calzamaglia nera che lascia scoperta una parte del corpo, insieme danno l’impressione di un individuo scomposto in pezzi. Tre anni prima il progetto “La storia – Le Maschere”,  8 maschere di materiali diversi, senza fisionomia e con un  modo di allinearle per “vedere il mondo” attraverso uno strano “telescopio monoculare”. 

Il ritorno all’arte pittorica nel volo simbolico dell'”Uccel di bosco” 

L’arte pittorica la ritroviamo alla grande nello stesso 1980 con il dipinto a olio “Secretaire”, esposto sempre a La Salita, la cui parte superiore si apre verso l’orizzonte dietro un filare di alberi di un parco – è evidente il richiamo a una fotografia del 1973 in cui si trova con una persona non identificata a Villa Pamphili – al centro alcuni oggetti primordiali come una sfera e un osso, in primo piano un tappeto di fogli, non di foglie beninteso, sono grandi fogli di carta bianca che simboleggiano la cultura. Il titolo starebbe a significare che “la pittura è il luogo dei segreti” di cui l’artista è “segretario”, e va intesa, per la Bernardi, “come testimonianza di un profondo il cui significato non può mai essere esaurito a parole. Un profondo che quindi rinvia al concetto psicanalitico di inconscio”. Fu di tipo psicanalitico lo sviluppo, nella stessa galleria, di un “gruppo esperienziale” legato al dipinto, “che gli fornisce la possibilità, da sempre cercata,  di porsi in dialogo con l’altro da sé”.

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Ma  le sorprese non sono finite, lo vediamo nell’adesione alla pittura con “Uccel di bosco”, che segna la ripresa di un ruolo attivo dopo una così lunga assenza dal figurativo. Nel 1982  abbiamo l’icona pittorica, un uccello dei boschi raffigurato tra le fronde verdi, anticipato nel 1980 da “Lo spirito dell’arte”, figurazione analoga resa con un montaggio di dita che tengono la tavolozza a indicano una direzione di marcia e da “Della pittura”, in cui la stessa figura è mostrata in volo.

“Lo spirito dell’arte”  vola lontano, nel  1990  intitola, con la specifica # 1, 2, 3,  tre grandi pannelli cromatici, da “Action Painting”, rispettivamente rosso, blu e verde, ma con l’ “Uccel di bosco” riprodotto una miriade di volte, come la fioratura nelle “tappezzerie” delle opere degli anni ’60.    

Così la curatrice: “Sécrétaire, Della pittura, Uccel di bosco e Lo spirito dell’arte corrispondono dunque a quattro tappe nodali  nel percorso dell’artista che dopo essersi presentato come ‘testimone’ passivo di una pittura piena di segreti, prende la tavolozza in mano e, come un ‘uccel di bosco’, dietro ad essa si nasconde dal mondo, per poi prender coraggio e mostrarsi quale ‘immagine solida dell’autore’, il quale, abbandonata la propria introversione, può finalmente dichiararsi ‘spirito d’artista’”.

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Ne vediamo i riflessi in altri lavori successivi, come “Foglioline bianche” e “Foglioline nere”, 1991, su fondo verde e giallo, in cui il richiamo alle “tappezzerie” è ancora più evidente per la modularità delle sequenze che si ripetono nell’intera superficie; diversamente riproposti, ma con analoga accezione, gli strati riproposti di “Emozione (a Bernini)” e “Foglie e foglie”, 1986, mentre “Parola parola”  appare una straordinaria tappezzeria di foglie verdi perfettamente riprodotte.

Oltre agli elementi naturali, dall’uccel di bosco alle foglie  e fiori, troviamo composizioni geometriche assimilate all’arabesco in “I fogli”, “I segni”, “Defogliato”, 1995, con motivi grafici neri o bianchi su fondo colorato  a tinta unita rispettivamente rosso, blu, rosso.  Ecco il significato attribuito dalla Bernardi: “Confondendosi con tale trama d’arabesco, i segni, i simboli e le parole annullano il loro valore semantico per diventare pittura, pura immagine che induce a pensare. Si verifica uno scambio tra il leggere e il vedere, tra il nominare e il rappresentare, o meglio, una riformulazione dei consueti apparati linguistici”.

La riformulazione è così concepita: ” Ogni elemento tralascia il proprio ambito di origine (la geometria, il linguaggio verbale o simbolico) per trasformarsi in postulato segnico. Tornare al ‘linguaggio neonato’, significa svincolare l’immagine dal messaggio, renderla aperta a qualsivoglia interpretazione, trasformarla in strumento di sollecitazione dell’immaginario”.  Anche per questo negli anni ‘2000 si cimenta nella riformulazione delle opere più celebri degli anni ’60 con diverso titolo in modo da “mostrare il suo operato, riproporlo variato, e chiedere a noi spettatori  di rintracciarvi, attraverso la comparazione, i segnali più significativi del suo procedere”.  Lui stesso ne dà l’interpretazione autentica: “L’itinerario da percorrere è soprattutto quello di essere fedeli a se stessi, perché la via è solitaria al fine e porta lì dove sei nato nella materia”.

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“Pensare a rovescio” per fare arte e comunicare con se stesso e gli altri

Ma “essere fedeli” a se stessi  in che direzione,  viene da chiedersi: “Per fare arte bisogna pensare a rovescio”, ha scritto dietro un’opera su carta intitolata P.I.E.T. (Pensiero, Interiore, Estatico, Traslato), la Bernardi ne trae questa conclusione: “E’ nell’esigenza di ‘pensare a rovescio’ per fare arte, ovvero per esprimersi, per comunicare, per porsi in dialogo con gli altri, che risiede l’attualità del suo lavoro” . Si è posto con grande anticipo il problema della comunicazione, che deve essere “liberata da qualsiasi condizionamento, soprattutto se concepita come dialettica con l’altro da sé, con il diverso, con la varietà dell’essere nel mondo”.

Questo non è soltanto il “fil rouge” che collega la sua opera così multiforme e apparentemente eterogenea, è anche “il più prezioso insegnamento lasciatoci in eredità”.    

Guardiamo i tre autoritratti del 2003 che concludono la mostra,  in tutti è rivolto a sinistra, appoggia il mento sulla stessa mano, ha la medesima cravatta, sono puntinati con una fitta griglia grafica che nell’ultimo tende al rosso: i titoli,“Com’ero”, “Come sono”, “Come sarò”.  Sono definiti ed evanescenti nel contempo, com’è stata e resta la sua figura di artista tormentato  e  indomito.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo  “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Berardi, Azienda Speciale Palaexpo, gennaio 2018, pp.480, formato 16,5 x 23,  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il  12 marzo  u. s. con altre 13 immagini. Per gli artisti citati, cfr., in questo sito, i nostri articoli  sulle mostre su Isgrò  16 settembre 2013, Claudio Abate le foto a Carmelo Bene 2 gennaio 2013, il Guggenheim con le correnti artistiche americane tra cui l'”Action Painting” citata, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Archivio Cesare Tacchi, per l’opportunità offerta. A parte l’immagine di apertura, le successive 5 immagini sono commentate nel primo articolo, le prime 3 anteriori alle “tappezzerie”, le altre 2  posteriori. In apertura, “Secretaire” 1980; seguono, del 1962, “Super n. 6″ e “Struttura bianca su nero”; poi, “Circolare rossa” 1963, e “Poltrona inutile” 1967; quindi, “Cornice” 1968, e, del 1972,  “Schedario degli dei”; inoltre, “Strumento” e “Painting”; infine, “Lo spirito dell’arte # 1, 2, 3” 1990,  da sin., “Foglioline nere”, “Foglioline bianche”  1991, e, da sin., “I Fogli”, “I Segni”, “Il Defogliato”  1995; in chiusura, “Come sarò” 2003.

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Tacchi, una retrospettiva intrigante, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Oltre 100 opere esposte nelle mostra “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, aperta al Palazzo Esposizioni dal 7 febbraio all’8 maggio 2018, a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi che hanno compiuto un’accurata ricostruzione del suo percorso artistico riportata nel ponderoso catalogo da loro curato; la ricerca si è svolta in 35 archivi, e  ha visto la collaborazione a vario titolo di 200 persone, 25  i prestatori dichiarati pubblici  e privati. La mostra, promossa da Roma Capitale,  è  ideata, prodotta, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo con la collaborazione dell’Archivio Cesare Tacchi. Catalogo dell’Azienda Palaexpo curato dalle due curatrici della mostra.

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La mostra “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, che si svolge nelle 7 gallerie intorno alla rotonda centrale,   è intitolata così perché si basa sull’accurata ricostruzione di un percorso che prende l’avvio all’inizio degli  anni ’60,  quando aveva 18 anni essendo nato il 18 agosto 1940, e si protrae fino al primo quindicennio degli anni ‘2000: l’artista muore a Roma il 14 marzo 2014, a 73 anni, lasciando incompiuto nello  studio il dipinto a olio su tela “Com’è liscia la tua pelle”, chiudendo con il ritorno alla pittura un cerchio vasto e multiforme di esperienze artistiche molto particolari.

Abbiamo contato 44 mostre personali e 171 mostre collettive di cui 19 dopo la sua morte e notato che la mostra attuale è la ricostruzione più completa della sua arte fuori da ogni convenzione, in quanto sfugge ad ogni riferimento a correnti artistiche, movimenti, avanguardie: non solo per il suo carattere molto personale, ma anche  e sopratutto per  le continue virate in una ricerca inesausta e appassionata dei modi in cui manifestare, anche nella forma più pirotecnica e inusuale, la spinta alla creazione artistica che sentiva premere dentro di sé  quale espressione di ciò che si muoveva in lui e nella società non come mero riflesso condizionato, bensì come reazione del tutto anticonformista.

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Il percorso artistico movimentato di un artista inquieto

Il  carattere di artista inquieto e tormentato era così genuino da arrivare perfino alla “Cancellazione d’artista”, al proprio annullamento allorché ha sentito esaurita la spinta creativa che si era esercitata in modalità innovative come concezione e come realizzazione, ma non dava più le risposte attese al proprio bisogno irrefrenabile di esprimere ciò che provava in modo autentico senza i vincoli e i limiti della creazione artistica anche se espressa nell’avanguardia delle forme  e dei  contenuti.

Una cancellazione non per finire ma per ricominciare da zero, dalla “tabula rasa” di sé e di quanto aveva concepito, elaborato  e prodotto fino ad allora, e non a caso l’anno della cesura è stato il 1968, non poteva non incidere su un artista inquieto e sensibile lo sconvolgimento avvenuto nel corpo sociale con la contestazione studentesca e le nuove istanze che ribaltavano gli assetti costituiti.

 Le due fasi del proprio percorso artistico sono distinte tanto nettamente che hanno costituito oggetto di specifici approfondimenti da parte delle due curatrici della mostra, Daniela Lancioni  per la prima fase, dagli esordi alla “cancellazione d’artista” del 18 maggio 1968, Ilaria Bernardi per la seconda fase dopo il 1968 con la ripresa prima lenta e faticosa poi sempre più prorompente e impetuosa verso sempre nuovi lidi. Sono state, le curatrici,  le guide nella visita alla opere esposte in mostra in una cronologia che ne marca la diversa sostanza artistica, passandosi il testimone nella staffetta delle due fasi come fanno nel ponderoso catalogo con due saggi introduttivi nettamente distinti e un approfondimento del doppio percorso artistico quanto mai dettagliato e documentato.

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Abbiamo detto che Tacchi è sempre rimasto al di fuori delle correnti ed espressioni artistiche anche d’avanguardia occupando un posto del tutto personale e non omologabile; tuttavia la ricostruzione del suo percorso viene inquadrata nelle tendenze in atto nelle varie fasi  in cui si è manifestato anche per il suo continuo collegamento personale con gli artisti che animavano la scena romana, quindi è occasione  per riportarsi ai loro fermenti in una stagione così ricca di  stimoli creativi.

Sono tante  e tali le opere esposte che vale la pena di partire dalle singole manifestazioni artistiche per poi inquadrarle nel contesto socio-economico e culturale oltre che nella personalità dell’artista.Le prime opere, fino all’automobile e ai richiami consumistici

L’accurata ricostruzione di Daniela Lancioni  ci fa collocare  “Figura”, 1959, che vediamo esposta, tra le prime opere, considerando che nel 1958, a 18 anni, aveva esposto alla “Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio” due opere con il titolo evocante la figura; ma quella che vediamo nonostante il titolo non è figurativa ma materica, con uno strato nero – li chiamavano “catrumi” e si ispiravano al Burri prima dei “sacchi” –  su una campitura bianca che richiama Franz Kline. E’ un esordio in cui lo affascina Mondrian, con le sue geometrie particolari, che aveva visto nella mostra del 1956, e anche in onore del teorico del neoplasticismo definisce “neoplastici” i suoi primi lavori.  

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Il contrasto tra titolo e contenuto deriva dalla crisi dell’informale al quale  si cercava di rispondere in qualche modo contrapponendo  la “figura”,  intanto in  senso nominalistico,  e contrastando il “caos”  attraverso l’evidenza degli elementi essenziali,  come colore e superficie, rilievo e brillantezza. “Giallo cromo” e “Senza titolo”, 1961, vanno oltre, con l’assemblaggio di elementi come lastre e listelli e una lamiera metallica perforata, verniciati di un giallo molto vivo,  nel secondo c’e anche  un  interruttore che accende la luce.  Non sono opere estemporanee, ci sono disegni preparatori anch’essi in giallo, “In salita” e “In discesa” con abbozzo di scalini, e per elementi musicali come “Stereofonia” e “Suono rosso”, pure le perforazioni nella lamiera del “Giallo cromo”  richiamano gli “stereo” diffusi in quegli anni di boom anche musicale.

Presto la reazione all’informale si sostanzia in tematiche figurative sempre più evidenti ma estremamente originali  come il ciclo legato alle automobili, una passione di famiglia dato che il fratello Claudio acquista prototipi, su uno dei quali vediamo Cesare fotografato. Anche qui c’è la preparazione con il disegno, “Curva a 200 all’ora” mostra una serie di schizzi.  Tre opere esposte del 1962  sono intitolate “Super” #. 3, 6, 8, il nero fa pensare alla ruota, il rosso granata incurvato in modo sinuoso oppure posto in orizzontale alla carrozzeria, va sottolineato che sono smalti su carta incollati nella tela per dare la sensazione metallica di maggiore brillantezza senza asperità; si tratta per lo più di particolari, anche Mario Schifano, Tano  Festa e Renato Mambor lavorano così.

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Nello stesso 1962, “Struttura bianca su nero” presenta il profilo dell’auto, ruota e finestrino, e “Prova”, 1963, il retro del veicolo con ben chiari sedili e poggiatesta. . Tra il 1963 e il 1964, con “Circolare rossa” e “Piazza Navona dall’automobile”,  si passa ai trasporti pubblici romani, identificati dal verde della carrozzeria con il bordo giallo e rosso:  nel primo si intravedono delle sagome, passeggeri all’interno del veicolo oppure pedoni dall’altra parte, nel secondo appena qualche elemento della piazza.  “Al milite  ignoto” rende ancora più evidente l’antropizzazione, una testa nera con dietro la sagoma evanescente appena percepibile del Vittoriano. Il particolare  di “Piazza Navona”  con la figura statuaria in giallo e rosso completa la marcia di avvicinamento alla figura umana. C’è una fotografia di Plinio De Martiis che ritrae Tacchi al volante di un’automobile mentre dal vetro anteriore  si vedono le forme  gialle e rosse delle statue della Fontana dei 4 Fiumi.

E’ una marcia che si conclude nello stesso 1964 allorché irrompe una nuova visione della realtà e un modo nuovo di rappresentarla, con la figura umana che  marca la sua presenza reale o virtuale. 

Va ricordato che siamo nel pieno del “boom ” – il “miracolo economico” degli anni ’60 – e gli artisti si sentono coinvolti e stimolati dal nuovo clima, Tacchi  ha incollato  buste della Standa e di Upim “come ultima negazione, come ultimi non rapporti con la realtà”, una sua opera su carta del 1962 si intitola “Magazzini Upim”.  Fervono dibattiti  sul  rapporto tra il lavoro degli artisti e il potere condizionante  dell’industria, Giulio Carlo Argan mette in guardia dalla contaminazione e subordinazione degli artisti al potere dominante, se Tacchi aveva presentato Upim e Standa e auto senza nome,  Schifano il marchio della Esso, Cibrario quello della Martini e Testa il Punt e Mes.

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Il disimpegno, tra il relax delle poltrone e l’intimismo delle tappezzerie.

Le altre opere del 1964 che vediamo non esprimono direttamente questo rapporto con il consumismo che avanza, ma lo fanno indirettamente evidenziando un richiamo agli agi che ne derivano. Mentre il “boom” evoca  la corsa alla produzione, competitività ed efficienza, lavoro e produttività, l’artista ne descrive gli effetti di benessere e, in un certo senso, la presa di distanza:  non la rincorsa ma il relax, non la frenesia ma la tranquillità. La Lancioni cita una serie di riferimenti colti di “borghesi nauseati e annoiati, paralizzati nell’azione”, oltre alla nobiltà feudale di  Oblomov, come Roquetin di “La nausea” di Sartre, “L’uomo che dorme” di Perec, il “Giovane Holden” di Salinger  e “tutti i personaggi autobiografici della Beat generation”. Anche Jaques Tati viene ricordato  per la sua ironia che “fa da antidoto a questa paradossale frenesia del riposo” e perfino l’Ebdòmero di Giorgio de Chirico che rema sulla barchetta nella propria stanza. 

“I personaggi di Tacchi – osserva la Lancioni – mentre tutto intorno è vortice, se ne stanno seduti in poltrona, si riposano, conversano. Non partecipano all’affanno generale”. Lo vediamo in  “Paola e  poltrona”   con una sagoma femminile nera in perfetto figurativo; mentre “Poltrona gialla” e “Poltrona rossa”, sempre del 1964,  mostrano le imbottiture senza figura umana, nel secondo c’è una mano nera che sembra inviti a sedersi. Le due poltrone sono invitanti, realizzate mediante un lavoro di tappezzeria con i punti dell’imbottitura messi con maestria per dare veridicità all’arredo.

“Sul divano a fiori” e “Renato e poltrona”, 1965,  un ulteriore passo avanti, le figure umane, contornate  con precisione e per lo più nere, spiccano su una tappezzeria fiorata  non soltanto nel divano ma anche nella parete. “Sono i giovani che in una società ormai discretamente lontana dai conflitti bellici e in uno stato di relativo e diffuso benessere, si distraggono, si predispongono al dono, misurano la possibilità della dépense, la perdita improduttiva dalla quale derivano nobiltà e onore”, secondo la teoria di Georges Bataille citato dalla Lancioni.  Il pensiero va alla “decrescita felice”, teoria coniata per il tempo presente,  la storia che si ripete, con quel che segue. 

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In questo ostentato distacco rispetto all’esaltazione del “boom” economico, la Lancioni vede addirittura dei prodromi della contestazione del 1968 dei giovani contro l’assetto costituito: “Saranno loro gli artefici di quei cambiamenti destinati a rimanere l’eredità più preziosa del Novecento e se per ottenerli sono dovuti poi salire sulle barricate del maggio, per immaginarli hanno oziato”.

Il rassicurante ambito privato e familiare e la contaminazione storico-artistica

Ma in queste opere di apparente disimpegno  non c’è solo la dimensione domestica nella rassicurante cornice della tappezzeria,  le figure sono prese dalla pubblicità, quasi a voler sottolineare la sua penetrazione pervasiva anche nell’ambito più privato e familiare nel quale interviene anche la corda sentimentale; non guardano mai verso l’osservatore. 

Lo vediamo nelle opere dello stesso 1965, “Quadro per una coppia felice”, “Amore” e “I fidanzati”, nelle quali c’è sempre la tappezzeria ma le figure sono prevalenti, spicca quella femminile, sono ricavate da pubblicità ritagliate dai giornali. Nessuna enfatizzazione dei ruoli, c’è un vero trasporto nell’abbraccio della “Coppia felice” e una  visione romantica dell’ “Amore”  consumato con l’uomo che si solleva dal letto soddisfatto mentre la donna dorme appagata.  Altrettanto intimiste le due opere  “La mano nei capelli” del 1966 e 1967, non esposte,  il primo piano della carezza esprime tanta dolcezza.  

Torna sullo stesso tema con due nuove versioni di “Coppia felice”, 1966, in cui alternativamente è più in rilievo la donna o l’uomo con una sagoma a pieno colore rosso o nero, l’altra delineata nella tappezzeria che resta anche se con minore evidenza. Sembra una lancia spezzata a favore dell’uguaglianza dei sessi nel rapporto tra uomo e donna, anche questa è stata una conquista dell’emancipazione femminile che ha trovato nel ’68 una forte spinta.

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Così nei volti incorporati nella tappezzeria, il “Ritratto su tessuto stampato # 1”, 1965, è  un bel viso femminile sorridente, la stampa è a fiori,  “Ritratto”, 1966,  un profilo maschile, il tessuto è con delle stelle, mentre in “L’uomo che guarda”, ancora 1966, torna la distinzione netta tra il volto nero e il tessuto che fa parte della composizione ma non invade la figura.Non c’è soltanto l’attualità in questo ciclo di opere. Le tappezzerie sono protagoniste anche nelle citazioni storiche come  nell’opera non esposta su Corradino di Svevia in cui è riprodotta una miniatura sulle “Nuova Cronica” di Giovanni Villani. E sono presenti nella contaminazione con opere d’arte celebri come “Primavera allegra” , 1965: “Tra i quadri imbottiti  il suo più impegnativo per grandezza e complessità delle figure  – commenta la Lancioni – nel gioioso corteo della Primavera di Botticelli, innesta le immagini incongrue prelevate dalla pubblicità della mano nei capelli e di una figura femminile sdraiata”. E come “Cleopaolina”, 1967, non esposto,  il volto di Paolina Borghese è sostituito da quello di Elizabeth Taylor allora in voga per il film Cleopatra.

Oltre a questa attrice, in altre opere sui miti del momento compare la donna ricoperta d’oro di “Missione Goldfinger”, il film in voga su James Bond ed, esposto in mostra, “Per i Beatles” , in cui sono presenti tutti gli elementi, tappezzeria, cromatismo multiplo quanto discreto, figurativo chiaro.

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Completiamo la rassegna delle opere di questa serie con “Il letto pensando a un prato”, 1966, divisa in tre piani, più in alto la testata di un letto imbottito con dietro piccoli squarci di tappezzeria, sotto due figure femminili sdraiate, quella al centro con uno sfondo di tappezzeria a righe rosse su giallo, quella in basso su uno sfondo a fiori che evoca i suoi pensieri e figura nel fumetto che esce dalla bocca della figura posta al centro. Quest’opera appare in una fotografia di Ugo Mulas che nel 1967 ritrae “Cesare Tacchi nel suo studio”  ripreso di spalle a lato del trittico di cui il lato inferiore è sul pavimento, i due lati superiori sono appoggiati alla parete.

L’ultima, “Ninfea maggiore, 1966, nello studio di James Kounellis, in bianco e nero, mostra la metà di un viso femminile che occupa l’intero lato destro della composizione, spuntando dietro lo stipite di una porta, l’altra metà a sinistra appena delineata. La Lancioni la associa al già citato “L’uomo che guarda”: “L’immagine è rarefatta, l’ardimento della decorazione a stampa della stoffa  cede campo al silenzio della tinta unita. Il volto dolcissimo della donna è separato in due metà che non coincidono, e l’uomo che guarda, il cui profilo  è tratto dalla campagna pubblicitaria delle lamette Gillette, va a implementare l’iconografia del pensatore (moderna declinazione della malinconia). Un sentimento di incomunicabilità vela le figure”.

L’inutilità degli oggetti domestici divenuti ostili fino all’autocancellazione 

Ci siamo allontanati dalla “poltrona” che ha aperto la serie delle tappezzerie rilassanti. Ma Tacchi ci torna l’anno dopo, nel 1967, e non più con le imbottiture di rilievi di radice pittorica; bensì con gli oggetti di arredamento nella loro effettiva consistenza,  quindi di radice scultorea, e lo fa dando con l’attribuzione di un significato e di un contenuto opposti.

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Il  richiamo rilassante per sfuggire all’affanno dell’impegno produttivo rifugiandosi nella dimensione domestica della poltrona nella tappezzeria non c’è più: “Poltrona inutile”  è una sfida o una provocazione,  perché i debordanti braccioli o altri ostacoli impediscono di sedersi, e così “Poltrona bianca con impronte di personaggio romantico sul tappeto” che prefigura sviluppi successivi della creatività dell’artista in senso performativo.  Sulla “Poltrona chiusa” così  scrisse a Maurizio Calvesi il 20 giugno 1967: “Mentre alcuni oggetti appartengono ad una visione e concezione spaziale schiacciata o di superficie in un certo senso ancora nel racconto del quadro, la poltrona chiusa ne viene fuori e crea un rapporto con l’ambiente che la circonda ed è mobile ed ha due elementi articolati che creano altre possibilità di spazi plastici. La percezione è intimamente di carattere eretico e fruibile sia visivamente che tattilmente. Lo spettatore si troverà quindi a percepire questi oggetto-quadri, sensitivamente, e dovrà più  avvertire che guardare, provare cioè sensazioni”.

Tacchi non è l’unico in quegli anni a togliere all’abitazione la caratteristica di rifugio rassicurante e protettivo, anzi potrebbe essersi ispirato a Claes Oldenburg di cui visitò a New York lo studio, agli oggetti consueti di arredamento viene conferita un’aggressività ben più minacciosa dell’innocua “Poltrona inutile”  Si pensi alla progettazione dell’artista di un “Prototipo di sedia per sedute critiche, conferenze e premi letterari”addirittura con due lame d’acciaio oltre a una molla. Vediamo le immagini di una “Sedia bucata” e di una “Sedia coll’acqua”, 1967,  rispetto alle quali scrive nella stessa lettera a Calvesi: “I miei oggetti-quadro sono delle idee e sono distruttivi  e si autodistruggono perché impossibili, ma concretizzano una nuova esistenza in se stessi”.  E, in termini più precisi: “Per il letto ad acqua mossa vorrei ottenere  il leggero sommovimento di tutto l’oggetto, poggiante su molle d’acciaio, tramite un motorino elettrico a rotazione eccentrica. Il braccio oscillante creerà una vibrazione che si comunicherà all’oggetto e di conseguenza all’acqua. Questo perché mi interessa creare un ritmo con un liquido, in un oggetto di forma rigida costruita, e dare così altri significati oltre quelli di sola percezione visiva”.

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Il tutto lo vedeva inserito in una stanza capace di stimolare le percezioni e le sensazioni indicate, “con una grande cornice di quadro su ogni parete. Le cornici sono di tipo modulare, realizzate in gommapiuma e foderate di tessuti”.  Ne vediamo esposte due, del 1968, con un “Segmento modulare blu”, 1967, una scura con riquadro piccolo, l’altra dorata intitolata “Cornice”, 1968, molto grande, manca del dipinto perchè destinata ad inquadrare gli amici, come Paola Pitagora, e i visitatori divenuti quadri tra le rovine di pezzi di cornici a terra per evocare i frammenti di colonne dei ruderi romani.

Non è nichilismo questo, ma fa pensare a un momento distruttivo se non autodistruttivo. Sembra logica conseguenza la “Cancellazione d’artista”, avvenuta nella prediletta Galleria Tartaruga il 18 marzo 1968, ben diversa dalle cancellazioni grafiche di Emilio Isgrò. Ci sono le fotografie di Plinio De Martiis che ritraggono Tacchi in questa azione creativa, ma in senso iconoclasta,  che vuole evocare i tempi teatrali su provocazione lanciata dallo stesso fotografo  con il “Teatro delle mostre”: dipinge una lastra trasparente rendendola opaca in modo da scomparire alla vista. E’ proprio la fine, se seguono nel novembre 1968 soltanto 16  progetti, disegni di improbabili  sistemazioni dello spazio che mostra al pubblico in Via d’Alimbert, nei pressi di Piazza di Spagna; e delle azioni performative come Colorare gomitoli di lana”  o “Appendere un artista”, naturalmente in modo simbolico, con i piedi poggiati a terra .

Ma c’è stato da poco il maggio 1968, tutto è da ricostruire. Vedremo prossimamente come questo avverrà nel secondo tempo del suo percorso artistico, ancora più sorprendente.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari: da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo  “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Berardi, Azienda Speciale Palaexpo, gennaio 2018, pp.480, formato 16,5 x 23, dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il 22 marzo p. v. con altre 13 immagini. Per gli artisti citati, cfr., i nostri articoli: in questo sito,  sulle mostre di De Chirico 11 marzo 2015, 20, 26 giugno, 1° luglio 2013,  Isgrò 16 settembre 2013,Mondrian 13, 18 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it  De Chirico 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto,  23 settembre, 22 dicembre 2009; in fotografia.guidaconsumatore.it Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); a stampa in “Metafisica” e “Metaphysical Art”  De Chirico n. 11/13 del 2013.. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Archivio Cesare Tacchi, per l’opportunità offerta. Somo immagini delle opere del periodo delle “tappezzerie”, tranne l’ultima che è una delle prime opere; le altre opere che precedono quelle con le “tappezzerie”, commentate nella prima parte di questo articolo, sono la 2^, 3^ e 4^ immagine del secondo articolo seguite da quelle successive alla “cancellazione d’artista”. In apertura,  “Uomo che guarda”  1966; seguono, del 1964, “Poltrona rossa” e “Paola e poltrona”, poi, “Poltrona gialla” e, del 1965, “Sul divano a fiori”; quindi, “Renato e poltrona”  e “Quadro per una coppia felice”; inoltre, “Ritratto su tessuto stampato # 1” e “Per i Beatles”; infine, del 1966, “Coppis felice”, “Il letto (pensando a un prato…!)”, e del 1965 “La primavera allegra”; in chiusura, del 1961, “Giallo cromo n. 4”, apre la galleria delle prime opere che prosegue nelle citate 3 immagini iniziali del secondo articolo.

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Gentili, le “Soglie di luce” alla Casina delle Civette

di Romano Maria Levante

Nel decennale della scomparsa di Pietro Gentili alla Casina delle Civette di Villa Torlonia la mostra “Soglie di Luce” espone dal 17 febbraio al 27 maggio 2018 un’ampia selezione di opere sul tema della luce da lui esplorato sul piano artistico utilizzando i più diversi materiali e le più svariate tecniche innovative,e sul piano speculativo con una serie di scritti raccolti nel volume “Esprimersi nella luce”. La mostra è curata dalla direttrice della Casina delle Civette Maria Grazia Massafra e da Claudio Cerritelli.  dell’Accademia di Brera, che hanno curato anche il Catalogo bilingue italiano-inglese di Pioda Imaging Editore, con i saggi dei due curatori e una Premessa  della figlia dell’artista Emanuela Gentili.

Una vita movimentata, con una forte spinta interiore

La presentazione della mostra che precede fa capire che le opere di Pietro Gentili vanno oltre il pur rilevante fatto artistico, sono il frutto di un’intensa ricerca interiore ed esteriore sulla luce, espressione di una esistenza in cui ha voluto dar corpo al pensiero filosofico maturato nelle sue intense esperienze di vita. Guardiamo, dunque, per prima cosa, la sua biografia.

Dal paese natio, San Vito Romano, si trasferisce a Roma, dove comincia a studiare arte, poi trascorre un anno a Venezia.

Nel 1959, a 27 anni, un anno negli Stati Uniti, soggiorna a lungo a New York, vi tornerà tre anni dopo. Al termine di ciascuno dei due viaggi americani  risiede a Firenze ed entra in stretti rapporti con l’architetto Michelucci e con Fiamma Vigo che gestisce la Galleria Nunero. A 33 anni, nel 1965, sposa Denise Madin, un’artista francese. e si trasferisce a Milano, dove partecipa con gioielli di propria creazione alle sfilate di alta moda con la stilista Germana Marucelli. 


Dopo l’esperienza negli Stati Uniti, una serie di viaggi in Europa, in particolare Svizzera, Francia e Inghilterra, e soprattutto il viaggio in India del 1976, a 44 anni, nella sua piena maturità, lo definisce “il viaggio dell’anima”, e vedremo in seguito perché. Non si tratta del solito viaggio turistico “mordi e fuggi”, raggiunge il continente indiano dopo aver attraversato il Caucaso, l’Iran e il Pakistan con i mezzi di trasporto che trova e visita località lontane dagli itinerari degli occidentali, si immerge nella cultura e nella spiritualità dell’oriente che avranno molta influenza sulla sua vita e sulla sua arte.  

Infatti, tornato nel 1978 al pese natale, San Vito Romano,  vi crea “quattro oasi di pace” ispirate a quella spiritualità e cultura, in particolare  nel rilievo dato alla luce espresso in dipinti e sculture posti all’interno e all’esterno di  spazi così suggestivi. Dopo aver tanto girato in Italia e nel mondo non si ferma neppure questa volta, riprendono i suoi viaggi in Europa e nell’Asia Minore. e cinque anni dopo il trasferimento a San Vito Romano, eccolo di  nuovo a Milano, questa volta per un  periodo molto lungo, quasi 20 anni, dal 1983 al 2001, e anche qui daremo una spiegazione.. 

Lascia il capoluogo lombardo nel 2002 per approdare definitivamente a Roma e a San Vito Romano, dove  scompare  nel 2008.  

 La filosofia Acquariana con l’energia cosmica e la forza della luce 

Abbiamo detto che al suo movimentato  itinerario di vita  si lega un pensiero filosofico mutuato in parte dalle religioni orientali, come risultato di una ricerca spirituale. E lo traduce tangibilmente, se così si può dire trattandosi di elementi immateriali, negli ambienti  suggestivi creati nell’abitazione di San Vito Romano.

La curatrice della mostra, Maria Grazia Massafra, afferma che “è tutt’uno con il suo pensiero spirituale: una sorta di tempio della luce e dell’energia cosmica, energia che vivifica il mondo senza  limiti spazio-temporali”. D’altra parte, è l’abitazione, sempre nelle sue parole, di “un artista oltre il tempo e lo spazio; un artista filosofo, o meglio un artista  ‘guru’, che ha fatto della via spirituale il suo credo di vita e d’arte”.  E lo traduce in “opere scultoree e pittoriche finalizzate al disvelamento delle energie cosmiche che circondano l’uomo e lo conducono alla ricerca del divino”. Di qui il ruolo preminente dato alla luce e all’armonia compositiva espressione di equilibrio spirituale e pace. 

E’ il riflesso diretto del pensiero filosofico del mistico indiano Bada Bedi XVI il quale, dopo aver  fondato a Nuova Delhi nel 1961 l’Istituto per la Ricerca del Non Conosciuto e nel 1963 il Centro per l’Arte Psichica, ne promosse la diffusione in Italia, in particolare nella zona di Milano, e questo spiega anche i lunghi periodi trascorsi da Gentili nel capoluogo lombardo. Il mistico indiano si trasferì nel nostro paese,  dove nel 1992 ha fondato l’Istituto di pedagogia Acquariana di Cittadella, che ha pubblicato gli scritti teorici di Gentili nel libro “esprimersi nella luce” , una “profonda testimonianza del suo pensiero creativo come rivelazione della coscienza cosmica dell’universo”. Definito dal mistico indiano  “artista cosmico”, fu tra i maggiori esponenti della corrente che si formò intorno a queste visioni, la cosiddetta “arte psichica”.

La Massafra, oltre a dare queste notizie preziose per interpretare l’arte di Gentili, fornisce elementi altrettanto interessanti su questo movimento, la cosiddetta filosofia Acquariana, che si basa sulla concezione che siamo all’inizio dell’ “Era dell’Acquario: un’età  nella quale all’essere umano vengono attribuite “nuove capacità, come la Sensibilità Psichica, organo della luce e del ‘risveglio dell’anima addormentata’ della coscienza , che permette l’autonomia dell’individuo, a partire dall’autonomia di espressione; l’opinione deve fluire dalla libera coscienza dell’uomo”. E su questa conclusione riteniamo che la stessa filosofia occidentale e il pensiero liberale concordino. 

E’ una concezione portata avanti dal movimento “New Age” , diffusosi negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70, che dava alle filosofie e mistiche orientali, oltre che ai poteri occulti, la capacità di creare l’uomo nuovo che conciliasse la ragione e il cuore, l’intelletto e l’emozione; vi entrò in contatto sia nei suoi viaggi negli USA, sia nei soggiorni in Francia, dove la teoria si andava diffondendo , anche attraverso la moglie francese. Alla base una visone della divinità come immanente in ciascuno, da scoprire con il “risveglio mistico” mediante il quale  avviene la fusione con la coscienza cosmica.   

Viene identificato  un nesso diretto con l’arte: l”opera d’arte “diviene il campo magnetico generatore di vibrazioni psichiche” che riflettono le forze comiche evocate dalla filosofia Acquariana, con il risultato di generare “una purificazione della coscienza , con il conseguente innalzamento del livello spirituale”. La Massafra  precisa che le immagini risultanti, del tutto simboliche, “vanno interpretate attraverso quel campo magnetico vibrazionale che creano intorno a sé”, e fin qui si tratta di un utile ausilio interpretativo; ma aggiunge “che può essere percepito solo da uno spirito puro, in stato di meditazione” e questo da un lato incuriosisce il visitatore, dall’altro lo pone dinanzi a un dilemma autocritico sulla propria purezza. 

Le affermazioni di Gentili riportate a questo riguardo si limitano alla posizione dell’artista, senza coinvolgere direttamente l’osservatore: “L’arte non parte dal  vertice, cioè dalla parte più  levata, ma inizia con il risveglio dell’anima addormentata che comincia a vedere e percepire la bellezza del mondo, allora il cuore verrà sedotto e l’anima incantata, così inizia il processo creativo dell’arte”.

L’Arte la collega alla Compassione nel suo scritto “Una vita e un’arte” pubblicato sempre dall’Istituto di Pedagogia Acquariana nel 2003, seguito da “I centri vibrazionali” nel 2006, in una sorta di escalation speculativa culminata nel già citato “Esprimersi nella luce” del 2011,  La stessa denominazione dell’istituto, intitolato alla pedagogia, ne indica l’orientamento,volto a diffondere tali concezioni ben al di là della ristretta cerchia degli artisti che ne sono i portatori con le loro opere.  Ecco un’altra espressione rivolta all’artista: “Il dolore dell’anima, espresso dalla compassione, squarcia i limiti della nostra possibilità di amare e ogni volta che ciò acacde il dolore dell’anima si traduce in processo creativo e ogni processo creativo, legato al potenziale amore del cuore, risveglia la nostra coscienza addormentata e una nuova visione del mondo appare nell’universo”. Ma ce ne sono anche di portata generale: “Dobbiamo pur confidare nella bontà del cuore, nell’immagine della bellezza del mondo… nella nobiltà dei sentimenti elevati, che sfuggono alla razionalità della ragione”. 

In “A = amore”, del 1972, scriveva evocando lo spirito cosmico: “L’umanità avrà sempre bisogno di imitare i soli che popolano l’universo, ma sarà sempre il sole che governa il cuore a riscaldarla e confortarla nella sua solitudine”. E ancora: “Più che le armonie, le disarmonie sensibilizzano l’essere e naturalmente lo spingono a ricercare consciamente o inconsciamente un universo, il più misterioso, il più elevato, il più bello dell’animo umano”. In “Supernatura” dello stesso 1972, quasi una confessione intima: “Conoscendo il mio universo e la mia anima sensibile, in essa ho sprofondato le mie mani e vi ho strappato i frutti più belli, giorno dopo giorno. Questo atto di amore si è ripetuto nella pienezza emotiva  ed emozionale per te e per me, esprimendo la più dolorosa delle armonie”.

Ancora, in “Urano Congiunto Venere”, del 1975, scrive: “Piangi pure anima mia se ciò ti rende più leggera e bella, abbandonati alla bellezza del mondo e guarda la luce trasparente del mattino e quella dorata al tramonto, guarda il cielo stellato, il mare, le montagne, i fiori e la luce abbagliante del sole, guarda nel fondo del cuore e vedrai nello specchio infinito del mondo il volto di Dio”.  

E’ una visione cosmica dove spiccano due parole, specchi e luce, in cui c’è la massima espressione della sua arte nell’evocare i contenuti di una visione cosmica che parte dal livello filosofico per entrare nel quotidiano. Al punto che nel già citato “A = amore”, del 1972, esclama: “Le nostre case dovrebbero essere luoghi di luce e di bellezza inventiva dell’uomo e le campagne aperte all’interno delle città a completamento di armoniche soluzioni. Ogni casa dovrebbe aprirsi alla luce del sole, ogni ambiente goderne i raggi benefici, ciò è essenziale per uno sviluppo armonico ed estroverso del nostro spirito”.  

Non sono affermazioni visionarie, le ha messe in pratica dopo sei anni, nel 1978, con le quattro “oasi di pace” nella sua abitazione di San Vito Romano trascorsi due anni dal viaggio in India.  Vi ha realizzato “tempietti votivi”, come luoghi di meditazione per sentirsi trasportati nel cosmo. .

Emerge chiaramente che la sua adesione alla filosofia esoterica acquariana è parte di una ricerca interiore volta alla migliore conoscenza di se stesso e dal desiderio di diffondere le sue scoperte per il bene di tutti che avrebbero potuto coglierne i frutti spirituali ed esistenziali. 

Non sono affermazioni visionarie, le ha messe in pratica dopo sei anni, nel 1978, con le quattro “oasi di pace” nella sua abitazione di San Vito Romano trascorsi due anni dal viaggio in India.  Vi ha realizzato “tempietti votivi”, come luoghi di meditazione per sentirsi trasportati nel cosmo. .

Emerge chiaramente che la sua adesione alla filosofia esoterica acquariana è parte di una ricerca interiore volta alla migliore conoscenza di se stesso e dal desiderio di diffondere le sue scoperte per il bene di tutti che avrebbero potuto coglierne i frutti spirituali ed esistenziali.

Le opere all’insegna della luce nella più alta spiritualità verso il divino

Come questa concezione filosofica con i suoi elevati contenuti spirituali può trasferirsi nelle opere d’arte creando nell’osservatore le sensazioni e le emozioni che la funzione pedagogica richiede?

E’ del tutto evidente la complessità di una simile operazione, perché vanno trovati simboli che ne siano  all’altezza. Gentili utilizza materiali preziosi come oro e argento che esprimono purezza, e specchi soprattutto di forma circolare che esprimono spazio e luce.  Luce e specchi sono gli strumenti per la visione cosmica che si innalza sempre più in alto verso il divino con un rilancio di riflessioni, e poi riscende recando  il volto del divino all’artista e anche a noi osservatori. 

L’altro curatore, Claudio Cerritelli, illustra come Gentili abbia operato in pratica fornendo notizie utili per l’interpretazione delle opere esposte. Dopo una prima esplorazione della possibilità di raggiungere la forma pura attraverso il colore, “l’artista si confronta con il mistero dell’assoluto elaborando un sistema di forme elementari che tende  a identificarsi con l’idea di spazio universale”, cominciando con i dipinti, poi creando in parallelo “costruzioni polimateriche , con presenza di particelle specchianti, vibrazioni in continua pulsazione, genesi immaginativa della luce che trascende le certezze misurabili del visibile”.  Tutto ciò dà alla forma un  aspetto mutevole che  la pone nella lunghezza d’onda della luce, e fa trasmutare  il colore verso un’altra dimensione.

A tal fine Gentili utilizza rilievi plastici, forme aggettanti e valenze tattili,  con l’oro e argento e  gli specchi che dilatano lo spazio, e  con la luce danno riflessi mutevoli e suscitano vibrazioni.

Lo vediamo in “Polimaterico”, 1969, un disco dal diametro di 1 metro e 15 cm in tempera e specchi su legno, con gli elementi aggettanti verso l’alto orientati diversamente l’uno dall’altro, dall’estremità circolare a specchio oppure di colore azzurro.  Questa particolare struttura geometrica presenta continue variazioni luminose che si rispecchiano attraverso i molteplici punti irradianti producendo  rifrazioni alle quali in modo simbolico si possono attribuire valenze filosofiche quali “l’avvincente dialettica tra realtà e finzione, artificio e natura, razionalità e sensibilità emozionale”.

Nella serie dei “Moduli”, 1973, sempre su legno, oltre agli specchi c’è la “polvere di specchio”e la sabbia, ma soprattutto l’oro, materiali che  con la forma ondulata del supporto determinano effetti cangianti con “effetti di luce che trasfigurano il fluire dei volumi nella purezza delle sue componenti essenziali”.

Con “Sfera”, 1975,   tali effetti si manifestano nel solido,  sulla cui superficie sono disseminati gli specchi, visti quale “figura primaria che racchiude la totalità dello spazio-tempo come dimensione contemplativa dell’assoluto, perfetta misura che sollecita l’immaginazione cosmica”

Hanno  elementi in comune con “Polimaterico” i tondi  su legno, 1 metro di diametro,  “Fiore azzurro” 1978,  “Fiore del cielo” 1979  e “La nascita degli angeli” 1980,  c’è in più la foglia d’oro con effetti diversi dall’uno all’altro, l'”irradiazione polimaterica” nel primo,  i “bagliori” nel secondo, l’ “armoniosa frammentazione” nel terzo, con la luce simbolica produttrice di energia.

In “Angelo”, 1986, stesso supporto e stessa misura, mentre utilizza la foglia d’argento per rappresentare simbolicamente una figura che “pur inebriata dei palpiti dell’umano sentire desidera essere pura spiritualità, corpo di luce in cui si riconosce il destino di ogni essere”, il cerchio è interrotto per evocare le ali aperte.

Molto diverso il ciclo “Scudo”, sono esposte 2 opere del 1989  e 2 del 1990, in tempera, foglia oro o argento e specchio, Nelle due opere del 1989,  la figura cosmica è al centro di uno spazio siderale, e sembra faccia gravitare su di sé forze e impulsi resi da vibrazioni di luce dorata o argentata; le due opere del 1990, invece, lo spazio  al cui centro c’è l’elemento cosmico – specie di rosa dei venti – non è siderale ma geometrico con cerchi concentrici o losanghe. In tutti si avverte l’effetto gravitazionale che avvicina o allontana in un equilibrio cosmico rassicurante e rasserenante.

Dal ciclo “Scudo” al ciclo “Porte”, stessi materiali su tela, dalla difesa all’apertura tra il mondo materiale e immateriale, divisi da una linea verticale che lascia uno spiraglio.  Si  inizia nel 1991 con la “Porta del cielo”, la cesura con  il varco è immersa in un firmamento trapunto di stelle, nel 1993 la “Porta della terra” con segni indecifrabili come molte espressioni umane, e la “Porta di luce rossa” il cui colore luminoso contrasta con l’oscurità della porta precedente; fino al culmine, nel 1994, della “Porta del Paradiso”, con gli impulsi di luce dorata intensi e coinvolgenti,in sequenza  un’escalation cromatica e di significati come nelle porte del Battistero di Firenze.

Nel 1996 intitola “Cielo” una grande tela in tempera, foglia oro e sabbia, che rappresenta il firmamento con un gran numero di punti colorati scintillanti nell’oscurità, in uno spazio imponderabile che, secondo Cerretelli, “si manifesta in tutte  le direzioni possibili universo con infiniti centri di gravitazione, tonalità del colore – luce che anima il desiderio di attingere alle fonti dell’invisibile”.

Concludiamo la rassegna delle opere in mostra con quelle più legate alla natura che evocano le forze del creato e nella loro  verticalità riflettono la tensione verso il divino. Dalla “Colonna di luce” del 1978 alla “Stele di luce” del 1985, dalle“Sculture luce” del 1989-90 al nuovo culmine, “Cattedrale bianca” 1994, si tratta di “sintesi spaziali” fortemente sentite dall’artista che cerca di “spaziare verso mondi infiniti”, senza condizionamenti” in quanto l’armonia cosmica esige totale indipendenza dai vincoli materiali del vivere collettivo e sociale”. 

Nel sottolineare questi aspetti,Cerretelli  riporta le parole scritte da Gentili, molto eloquenti: “E’ il sogno disincantato che vive al di fuori di ogni confine e limitazione, è il nostro universo surreale, è il nostro irraggiungibile che ci proietta negli spazi sempre più infiniti facendoci dimentichi della nostra  realtà, limitata dallo spazio e dal tempo”. Per concludere: “La mistica è l’essenza stessa della metafisica, senza di essa le dimensioni resterebbero fisse nella loro grandiosità”.

La Massafra  ci tiene a sottolineare come la sua visione della luce quale generatrice di energie spirituali collimi con quella del principe Giovanni Torlonia che diede alle celebri vetrate della sua abitazione, l’odierna Casina delle Civette, il valore simbolico di “comunicazione tra il mondo divino e quello umano”. Così oggi, “la luce policroma  e prismatica delle vetrate e delle opere/ installazioni di Gentili trasforma l’esperienza interiore dell’uomo in rivelazione spirituale, mediando il passaggio dallo stadio profano a quello sacro”.

Dopo quanto ci è stato rivelato sulle motivazioni profonde di natura filosofica e psicologica di Gentili, proiettato verso il divino, ci sembra che la migliore conclusione possa essere la descrizione con cui la curatrice apre la sua presentazione: “Un artista oltre il tempo e lo spazio; un artista filosofo o meglio un artista ‘guru’, che ha fatto della via spirituale il suo credo di vita e d’arte”.  Un ritratto aderente ai valori che Gentili ha sempre professato e messo in pratica.

Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211.  Catalogo  Catalogo  “Pietro Gentili, soglie di luce”,  a cura di Claudio Cerritelli e Maria Grazia Massafra, Pioda Imaging Editore, gennaio 2018, pp. 76, formato  25 x 25; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le precedenti mostre del 2017 nella Casina delle Civette, cfr. i nostri articoli in questo sito:  per la collettiva sulle  “Civette” il 15 narzo,  per le personali dei “putti” di Wal il 14 luglio e delle “sinestesie” di Annalia Amedeo il 30 novembre.

Info

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Casina delle Civette, si ringrazia la direzione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Polimaterico” 1969: segue un angolo con un’installazione tipo “Scultura luce”, e “Modulo” 1973; poi, “4 colonne votive”1978, e  “Sfera” 1975; quindi, “Scultura luce” 1976, e “Fiore azzurro” 1978; inoltre, altro “Modulo” 1973, e “Cattedrale” 1994; ancora, “La nascita degli angeli”  1980,  e un tondo con sole e mare stilizzati; infine, doppio “Scudo” 1989-90, e  doppia “Porta”  1993.94;in chiusura, una fotografia dell’artista al lato di una vetrata artistica della Casina delle Civette.

Futurismo, e modernità, carrellata di artisti alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La mostra “La ricerca della modernità. Opere dal divisionismo al futurismo”, espone dal 22 febbraio al 15 marzo 2018 alla Galleria Russo a Roma, quasi 90 opere di 25 artisti con delle piccole “personali” di Balla e Boccioni, Thayaht e Tato, in una  rassegna rappresentativa delle tante anime del movimento fino all’aeropittura e alle ultime testimonianze del secondo dopoguerra.  Catalogo di Manfredi Editore con introduzione di Fabio Benzi e testo critico di Massimo Duranti.

Il meritorio impegno della Galleria Russo nel mantenere viva l’attenzione sul Futurismo – il movimento italianissimo così innovativo  e spettacolare – segna nella mostra attuale  una nuova iniziativa di notevole interesse e di grande importanza. Dopo le prime mostre del 2008 e 1010 su Delle Site e Balla, quelle dal 2012 su Marinetti  e Dottori, Tato ed Erba, fino a Tato nel  2015,  e la più recente su Marchi all’inizio del 2018, ecco un’esposizione evocativa delle diverse personalità del movimento futurista con i più giovani adepti,  partendo dalle premesse divisioniste fino agli echi nel secondo dopoguerra, nonostante la tendenza alla rimozione, del futurismo protrattasi per tanto tempo per evidenti motivi politici.

Così presenta questo movimento Fabio Benzi,  che ha pubblicato nel 2008 il monumentale volume “Futurismo”: “Nella sua proteica multiformità, nell’elan vital di un nuovo secolo di tecnologie e ideologie, il Futurismo vuole spingersi a coprire tutte le possibilità di intervento, invenzione, novità, con una bulimia centrifuga che irradia di sé il cinema e la poesia, il teatro e la musica, la pittura e la radio, la fotografia e l’architettura, la filosofia e la scultura, l’arredamento e la politica, il design e la scenografia, la cucina e la religione, la grafica e il giornalismo, la ceramica e la moda”.  

Alla molteplicità dei campi interessati dalla rivoluzione futurista si aggiungono le modalità in cui si è manifestata e sviluppata: “E tutto ciò con avvedutezza, perspicuità sottile e profonda, con reale capacità innovativa e teorica, pensando sempre che l’universo intero si dovesse (come di fatto è successo) piegare alla novità estetica ed etica del futuro e della sua religione, il futurismo, propagata dal suo profeta, Marinetti”.

I futuristi nelle regioni italiane, dal Trentino alla Sicilia

Massimo Duranti passa in rassegna “i futuristi dei ‘luoghi del futurismo’, a partire  dagli anni ’10 quando a Perugia fervono i dibattiti sul “Manifesto” di Marinetti nella rivista “Il Refrattario” di Dottori e  di altri artisti; e in Lombardia Marinetti e Boccioni, Severini e Russolo lanciano il “Dinamismo plastico” cui aderisce anche Carrà, all’insegna dell’ “elitarismo estetico”; cui seguirà, negli anni ’30, il “dinamismo più applicativo, anche macchinista”, di Andreoni, Munari, Regina, sull’onda della “Ricostruzione futurista dell’universo”. 

A Roma, nella seconda metà degli anni ’10,  viene contrapposta sulle riviste futuriste l'”espressività democratica” da Balla capofila con Depero e Prampolini., mentre negli anni ’20 e ’30  ci sarà la “seconda generazione” di Delle Site e Belli, Benedetto e Dottori molto presente nella capitale. 

In Liguria, il futurismo si manifesta tra gli anni ’10 e ’20 con Farfa e  D’Albisola nella ceramica e nel design in senso “produttivistico”. Mentre a Torino e in Piemonte negli anni ’20 e ’30 è all’insegna del “macchinismo” e del “protoastrattismo” con Pozzo e Rosso, Dulgheroff e Oriani e della ricerca della spiritualità nel sacro da parte di Filia, scomparso prematuramente. Nel Trentino troviamo Depero, attivo anche a livello nazionale, a Roma, e all’estero, in particolare a New York, all’insegna dell’ “Artemeccanica futurista”, a Rovereto  fonda la “Casa d’arte”, e il seme germoglierà dato che vi ha sede tuttora una delle maggiori sedi museali ed  espositive nazionali.

Anche nelle altre regioni il fervore futurista è notevole,  nel Veneto si manifesta con Ambrosi, Crali e  Di Bossoi, in Emilia-Romagna con Bot e Caviglioni, dal Monte e Tato.

Verso il centro della penisola, a Firenze fervono i dibattiti sul  futurismo sin dagli anni ’10, nelle riviste “Lacerba”, “Italia futurista”, “Giubbe rosse”, poi il movimento si sviluppa negli anni ’20 e ’30 in sintonia con i futuristi piemontesi, i principali artisti sono  Peruzzi,  Conti e Marasco, che tentò di fare una scissione.  

In Umbria, dopo gli inizi di natura letteraria con i dibattiti negli anni ’20 sulla rivista “Griffa!”, negli anni ’30 il futurismo si sviluppa con artisti giovani, Bruschetti e Angelucci-Coinazzini, Meschini e Preziosi. Mentre nelle Marche il gruppo futurista che si rifà a Boccioni, è molto nutrito, inizia con Pannaggi,cui si aggiungono Tano e Peschi, Monachesi e Tulli.

Anche nel Mezzogiorno il futurismo prende piede. A Napoli dibattiti animati anche sulle riviste, tanto che viene definito “futurismo della parola”, protagonista Cangiullo molto considerato da Marinetti, poi artisti definiti “circumdivisionisti” come Cocchia e Peirce, Lepore e Pepe Diaz.

In Sicilia, dopo una fase iniziale di “futurismo letterario”, animato da De Maria e Jannelli, si sviluppa il “futurismo narrativo” molto cromatico e coinvolgente di Corona e D’Anna, Rizzo e Varvaro, con una presenza del giovane Guttuso.

Questi “luoghi del futurismo” li ritroviamo negli artisti presenti in mostra,  25 che abbiamo citato nella nostra cavalcata storica e geografica sulla scia della ricostruzione di Duranti,  ma naturalmente non vi è un’articolazione regionale, bensì uno sviluppo cronologico cui ci siamo attenuti solo in parte avendo voluto raggruppare le opere degli stessi artisti, per alcuni delle piccole “personali”.

L’antefatto artistico del Futurismo

Si inizia con la sezione “Prima del futurismo”, richiamandosi al divisionismo, ma con artisti che saranno i capofila del futurismo nelle loro opere dei primi del ‘900, quando ancora Marinetti non aveva lanciato il  “Manifesto”: sono Balla,  Severini e Boccioni, con l’aggiunta di Cambellotti.

Di Giacomo Balla vediamo “Ritratto di Duilio Cambellotti, il cesellatore””, 1905, .un carboncino scuro con un taglio quasi fotografico dell’immagine; e  di Gino Severini un pastello ugualmente scuro, “Autoritratto con cappello”, immagine giovanile con la dedica “ai miei genitori” .

Avendo citato Duilio Cambellotti, notiamo che 2 delle 3 opere a carboncino esposte, “Illustrazione dantesca” 1902-03 e “La falsa civiltà” 1905, sono sfumate e relativamente oscure come il suo ritratto di Balla, entrambe  di taglio  fotografico come riprese dal basso, con la scala o il suolo  in primo piano, la figura in ciascuna  vista dal basso verso l’alto; la terza opera è una scultura in bronzo post  1910, .“Il guerriero detto anche ‘La corazza’”, la figura abbozzata è molto dinamica. 

Le opere di  Umberto Boccioni nella prima sezione, degli stessi anni, 2004-06, sono radicalmente diverse, nulla di sfumato e oscuro, le tempere su cartoncino hanno contorni netti, quasi ritagliati, colori brillanti senza chiaroscuri né ombreggiature. Così “Caccia alla volpe” e “La partita a tennis”, e le 3 figure, “Donna seduta davanti a una finestra”, “Uomo col cappotto” e ” Donna  di spalle davanti a una finestra”. 

Invece le opere dei due anni successivi,  1907-08, quasi richiamano quelle tenebrose di Balla e Cambellotti sopra citate, così le due acqueforti “Casa in laguna”, “Porto”  e  “Giudecca”, come in misura minore la puntasecca “Gisella”, mentre “Scaricatori di carbone” è lineare e calligrafica.

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L’ultima di questa piccola “personale”di 11 opere di Boccioni pre-futurismo,  è l’olio su tela “Paesaggio lombardo”, di cui c’è anche il bozzetto tracciato a matita, un grande albero in primo piano con il casolare  rimpicciolito dalla lontananza, anche qui taglio fotografico in un cromatismo pastello con i colori campagnoli, molto sfumato in uno stile tra impressionismo e puntinismo.

Anche l’opera esposta di Gerardo Dottori, “Studio per albero” 1909, presenta il tronco in primo piano con i rami a raggiera, in un marrone quasi omogeneo tra albero, campo e cielo, differenziati essenzialmente dall’intensità del colore. 

L’escalation, gli  sviluppi del Futurismo

Con questa cospicua anteprima, frutto di un’attenta ricerca sui primordi del Futurismo, si apre la sezione “Sviluppi del Futurismo”  con oltre 60 opere di 25 artisti, i maggiori e gli epigoni.

Anche qui, dopo il suggestivo “Controluce” di Boccioni, troviamo Balla, questa volta è sua la piccola personale di 6 opere.  Le prime 2 sono sommari schizzi a matita del 2013, “Studio di volumi” e “Interno di teatro e altri studi”,  altre 3 riflettono il suo inconfondibile stile futurista: “Velocità astratta” 1913 e “Progetto per linee di forza di un pugno di Boccioni” 1915-16, a matita su cartoncino, sono delle sciabolate lineari come frecciate nel senso della spinta propulsiva e del dinamismo, mentre “Canto patriottico in piazza di Siena” 1915,  nel cromatismo intenso con le frecciate gialle e le onde avvolgenti e convergenti blu e celesti, evoca le contaminazioni espressive tra le forme di arte e di vita. Sappiamo che nell’atelier di Balla si svolgevano  incontri con giovani studenti ai quali sia lui che Marinetti rivolgevano appelli esaltanti non solo all’arte ma al patriottismo  e all’interventismo, motivo ricorrente anche nell’azione pratica dei futuristi i quali si arruolarono volontari e provarono i gravi traumi della vita di trincea che ne spense gli  entusiasmi. 

Di questa prima fase futurista fa parte Carlo Erba, di cui sono esposti 2 “Ritratti maschili”, 2 “Studi di figure” e una “Figura femminile”, semplici disegni a matita su carta del 2012-14 dal taglio particolare che, soprattutto nelle figure, rimanda alle linee di forza futuriste pur nella forma figurativa. Ripensiamo alle vicende personali  dell’autore – cui la Galleria Russo ha dedicato una personale – della ben nota famiglia di industriali che scelse l’arte dedicandosi ad essa con passione, e con la spinta dell’interventismo futurista si arruolò anch’egli volontario.

Carlo Carrà si avvicinò al futurismo in quei primi anni, il suo “Ritratto di Papini” in inchiostro acquerellato sprizza energia e vitalità aggressiva e prorompente. Mentre la “Composizione futurista” di Julius Evola, il ben noto filosofo che viene associato alla mistica del regime con quel che segue, è un’immagine che sembra precorrere l’aeropittura nelle grandi ali aperte nel volo sopra agli edifici visti dall’alto in una ardita prospettiva  

Tipicamente futuriste le linee che sottendono l’energia dinamica della “Danzatrice”  di Enrico Prampolini, siamo nel 1916, lo ritroveremo nel 1939 e soprattutto nel 1947, con le residue velleità futuriste in un mondo diventato pericolosamente ostile per la “damnatio memoriae” politica. Mentre “Composizione astratta” di Arnaldo Ginna, del 1917, è l’anticipo di un futuro che non mancherà di arrivare diffondendo l’astrazione nell’arte a largo raggio.

Siamo giunti così a un’altra “personale”, quella di Thayaht, non tanto piccola, dato che presenta 15 opere di un artista straordinariamente eclettico. Ritroviamo i “Motivi decorativi”  circolari del 1915-20 con l’elegante simmetria e delicatezza cromatica, e quelli rettangolari rigorosamente geometrici, fino alle composizioni senza simmetria né geometria ma con forme dal cromatismo intenso e contrapposto, e alla espressione pittorica che sembra un “collage”, per l’assemblaggio di tanti arnesi, coltelli,  e seghe, cesoie  punteruoli, dal titolo “Le mani dell’uomo” 1934.  E soprattutto le  celebri sculture in marmo, “Il flautista” del 1929 e “Il tennista” del 1935, non c’è “Il tuffatore”, ma ci sembra di rivederlo dopo l’esposizione nella stessa galleria nella recente personale sull’artista.

Di quest’ultimo anno, 1935,  sono gli altrettanto celebri disegni a matita su carta, 3 “Progetti per Altoparlante italico (Ritratto di F. T. Marinetti)”  fino al definitivo in bronzo argentato, una maschera impressionante per il suo vigore.

La mostra, a questo punto, cala il poker d’assi, con Dottori e Severini, Sironi e Depero.

Vediamo, di  Gerardo Dottori,  “Studio per Simpatie di donna paesaggio” in sanguigna su carta, con sul retro “Studio per primavera umbra”, a matita, del 1923, tonalità ocra, la figura femminile ha la testa dolcemente reclinata, e “Paesaggio dal terrazzo” 1928, una pianta su vaso stilizzata in primo piano sul pavimento all’esterno mentre nel vano della finestra si apre una distesa collinare fino all’orizzonte con la cima rotonda della pianta che si irradia in cerchi concentrici quasi fossero dei soli che si inseguono nel firmamento. L’orizzonte si apre sul lago con un’isola al centro e le colline all’orizzonte in “Paesaggio del Trasimeno, Isola Polvese” dei primi anni ’40.

“Sorge il sole” di Antonio Marasco, 1919-30, mostra un cielo cosparso di nubi con pesanti strutture  a terra, una delle quali sembra proiettare i suoi volumi verso l’alto, forse alla ricerca del sole che non si vede.   

Ritroviamo il tema del “Paesaggio dal terrazzo” di Dottori  in Gino Severini, “Natura morta davanti a una finestra”, un vaso con frutta, si distinguono  pera e grappolo d’uva, una chitarra sopra un tavolo, non c’è la visione esterna come in Dottori, ma  è concentrato sulla composizione interna;  in fondo la firma con data novembre 1928 e la scritta “Ai miei amici carissimi”.

Dello stesso 1928  2 “Studi di copertina per ‘Gerarchia’” di Mario Sironi, a matita, sul retro di uno di essi una “Composizione con aerei”, interessante prova di aerofuturismo, a Sironi la Galleria Russo ha dedicato una  mostra delle vignette satiriche a Villa Torlonia, questo è solo un assaggio.

A matita su carta anche “New York” di Fortunato Depero, con tratti a china, un assemblaggio di grattacieli, finestre e insegne, in una composizione di grande modernità.

E siamo al grande aerofuturista Tato, anche lui protagonista di una personale nella Galleria Russo,  qui è presente con 5 opere: “Sensazioni di volo/tempo” 1929, una tempera su carta con una visione dall’alto di un abitato che, pur nella sua diversità, ci fa tornare con il pensiero alle “Periferie” di Sironi, ma mentre quelle sono desolate, le strade di questo quartiere sono animate da gente apparentemente agitata. Inequivocabilmente aeropittura “Rovesciata” 1930 con il primo piano dell’aereo che sorvola un abitato che dall’alto sembra un ammasso di scatole, e, dieci anni dopo, nel 1940, “Idrovolante” , questa volta l’aereo in primo piano sorvola un golfo, tra mare  e terra, l’acqua ha un cromatismo intenso che vira dal ceruleo al viola, il verde della vegetazione è altrettanto intenso, nonché  “Aerosilurante italiano a caccia di torpedini”,  un volo aggressivo tra il nero della notte e dei bagliori rossi segno della battaglia nel cielo.  

L’aerofuturismo di Mino Delle Site è rappresentato dall’acquerello su carta “Stormo” 1931, una composizione geometrica di aerei in volo che puntano in alto, allineati come una “pattuglia acrobatica”; nonché da due carboncini su carta, “Ritratto del pilota” 1932, un disegno stilizzato con linee geometriche e chiaroscuri, nel volto del pilata la forma dell’aereo, che troviamo identica in “Carosello tra i cieli” 1935, originale composizione su diversi piani accostati ma distinti.

Un mare di nuvole sui campi solcati da strade nel quale si scorge un piccolo aereo occupa la metà inferiore del dipinto a olio su tela di Alfredo G. Ambrosi, nella parte superiore domina un aereo che punta verso l’alto come un crocifisso tra sagome di aerei celesti in dissolvenza,  titolo emblematico “Il sacrificio” 1938.   

Mentre l’olio su tavola di Cesare Andreoni, “Aeropittura con carri armati”  1936 fa entrare nel vivo della battaglia terrestre oltre che aerea con le figure dei soldati all’attacco all’arma bianca. Clima liliale ben diverso da quello epico dell’opera appena citata  nel suo  “Simultaneità di balletto” del 1935, una grande figura di ballerina in primo piano, altre sagome più piccole in una scenografia con cuspidi, fiore e farfalla. Cinque anni prima aveva realizzato il “Ritratto di Mussolini (o il Duce)” 1930, una testa-elmo che anticipa, per così dire, le forme assimilabili di Thayaht per l'”Altoparlante Italico”. 

Sono schematiche e asettiche  le due “Aeropitture” del 1932 e 1934 di Osvaldo Peruzzi, che con tecnica mista su carta presenta il sole più o meno sfumato  e il cielo attraversati da una sagoma geometrica stilizzata che solo nel secondo ha la forma di un aereo; dello stesso artista “Verso l’infinito” 1940, un sole nero tra le nuvole con due triangoli anch’essi neri con la punta verso l’alto. Intermedio tra le due “Aeropitture”, “Studio per incrocio stradale” 1933, analogo schematismo nel  vigile a braccia aperte, con lo  sfondo  di edifici stilizzati.

Ancora aeropittura, anzi “Aeropittura simultanea” 1938, nell’olio su tavola di Renato Di Bosso, una sorta di spirale avvolgente con cieli, terre e oggetti vaganti; suo è anche “Golfo di La Spezia” 1933, in pastelli colorati su carta, non sembra ripreso dall’alto, l’acqua è appena accennata, la composizione ocra è costituita soprattutto da strutture con archi, finestre e aperture.

Invece “Volo su colline” degli anni 30, olio su compensato di Alessandro Bruschetti, è una visione dall’alto della campagna verdeggiante con le cime degli alberi e otto piccoli tetti rossi.

L’ “Autoritratto + 2″  di Vladimiro Tulli  presenta addirittura il suo volto stilizzato sotto la sagoma di un aereo in volo, aereo ripetuto nella parte bassa del disegno su carta e cartone, e sempre in basso in “L’aeroporto di cartone” con una forma circolare marrone e piani sovrapposti, entrambe del 1942, siamo nell’ultima fase di questa temperie artistica.

Concludiamo questa sezione con “Risveglio”, di Lenadra Angelucci Cominazzini, anteriore del precedente essendo del 1940, ma anticipatore di un lustro del vero risveglio dopo l’incubo della guerra:  un grande occhio che si apre pur se appesantito da coltri che riesce a sollevare, in una sinfonia sul viola con sprazzi gialli e rosa.

Il filo si interrompe, le ultime testimonianze

La terza sezione, “Dopo la seconda guerra” cala il tris d’assi Depero-Prampolini-Dottori, i primi due con disegni su carta, “Bozzetto per paravento”  di Fortunato Depero“, “Studio per Cassandra al mare”  di  Enrico Prampolini, sono del 1946-47. esprimono l’emarginazione, per non parlare di  ostracismo,  dei futuristi; mentre in “Capri solare” del 1939 l’artista esprimeva vitalità ed energia.

Di Gerardo Dottori, invece, 2 opere in tecnica mista su faesite e su tavola, colorate e luminose, “Lago, fiume, monti” dei primi anni ’50, e “Paesaggio” di fine anni ’60, riflettono un clima meno chiuso e ostile, soprattutto il secondo con il sole che brilla su delle vere e proprie cuspidi che si elevano sulla natura, nel quadro precedente c’era soltanto la natura senza quel vertice volitivo.

Termina così la nostra carrellata futurista, l’ascesa fino alle vertigini dell’aeropittura, la caduta con la fine delle illusioni e l’emarginazione, il risveglio e le residue testimonianze negli anni ’60, allontanatosi lo spettro della “damnatio memoriae”. E’ la storia nazionale di un movimento artistico tutto italiano che ha  investito con una ventata di entusiasmo e di dinamismo l’intera vita del paese, dando una sferzata di innovazione e movimento alla società civile ben al di là del mondo artistico.

“Una grande avventura, ormai conclusa, ma davvero indimenticabile per chiunque”, così termina la presentazione di Benzi. Ma anche se la grande avventura si conclude, e “il filo si interrompe” con i tragici eventi della guerra e ciò che ne deriva,  e restano solo le testimonianze dei superstiti negli anni del dopoguerra, non tutto il seme gettato è andato perduto.

Ne è una prova il gruppo dei “futuristi calabresi”,  attivo e vitale – citiamo al riguardo le due mostre di Lina Passalacqua al Vittoriano –  che come la Galleria Russo svolge una azione meritoria nel riannodare il “filo” vitale del futurismo.


Info

Galleria Russo, via Alibert  20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, . Catalogo  “La ricerca della modernità. Opere dal Divisionismo al Futurismo”, introduzione di Fabio Benzi e testo critico di Massimo Duranti, Manfredi Edizioni, febbraio 2018, pp. 170, formato 22,5 x 22,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli in questo sito, sulle mostre di futuristi alla galleria Russo, su Marchi, 24 novembre 2017, Thayaht 27 febbraio 2017, Tato 19 febbraio 2015, Dottori 2 marzo 2014, Erba 1° dicembre 2013, Marinetti 2 marzo 2013, Sironi 2 novembre 2015; per la mostra su Sironi al Vittoriano 1, 14, 29 dicembre 2014; per la mostra “Dolce vita? ” su modelli e oggettistica  dell’epoca, 1°, 14, 23 novembre 2015. 

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della mostra, si ringrazia l’editore, con il titolare della Galleria e i titolari dei diritti, per l’pportunità concessa. In apertura, Giacomo Balla, “Canto patriottico in Piazza di Siena” 1915; seguono, Duilio Cambellotti, “La falsa civiltà” 1905, eGerardo Dottori, “Studio per albero” 1909; poi, Umberto Boccioni, Controluce”  1910, e Julius Evola, “Composizione futurista (Etere)” 1915-16; quindi, Enrico Prampolini, “Danzatrice” 1916; e Thayaht, “Motivo decorativo” 1920-25; inoltre, Gino Severini, “Natura morta davanti a una finestra” 1928, e Gerardo Dottori, “Paesaggio dal terrazzo” 1928; continua, Antonio Marasco, “Sorge il sole” 1919-30, e Tato, “Rovesciata” 1930; prosegue, Alessandro Bruschetti, “Volo su colline”  anni ’30, e Thayaht, “Ritratto S. E. Marinetti (Altoparlante italico) 1935; avanti,  Cesare Andreoni, “Aeropittura con carri armati” 1936, e Alfredo G. Ambrosi, “Il sacrificio” 1938; infine, Osvaldo Peruzzi, “Verso l’infinito” 1940, e Leandra Angelucci Cominazzini, “Risveglio” 1940; conclude, Gerardo Dottori, “Paesaggio del Trasimeno, Isola Polvese” primi anni ’40; in chiusura, Gerardo Dottori, “Paesaggio” fine anni ’60.  

Ritratti di poesia, 2. Poesia italiana e straniera nell’annuale rassegna, al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto dei “Ritratti di poesia”, l’annuale maratona poetica organizzata dalla “Fondazione Terzo Pilastro” presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele,  svoltasi  il 9 febbraio 2018 al Tempio di Adriano con l’intera giornata dedicata a letture di poesia di autori italiani e stranieri intervistati sulle motivazioni e i contenuti del loro impegno poetico. Sono circa 30, di loro daremo conto dopo aver descritto in precedenza le altre parti della manifestazione, dai premi conferiti alle “Idee di carta” e “senza carta”, fino alla performance canora.

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Come abbiamo accennato, non seguiremo l’alternanza  tra le 10 sezioni “Di penna in penna” sui poeti italiani, e “Poesia sconfinata” sui poeti stranieri , ma daremo conto separatamente delle due categorie senza l’ambizione di delinearne il profilo unitario ma con il solo intento di evitare quel cambio di ritmo continuo che invece ha animato positivamente la manifestazione. Di ciascuno riporteremo degli scampoli poetici per dare un’idea dell’atmosfera che si è creata nella sala.

“Di penna in penna”,  20 poeti  italiani

La nostra rassegna inizia con i due primi poeti della mattinata. Di Alessandro Canzian ci ha colpito la descrizione della “ragazza di nome Olga/una ragazza che non conosco/ né me ne sono mai innamorato./ “,  frutto solo d’immaginazione per quanto riguarda le caratteristiche fisiche, mentre per gli aspetti più segreti la sorpresa: “E’ dalle intercapedini del muro/ che conosco la sua fede, notturna,/ quando prega Dio con le ginocchia”.

Mentre Christian Sinicco ,cita “oh che tranquillo mar, che placide onde” della poetessa Vittoria Colonna, e parla di “paura di entrare” , di “inquietudine”,  finché ” fa superare “l’inerzia abituale/ lavando anche solo un pezzo di mare,/ il ramo bianco, coperto di salsedine/ su qualche pietra e le alghe restate all’asciutto; è la marea e questo rende  il tentativo/ ancora più fragile, l’equilibrio precario; dovrei lasciarti dove sei,/ dovrei lasciarti lì, mentre il sole sulle onde ti porta a me”.

Di Cinzia Demi  riportiamo interamente la breve poesia tratta da “Incontro e incantamenti” perché ne rende il fascino: “Se sono fatta solo di carne/ lo scoprirò/ se non ero niente/ niente torneò/ ma se una sola/ piccolissima / invisibile parte di me/ potesse restare/ vorrei che portasse/ il colore del cielo/ l’azzurro luminoso/ laddove tutto è grigio/ e senza tempo/ per ridestare dal sonno gli eterni e la bellezza”.  Al centro della sua poetica la donna e la violenza sulle donne in “Ero Maddalena”.

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 Non è presuntuoso Matteo Fantuzzi  con “La più bella poesia di sempre”, fatta di “poche righe in grado di scavalcare/ in un solo colpo tutto il tempo/ e il resto della storia. Qualcosa/ che rimanga pure quando sarò/ fango, o terra o vivo appena/ in qualche flebile ricordo/ Intanto voglio raccontare a tutto il mondo/ quello che io provo adesso che conosco/ l’istante esatto del tuo sonno ed ogni/ movimento fino al risveglio/ fino a quando di soprassalto( mi chiamerai cercandomi, piangendo”.

Dopo “il ramo bianco” di Sinicco, le “rondini bianche” di Fabio Scotto:”Rondini bianche/ disposte a sciame/ sul prato/ oscura lingua/ sulla pagina del mondo/ ora quiete/ dopo le piogge/ silente greto./ Non basta il segno/  a capire il disegno/ dei corpi tremanti/ sul verde./ Sono lettere/ ma prima delle lettere/ la febbre d’un dire/ oltre la lingua/che trepido vuole nascere/ ali candide sul nero/ Cielo su terra/ Terra su cielo. Non possono lasciare indifferenti, evocano ricordi d’infanzia, a noi e non solo.

Francesca Farina con la sua profezia “Per un poeta curdo e per tutti i senza patria”: “Alan, lo vedi adesso come il cielo/  divora le ossa della pioggia/ come l’angelo di piume / ora si spoglia/ e di lacrime scende un alto velo?/ E’ la pace del mondo, dura spoglia/ dei delitti del cuore/ in cui dispero./ Ma lo sai che verrà alla tua soglia,/ che busserà d’incanto in pieno gelo / sciogliendo la nera neve che ci opprime./ ‘Quando’? dirai e ‘Quando – dico anch’io – senza confini il pianto avrà riposo?”  Ha parlato dei “cieli dei poeti”, non sono come il cielo di Roma, “unico, senza tempo”.

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Ha rivelato di avere uno “sguardo profondo alle piccole cose quotidiane della vita con aperture a orizzonti più vasti” Antonella Palermo, è in uscita “La città bucata” edito da Interno Poesia. “Ti guardo rivangare il prato/ con lo stesso moto delle zampe/ che inneschi ancora prima di entrare in acqua/ rotondo/ ma la tua rimane un’apnea di terra./ Sei fatto per dissodare i grumi/ aprire varchi su per le rozze/ ascoltare come ansima la radice dei miei piedi/ scava, disossami, fa’ che ti capisca”.Per Angelo Sagnelli “Il tempo è energia della materia”, la materia esprime l’energia e il tempo nasce con la creazione, l’arte  non è contemplazione,  “E’ l’arte che compone le avvertenze”: “In questo tempo dove vince il pieno / si assola la ricerca al grande vuoto/ per dar risposte alle domande mute/ accartocciate nella notte buia”/…  Così si annota in sensazione viva/ ciò che ritorna quando c’è poesia/ anche se a volte il verso lentamente sfuma/ lasciando il sé nel vuoto che sospira”.

“Alzare muri” è il tema molto attuale della poetica di Beppe Mariano, simbolo ne sono le montagne in cui occorre salire in alto per vedere l’orizzonte dopo aver faticato, sul mare è più facile vedere l’orizzonte che sfuma. “Un muro/ di possente egizia precisione/  a dividere una nazione dall’altra/ altri tra una famiglia e l’altra./… Vi è spesso un muro tra te e lei, / pur insieme nella stessa abitazione/… in cui vi siete murati./ Vi è, infine, un muro mentale in te/ ad ogni poesia lo abbatti:; ma nell’ordinario/ si riforma Strenuamente lo combatti/ poetando senza interruzione.

Alla figlia Francesca si rivolgono le poesie di Cristina Sparagana, che esclama “se potessi diventare una quercia, o un faggio, o un pero, o un grattacielo luminoso…” lasciamo in sospeso e citiamo “L’albero di albicocche”: “Preparavi la tavola,/ due merli/ venivano ad oscurare le tue mani./ Ed ecco, la tua sagoma odorava / d’accaldato granturco,/ la miniera/ ti frangeva in un bruscolo di rame./ Ora ridi al mio fianco come il pane/ che s’azzurra nel tiglio./ Sul tuo miglio / una rondine in fiamme, un’altra sera”. 

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“La poesia ci mette in contatto con ciò che è più significativo, per capire ciò di cui abbiamo bisogno”, ha detto Luigi Trucillo,  nei versi evoca “Il delfino”: “Il dorso vivo di un delfino/ sussultava stanotte/ nel mio letto./ Con la mia maschera/  io lo guardavo/ da sotto in su/ nuotare/…  e intanto pensavo che i ricordi/ di bambino/ sono impastati alle immagini/ dei nostri testimoni muti/ ormai scomparsi,/ con un tuffo nell’acqua buia/ dove la notte azzurra di tutti/ è una corrente”.

Il pittore-poeta Nicola Vitale ha parlato di “capacità d’immedesimarsi” del poeta e di “stranezza del verso”, del “galleggiare indifferenti alle cose importanti”.  In “Chilometri da casa”  si domanda: “Come può essere un amore in ritardo/ se per eccellenza è in anticipo/ sulla fine del tempo/ Ci siamo fatti domande su questo  paradosso/ del nostro vivere all’alba/ di una felicità che tramonta:/  L’amore conserva se stesso/ quando tutto brucia/ non è esposto alle intemperie/ perché è sempre oggi che offre il suo battito…”

Franca Mancinelli ha un’idea di “poesia come vibrazione, un radar che consente di entrare in sintonia col mondo, nella connessione con ciò che appartiene alla natura c’è la salvezza, torno quello che sono, una lucertola”. Ecco un suo componimento: “Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone. Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che disfi la valigia, ti scordi di partire”. La poesia è “captare all’interno del discorso comune, mettersi in relazione con ciò che è attuale”, secondo Gilda Policastro, compresi i morti per femminicidi e infantici, incidenti stradali e malattie. Il suo “Puzzle”: “Quando vai  a trovare qualcuno malato/ di solito passi davanti a un altro/ malato nella stanza solo/ nel letto sbagliato./ Quando esci dalla stanza lo vedi/ addormentato sul fianco uguale/  al tuo malato soltanto/ nel letto sbagliato./ Te ne ricordi l’indomani/ che sei passato dritto/ non hai salutato/ e nemmeno guardato/ quell’altro/ malato/ uguale/ solo/ nel letto/ sbagliato”. Il ricordo va all’ “infermiere di Tata” , il toccante episodio del libro “Cuore”.

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Romanzi, racconti, poesie nell’attività di Laura Liberale, da “La disponibilità della nostra carne”, di Oedipus, questi versi con un’immagine collimante con quella precedente, qui non c’è il “malato” ma il “moribondo”  circondato dai parenti: “Quando ti attornieranno i vivi/ chiedendoti:  ‘Mi riconosci?’/  non sentirai che la membrana/ di due bocche a sfiorarti/ il pochissimo dei pugni nelle orbite/ a strappare o sguardo che negasti./ Vedranno sé stessi una volta sola/  attraverso i tuoi occhi liminari./ Non ci riconosciamo, ti diranno, non crescono specchi nel nostro prato”.

Per Mary Barbara Tolusso  la poesia resiste e ci aiuta a resistere, ognuno vede ciò che vuol vedere, però è sempre una forma di resistenza”. Si immerge nella quotidianità, da “Velocità della visione” questi versi: “Tutti sappiamo più di quello che fingiamo di sapere/…Per ora ascolto un’orchestra sinfonica/ che è più di quanto si possa sperare./ Nel giardino di fronte/ la famiglia cuore  cerca i pezzi della cucina smontabile/ e accende il barbecue per riempire il cielo di maiale arrosto/… E’ un quadro orribile/ ma è una storia bellissima”.

Quest’anno non c’è stata la sezione della poesia dialettale, ma se ne parla con Giancarlo Consonni, il quale ha iniziato a comporre poesie in dialetto “perché molte cose si possono dire soltanto con quel linguaggio”, poi è passato all’italiano, ora alterna lingua e dialetto, “occorre un controllo soprattutto sul dialetto che può venire tradito”. In italiano la sua brevissima intensa poesia “Rosa”: “Come sospesa/  nel rondò dei giorni/ è la pienezza della rosa./ Ciò che manca/ – un mondo, un sogno si/ palesa”. Il pensiero va a “rosa-rosae” , per la generazione formatasi  nel “latinorum”.

Racconta il luogo in cui vive la sua famiglia da generazioni Roberta Dapunt, la sua poesia esprime il contrasto interiore, lo vediamo nei versi di “De anima”, di prossima pubblicazione in “Sincope” di Einaudi: “Questa è musica del mio tempo, da quando il mio respiro/ ha dato inizio al componimento della mia esistenza./ …e non ti accorgi/ che stai raccogliendo il tuo sguardo sulla mia anima,/ mentre io dal profilo di questa carne/ vedo te, inesorabile nel tuo elemento materiale”.

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Franco Arminio ha detto che “non ci dobbiamo accontentare, non dobbiamo far finire la contentezza, si può fare tutto per la contentezza, che sia con me e con tutti voi”.  La sua poesia inedita “Precetto” dopo un inizio malinconico finisce con una visione positiva: “Sereno e senza speranza ,/ esci di casa,/ guarda!/ Segui la terra,/ regala le tue vertebre/ ai passanti./ Alla fine dei tuoi giorni/ resteranno le tue imprudenze, / più che i calcoli e gli indugi/ resteranno i canti”.  

La poesia come viaggio è la metafora di  Stefano Carrai , che ha parlato del suo rapporto di amore  contrastato con Firenze. Da “La traversata del Gobi”, di Aragno, la poesia “Biografie”: “Quante vite studiate/ anno dopo anno/ in forma di cappelli/ medaglioni/ schede/ cronologie/ o di note/ di notizia biografiche/ quante vite imparate/ classificate/ archiviate in memoria/ per l’interrogazione o per l’esame/ nomi/ titoli/ date/ quante vite inglobate/dentro la nostra vita/ senza che ci sfiorasse/ neanche il pensiero che non era inchiostro/ quello/ era sangue secco/ sangue nero”.

Con Renzo Paris  si chiude la galleria dei poeti italiani, per lui la poesia “sembra legata a un tempo, un’emozione, ma il tempo è antico, la voce interiore ha un’eco antica, omerica”. Da “Il fumo bianco”, Elliot, “Dark Lady”: “Ti ho atteso due ore in piedi/ nei corridoi ventosi della stazione,/ tra muti eritrei e regali senegalesi,/…mi venivi incontro con quel vestito nero,/ da islamica del sud. Mi hai subito/ preso sottobraccio , raccontandomi/ a modo tuo di incroci di metropolitane, / di un confuso tragitto della mente,/ di quello che ti ha spinto, madre, a riabbracciarmi”.   

I poeti italiani, tutti intervistati in conversazioni rapide ma rivelatrici delle motivazioni e dei contenuti del loro impegno, seguite dalla lettura di molti componimenti da parte dei singoli autori, hanno fonito uno spaccato di arte poetica e di vera umanità.

Non è un caleidoscopio ma una galleria la serie di Ritratti di poeti – non quelli che si sono succeduti sulle poltroncine delle interviste e sul podio delle letture poetiche, ma di poeti ben noti da lui conosciuti – eseguiti da Rocco Micale dopo l’incontro nel 2015 con undici  poeti romani nella sua mostra personale presso la case editrice Esperia; così di quei poeti, oltre alle parole scritte vediamo anche l’immagine, come quella ad acquerello che lo stesso Micale donò a Elio Pecora per il suo ottantesimo compleanno.  Micale risce a “restituire alla poesia la fisionomia cercando di interpretare i volti  e le parole”. I ritratti sono esposti nel “parterre”  insieme alle scenografie di Miglio.

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“Poesia sconfinata”, 7 poeti stranieri

La seconda serie di interviste e letture poetiche riguarda la “Poesia sconfinata”, cioè i poeti stranieri presentati in modo intervallato con i poeti italiani, ma che abbiamo preferito raggruppare per darne una visione organica, non dovendo noi alleggerire con questa alternanza la cadenza della maratona.

Un elemento aggiuntivo di interesse è rappresentato dal fatto che le interviste sulle loro motivazioni e il contenuto del impegno poetica sono state condotte dai traduttori, del resto i più qualificati all’operazione di maieutica trovandosi in simbiosi con gli autori per renderne al meglio la poetica.

Sono previste cinque poetesse, due europee, dal Galles e dalla Polonia, due medio-orientali, di Siria e Israele, e una dal Sudamerica, precisamente il Venezuela; e due poeti dagli Stati Uniti..

Non è potuta venire perché ammalata Gwyneth Lewis, del Galles, avrebbe dovuto intervistarla la sua traduttrice Paola Del Zoppo.  Sembra profetica la sua poesia riportata nel Catalogo, si intitola “Virus marino”, anche se il virus che l’ha bloccata sarà stato terrestre:  “Sapevo che non sarei dovuta andare giù/ ma l’ho fatto, e l’aria viziata di sentina e legno/ mi ha riportato indietro./ … Sono rovinata. Neppure la bonaccia potrà/ Tenermi più a terra. Nemmeno tu” . 

A parte la battuta, l’altra poetessa europea, Ewa Lipska, della Polonia, intervistata dalla traduttrice Marina Ciccarini,  ha detto che “al contrario della musica e della pittura la poesia utilizza un materiale semplice come il linguaggio, irripetibile e originale”, e ha parlato della “solitudine che rivela la vulnerabilità, può essere buona e cattiva, ma è comunque indispensabile”.  E poi il rapporto tra oggetti ed esseri umani,  in un antropomorfismo che si colloca nell’imprevedibilità dell’esistenza, fino alla storia e alla creazione dell’universo. Alcuni suoi versi, anzi “Un verso randagio”: “Un verso randagio vagabonda/ nella materia oscura della carta./ Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato/ in balia del destino./ Orfano di parole./ A volte sono come cani abbandonati/ che abbaiano alla poesia”.

Dal medio-oriente ecco Hala Mohammad, precisamente  dalla Siria, intervistata dalla traduttrice Elena Chiti,  ha espresso il concetto di speranza, “finché c’è poesia c’è speranza”.  E ha citato “la farfalla  come testimone e simbolo di tanti valori, contro la violenza e l’orrore il suo silenzio chiede giustizia”, è protagonista di diverse sue poesie, eccone una intitolata “Le farfalle emigrate con le famiglie”: “Le farfalle/ emigrate con le famiglie/ sui fagotti dei vestiti/ sugli abiti a fiori delle figlie/ nelle tasche delle nonne/ nella supplica delle mamme/ al confine/svestono i colori/ entrano in esilio:/ foto ricordo/ in bianco e nero”.

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E’ venuta  da Israele Agi Mishol, intervistata dalla traduttrice Anna Linda Callow, riportiamo integralmente la sua poesia “Scrivere” per l’originale  descrive del momento magico della composizione poetica, quando l’ispirazione si traduce in espressione: “La scrittura è la più tortuosa delle vie/ per ricevere amore./  Vivere per lei è/ salire e scendere per le scale minori/ dell’infnzia/ con l’intento di fuori/ e un microfono attaccato alla tempia./ è chinarsi sulle parole/ finchè non si trasformano in porta/ e allora farvi irruzione/ come frattali/ di broccoli/ e sbarrare sempre gli occhi/ dalla seconda alla terza dimensione/ sino a una danza di lettere/ che si inchinano l’una di fronte all’altra con l’umiltà del tempo/ di fronte all’eternità./ vivere per lei è/ cadere dai cieli/ con una lucente coda di cometa/ come un desiderio/ di nessuno”.

La poetessa sudamericana, precisamente venezuelana, Carmen Leonor Ferro, intervistata dal traduttore Matteo Lefévre, dal 2004 è in Italia, avendo lasciato il regime dittatoriale. E’ docente, si occupa di poeti castigliani, ha parlato del rapporto tra poesia e realtà che l’ha vista in passato più realista di come si sente oggi. L'”acrobazia del viaggio” è stato un altro tema, come fonte “non solo di precarietà economica, ma anche esistenziale ed emozionale, con la consapevolezza di essere nessuno insieme al riconoscimento della diversa identità”, rispetto alle due lingue di poeti stranieri. Alcuni suoi versi dalla raccolta inedita “Precarios”: “La città si sveglia/ è settembre/ il tram passa alle sei/ … tutto sembra far parte di un circo/ gli orologi sono utili come non mai/ le edicole scintillano/ solo pensionati e precari/ si abbottonano le lunghe vestaglie/ e vanno lenti in cucina a fare il caffè”.

Ed eccoci agli ultimi due poeti degli Stati Uniti, Ron Padget, intervistato dalla traduttrice Paola Del Zoppo,la stessa di Gwyneth Lewis, che lo presenta come molto noto anche se poco tradotto, la sua poesia è “semplice, essenziale e diretta”.  Secondo lui “la descrizione poetica è un atto spontaneo, anche ironico”, una sua espressione è “vorrei essere il solo a pensare di essere solo”, un’altra “sono uomo, poeta, io, ma la mia casa dov’è, è in questa poesia piccola ma vera”, il grande tema è l’amore. Citiamo “Poesia d’amore”, tradotta da “Collected Poems”, Coffee House Press: “Siamo pieni di fiammiferi a casa/ li teniamo sempre  a portata di mano/ … Le parole che sembrano un megafono,/ come per urlare al mondo/ ‘Ecco il fiammifero più bello del mondo,/… magari accendendo al sigaretta della donna che ami/ per la prima volta, e mai più è stato lo stesso/ dopo. Tutto questo ti daremo’/ E’ quello che tu hai dato a me, io/ divento la sigaretta e tu il fiammifero, o io/ il fiammifero e tu la sigaretta, sfolgorio/ di baci stemperati sotto il cielo”.

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Per ultima la poetica di Frank Bidart, intervistato dal traduttore Damiano Abeni.  Ha espresso la sua filosofia di vita, “alla bellezza arrivi allorché ti rendi conto di quanto siano potenti e dolenti 50 anni di poesia” e ha parlato anche delle nuove tecniche cinematografiche basate sulle immagini. “Noi riempiamo forme preistoriche – ha detto – e nel riempirle le cambiamo e ne siamo cambiati, Mentre tutto vorrebbe continuare nel proprio essere l’io desidera rimanere immutato, questo io ci consente di restare in un inaccessibile spazio magico”. Dalla raccolta “Desiderio”, Edizioni Tlon,la sua poesia “Potessi portare il lutto come una tortora luttuosa”: “E’ a ciò che ricorre che crediamo,/ la tua faccia non in solo in un dato momento che guarda/di lato in su verso di me angosciata o/ eccitata, ma le antiche parole che sgorgano grazie/alla gravità riassettata:/ due settimane prima che tu morissi pieno/ di dolore, consumato, dopo il mio solito saluto informale/ con Tutto il mio amore, il tuo semplice/  solenne il mio amore a te, Frank”.

Con questa struggente dichiarazione d’amore concludiamo la rassegna della “Poesia sconfinata”, ma prima di terminare diamo conto dell’intermezzo “I ‘Landays’, poesie dall’Afghanistan”, nel quale Elsa Griswold è stata intervistata da Moira Ergan sul suo libro “I am the beggar of the world”, edito da Farrar, Straus and Giroux, nel quale ha cercato di “guardare la vita delle donne in quel paese attraverso i loro occhi”, il nostro pensiero è andato alla “afghana girl” di Steve McCurry, la Monna Lisa del ‘900, vera icona dell’orrore della guerra. E ha potuto liberarle nel dire cose anche scomode sui grandi temi della loro esistenza, “guerra e amore, patria, separazione e dolore”, le ragazze afghane che non possono andare a scuola né sentire la radio si esprimono nella poesia in modo clandestino con denunce toccanti nella loro disperata autenticità: “Mi hai venduta a un vecchio, padre. Che Dio distrugga la tua casa, sono tua figlia”.

Dopo questa terribile poesia di ragazza afghana, le “Rovine” della Grishwold: “Un giorno primaverile trasuda da Trastevere/ … l’uovo nel mio petto si spacca/  si apre contro la mia volontà./ Il morto sulla strada in Congo/ era senza un orecchio,/ che avevano mangiato/ o che forse qualcuno portava/ come ciondolo appeso al collo./ Il morto aveva questo aspetto. No, quello./ Ecco un branco di turisti,/ tutti con i cappelli di tela uguali./ Sto guarendo per sbaglio./ Anche Roma è costruita su rovine”.

Dall’amore alle rovine su cui si può e si deve costruire,  la conclusione sulla poesia internazionale dopo quella nazionale. Ripensiamo alla maratona delle Olimpiadi del 1960 vinta dall’etiope Abebe Bikila scalzo sotto l’Arco di Costantino  tra le rovine del foro romano. Abbiamo voluto concludere con questa associazione di idee il nostro resoconto sulla maratona dei “Ritratti di poesia 2018”, sperando che non sia l’ultima ma prosegua per il grande valore che ha assunto nella cultura e nel mondo giovanile. Siamo certi che non mancherebbe mai la presenza, pur in una posizione diversa,  dell’ideatore e promotore per dodici anni, Emmanuele F.M. Emanuele, al quale, da grande sportivo, crediamo non dispiacerà il nostro collegamento con quel momento magico dell’epopea olimpica.

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 Info 

Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma.  Compendio della Fondazione Terzo Pilastro – Roma e Mediterraneo,  Ritratti di Poesia. In viaggio con la Poesia”, dodicesima edizione 2006-2018, manifestazione a cura di Vincenzo Mascolo, 9 febbraio 2018, pp.70, formato 20 x 20. .Il  primo articolo è uscito in questo sito il  1° marzo u. s..  Per le manifestazioni degli anni precedenti cfr. i nostri articoli: in questo sito, 3 marzo 2017 “Ritratti di poesia, 11^ maratona poetica al Tempio di Adriano”, 19 febbraio 2016 “Ritratti di poesia, 10^ maratona poetica al Tempio di Adriano”,  15 febbraio 2013 “Ritratti di poesia, al Tempio di Adriano con la Fondazione Roma”; in “fotografia.guidaconsumatore.com”, 30 gennaio 2012 “Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”, e in “cultura.inabruzzo.it”, 9 maggio 2011 “‘Ritratti di poesia’  al Tempio di Adriano” (questi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nel corso della manifestazione, si ringrazia la “Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo” per l’opportunità offerta.  Per lo più, le immagini di momenti della manifestazione sono intervallate da particolari, che non citiamo, degli allestimenti scenografici a cura di Enrico Miglio.  In apertura, il  presidente Emanuele nel suo intervento;  seguono,  lapoetessa  Donatella Bisutti Amaral premiata per la poesia italiana mentre legge le proprie poesie, in fondo, seduti,  Emanuele e Mascolo, e un “volto di poeta” di  Rocco Micale; poi, un primo piano della poetessa  Ana Luisa Amaral mentrre legge le proprie poesie, e il poeta Alessandro Canzian intervistato da Vincenzo Mascolo; quindi, il poeta statunitense Ron Padgett, e un’altra immagine della soprano Sabina Meyer con alla tiorba Simone Colavecchi nella “Lettera amorosa” di Monteverdi  e una nuova visione della sala; in chiusura, una visione dall’esterno del Tempio di Adriano dove si è svolta la manifestazione.

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Forattini, la galleria di personaggi politici nel suo “Abbecedario” satirico

di Romano Maria Levante

Torniamo sull’ultimo libro-album di  Giorgio Forattini, “L’Abbecedario  della politica”, presentato il 10 dicembre 2017 da Giorgio dell’Arti nel nuovo centro direzionale “La Nuvola” all’Eur di Roma, alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, ne fanno parte le Edizioni Clichy cui l’autore ha affidato la “summa” di quarant’anni di satira politica dopo quasi 60 libri con la Mondadori. Scelta significativa all’insegna di “Più libri più liberi” dell’autore della miriade di vignette apparse sui più grandi quotidiani  e periodici, in primis “La Repubblica”, dove sono state pubblicate per 25 anni in prima pagina e considerate come  articoli di fondo per la  capacità di centrare icasticamente il tema politico di stringente attualità.

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Nella sala Elettra del Centro congressi dove si è svolto l’incontro con  l’autore, Forattini  ha ricordato brevemente la sua esperienza soffermandosi in particolare sul processo creativo che parte dall’individuazione del fatto del giorno per tradursi  in un abbozzo a matita affinato e definito successivamente a penna per il passaggio alla stampa. Piena autonomia per quanto riguarda il contenuto della vignetta satirica, cui corrisponde la solitudine quando si materializzano gli inconvenienti del mestiere, malumori che possono arrivare fino a querele con pesanti richieste di risarcimenti da parte dei bersagli della satira. 

Si è parlato della querela di D’Alema per la vignetta sullo “sbianchettamento” della lista Mitrokin con i nomi degli agenti del KCB in Italia e sulle sue conseguenze, al di là del ritiro del’azione legale sbandierato quando fu chiamato alla presidenza del Consiglio: ne è seguita la fine della pubblicazione della vignetta quotidiana per 25 anni su “La Repubblica” di cui Forattini è stato co-fondatore e il passaggio alla “Stampa” prima, ad altri quotidiani e periodici poi.

E’ stato ricordato anche Giovannino Guareschi, che addirittura scontò  oltre un anno di carcere per una vicenda in cui la vignetta satirica ha avuto un ruolo importante provocando di fatto la detenzione.

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Abbiamo già dato conto di tutto questo e abbiamo approfondito il tema della satira per definirne l’identità e le caratteristiche nelle diverse situazioni storiche e politiche anche in relazione a una serie di mostre che l’hanno riguardata,  in modo da distinguere la satira autentica che mette a nudo le nequizie del potere da quella falsa che ha per bersaglio gli oppositori.

Quanto detto fin qui è la premessa all’ingresso nel mondo della satira di Forattini, nel quale entriamo in punta di piedi per sorprendere i tanti personaggi allineati nel suo “Abbecedario”.

La grafica della vignetta di Forattini e i primi “autoritratti”

Intanto vediamo come lavora Forattini, come nasce la vignetta-articolo di fondo condensato in un’immagine.  Abbiamo accennato all’idea e al contenuto, che deve “centrare” il motivo del giorno, ed essere sapida, tagliente essenziale. Ma la forma, la deformazione satirica riguarda anche i protagonisti, e lui  è stato un maestro insuperato, nonostante i vignettisti politici si siano moltiplicati sul suo esempio;  è il solo ad aver caratterizzare i personaggi, sempre nella deformazione satirica, in modo indelebile creando delle “maschere” che tornavano ogni volta come in un “sequel”. Il Craxi-Benito e il Prodi-curato, il Bossi-crociato e il Veltroni-bruco, la Camusso-toro e il Trump-elefante sono diventati familiari al grande pubblico di lettori, come in questi anni il Don Matteo televisivo. 

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E se per creare queste maschere e le altre interpretazioni serve genialità, per disegnarle occorre maestria e metodo, al servizio della “divina fatica della creazione”, le parole di Henry James citate proprio per Forattini, una creazione continua la sua con il dato straordinario della quotidianità. La maestria non si può spiegare, è la capacità di far parlare il disegno con il linguaggio della satira, il più difficile perché nel contempo deve far ridere e pensare, una sorta di ossimoro, tanto più nel campo della politica dove spesso “non ci resta che piangere”.

Il metodo lo ha rivelato con sincerità: inizia con uno schizzo a matita, prima avvolgente e incerto, poi sempre più preciso e netto via via che l’immagine prende forma, e lo fa “sul campo”, nella grafica, dopo che l’idea ha dato lo spunto per l’avvio. Proprio per questo la parte grafica non è meramente esecutiva, ma creativa anch’essa e comporta ripensamenti e variazioni avvicinandosi progressivamente al “bersaglio” che è il disegno finale  a matita, ancora un bozzetto ma ben definito per l’ultimo passaggio a penna.

Lungo questo processo molto spesso i ripensamenti lo portano ad eliminare l’abbozzo di disegno che non lo convince, e non si è mai preoccupato di conservare quei semilavorati pur preziosi per fare un archivio del laboratorio vivente che è stato per oltre quarant’anni e continua ad essere. Forse anche in questa noncuranza si può vedere la chiave della sua estemporaneità sempre fresca e lucida, non si ritiene un monumento, ma un artista creativo che opera nell’immediatezza e nella spontaneità.

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Ma allora, da dove sono venuti quegli schizzi abbozzati a matita che non hanno avuto lo sbocco nella pubblicazione e non hanno seguito la sorte di tutti gli altri inesorabilmente buttati via? Dalle persone vicine a lui che ne hanno recuperati alcuni conservandoli a testimonianza del suo metodo.

Guardiamo nelle prime pagine gli schizzi a matita che lo ritraggono  e fanno da introduzione alle vignette  dell'”Abbecedario”. Il primo è l’abbozzo della sua figura in piedi che, come un cavaliere antico, scaglia la lancia, pardon, la matita, contro i nemici, è nudo con la foglia di fico, lo ritroviamo nudo anche nella vignetta a colori in cui vola in aria mentre Craxi, Occhetto e Andreotti (non c’era ancora D’Alema) nelle fiamme dell’inferno attendono di infilzarlo con i forconi levati in alto, e inseguito dalla minacciosa figura di Komeini con la scimitarra. Si disegna vestito, invece, dietro le sbarre e sotto la ghigliottina, al tavolo di lavoro e placidamente seduto in pigiama con un gatto sulle ginocchia, abbozzo a piena pagina che apre l'”Abbecedario”, con lo schizzo di Craxi e Andreotti con in braccio Occhetto. a lato lo schizzo con lui stesso seduto placidamente in pigiama con in braccio il gatto, lo ritroviamo nella quarta pagina di copertina. .

Abbozzi a matita sono inseriti anche a corredo delle vignette nelle singole lettere dell’alfabeto, documentazione preziosa meritoriamente salvata perché fa entrare nel laboratorio creativo.

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A-D,  protagonisti Andreotti e Berlinguer, Craxi e D’Alema

Su Agnelli si può seguire la ricerca della sua particolare fisiognomica negli abbozzi del volto,  mentre la comparazione del grande abbozzo a matita della sua figura con il mitra mentre paga Craxi, Andreotti e Occhetto  con la vignetta finale a colori documenta questa fase del lavoro. Sempre nella lettera A, la successione tra Alfano e Almirante permette di confrontare direttamente immagini del 1975 e del 2009, quasi 35 anni trascorsi ma la forza icastica è la stessa. Ritroviamo Amato topolino con gli stivali e una “Andreottiade” di 8 pagine, dal “pistolero” del 1979 al 2913, con “the end” sulla schiena, ingentilito dallo squarcio di cielo azzurro. La vignetta con Cossiga e Occhetto che duellano con falce e martello sulla sua testa è documentata dal grande abbozzo a matita. Della galleria fanno parte Arafat e Aung San Suu Kyi, la Nobel birmana dei diritti umani.

La lettera B si apre con il grande abbozzo a matita di  Bossi mentre impugna lo spadone, la vignetta a colori mostra come sia notevole il lavoro di definizione e rifinitura dello schizzo iniziale. Sono 7 le pagine dedicate a Bossi, 6 più una per un refuso intitolata  Borsellino, preziose perché vi sono altre comparazioni abbozzo-vignetta. Su Berlusconi 5 pagine in bianco  e nero e colorate, 2 piccoli abbozzi a confronto anche qui, è rappresentato sempre con il viso aperto nel sorriso a salvadanaio, tra il “ribaltone”, il 13 maggio sotto una pioggia di guano da politici in volo, e il G8 in musica.  

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Bersani, forse per i suoi scarsi sorrisi, è raffigurato  in procinto di essere impiccato o di suicidarsi con la pistola, fino alla crocifissione da parte di Renzi su una croce a falce e martello. A Berlinguer 4 pagine senza colori con la celebre vignetta del 1977  in cui il leader comunista è seduto in veste da camera e pantofole mentre sorbisce il caffè  e legge “l’Unità” che con il titolo  “Una forza operaia immensa”  celebra la manifestazione alla quale è palesemente indifferente, alla parete il ritratto di Marx.  Nelle 2 pagine su Bertinotti un’altra preziosa comparazione tra il bozzetto molto grande  e la piccola vignetta con l’esponente comunista trasformato in serpente che stringe Prodi nelle sue spire. Flash di una pagina sulla Bonino, la “dea Bonì” di Pannella con 10 braccia per i 20 referendum, su Bindi, Borsellino con l’angoscioso coccodrillo, e  Buttiglione visto come rassicurante scimmione. Satira internazionale sui due presidenti Bush e, in una sorta di “par conditio”, su Breznev.

Anche nella lettera C troviamo pagine dedicate a leader stranieri, da Carter a  Chirac ai due Clinton, Bill e Hillary. Oltre alle brevi “citazioni” su  Calderoli e Camusso,  Cofferati e Cossutta, e alla parte più ampia dedicata a Ciampi, con due  interessanti raffronti bozzetto-vignetta, il “clou” sono le 5 pagine ciascuno per  Cossiga e  Craxi. Del “picconatore”, la vignetta sul “centauro Bossi” è corredata dal bozzetto, mentre per Craxi, nella celebre identificazione mussoliniana, ci sono 3 bozzetti non tradotti in vignetta, anche questo va segnalato.

D’Alema è il protagonista assoluto della lettera D, che comprende anche De Mita e Di Pietro,  Dini e il Dalai Lama. Se Craxi era Mussolini, D’Alema ha sembianze hitleriane in “Mein Kampf”; vanno sottolineate due vignette, quella  intitolata “Massimo Berlinguer” del ‘98, che aggiorna 21 anni dopo la celebre satira sull’imborghesimento del PCI sopra citata, questa volta è D’Alema ad essere raffigurato nella stessa positura seduto in poltrona in veste da camera e pantofole, ma non legge “l’Unità” bensì “Il Sole 24 ore” e alla parete al ritratto di Marx si è aggiunto quello di Agnelli. L”anno successivo la celebre vignetta a fumetti con “allora, arriva ‘sta lista” e la risposta di D’Alema al tavolo con il foglio fitto di nomi del KGB della lista “Mitrokin”.”Un momento! Non s’è ancora asciugato il bianchetto”, è quella della querela con richiesta di un risarcimento di 3 miliardi di lire. E’ bene che si sia voluto riproporla, perché è una prova del fatto che la satira deforma la realtà per “castigarla” simbolicamente, non dà mai “una notizia falsa” come sosteneva D’Alema.

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E-L,  satira estera da Eltsin a Khomeini e interna da Fanfani a Fini a Grillo

Nella lettera E soltanto satira internazionale, Eltsin ed Erdogan, il leader turco in duello con il Papa, mentre la lettera F si apre con  3 pagine dedicate a Fanfani si a partire dal  celebre “tappo” della bottiglia di spumante annata 1974 del “no” al referendum. Graficamente e politicamente intriganti le vignette su Fini,  nel 2009 visto come un drago che sputa fiamme davanti a Berlusconi, e nel 2007 come un  arco in mano a D’Alema, in divisa hitleriana, che scaglia una freccia con la testa di Berlusconi,  c’è anche il bozzetto a matita il cui raffronto con la vignetta finale è sempre interessante. Vi sono anche Falcone nell’85, su una Sicilia-coccodrillo, Forlani e Fassino raffigurato come scheletro,  nell’armadio e in una esilarante trasposizione dell’uomo vitruviano.

Gheddafi che sputa su Andreotti il quale si ripara dietro Craxi, Gorbaciov che annega nel water tirando lui stesso la catena dello sciacquone  e Goria senza volto sono i soggetti della lettera G ma forse l’interesse maggiore lo suscitano le vignette su Grillo per la loro attualità, soprattutto quella intitolata “Grill” del 2012, in cui cuoce allo spiedo le teste dei leader politici di allora; in una del 2014, con a lato l’abbozzo a matita, parla con Berlusconi, ha la svastica nel braccio sinistro.

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Holland senza  mutande e Hu Jintao, leader del comunismo cinese dal 2003 al 2013 senza voce, sono i personaggi della lettera H, mentre nella lettera I  c’è  Ingrao mentre sega l’albero-Occhetto,  Iotti, “bella ciao” che lascia la Camera, e nientemeno che l’Italia, “condonata a morte” nel 1984, in procinto di affondare nel 1989, colpita dall’assenteismo nel 1990, bianco cadavere nelle braccia di Craxi, Andreotti e Occhetto ghignanti con lugubri vesti nere nel 1991, c’è anche l’abbozzo a matita.

Per le lettere J e K, naturalmente, solo satira internazionale, protagonisti Jaruzelski, il dittatore polacco che chiede l’elemosina con un cane-uomo in catene, Khomeini mentre taglia le mani con al scimitarra,  Kissinger con la bandiera USA terminale di pipeline, Kohl,  Kohligan” con in mano uno stivale pieno di birra.

Nella lettera L tornano i soggetti italiani, La Malfa  tartaruga e mummia, e Leone che tra il 1976 e il 1978 è stritolato dai serpenti alla Laocoonte, inchiodato dal  lancio di coltelli sul concordato, affonda nell’acqua, emerge solo il braccio con la mano che fa le corna, c’è anche una immagine apparentemente placida su un tappeto volante, ma guardandolo bene c’è scritto “one petrodollar”.

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M-0,  personaggi stranierii da Merkel a Obama, e italiani da Moro a Napolitano, a Occhetto

La lettera M è molto densa, ci sono diversi stranieri, per Mandela soltanto due dita in segno di vittoria, Mao fa il pediluvio alla fine della lunga marcia, la Merkel con altri sulla barchetta-Europa che affonda, come avviene per  la barca di Mitterand,  mentre Mubarak è espulso con un calcio dalla sfinge e Marx impiccato sulle macerie della falce  e martello, è il 1989.   Numerosi anche gli italiani, “il cinghiale delle madonie” Mancino e “faccia d’Anas” Martinazzoli, non è un refuso anche se la faccia è di un ananas, Mastella in barca su una tinozza e Maroni in un balletto con Bossi cane che ringhia. Moro in 3 pagine di vignette, come burattinaio e cuoco, il clou è quella del 1977 in cui ingoia Cossiga che ingoia Andreotti che ingoia Berlinguer domatore,  e la recente con Mattarella che abbraccia lo scheletro del comunismo cinese e dice “Adoro in made in China”.

Nella lettera N  la prima vignetta  è del 1973, Nixon soffia dollari nella vela della barchetta DC con dentro Fanfani. Il protagonista è Napolitano, come “vu cumprà” a Lampedusa o capitano del Totaltitanic” che sta affondando, saluta dalla poppa ancora emersa, e come Geppetto che costruisce Pinocchio. Interessante l’abbozzo a matita senza vignetta con Napolitano mentre scaccia l’insetto molesto Berlusconi che chiede “la grazia, Presidé”, gli risponde “Vattene per sempre in Florida”.

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Obama nella lettera O è visto come giocatore di basket mentre schiaccia il globo nel cesto, come cattedratico sul podio e come pistolero. Mentre Occhetto è il “Bambinello ” nella teca e il lavoratore nell’immagine a colori di un rinnovato “Quarto stato” con uomini politici in prima fila. Non solo, è Pinocchio appeso all’albero, e lo troviamo anche in “il triangolo della morte” con Craxi e Andreotti vestito da arabo, insieme innalzano la bandiera con la stella a 5 punte, la curiosità è che, rispetto al bozzetto a matita, nella vignetta al centro c’è Craxi invece di Andreotti.

P-S , dai 5 papi a Pannella, da Scalfaro a Spadolini, fino a Renzi

Nella lettera P tanti grossi calibri, cominciare da 5 papi, Paolo VI nel 1976 in una vignetta è in mitria con lo scudo crociato e  in un’altra con gli occhi coperti dalla falce  e martello,  e Giovanni Paolo I che ride guardandosi allo specchio,  Giovanni Paolo II crocifisso da Marx, Lenin e Stalin, e mentre aiuta Gorbaciov a portare la croce, e Benedetto XVI  lanciato papa nel 2005 con il missile “Ratzinger”, nel 2009 con in braccio l’Italia che indicando Berlusconi dice “tu papa, lui papi”; fino a Papa Francesco alla testa delle guardie svizzere in una tempesta di missili e aerei in picchiata mentre proclama “Mai più la guerra”. Anche Pannella è visto crocifisso nel ‘97, già era stato  raffigurato a letto ischeletrito nel ’76  e in volo verso l’alto con le ali e  la scritta “A Dio, Marco”, nel 2016, la firma Forattini è in una nuvoletta che dopo la morte lo accompagna in cielo. Pure Pertini è rappresentato sul Calvario nel ’90 con l’Italia come una croce sulle spalle,  oltre che con le sue celebri pipe, mentre Prodi è ritratto con la tonaca di curato di campagna. Una vignetta su Putin che sputa un teschio dal balcone chiude la lettera.

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Dopo la lettera Q,  con la regina Elisabetta che dice “God save the Pope” impegnato nel baciamano,  nella lettera R  le antiche vignette con Rumor sull’orlo dell’abisso del referendum sul divorzio e Reagan armato alla Rambo con il bastone, definito Rimba;  meno datato Rutelli riportato ai Musei capitolini, più di recente Renzi, dal ’14 al ’16, invariabilmente raffigurato come Pinocchio.

Alla lettera S  troviamo 4 stranieri, Saddam Hussein che pone come condizione di avere il Nobel per la pace mentre strizza il collo alla colomba,  Sarkozy nello stivale Italia-calze da seta di Carla Bruni,  Sharon Stone, non la conturbante attrice ma il generale visto come un pesante masso dopo il gesto dimostrativo del 2000 nella Spianata delle moschee. Ma oltre a 4 pagine dedicate a Scalfaro con una ricerca negli abbozzi a matita del suo volto, e alcune elaborate vignette a colori, ecco il clou. Su  Spadolini: 5 pagine imperdibili con il suo corpo strabordante nudo dal pisellino minuscolo, immagini alla Botero, nelle più diverse posizioni e attività sempre esilaranti, della figura colpita dalla freccia c’è anche l’abbozzo a matita;  in “le quattro emergenze”  da subacqueo regge a galla gli altri 4 del pentapartito, in “fotocopia di gruppo” ha la proboscide dell’elefante, abbattuto dal cacciatore Craxi, con Andreotti e De Mita.

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T-Z, da Togliatti a Veltroni, fino agli autoritratti conclusivi

Siamo alla lettera T, una pagina ciascuno per la Thatcher con il sigaro e Tito  che regge la valigetta con falce, martello e stella e la scritta Par tito, Togliatti in fila con Marx, Lenin. Stalin e … Grillo che giustifica la scritta P.C.I. Partito Comico Italiano, anche se resta criptico trattandosi del 2009, Togliatti è morto nel 1964;  Tremonti come James Bond per i bond obbligazioni mentre  la Banca d’Italia crolla, e infine Trump con le zanne, leader del partito Repubblic ano, per il gesto scurrile..

Nella lettera U soltanto Umberto di Savoia che si presenta a San Pietro cercando Romita per manganellarlo con lo scettro, è evidente il riferimento alle “calcolatrici” del  contestato Referendum istituzionale del ‘46, siamo nell’ ‘83  alla morte di Umberto. 

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La lettera V è dedicata a tre personaggi, una pagina per Veronesi, che nel 2001 grida “avete rotto i polmoni”, una a Vittorio Emanuele di Savoia, “il padre della Patria” al centro di un gruppo colorato da foto di famiglia,  con tutti i suoi “figli”, i politici dell’epoca vestiti da ragazzini o nudi come Spadolini, ovviamente, e De Michelis; e 3 pagine a Veltroni, sempre come bruco verde, di cui c’è anche l’abbozzo a matita, in diverse vignette tra cui quella osé con Clinton esibizionista e la solenne scena degli idi di  marzo e il “Tu quoque bruco fili mi” di D’Alema.

Walesa nel crocifisso con scritto “Solidarnosc” impugnato come un’arma da Papa Wojtila è il personaggio della lettera W mentre Zaccagnini anche lui in croce nello scudo crociato è l’unico della lettera Z con cui si chiude la galleria dei politici. E’ un succedersi irresistibile di “gag”. La cui interpretazione fa rivivere ad ogni lettore, come al sottoscritto, le vicende politiche di 40 anni, per questo ne abbiamo citato alcune pur sapendo che le vignette si devono guardare, non raccontare. 

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Nella pagina finale, prima dell’indice dei personaggi, ci sono 6 piccoli autoritratti, con la figura intera scimmiesca o napoleonica, almeno allo specchio, o con il solo volto. Ebbene, l’autoritratto con la matita in bocca, contenuto in tale pagina, è stato disegnato più grande con pochi magistrali tratti di matita prima della firma nella dedica che ha vergato dinanzi a noi Per questo con la dedica del  suo autoritratto e la fotografia ripresa mentre lo sta tracciando per noi, si conclude  la piccola-grande  galleria di vignette, scelte fior da fiore tra le innumerevoli dell'”Abbecedario” da noi richiamate nel commento..

Usciamo dalla “Nuvola”, dopo le morbide ondulazioni della parte superiore della struttura evocatrici del nome, dinazi a noi la forma squadrata dell’esterno, uno dei tanti ossimori che abbiamo riscontrato: come la saletta raccolta nell’immensità del Centro Congressi, il  nome Elettra il cui dramma è l’opposto dell’umorismo satirico che è stato dibattuto al suo interno,  la Fiera delle piccole case editrici, tra cui l’Editore Clichy del libro-album, come  lillipuziani rispetto al Gulliver-Mondadori, precedente editore di quasi 60 libri di Forattini. Tutto questo ci ha allietato, come fosse una vignetta supplementare offertaci.

Ma non è un ossimoro il messaggio “Più libri più liberi”, ed è importante, anzi vitale, riaffermarlo con forza.   Soprattutto con libri come quello di Forattini perchè la libertà di satira è la quintessenza del valore supremo della libertà in assoluto. 

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Info

Forattini, “Abbecedario della politica”,  Edizioni Clichy, 2017 pp.254, formato  24 x 24,.euro 19,00.  Il primo articolo è uscito il 27 febbraio  u.s. Per le mostre sul tema e per la vicenda  Guareschi citate nel testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2017,  ‘La razza nemica’, ebrei e malati psichici in due mostre contro il nazismo”  18 aprile, su Botero  3 articoli 2, 4, 6 giugno e 25 marzo 2016, nel 2015,  “Sironi, le graffianti vignette satiriche a Villa Torlonia”  e “Spadolini, la figura e le memorie che suscita, al Vittoriano”  2, 15 novembre; in cultura.inabruzzo.it, nel 2010, “La caricatura nella storia” e  “Satira politica, quando chi tocca i fili…”  2, 4 gennaio, su Giovannino Guareschi “Il giornalismo in carcere”, “La prigione senza sbarre”, “La libertà vigilata”, “I baci del (nuovo cinema) Paradiso”  4, 7, 14, 22 luglio;  nel 2009, “In nome della legge: la satira sui poliziotti” 11 novembre (questo sito non è più raggiungibile, le immagini saranno trasferite su altro sito).

Foto

Le immagini delle vignette sono state tratte dal libro-album, si ringrazia l’autore con l’Editore per l’opportunità offerta; le altre con Forattini e il centro Congressi “La  Nuvola” sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione del libro. E’ stata riportata una vignetta per ciascun protagonista della politica, ad eccezione di Spadolini per il quale sono state inserite due vignette, all’inizio e al termine della galleria satirica. In apertura, la 4^ pagina di copertina del libro-album; seguono, Spadolini 1982 e Leone 1978; poi, Mancino 1992 e Martinazzoli 1993; quindi, Mattarella 2017 e Moro 1977; inoltre, Napolitano  2013 e Occhetto 1993; ancora, Pertini  1978 e Trunp 2016; prosegue, Veltroni 2007 e Spadolini 1982; infine, Forattini matita in resta… s. d., l’Autoritratto con dedica per noi, e Forattini ripreso mentre disegna Autoritratto e dedica; in chiusura, “La Nuvola”, l’esterno squadrato.  

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Ritratti di poesia, 1. La 12^ maratona poetica al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante

“Ritratti di poesia” è sempre puntuale all’appuntamento annuale da oltre un decennio:  il 9 febbraio 2018 al Tempio di Adriano si è svolta la dodicesima maratona poetica organizzata dalla “Fondazione Terzo Pilastro “, presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele, con varie sezioni all’interno della giornata di letture di poesie degli autori introdotti da conversazioni-interviste che hanno testimoniato  sulle infinite vie che portano alla poesia a livello nazionale e internazionale.

Come sempre, diversi intervistatori si sono succeduti sul palco nelle comode poltroncine conversando con i poeti nelle tante sezioni. Tra loro l’onnipresente Vincenzo Mascolo, curatore inappuntabile e instancabile della manifestazione, assistito da un “timer”  seguito con precisione moderata dalla necessaria flessibilità;  e sono state presentate forme di contaminazione creativa della poesia con altre espressioni artistiche.

La scenografia quest’anno a prima vista sembrava evocare “Tempi moderni” di Charlie Chaplin,  guardando meglio si poteva accertare che le grandi ruote dentate non erano gli ingranaggi oppressivi delle macchine che ingoiano il lavoratore nei loro cicli infernali, ma quelli ingigantiti dell’orologio che segna il trascorrere del tempo. Non si sa se più rassicuranti o meno, ma questo dipende dall’età dell’osservatore, e almeno nella prima parte vi erano molti giovanissimi con la voglia di vivere e di bruciare le tappe, per cui è al cronometro dello starter che facevano pensare.

Emanuele, ideatore, promotore e motivatore

Come sempre, promotore e motivatore,  il presidente della Fondazione Terzo pilastro, Emmanuele F. M. Emanuele, che alle molteplici attività di vertice  nel mondo della finanza, dell’arte e della cultura, oltre che nello sport, aggiunge  quella di poeta ad alto livello come dimostrano i premi ricevuti dalle sue numerose raccolte poetiche, rappresentate anche al  Teatro Quirino in una serata indimenticabile di alcuni anni fa. 

Ha ideato la manifestazione nel 2006 e da allora è andata in crescendo nell’approfondire i modi in cui la poesia mantiene la sua vitalità pur in un mondo così cambiato soprattutto per i giovani,  che vengono sempre più coinvolti nella kermesse con spazi riservati a loro, come l’incontro iniziale degli alunni di scuole romane con grandi poeti, lo “slam poetico”  con tanto di votazione della giuria di giovani, il premio alla poesia nei 140 caratteri di twitter. La platea del Tempio di Adriano, la storica sede monumentale della maratona poetica, è affollata di giovani delle scuole che fanno il tifo per la poesia. Incredibile ma vero! 

Nell’intervento introduttivo Emanuele ha ricordato la sua ferma convinzione che la poesia debba avere la stessa presenza delle altre forme artistiche – le arti visive, il teatro e il cinema, la musica e la danza –  convinzione che è stata alla base dell’iniziativa e della sua crescita nel tempo:  è riuscita a mobilitare interesse e partecipazione anche nel campo dei giovani e delle scuole, diventando un riferimento poetico  a livello internazionale, inoltre ha dimostrato con apposite performance di artisti di eccellenza la possibilità di contaminazioni creative con le altre arti. 

Per molti anni ha avuto il richiamo per i giovani del concerto di chiusura da parte del cantante del momento, preceduto da una conversazione  sulla poesia nella canzone, ricordiamo l’entusiasmo dei giovani fan per Lucio Dalla, Francesco de Gregori, Fiorella Mannoia. 

Nel rivendicare  il cammino compiuto,  ha espresso l’auspicio che la manifestazione prosegua anche il prossimo anno, dopo il termine della sua Presidenza, sebbene le esigenze della Fondazione siano molteplici estendendosi al vasto mondo dell’assistenza anche sanitaria e della ricerca, ma “non va dimenticato che la poesia è parte integrante del mondo della cultura”  è “l’arcobaleno del mondo dell’arte” e “attiene al sentimento dell’uomo”.

Emanuele ha saputo esprimerlo con versi quanto mai toccanti, nel componimento  “Il mistero della poesia”: “A volte la poesia,/ che è la mia vita,/ mi abbandona./ Per tanto tempo, infinito,/ e io credo che non torni mai più./ Sfioriscono i ricordi delle montagn/ dei miei boschi, dei deserti che ho amato  e percorso,/ per anni,/ i fiumi che ho guadato/ e gli occhi di donne che ho incontrato,/ Come un mistero tutto sparisce e diviene lontano/ come se non mi appartenesse./ Ma un giorno,/  senza preavviso,/ senza una ragione,/ nel silenzio,/ quando mi guardo dentro,/ la poesia ritorna con il suo incanto/ e fa sparire la mia altra vita,/ che non è la mia in verità/ ma quella di un altro”.

I  premi nazionale e internazionale “Ritratti di poesia” 

Si inizia come sempre con “Caro poeta”, incontro poetico di studenti delle scuole romane, quest’anno  i ragazzi dei licei Visconti, De Sanctis e Machiavelli hanno confrontato le loro emozioni poetiche  con tre grandi poesti Maria Grazia Calandrone, Rosa Pierno e Terry Olivi,  di cui vogliamo citare alcuni  versi ispirati.

Per Maria Grazia Calandrone,  nella poesia “Come giacinti nella luce di aprile”, dalla raccolta “Il bene morale” ed. Crocetti, si conclude così “un’intera giornata di aprile”: “e adesso, nel rosaceo stupendo della sera, ora che i muri/ esalano un calore umano/ tra le tenere fruste dell’erba, e un sentore di viole/ spande il suo irrazionale/ alito tra gli sguardi, rivivi il rettangolo di cielo e di marmo/ della soglia, fermo nel dolce male della tua grazia”.

 Nella poesia inedita di Rosa Piperno, “Icaro caduto”,  troviamo nell’ultimo verso la figura mitica come avremmo voluto si concludesse il suo folle volo:  “La vagabile stella sull’esofago/ preme portando seco la novella/ nel torcere d’un giro voltò corso/ e lesto mi ritrovo sul torto viale./ La stellata sfera, col mondo di sopra capovolto,/ mi convince dell’avvenuto viaggio/ io, pastore, dell’erratica via,/ atterrato Icaro con ali”. 

Infine Terry Olivi  in “La mezzanotte di San Silvestro”, dalla raccolta “Nell’indaco notturno, Dialogo di un anno”, La vita felice: “Sta per iniziare l’anno nuovo,/ un caleidoscopio di colori/ di fuochi d’artificio/ anemoni d’aria/ coralli aperti e fiori/ per lo skyline accesi…../ un aaugurio, una speranza/ di smeraldo, un dream show/ per l’anno così giovane./ Una mongolfiera dei desideri/ lenta si perde vagabonda/ là dove ieri s’inarcava l’arcobaleno./ Dal corridoio ci parliamo/ come sempre”.

Si può immaginare il tifo dei compagni di scuola in platea mentre i loro “ambasciatori” della poesia sono sul palco a tu per tu con la terna di poeti affermati! Ma sale al diapason con il  “Premio  Ritratti di poesia 140”, il numero delle battute di “Twitter”, il “social network ” in nome del quale si sperimenta la sintesi estrema anche nella poesia, la giuria è composta da Franco Buffoni, Carmen Gallo e Maddalena Lotter. . Vincitore del premio nazionale Alessandro Modeddu, vincitore del premio europeo lo sloveno Ales Judenko.

 In questo clima  l’omaggio a Bob Dylan, la cui arte si colloca tra canzone e letteratura tanto che gli è stato assegnato il premio Nobel. Robert Politoè stato intervistato da  Damiano Abeni suo traduttore con Moira Egan,  sulla base di un libro che attinge al suo archivio personale.  Il grande poeta, è stato detto, deve scrivere tanto, su un ampio spettro di temi, con originalità, e soprattutto deve farlo sempre, una piccola lezione per i poeti della domenica. Ecco alcuni versi dalla sua poesia “Shooting Star”: che prende il titolo dalla celebre canzone in cui Dylan canta “I seen a shooting star tonight and I thought of you”: “… le spedisce poesia d’amore nel solito/ stile anni ’60, e per lei è un onore mostrarle a chi capita./ …  Il glamour dei rovinati, ma quanto più/ gratificante per lei non essersi inventata tutta/ quella farragine fumosa per solitudine, follia, o/ per soldi, e stamattina svegliarsi accanto a uno/ che ti eprsuade di aver inciso ‘Shooting Star’ solo per te”.

E’ giunto il momento del “Premio Fondazione Terzo Pilastro Ritratti di Poesia” conferito a Donatella Bisutti, lo consegna Emanuele presentandone la poetica. Ha esplorato l’inconscio cercando la conoscenza anche attraverso il misticismo e i misteri greci, fino al recente approdo al piano esistenziale e sociale in senso lato.  A quest’ultimo piano appartiene la poesia “Il mendicante”. Dinanzi a lui,”l’apparizione che toglie il fiato e fa tremare le gambe/…Resti stupefatta e trattieni,/ nella tua mano uncinata/ la moneta/ L’unica che ancora  possedevi/ Tutto si è illuminato d’un tratto/ sulla strada di Gerusalemme/ le cui porte – ora lo sai – ti saranno/ per sempre precluse”. Citiamo anche “Vivendo”: “Contro il vetro/ il disegno di un respiro/ – prima e dopo, invisibile”, e “Paura”: “Non della morte, ma/ della metamorfosi/ accettare di privarsi di sé/ come acqua che si lasci versare/  e prende forma da ciò che la contiene/ e corre via – e l’assorbe la terra/ ed è e non è più – senza pena, forse/ eppure non va persa./ Lenta, arrischiata/ ogni cosa matura/ per un attimo/ di colma beatitudine/ poi trabocca/ come l’acqua di un vaso/ fugge la pienezza”.

 Un “Premio speciale per Guido Ceronetti”  nel quale il senso doloroso della storia si intreccia con il pensiero, viene letta la “Ballata dell’angelo ferito”, dedicata al “coraggio di Eluana Englaro”: “Urlate urlate urlate urlate/ Non voglio lacrime. Urlate./ Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita  a forza in corpo che giace/ Io Eluana grido per non darvi pace/… ero troppo felice? Mi ha ghermita/ Triste fato una notte e non finita/ … Ho bussato alla porta del Gran Prete/ Benedetto Santità fammi morire/…Ho bussato alla porta del Dalai Lama./ Tu il riverito dai gioghi tibetani/… Ho bussato alla porta del Tribunale/ e il Giudice mi ha detto sei prosciolta/ … Ho bussato alla porta del Signore/ Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare/… Ho bussato alla porta del padre mio/ Lui si risponde! Figlia ti so capire/…  Cittadini, di tanta inferta offesa/ Venga alla vostra bocca il sale amaro./ Pensate a me Eluana Englaro”.  Restiamo senza parole, non aggiungiamo altro. 

Il  “Premio Internazionale Fondazione Terzo Pilastro Ritratti di Poesia”  viene consegnato alla fine ad  Ana Luisa Amaral, una poetessa portoghese le cui raccolte di poesie sono in equilibrio tra realtà e immaginazione, partendo dalla quotidianità nella quale ricerca il significato profondo affidandosi alla poesia, ammira la bellezza del creato.

L’ha presentata la traduttrice Livia Apa, come faranno nella “Poesia sconfinata” di poeti stranieri, e abbiamo trovato di grande significato la simbiosi poeta-traduttore che va ben oltre la versione scritta.  Ecco alcuni suoi versi, iniziando da “Quasi sonetto d’amore”: “Ma parliamo di pagine, non parliamo di corpo/ perché altrimenti parlerei dei tuoi occhi,/ e ci metterei altri due versi, e li farei rimare./ Direi: ‘son perfetti i tuoi occhi./ Perché volano'”. E ancora da “La lettera”: “Signori:/ saranno il dolore  e l’assenza ad avere sapore,/ un certo profumo dolce e atteso,/ in forma di mille occhi./ Poiché guardaste questa mia assenza,/ diceste che da lì creai parole,/  ma non per mia mano./ Nella vostra storia, signori,/ fui solo voce,/ invece di una persona intera/…  E così fui la vostra voce,/ e dolce mito. E nient’altro/ fui per voi/… Voglio dirvi oggi,/ in questo tempo così oscuro,/ ma di un’oscurità diversa da quella che avevo:/ addio./ Lasciatemi nell’oscurità, la mia./ Perché vicina alla mia,/ la vostra assenza, che in me avete innestato,/ è niente./ Vorrei sapere da voi che cos’è l’assenza./ Assenza: io indugio in queste righe./ Dire con quanta oscurità/ la notte si disfa/ e si costruisce”. Infine da “Dettaglio di stile”: “Ora il tempo è questo,/ oscillare lievemente su tele/ o affogare lo sguardo tra/ orizzonti/ Il resto: polvere dispersa,/ ridotta/ a semplicissimo dettaglio/ di stile”.

La poesia nella “Idee di carta”  e nelle “Idee senza carta”

Da questi intensi squarci di altissima poesia passiamo , prima di immergerci nella maratona di “Di penna in penna”, con i poeti italiani e “Poesia sconfinata”, con i poeti stranieri, a un momento molto diverso, diremmo prosaico dando a questo termine non il significato negativo che ha assunto ma quello di declinazione in prosa dei problemi e delle prospettive dell’editoria poetica a stampa. 

Sono le “Idee di carta”,  è la volta di LietoColle e Pordenonelegge, in un incontro con  Michelangelo Carmelliti e Gian Mario Villalta, Maddalena Lotter e Clery Celeste, pubblicano ogni anno 4 opere di poesia nei cosiddetti “libri gialli”. 

Dicono che i poeti nella casa editrice si conoscono tra loro e hanno modo così di interagire e condividere il loro interesse per la poesia, cosa importante, commentiamo, dato che il poeta lo si immagina nella solitudine, chiuso in se stesso e nel proprio ambiente, l’occasione di aprirsi con altri poeti ha un valore straordinario, amplificato al massimo dall’apertura nei “Ritratti di poesia”. Questo fa pensare che la manifestazione non ha solo un’importanza unica nel dare visibilità  e fruibilità alla poesia nei riguardi del grande pubblico, come ha detto Emanuele, ma anche una funzione maieutica nel fare aprire i poeti come si vede nelle interviste, e metterli in contatto tra loro per di più su un palcoscenico prestigioso. C’è un problema di equilibrio nelle scelte editoriali,  si è detto nell’incontro, il bisogno di recuperare la memoria e nello stesso tempo di inventare tenendo conto delle nuove esigenze giovanili.

 LietoColle lo fa sperimentando nuove forme di comunicazione che la pongono all’avanguardia tra le piccole case editrici  e consentono i valorizzare i testi poetici anche mediante immagini.  Promuove approfondimenti fino alla “lectio magistralis” di autorevoli poeti, le scelte editoriali  sono condivise da una cerchia di collaboratori qualificati.

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 Collegato al territorio è “Pordenonelegge”,  creata  negli anni ‘2000 dalla Camera di commercio locale con le associazioni di categoria  del Nord Est come strumento di promozione e diffusione della cultura, la “Festa del libro”  che si tiene in settembre, è la manifestazione di punta, il motivo della mobilitazione. Vi sono le sezioni “La voce della poesia” e “Festa della poesia”,  “Vivere di poesia”, i siti internet “I poeti sono vivi” e “Pordenone poesia community” , e altro ancora.

Ai giovani soprattutto sono state dedicate le “Idee senza carta”, per la prima volta in aggiunta alle “Idee di carta” proposte ogni anno, una novità positiva l’adozione dei sistemi più avanzati per diffondere un genere tradizionale come la poesia. I rappresentanti di tre siti on line ne hanno parlato con un entusiasmo ammirevole. 

Maria Borio ha parlato di  “Officinapoesia/Nuovi argomenti”, dove si trovano in anteprima alcuni estratti del libro-intervista di  Franco Buffoni e Marco Corsi, il primo lo abbiamo citato nella giuria del premio “Ritratti di poesia 140” , ci teniamo a sottolinearlo per evidenziare legami e richiami nel mondo poetico, non è la sola anticipazione, anche quella dei testi del carteggio tra Alba de Cespedes e Libero de Libero.

“Internopoesia”, rappresentato da Andrea Cati, si apre con una galleria di 21 volti, seguono poesie scelte di 10 poeti, Salvatore Quasimodo apre la serie. E’ nato nel 2014 con la missione di promuovere e divulgare la poesia di autori italiani e stranieri mediante la collana “Interno libri”, ne fa parte la poetessa Maria Grazia Calandrone, che ai “Ritratti di poesia” ha incontrato gli studenti dei licei romani, come abbiamo visto. 

Anna Maria Curci di “Poetarum Silva”, con la formula tedesca “Nie wieder zensur in der kurnst”, ha spiegato che si tratta di un collettivo che offre una visione ampia della poetica contemporanea nelle sue diverse sfaccettature come ponte tra passato  e presente.  Spazia tra poesia e narrativa, pittura e fotografia, cinema e musica. E’ una testata giornalistica  con 9 redattori e 13 collaboratori descritti in ampi profili.

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“Poesia/RAI News”  è il primo blog della RAI dedicato alla poesia, ne ha parlato l’animatrice Luigia Sorrentino, il taglio è giornalistico da “news”, con rubriche quali “altre scritture” e “appuntamento”, “arte e poesia” e “Autoritratto”, “curiosità” e “intervista”, “la traduzione della poesia” e  “nello scaffale”, “nuove uscite” e “notti d’autore”, “opera prima”  e “opere inedite” fino a “Letture di Luigia Sorrentino” .

Dopo questa contaminazione della poesia con la telematica più avanzata dei blog su Internet un’altra contaminazione, sulla scia di quelle che i “Ritratti di poesia” hanno presentato in passato, tra poesia e pittura, poesia e ginnastica artistica, poesia e musica.Si tratta del “Canto a voce sola”  del soprano Sabina Meyer, con Simone Colavecchi alla tioba, fasciata da un elegantissimo lungo abito dorato ha dato voce alla “Lettera amorosa” di Claudio Monteverdi su testo di Claudio Achillini,  nella contaminazione della poesia d’amore con musica e canto.

D’altra parte è un’artista poliedrica,  anche scrittrice, presente nella musica contemporanea come in quella barocca e anche come improvvisatrice, compone lei stessa canzoni su testi poetici di autori contemporanei e ha pubblicato testi di narrativa e saggistica su argomenti legati alla musica e in particolare alla tematica della voce. 

La scelta della “Lettera amorosa”  viene presentata così: “Con l’introduzione del canto a voce sola a opera di Claudio Monteverdi l’io è messo al centro dell’universo, la parola recitar cantata diventa udibile in ogni sua sfumatura e più sottile risonanza per penetrare nell’orecchio di chi ascolta, muovendone gli affetti. Il cantante è trasportato a sua volta dal potere della parola e traghetta se stesso e il pubblico in un mondo di sguardi, caducità, estasi, sospiro”.

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 Il “Canzoniere” di Lello Voce

La contaminazione finale, quella con cui si è chiusa l’intera manifestazione “Ritratti di poesia”, quasi a voler celebrare con l’ingresso della “star” al termine per l’ovazione finale è la nascita di “Canzoniere”, nel quale convergono musica, poesia e disegno in particolare nello stile dei “comics”: stampa e CD uniti per questo incontro di forme d’arte con cadenza periodica, i primi due volumi con CD  pubblicati da “Squilibri Editore” , in occasione della presentazione ufficiale che c’è stata proprio nei “Ritratti di poesia” dove è di casa il protagonista di questa iniziativa editoriale innovativa, Lello Voce,  scatenato conduttore negli scorsi anni del “Poetry Slam” , concorso poetico tra giovani con votazione della giuria quest’anno non riproposto, che ha animato anche con poeti di varie nazionalità in centinaia di manifestazioni, è presidente della Lega italiana Poetry Slam, scrittore, poeta e altro ancora;  con lui Canio Loguercio, musicista  e performer.

 Crediamo meriti di essere riportata integralmente la presentazione di questa iniziativa,  non estemporanea ma meditata, non meramente commerciale ma culturale, non effimera ma, lo auguriamo di cuore, duratura:  “Canzoniere: perché la poesia nasce musica, non già accompagnata dalla musica. O forse sarebbe più giusto dire che la musica è l’articolazione della stessa voce umana. E il linguaggio stesso nasce cantato, o direttamente poetico,come voleva Giambattista Vico, e sin dall’inizio non serve a comunicare una risoluzione momentanea, ma a rendere una concettualizzazione disponibile a un’intera comunità una volta per tutte. A farla memorabile. Canzoniere: perché durante i pochi secoli in cui è parsa imporsi al civiltà alfabetica, la poesia è sempre in verità sopravvissuta altrove. E sempre per lo più fra le pieghe della cultura popolare , che non ha mai smesso di investirla della sua funzione di memoria vivente. E l’ha, letteralmente,come qui, illustrata immaginando che le bande dessinée, la striscia di immagini, sia come uno spartito che traduce l’orecchio in occhio, un occhio mobile, in nome del tempo e della durata. Canzoniere: perché occorre oggi reperire, anche nell’amnesia chiassosa della cultura a classe unica che ci spetta, la presa di respiro necessaria per ridare parola al mondo. Canzoniere: perché rispettare la tradizione è oggi, necessariamente, tradirla, travisarla, trasformarla. Ma anche farne vendetta”.

Un finale pirotecnico questo, il lancio di qualcosa di nuovo con solide radici culturali che affianchiamo, “mutatis mutandis” ai blog poetici di cui abbiamo parlato, che sono, con il “Canzoniere”, le grandi novità  particolarmente gradite ai giovani presentate nei  “Ritratti di poesia 2018”. E’ il botto finale dei fuochi d’artificio poetici di una intera giornata.

Non termina qui il nostro resoconto perché, a differenza degli scorsi anni, abbiamo preferito riunire le parti omogenee rispetto all’alternanza scandita dal “timer” per alleggerirne il peso, con il cambio di passo ogni volta. 

Sono state commentate finora  le 6 sezioni intervallate dalla sfilata di poeti,  ora si tratta di entrare nel vivo della poetica nazionale  con le 10 parti di Di Penna in penna” e della poetica internazionale con le 7 parti di “Poesia sconfinata” distribuite in tutto l’arco della lunga giornata al “Tempio di Adriano”. Lo faremo prossimamente.  

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Info

Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma. Compendio della Fondazione Terzo Pilastro – Roma e Mediterraneo,  Ritratti di Poesia. In viaggio con la Poesia”, dodicesima edizione 2006-2018, manifestazione a cura di Vincenzo Mascolo, 9 febbraio 2018, pp.70, formato 20 x 20. Il  secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il  5 marzo p. v.. Per le manifestazioni degli anni precedenti cfr. i nostri articoli: in questo sito, 3 marzo 2017 “Ritratti di poesia, 11^ maratona poetica al Tempio di Adriano”, 19 febbraio 2016 “Ritratti di poesia, 10^ maratona poetica al Tempio di Adriano”,  15 febbraio 2013 “Ritratti di poesia, al Tempio di Adriano con la Fondazione Roma”; in “fotografia.guidaconsumatore.com”, 30 gennaio 2012 “Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”, e in “cultura.inabruzzo.it”, 9 maggio 2011 “‘Ritratti di poesia’  al Tempio di Adriano” (questi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su  altro sito)..

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nel corso della manifestazione, si ringrazia la “Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo” per l’opportunità offerta.  Gran parte delle fotografie di vari momenti della manifestazione sono intervallate da particolari, che non citiamo, degli allestimenti scenografici a cura di Enrico Miglio. In apertura, la consegna del  premio per la poesia italiana alla poetessa Donatella Bisutti dal parte del Presidente Emmanuele F. M. Emanuele; seguono, il presidente Emanuele nel suo interventoe lapoetessa portoghese Ana Luisa Amaral premiata per la poesia internazionale  mentre legge le proprie poesie; poi, il pannello dei “volti dei poeti”  di Rocco Micale,  e “Idee senza carta”, Vincenzo Mascolo dialoga con (da sinistra) Alessandra Cati, Anna Maria Curci, Luigia Sorrentino e Maria Borio; quindi, Hala Mohammad con la traduttrice Elena Chiti, e il poeta Beppe Mariano mentre legge le proprie poesie; infine, “Canto a voce sola”,  la soprano Sabina Meyer accompagnata alla tiorba da Simone Colavecchi nella “Lettera amorosa” di Monteverdi e, in chiusura, una visione della sala.

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Arte, cultura e turismo, il turista creativo e i “turismi”, in una ricerca di Civita

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra esposizione dei risultati del III Rapporto curato da Pietro Antonio Valentino presentato nella sede dell’Associazione Civita di Roma il  6 dicembre 2017“L’arte di produrre Arte. Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo”, con una parte conclusiva relativa a un’altra iniziativa di Civita, il progetto WeACT che impegna 11 imprese nell’ “upgrading” tecnologico delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini e Galleria Corsini, per la conservazione e le visite. Il Rapporto, dopo il saluto del presidente di Civita Gianni Letta e l’introduzione di Valentino, è stato presentato in un dibattito moderato da Riccardo Luna, direttore responsabile dell’AGI, cui hanno partecipato Armando Peres presidente del Comitato Tecnico Ocse, Domenico Arcuri A.D. di Invitalia, Stefano Pighini presidente di LVenture Group, Marco Bicocchi Pichi presidente di Italia Startup e Paolo Giulini fondatore di Musement.

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Abbiamo  citato in precedenza i principali elementi dell Rapporto  sulla “Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” riportando le interpretazioni del vertice di Civita, il presidente Gianni Letta e il Vice presidente Emmanuele F. M. Emanuele, l’articolazione della ricerca nelle tematiche di maggiore rilevanza per il settore e alcune prime conclusioni di particolare interesse, come lo sviluppo, con le nuove tecnologie, di un mercato di prodotti intermedi e servizi culturali, input di altri processi produttivi, che hanno dato impulso agli scambi internazionali. E abbiamo terminato la prima parte della nostra ricognizione con la domanda su come si collega questo con la dimensione territoriale. La risposta che viene dalla ricerca di Civita apre questa  seconda e ultima parte del nostro resoconto.

La dimensione territoriale

Viene spiegato che mentre la  “catena del valore” si estende,  “alcuni dei nodi che la compongono tendono a infoltirsi in quanto le economie di cluster operano e spingono le impreseche producono specifici prodotti intermedi o finali a localizzarsi negli stessi territori o in aree contigue”,  per fruire dei vantaggi della concentrazione legati a loro volta “a particolari economie esterne, a una esternalità che potremmo definire come l a fertilità culturale  di un territorio”. Si tratta della presenza delle risorse necessarie, in termini di capitale umano e culturale, infrastrutturale e istituzionale che si riscontra nelle aree di grande attrattiva, i veri e propri nodi dell’attività culturale di una nazione.

Per l’Italia queste condizioni possono riscontrarsi anche in singoli territori decentrati ma provvisti di attrattività per motivi peculiari, ne discende un’importante opportunità non solo a livello locale:  “La messa a sistema di tutte queste specializzazioni territoriali in un’offerta integrata a livello nazionale potrebbe accrescere la competitività internazionale di tutto l’ICC italiano e di quella dei suoi singoli nodi”.

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Il turista creativo e i “turismi”

Si è già accennato al mutamento nelle modalità del consumo culturale, e turistico, determinate dalla rivoluzione digitale che ha fornito ai fruitori lo strumento per diventare attivi e autodeterminare la propria domanda. Con questa conseguenza: “Focalizzando l’attenzione sulle forme di consumo, sul rapporto tra turista e prodotto culturale e creativo, non si ha una nuova categoria aggregata di turista (il turista creativo) ma si ha una molteplicità di ‘turismi’ che cambia a seconda del rapporto che l’innovazione tecnologica può creare tra ‘oggetto’, ‘soggetto’     e forma di fruizione”. 

In pratica è avvenuto che il turista di tipo nuovo, cioè il “turista creativo”,  sente  i motivi di attrazione  non solo legati alla cultura intesa in senso stretto, come musei, siti archeologici  e mostre d’arte, ma anche legati alla cultura materiale del territorio che si manifesta in vari modi, dall’artigianato all’industria del gusto come design, folclore, tradizioni anche enogastronomiche e altro ancora  inerente all’industria della comunicazione e audiovisivo fino al cineturismo.  Pertanto si è diffusa in modo crescente “”una offerta diversificata destinata a differenti tipologie di domanda (il variegato mondo dei ‘turisti creativi’) che offre la possibilità di promuovere anche territori lontani dagli itinerari consolidati”.

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L’opportunità per il nostro paese  è data dal fatto che la crescita del “turismo creativo”  è unita alla forte crescita della domanda turistica in generale, che per un pese con la nostra vocazione e le nostre potenzialità è la manna dal cielo. Ma c’è una minaccia, data dalle “rendite di posizione”alla “scarsa integrazione tra oggetti, oggetti e istituzioni; tra piani  e progetti e tra centro  e periferia”. E non è poco.

Si fa affidamento all’impostazione del Piano Strategico per il Turismo 2017-22 e si chiedono “piani operativi coerenti e integrati”. Ma  non abbiamo dimenticato le illusioni e le delusioni della programmazione economica nazionale,  che abortì miseramente proprio sul piano operativo. Conforta il fatto che la formulazione del piano è stato frutto di un’ampia e convinta partecipazione dei soggetti interessati per cui la convergenza sugli obiettivi è assicurata, diverso il discorso degli strumenti che toccano interessi. 

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Non si può non  convenire, quindi, su quanto viene affermato: “L’Italia per essere competitiva su questo palcoscenico dove sempre nuovi attori si presentano deve recuperare terreno sul piano reputazionale, deve rendere la fruizione turistica sempre più sostenibile e non in contrasto con gli altri usi del territorio e, a questo scopo, le sue offerte turistiche promuovendo  nuove destinazioni  con elevato ‘valore’ culturale. Conoscere i turismi e le trasformazioni che lo coinvolgono assume un rilievo importante anche perché le tradizionali offerte culturali non sono più sufficienti ad attrarre i turisti e  trattenerli a lungo sui territori”.

Proprio per questo motivo l’analisi non si limita agli aspetti generali ma viene calata sui territori con una serie di  esempi all’estero, in particolare il Canada, e in Italia da Torino alla Basilicata fino alla Sicilia. Il nesso tra cultura, creatività e turismo viene esaminato negli aspetti innovativi delle offerte territoriali, e viene fornita una classificazione dell’industria creativa precisandone caratteristiche  e tendenze rispetto all’innovazione, di cui sono evidenziati gli elementi principali.    

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Aspetti peculiari analizzati dalla ricerca

Lo strumento concreto indicato è la concentrazione sui “beni e servizi intermedi” invece che su quelli finali della concezione tradizionale  perché “il mercato di sbocco dei beni e  servizi culturali non è più costituito soltanto da ‘consumatori’ nazionali ma da ‘buyer internazionali’ di beni e  servizi intermedi, ed è rispetto a questi nuovi acquirenti che le imprese dell’ICC devono essere messe in grado di competere”.   Con la particolarità che spesso le nuove imprese innovative sono piccole  e operano su mercati molto vasti a livello internazionale. Poiché devono  posizionarsi sulle attività a maggiore valore aggiunto, la politica di sostegno deve puntare a sviluppare competenze e know how adeguate: “Deve investire le politiche formative che chenonpossono essere separate da quelle di sviluppo del sistema supportando la crescita di competenze e professioni legate ai nuovi servii”. 

A tal fine viene fatta una precisazione importante: Una più stretta collaborazione tra pubblico  e privato,tra scuola e impresa, diventa strategica  e diventa prioritario incentivare l’innovazione dei processi di istruzione e formazione che investono le professioni richieste dall’ICC”.

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Poi una serie di indicazioni sulle esigenze e garanzie richieste riguardanti  gli standard e le forme contrattuali , con riferimento specifico alla proprietà intellettuale, la connettività delle reti locali con quelle globali  e l’integrazione degli istituti di ricerca tecnologica nelle funzioni produttive delle ICC. E, più in generale, la promozione a livello internazionale delle competenze specialistiche sviluppate all’interno e  la realizzazione di “hub” metropolitani  a raggiera  integrati con i singoli nodi territoriali aventi proprie specializzazioni . Sono le “città- mondo della cultura e della creatività”, nel nostro paese non mancano, dovrebbero divenire trainanti di un sistema integrato e nel contempo  articolato in tante identità.

La meritoria ricerca di Civita delinea questa prospettiva e ciò avviene nell’ “anno dei borghi”  che ne ha celebrato il valore  identitario.  Dovranno seguire passi concreti su questa strada, il percorso  sarà lungo ma la meta è ben delineata,  intanto una direttrice di marcia è stata indicata. Non resta che misurare i progressi se ci saranno. 

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Un progetto innovativo con 11 imprese, sull’arte di produrre innovazione,

Si potrebbe pensare che sono esercitazioni teoriche, analisi alle quali non seguono azioni operative. Ma l’impegno  di Civita, oltre che nel campo della ricerca, si manifesta anche a livello operativo, del resto questa è la terza ricerca sul tema “L’arte di produrre arte” e abbiamo visto l’associazione promuovere incontri  o attivare iniziative per dare corpo a quanto risultante dalle indagini esperite.

Un’iniziativa recente è stata quella del progetto WeACT,  presentato  il 31 ottobre 2017 con l’intervento del  Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini  oltre che del presidente di Civita Gianni Letta a Palazzo Barberini. Riguarda proprio l’innovazione tecnologica delle industrie culturali e creative dato che fa incontrare, con un contratto che impegna a interventi operativi  nelle Galleria Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini e Galleria Corsini, le imprese che offrono i servizi più avanzati per una più efficace fruizione del Museo da parte dei visitatori.  Si tratta di 11 enti associati a Civita,  Avvenia e Consorzio Glossa, Data Management PA ed Ericson, Gruppo DAB  e Lagotel, Mastercard e Oracle, Vodafole e Wind 3, e infine Enea. Con cui è stato firmato un atto esecutivo.  E’ una sfida impegnativa per le imprese sul piano tecnologico  e una grossa opportunità per il Museo sul piano dell’innovazione.

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Il fatto che sono le Gallerie Nazionale d’Arte Antica, il Palazzo Barberini e la Galleria Corsini,  ad essere valorizzate mostra come si possa intervenire con le tecnologie più avanzate anche nelle sedi museali dedicate a custodire e offrire al pubblico i  capolavori del passato, così da attrarre maggiormente, con il richiamo del progresso che si aggiunge a quello della tradizione artistica, i visitatori più giovani.

Ma c’è un altro insegnamento che emerge dal contratto di sponsorizzazione firmato. E’ possibile anche coordinare e svolgere in modo integrato una serie di interventi altamente qualificati associando in modo solidale le imprese “leader” dei rispettivi settori superando gli steccati della concorrenza. Abbiamo visto sfilare per la firma i rappresentanti ai massimi livelli di 11 imprese leader,  un’esperienza unica di cui non ricordiamo precedenti, tanto più in questo campo. Ebbene, questo si deve all’iniziativa di Civita che ha elaborato il progetto e al suo coordinamento operativo nell’identificare le imprese e  nel creare tutte le condizioni per la sua realizzazione concreta.

La collaborazione pubblico-privato su cui Civita, e in particolare il suo vicepresidente Emanuele, insiste continuamente, diventa una partnership in cui alla capacità delle imprese di applicare al campo museale le proprie conoscenze tecnologiche più avanzate si uniscono le competenze scientifiche  e di indirizzo della direzione delle Gallerie, anch’essa resa più innovativa con i recenti cambiamenti conseguenti alla selezione internazionale dei direttori dei maggiori musei voluta dal ministro Franceschini. 

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I risultati si sono già visti con la serie di mostre “mirate” che sono state realizzate nelle due sedi museali, valorizzando in modo accorto le disponibilità delle collezioni oltre che ospitando importanti esposizioni  di notevole richiamo.

Anche il progetto WeACT nasce dall’impostazione innovativa della nuova direzione, perché le imprese si sono mosse sulla base delle linee strategiche  e delle necessità loro prospettate dalla direzione, oltre che dalla verifica diretta sulla situazione delle due sedi museali.  Obiettivo delle innovazioni tecnologiche da introdurre la fidelizzazione di nuovi pubblici – e abbiamo già sottolineato come i giovani sono particolarmente sensibili su questo piano – e la maggiore partecipazione  alla vita culturale per la conoscenza delle preziose collezioni artistiche.

Non è questa la sede per esplicitare gli interventi in programma, tuttavia perché sia ancora più evidente il forte taglio operativo dato da un’associazione come Civita – di cui la ricerca in esame “L’arte di produrre Arte”  evidenzia invece il lato analitico e programmatico – diamo alcune sommarie indicazioni sulla destinazione degli interventi innovativi a supporto  della conservazione del patrimonio artistico delle Gallerie e dei visitatori, con le imprese impegnate in ciascuno di essi.

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Gli interventi mirati alla conservazione,  per il  monitoraggio ambientale e l’efficientamento energetico sono affidati ad Avenia  SrL ed Ericsson Telecomuniczioni, per la gestione e il controllo centralizzato dei sistemi di Sicurezza Fisica attraverso una piattaforma software di supervisione al gruppo DAB S.p.A.,  per la costruzione di un modello integrato  di gestione della conoscenza attraverso i contenuti digitali del patrimonio del Museo al Consorzio Glossa.

Riguardo ai visitatori,  per facilitare la fruizione e l’interpretazione delle collezioni, e quindi incrementare il flusso di visite, alla galleria Corsini,  un’apposita App  sarà realizzata dal Consorzio Glossa, strumenti di Digital Marketing da Oracle e Data Management PA S.p.A.,  l’ampliamento dei servizi di pagamento digitali da Mastercard, un progetto per lo sviluppo del Mobile Ticketing da Vodafone e Wind 3.

Per entrambe le finalità, conservazione e fruizione di alcune opere, sarà impegnata Enea in un progetto esecutivo di acquisizione di immagini ad alta definizione con laser scanner a colori e ricostruzione fotogrammetrica 2D e 3D.  Mentre, più in generale,  nella promozione del Museo saranno impegnati Logotel, Ericsson e la stessa Civita che conferma la sua vocazione operativa oltre che analitica e programmatica – a parte l’impegno sul piano espositivo nell’organizzare mostre e nel promuovere nuovi artisti – del resto c’è anche il vino “Civita”, il che è tutto dire

Concludiamo con questa immersione nell’operatività concreta la nostra sommaria citazione, fior da fiore, di alcuni spunti che ci sono apparsi di rilievo e interesse particolare emersi dalla accurata ricerca sulla “competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” della serie “L’arte di produrre Arte”, una miniera i dati,  grafici e prospetti che documentano un’indagine in profondità di un settore vitale per il nostro paese, soprattutto per le potenzialità inespresse.

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Nella stessa mattinata di presentazione dei risultati della ricerca nella sede di Palazzetto Venezia, a poche diecine di metri, a Palazzo Venezia,  l’altra componente di Civita, quella espositiva, ha presentato la grande mostra “Voglia d’Italia”  con un prolungamento al Vittoriano. Ebbene, la “voglia d’Italia” ha animato anche la ricerca di come tradurre le potenzialità inespresse nell’accrescere l’attrattività di un paese che dovrebbe essere leader al mondo in campo turistico ma soffre della concorrenza di paesi molto meno dotati.

E’ un problema di imprese culturali e creative, è un problema di “Soft Power”, in tutti questi campi l’attività di Civita è meritoria e di grande utilità per il paese. In una fase storica dominata dalla superficialità e dai facili slogan di “Twitter”, a parte le “fake news”, un volume di oltre 300 pagine che approfondisce temi vitali riconcilia con il ruolo della cultura nell’analizzare i problemi ponendo  premesse preziose per la loro soluzione.

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Info

“L’arte di produrre Arte. Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo”, a cura di Pietro Antonio Valentino, III Rapporto Civita, pp. 308, Marsilio Editore, novembre 2017.   Il primo articolo è uscito  il 14 febbraio u, s. Cfr.  inoltre, sempre in questo sito, i nostri 2 articoli sul “Soft Power”, dalla ricerca Civita di Giuliano da Empoli, usciti l’11 e 15 febbraio u. s.

Foto

Le immagini, salvo quella di apertura tratta dal sito di Civita,  che si ringrazia, riportano tabelle e grafici  della ricerca: in particolare della parte  2^  intitolata “Cultura, creatività e turismo: innovazione nelle offerte territoriali”, di 40 pagine, e della parte 3^ intitolata “L’innovazione nelle indiustrie culturali e creative e gli effetti sull’economia delle imprese”, di 50 pagine.

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