Il “Soft Power” in una ricerca di Civita sulla seduzione della cultura

di Romano Maria Levante

All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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di Romano Maria Levante

All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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Sargentini, una “Scorribanda” nella storica galleria, alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Modena e Contemporanea  di Roma,dal nuovo logo sintetico “La Galleria Nazionale”, dal 23 gennaio al 4 marzo 2018  nel Salone Centrale la mostra “Scorribanda” con cui si celebrano i 60 anni di attività della  Galleria Sargentini di Fabio Sargentini, che dalla metà degli anni ’60  ha alimentato le avanguardie pittoriche e introdotto le installazioni, creando inoltre delle sinergie innovative con la danza, la musica  e il teatro.  Sono esposte circa  40 opere di artisti che nei 60 anni  hanno dato lustro artistico alla galleria e a loro volta hanno potuto imporsi all’attenzione della critica per la prestigiosa vetrina che veniva offerta loro.

Scorribanda e non sarabanda

Una “scorribanda” che non diventa “sarabanda” alla Galleria Nazionale, a Fabio Sargentini i capelli bianchi non hanno fatto perdere la voglia di sorprendere, ma l’hanno in qualche modo addomesticata.

E’ vero che, come lui stesso dice, “c’è in ‘Scorribanda un che di piratesco, di corsaro, che mi piace”. Ma non mira a sconcertare bensì a coinvolgere, non porta a spiazzare bensì a condividere, lui stesso dice che le opere esposte “avvolgono in un abbraccio”,   quasi una calamita irresistibile per l’osservatore: “Anche chi guarda percepisce questo abbraccio e non vi si sottrae, anzi le pupille sedotte si dilatano ad accogliere  la visione d’insieme della lunga sequenza parietale. Un colpo d’occhio a 360 gradi che sa di accerchiamento”.

Non si potrebbe descrivere meglio l’effetto  delle quattro pareti  espositive del vasto Salone Centrale della Galleria Nazionale, dopo la Sala delle colonne nella quale si svolge la presentazione. Un accerchiamento tutt’altro che ostile, nel quale lo spirito inquieto di Sargentini  trova una forma inedita di manifestarsi, c’è ancora “l’antico valor”, non più trasgressivo ma sempre innovativo.

I quadri, infatti, sono allineati vicinissimi l’uno all’altro, di qui la sua definizione di “sequenza parietale”, senza soluzione di continuità e senza che gli accostamenti siano dettati da omogeneità stilistica o contenutistica, ma conseguenti alla narrazione di una storia artistica  movimentata nella quale la creatività si manifesta in forme espressive diverse ma sempre  pittoriche, tranne due installazioni scultoree.

Proprio per questo non ci troviamo in una “sarabanda”, come è stato, ad esempio per le 16^ Quadriennale di Roma nella quale si veniva percossi da sollecitazioni continuamente mutevoli che abbracciavano una vastissima gamma di mezzi espressivi, i più diversi e a volte insoliti, anzi inusitati.  Ma si trattava di un presente proiettato già nel futuro.

Nella mostra “Scorribanda”,  invece, anche le opere più recenti, del 2014 e 2012, sono rigorosamente pittoriche e con le altre esposte formano quello che Sargentini definisce “un racconto senza pause”. E’ un racconto di una parte della propria storia di gallerista, ma per un effetto straordinario prende e coinvolge l’osservatore quasi avesse partecipato alla stagione irripetibile della galleria.  C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico in questo racconto, perché riporta alle quadrerie nobiliari,  con le pareti altrettanto foderate di dipinti che raccontavano la storia di collezionista appassionato del titolare.

“L’Attico” e Fabio Sargentini

La storia di Fabio Sargentini è legata alla galleria “L’Attico” ,  una storia iniziata 60 anni fa che supera il “racconto” della sua “quadreria”  perché non si limita alle mostre  sperimentali da lui organizzate con pittori anche sconosciuti e lanciati con preveggenza, ma va ben oltre, e lo diremo.

L’inizio sembra quanto mai scontato, affianca il padre Bruno che nel 1957  ha fondato  “L’Attico” con sede in piazza di Spagna, e ospita opere di artisti noti come Capogrossi e Fontana, Magritte e Matta. Ma  non resiste  a lungo, vuole promuovere artisti della sua età e per questo deve rivoluzionare la galleria, può farlo perché il padre gliela lascia trasferendosi in via del Babuino.

In un primo momento vi fa mostre sperimentali  con Pascali e Kounellis, Mattiacci e Pistoletto e la trasforma in una sorta di palestra con la mostra “Ginnastica mentale” in cui cerca di uscire dalla concezione contemplativa per qualcosa di più dinamico.

E allora ecco il garage di via Beccaria con i cavalli vivi di Kounellis, e mostre con giovani artisti tra cui Metz e Mattiacci, Le Witt e De Dominicis; ecco lo sconfinamento in altre forme d’arte con Festival di musica e di danza cui partecipano musicisti e danzatori americani,  “performance”  che si concluderanno nel 1976 con la performance delle performance, l’inondazione del garage con 50 mila litri di acqua che per tra giorni lo trasformeranno in un “lago incantato” offerto al pubblico.

Non si trattava di rivivere i fasti acquatici di Piazza Navona, ma ci si andava vicino. Da quattro anni aveva preso,comunque, uno spazio ben diverso in via del Paradiso, dalle nude pareti del garage è passato ai soffitti con affreschi, i pavimenti di marmo, le porte dorate. Un ardito sincretismo, tra due approcci  opposti mentre, dal lato artistico, il sincretismo si manifesta nell’affiancare all’arte figurativa l’attività teatrale come nel garage, lancia in Italia il teatro concettuale. 

Nell’arte figurativa agli artisti della sua scuderia, per così dire, Pascali e Nagasawa, Leoncillo e Uncini, si aggiungono i nuovi da lui scoperti, come Limoni e Luzzi, Nunzio e Palmieri, Pizzi Cannella e Tirelli, siamo nel 1983.  Per il teatro,  che alterna all’attività della galleria, l’impegno va avanti  fino ai giorni nostri, con “Toga e spada”, del 2017, che segue “Ti regalo un anello”, del 2016, dopo una serie di opere sperimentali di cui con lui è autrice Elsa Agalbato.

Per la sua storia artistica variegata e movimentata, la “scorribanda” ci è parsa alquanto addomesticata rispetto alle performance trasgressive che si potrebbero immaginare. Anche se per il “finissage” è stato annunciato un evento di tipo musicale, in nome del sincretismo tra generi.

A parte tutto questo, possiamo convenire che “Scorribanda va considerata un’installazione”, per l’effetto d’insieme che rende le quaranta opere un tutt’uno nell’abbracciare l’osservatore; ma nel contempo mantengono la loro individualità proprio perché la “sequenza parietale”  crea l’effetto ottico del coinvolgimento  globale  senza  ridurre l’interesse specifico verso ciascuna. Lo stesso Sargentini  lo  fa notare: “Altrettanto emozionante è l’osservazione da vicino,la messa a fuoco nelle sue sfaccettature di una storia artistica che dura  ininterrotta da sessant’anni”.  Perché  guardando le singole opere si ripercorrono i tanti momenti di questa storia, come altrettante tessere che nel loro insieme compongono il mosaico della galleria, c riportano a una fervida temperie artistica.

Ne ha parlato lo stesso Sargentini nella presentazione, non ha detto “formidabili quegli anni” – come Mario Capanna ha intitolato un suo libro sul ’68,  l’anno della contestazione oggetto di una celebrazione alla Galleria Nazionale con la mostra nello stesso Salone Centrale chiusa una settimana prima dell’apertura di quella attuale e un “giornale” rievocativo” –  ma ne ha sottolineato il  fervore artistico, le avanguardie sentivano che altrove, e soprattutto in America, si correva, e non volevano restare indietro. 

Dopo il 1965,  con Pascali e Kounellis, si passa dalla contiguità con la Pop Art  al suo superamento, nel 1967 con le mostre “Acqua terra” prima e “Arte povera” poi  furono poste le basi di una nuova corrente artistica. Seguì  la tragica fine di Pascali e l’idea rivoluzionaria del Garage di cui abbiamo detto all’inizio, uno spazio oltremodo innovativo con il sincretismo delle arti.

 Negli anni ’80, lo ha ricordato espressamente, torna centrale la pittura, che resta tale anche in seguito,  oltre al teatro e alle performance. L’attività  della galleria ha avuto l’evoluzione dallo “spazio negozio”  allo “spazio garage”  allo “spazio appartamento”, viene rievocata con la “sequenza parietale” delle opere selezionate che diventa essa stessa una vera e propria installazione.

E ha concluso: “Speriamo che Roma risorga e torni ai fasti di allora, è stata molto importante sulla scena artistica soprattutto negli anni ’60 e ‘70”.

Le opere espressive di questo periodo sono esposte in una sequenza parietale nelle 4 pareti del salone, come un’antica “quadreria” soltanto con opere moderne.

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Le immagini saranno inserite prossimamente

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Yano e Simoncini, rocce antropomorfe e poesie, alla Biblioteca Angelica

di Romano Maria Levante

Trenta fotografie di un artista giapponese, Kozo Yano,  accompagnate da altrettante poesie di un poeta lussemburghese di ascendenza italiana, André Simoncini, esposte nella mostra “Dio si nasconde” dal 23 gennaio al 10 febbraio 2018 alla galleria della Biblioteca Angelica a Roma, riaprono tematiche su cui ci si interroga da sempre: il rapporto dell’uomo con la natura e la presenza del divino, il rapporto tra arte e poesia nell’ispirazione e nella rappresentazione visiva. La mostra, che ha il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, dell’ambasciata del Lussemburgo e dell‘Istituto Giapponese di Cultura, è organizzata dalla Cooperativa Sociale Apriti Sesamo con la collaborazione dell’Associazione Culturale Convivium-Lussemburgo. Curatrici Stefania Severi e Maria Luisa Caldognetto, a quest’ultima si deve la traduzione poetica delle liriche di André Simoncini riportate a lato delle rispettive immagini nell’originale francese e nella traducione italiana, e in italiano nel catalogo di “Galleria Simoncini Editore”  di fronte alla fotografia asbbinata. “A latere” della mostra, il 25 gennaio alle ore 17 la lettura scenica di queste lirichedell’attrice Chiara Pavoni con proiezione delle immagini fotografiche di Kozo Yano, e il 27 gennaio alle ore 10,30 l’incontro sul tema “Quando la poesia attraversa le frontiere – Itinerari incrociati tra Italia e Lussemburgo” con i poeti André Simoncini ed Elio Pecora che presenta la rivista internazionale “Poeti e Poesia”, dove di recente sono state pubblicate liriche di Simoncini tradotte dalla Caldonetto. 

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 Il rapporto dell’uomo con la natura

Il primo tema ha un’infinità di angoli di visuale e di risvolti, ovviamente in campo filosofico e teologico, ma anche a livello artistico, dall’idealizzazione classicista all’ “en plein air” degli impressionisti, al realismo dissacrante; per la fotografia, dal naturalismo di Salgado agli esotismi e il misticismo di Nomachi, alla fissazione dell’istante sempre mutevole da parte di Mc Curry.  In ogni caso, per la fotografia d’arte, palcoscenico è il mondo nei suoi recessi estremi che vengono ricercati e portati alla luce come tesori che meritano di essere scoperti e fatti conoscere.

Anche in questo caso l’artista fotografo ha girato il mondo, le 30 immagini sono state riprese in Francia, precisamente in Bretagna, e in Giappone, in Arizona, nello Utah e in California in America,  in Patagonia in Argentina, nel Chili. Ma con una particolarità fondamentale, sono immagini  di rocce dalle più diverse conformazioni, nonché di sedimenti e strati geologici, senza tracce di vita vegetale, animale né umana, ma con aspetto antropomorfo.

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Una natura pietrificata, dunque, quella che circonda il visitatore della mostra nella galleria della Biblioteca Angelica, collocazione ideale pensando all”Arcadia, come ha tenuto a precisare la curatrice Stefania Severi.  Pietrificata e  apparentemente impenetrabile senza le presenze vive e vitali del mondo vegetale, animale e umano che possono evocare in qualche modo il divino. Forse per questo il titolo che è stato dato è “Dio si nasconde”, mentre nelle rocce antropomorfe si sente la vicinanza dell’uomo.

E’ nata spontanea la domanda all’artista come mai la sua indagine fotografica sulla natura si è limitata alle rocce pur declinate nelle forme più inusitate ed evocative della vicenda umana. Ci ha risposto che lui fotografa la natura in tutte le sue manifestazioni, la scelta operata per la mostra è collegata all’abbinamento con la poesia.

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Il  rapporto tra l’artista e il poeta

La risposta fa entrare nell’altra tematica che abbiamo anticipato, il rapporto tra artisti e poeti in merito alle opere dei primi collegate in qualche modo alle poesie dei secondi. Anche in questo campo abbiamo un pluralità di situazioni in cui gli artisti, in particolare i pittori, si sono ispirati a componimenti poetici, a partire dalle raffigurazioni della Divina Commedia, dalle più antiche e prestigiose di Botticelli a quelle di Rodin e, per citare pittori attuali da noi conosciuti direttamente, l’Inferno di Roberta Comi e le tre Cantiche di Gianni Testa, in gran parte inedite. Ma si è trattato di libera ispirazione alla massima opera poetica, non interscambio di stimoli. Per questo pensiamo al Cenacolo dannunziano di Francavilla, con gli stimoli reciproci tra il pittore De Michetti, lo scultore Marbella e il poeta D’Annunzio che hanno portato ad opere collegate tra loro; e pensiamo, anche qui per conoscenza diretta, al pittore attuale Vincenzo Maugeri  che si è ispirato ai versi del  poeta Italo Benedetti in una vera simbiosi artistica.

Per i due protagonisti della mostra la situazione è ancora diversa, più che di simbiosi si tratta di abbinamento, fotografie e poesie sono nate indipendentemente le une dalle altre, poi sono state abbinate. Ma non è riduttivo tutto questo, perché le modalità in cui si è svolta l’operazione lasciano pensare. Anche qui sono i protagonisti che ne hanno parlato rispondendo a due domande spontanee:  come mai solo rocce e non altre manifestazioni della natura e come si è proceduto all’abbinamento?

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 Il  poeta André Simoncini è titolare di una delle più prestigiose gallerie d’arte del Lussemburgo, è anche editore, mentre la poesia è una passione coltivata con risultati di eccellenza, è autore di raccolte poetiche in francese, anche illustrate da artisti. L’incontro con il fotografo-artista è stato dovuto all’attività di gallerista, Kozo Yano  dal 1979 vive in Francia, anche lui svolge diverse attività, è stato designer e direttore artistico in agenzie di comunicazione e design, negli anni ’90 è entrato nel mondo della fotografia, ha esposto in mostre in Francia e Giappone  in Lussemburgo e  Italia.

Ebbene, nell’incontro tra il fotografo e il gallerista, è bastato che il secondo guardasse  l’immagine di una grande roccia antropomorfa  ripresa in una terra lontana perché scattasse in lui come una molla l’identificazione con una propria poesia sulla vicenda umana; è l’inizio di un processo inarrestabile, e sono sempre le rocce che vengono collegate alle poesie, forse perché le loro forme danno il senso di trascendenza del “Dio nascosto” e creano un’atmosfera metafisica.Non resta che vedere questi abbinamenti premettendo che già a un primo sguardo le poesie sono apparse icastiche, molto adatte a  rendere con la brevità sferzante delle loro espressioni essenziali quanto le immagini scarne mostrano nella loro evidenza materiale, in un bilinguismo nobilitato dalla magistrale traduzione dal francese di Maria Luisa Caldonetto, curatrice della mostra con la Severi.

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 Spigolando tra i versi abbinati alle immagini

La chiave poetica della mostra è nella poesia iniziale, sganciata dagli abbinamenti cui sono sottoposte invece le altre poesie: è la composizione più lunga e nella quale si parla di Dio, un “Dio sconosciuto ” rivelato da un “soffio ventoso”,  mentre l’attesa è come una “spada tagliente”. E l”uomo ” che osa credere all’elevazione/ senza lotta impari” è condannato a una “veglia petrosa”, le pietre diventano protagoniste nel “vuoto disincantato/ dove le tenebre si scavano / di mille cecità”.  In questo vuoto oscuro “i segreti del mondo vi si rintanano/ sotto strati geologici / dall’armatura feroce/ dove il silenzio non è da fine regno”, e “le montagne riverberano il silenzio”.

Un “silenzio smemorato/ senza passato né futuro/ ostaggio del proprio respiro” recita la poesia che accompagna  un’immagine quasi in dissolvenza, due rocce affiancate nel buio.

Mentre quando “una spaccatura/  frantuma il vuoto”, avviene che “il silenzio/  esala un rantolo/ nel profondo dell’abisso/ la sua eco infinita gli ha dato il cambio”, questa volta la spaccatura della roccia è notevole, e due fessure profonde come occhi danno il senso dell’umanità sofferente.

Avviene anche che possa “tacere il silenzio”, è una roccia ancora  più antropomorfa,  fino a configurare il profilo di un volto massiccio,  è una “rassicurante deriva/ vitale dismisura/ di un’apnea consenziente” in “questo annegare intenzionale/ che infrange l’onda portante”.

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Un’altra deriva, questa volta una “deriva immateriale/ scivolamento inebriante/ come un diritto/ alla vertigine feroce/ un ultimo sguardo puntato/ sulla cima che scolora”, la roccia  fotografata è come un viso affilato su un busto proteso in avanti, è la “giustizia deturpata/ che sublima il dolore”, al punto da trovarsi “finalmente in simbiosi/ con l’eternità”.

Non è solo il dolore la porta dell’eterno,  anche la “dolcezza/  del sospiro placato/ che argina lo smarrimento/ con le mani che trascolorano” può essere una “cavità ricettacolo/ di una transitoria eternità”,  quella che “ieri ancora  a caccia di stelle/il vecchio danzatore”  forse sente di aver raggiunto mentre “stringe sul letto dell’offerta/ le palpebre orfane per sempre”, quasi si percepiscono nella roccia con una cavità oculare e fattezze umane.

Le “palpebre sbarrate” vengono forzate “dal pesante dominio del sembrare”, c’è  l’esortazione “arginiamo l’opacità/ misuriamo  a tentoni/ la cerebrale dismisura/ per tendere/ verso gli orizzonti interiori/ che uniscono la specie umana”, la grande roccia, in cui si percepisce un naso e un occhio, sembra assorta in una riflessione ammonitrice.

“Gli occhi stravolti/ intrappolati/ scrutano le rovine/ dalle asperità minacciose/ che fanno a pezzi il sole”, recita la poesia,  la roccia imponente ha una fessura al posto degli occhi, forse chiusi nel sonno per “la notte incombente”.

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Ma è solo metaforica, diventa la fine del giorno con una roccia che evoca un profilo di volto da ombre cinesi: “La notte divora gli ultimi contorni/ ombre sfuggenti/ già raggiunte dall’alba nascente/che avanza”. Nel ciclo naturale “per appostarsi al prossimo declino/ annunciatore dell’ineluttabile ascesa/ che a sua volta dovrà debellare”.

E ancora: “La notte seppellisce il lutto/ per partorire all’aurora; in un sottile gioco di ruoli/ una rinascita”, la roccia fa pensare a un cavallo addormentato,  simbolo di libertà, del resto la poesia termina con le parole “per meritare la libertà/ per celebrare l’assenza”.

Siamo sempre immersi nel tempo,  lo “scorrere del tempo/  che  nelle lunghe sere/ obbliga l’uomo/ riconciliato infine/ con la sua nudità a patteggiare con il logoramento”, qui l’antropomorfismo della roccia è addirittura inquietante.

Una faglia rocciosa con i segni dell’erosione provocata dai venti  fotografa, è il caso di dire, l’espressione poetica: “Tra fuga e conquista/si cela l’incompiuto/ eroso dal logorio del tempo/ ghermito dall’ultimo respiro/ che le labbra hanno appena colto”.  Il parallelismo è evidente: “Resta il vento cosmico/  a spazzare via l’ultima traccia/ che perpetuerà per sempre la sua genesi/ in questo universo placenta”.

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Questa volta sono “le rughe erose/ da un travaglio millenario” come mostra  la fotografia della roccia. Il vento e il tempo insieme nella poesia con un’immagine fotografica di erosione rocciosa particolarmente delicata, sembra la velatura artistica di un volto, se quello della “Nike di Samotracia” ci fosse pervenuto ci piace pensarlo così. “Nelle profondità/ la verità si emargina/ spinta nella cavità/ della fuga del tempo/spiando i venti contrari”. In questa prospettiva “tutte le parole/ tutti i gesti/ tutti i fremiti/ convergono”.Altrettanto velato il viso scolpito nella roccia, la poesia ha un protagonista in volo, ma non c’è la sua immagine, pur disponibile nella ricchissima raccolta naturalistica del fotografo, il dialogo avviene  sempre con la pietra alla quale l’arte fotografica riesce  a dare vita e calore:  “Battiti d’ali rallentati/ di questo uccello in fin di vita/ costretto a un movimento circolare./ Spicca un’ultima volta il volo/ punta verso il sole al tramonto/lasciandoci per sempre./ Senza mai morire”.

Ma anche questo volo termina, la  roccia diviene un becco puntato in alto: “”Un uccello stanco/ abbozza il volo della deriva/ schianta pesantemente il corpo/ sui visceri che fuoriescono/ dal gigante che sanguina/ il becco puntato verso l’orizzonte”.   

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Non solo il vento, anche la luce si coniuga con il tempo: “Tempo inesorabile/ che scava lo specchio/ nel margine stretto/ della luce/ che sfuma” e, nella fotografia, fa della roccia il profilo di un volto.

E allora “l’ultimo respiro si compie”, un concetto già espresso ma che ora si coniuga con qualcosa di estremo, mentre l’immagine della roccia torna antropomorfa, in un’espressione rassegnata: “Acquiescenza tacita/ alla condanna a morte delle derive/ per segnalare il percorso/ forgiare il passo/ verso l’ultimo sorpasso”.

Sempre l’antropomorfismo nell’immagine, ancora la rassegnazione nella poesia: “La morte s’iscrive/ nell’ordine materiale/ che associa il respiro/ all’assenza./ Una leggera brezza condiscendente e funebre/ accompagna la simbiosi/ con l’irrimediabile asfissia”.

Altrettanto nichilista sembra il passaggio “dalle nostre catena/ dai nostri sogni” all’ “orizzonte crematorio/ in questo cratere d’oltretomba/ otturato da qualche palata/ d’irrisori oblii”, la parete rocciosa è percorsa da un’ombra che sembra la scavi  evocando il cratere d’oltretomba.

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Si va oltre nella visione pessimista, che si materializza in una roccia che più antropomorfa non potrebbe essere, il profilo del volto è impressionante: “Le ombre popolano ancora/ questo gelo crematorio/ più terribile del fuoco/ fiutando un sopravvivere probabile/ nel covo caldo della disperazione”.  E la vanità, “intrappolata nella propria solitudine, cade nell’Anonima imboscata”.

Il pessimismo prosegue: “La carne sanguina/ l’odio si coagula/ al punto di essere roccia”, e la fotografia lo visualizza in un conglomerato informe. “Si disgrega il cervello/ si sclerotizza la mente/ al punto d’esser deserto”; per concludere: “Libertà perdute/ l’uomo muore/ malato di non esser morto”.

Non tutto è percepibile, la grande roccia antropomorfa, un viso con le labbra sottili, sembra una sfinge:  “Tomba afona/ del libro che non sarà mai scritto/ dell’alfabeto/ sepolto per sempre/ nel cuore del non detto”. E poi c’è il mistero: “Indovinare attraverso le falangi/ l’ordine interno della materia./ Unica via/ per penetrare l’inespugnabile segreto”, la roccia questa volta ha la forma di un corpo, l’unica con un antropomorfismo non limitato al volto.   

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 Un profilo roccioso invece  indefinito è accompagnato da queste parole: “Quantità d’uomini/ così poche tracce/ altrettante maschere./ Menzogna muta/ dalla coscienza sorda”.  

Ecco un’altra roccia sospesa, la sagoma si staglia all’orizzonte. in equilibrio tra forze che spingono in direzioni opposte: “L’infinita vertigine/ ha preso in contropiede/ la fuga del tempo../ Prima di schiantarsi/questo corpo sarà finito/ in un’assenza di gravità inebriante/ signore dell’ultima caduta”.   

Ma c’è anche la ripresa volitiva: “L’odore dell’incenso genera la vita/ il sangue coagulato diviene/ terra fertile/ che se ne infischia della spada e del tempo”, la roccia una “insondabile faglia  dalle incrinature discrete/ abisso di odi e di passioni”.

In un’altra  immagine  la roccia sembra  inserita nella vegetazione, si percepisce la base di un albero dietro di essa, la poesia parla di “veleno della morte provocata” e si conclude con le parole: “Che fondano le rocce/ per le nostre grida ebbre/ di libertà spente/ di speranze crollate”.

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 L”ultima fotografia in fondo al salone rappresenta un albero contorto come un “bonsai” sull’orizzonte sconfinato, non si vedono  rocce, non crediamo ai nostri occhi. E la poesia? “Le foglie morte/ ebbri aquiloni/ fanno l’ultimo viaggio/ volteggiando in turbine/ dalla corona alle radici”. Solo cronaca della defogliazione autunnale? No: “Ora/ la tomba dell’oscurità/ può sigillare il gelo/ dei sensi/ tra passato e futuro”.

Si parla di futuro, dunque, e quest’immagine apre la prospettiva di una serie imperniata sulla natura vegetale dopo tante rocce declinate nelle loro conformazioni antropomorfe più suggestive. Lo abbiamo chiesto all’artista, non ha escluso nulla, e al poeta, ci ha parlato della sua viva attenzione all’uomo nelle diverse fasi della vita. Abbiamo visto che nei suoi versi, dietro l’immedesimazione e l’identificazione nelle rocce, peraltro quasi sempre antropomorfe, c’è sempre l’uomo con i suoi misteri. Ma è una marcia di avvicinamento, cominciando dalla realtà naturale più lontana potranno esservi altri passaggi, dalle conformazioni rocciose al mondo vegetale e animale, fino all’umanità nella sua grande varietà territoriale  e temporale.

Ricordiamo che Salgado ha fotografato aborigeni che sembrano vivere nella preistoria, Nomachi ha esplorato la spiritualità riuscendo a fotografarla, Mc Curry le più diverse manifestazioni umane, in ogni continente, si pensi alla “Afghana Girl”, icona del ‘900.  Per Kozo Yano e André Simoncini il campo per delle nuove sfide è quanto mai aperto e stimolante.

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Info

Galleria della Biblioteca Angelica, via di Sant’Agostino 11, Roma. Dal martedì al giovedì, ore 10,00-18,30 con l’intervallo di un’ora 13,30-14,30; venerdì e sabato ore 10,100-13,30. Ingresso gratuito. Catalogo “Dio si nasconde”,  Gallerie Simoncini Editore,  Lussemburgo, gennaio 2018, pp. 72, formato 20 x 25, nel  Catalogo  le fotografie e  le poesie di André Simoncini, tradotte in italiano sono riportate in pagine poste a fronte, in mostra le poesie sono esposte nello stesso riquadro a lato della rispettiva fotografia,vin francese e nella traduzione italiana.. Cfr. i nostri articoli: per il binomio artista-poeta, precisamente il pittore Vincenzo Maugeri e il poeta Italo  Benedetti, in questo sito 30 giugno 2013, in cultura.inabruzzo.it 2 articoli sempre su “Il pittore e il poeta” citati il 22 e 24 giugno 2010, sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in un  altro sito; sugli artisti ispirati alla Divina Commedia di Dante Alighieri,  in questo sito su Gianni Testa  31 gennaio 2016, 14 marzo 2015, 14 settembre 2014,  su Rodin e Roberta Comi  20 febbraio 2013; per i fotografi della natura, in questo sito su Nomachi 17 marzo 2014 e su Salgado  2 giugno 2013; su Steve McCurry, in fotografia.guidaconsumatore.it  3 articoli, due il 7 gennaio e uno il 17 febbraio 2012.

Foto

Le immagini di apertura e chiusura sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nella galleria della Biblioteca Angelica, si ringraziano fotografo-artista, poeta e curatrice per la loro disponbilità. Tutte le riproduzioni delle fotografie esposte sono tratte dal Catalogo risultando di cattiva qualità quelle scattate,  per i riflessi delle luci, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, in particolare il fotografo-artista, per l’opportunità offerta. Sono tutte senza titolo, si indicano le località e l’anno in cui sono state riprese: In apertura,l’autore delle fotografie Kozo Iano dinanzi alla foto scattata ad  El Chaltén, Patagonia Argentina 2012; seguono, Sedona, Arizona America 2009, Le Granite Rose, Bretagna Francia 2011; poi, Antelope Canyon, Arizona America 2009, e Cambria, California America 2009; inoltre, Ile de Brèhat, Bretagna Francia 2011, e Le Granite Rose, Bretagna Francia 2011; ancora,  Chile Chico, Cile 2012, e Zion National Park, Utah America 2012; prosegue, Krong Siem Reap, Cambogia 2013, e Goblin Valley, Utah America 2012; infine, Le Granite Rose, Bretagna Francia 2011, e Moah, Utah America 2012; in chiusura, il fotografo-artista Kazo Iano e il poeta André Simoncini, tra loro la curatrice Stefania Severi

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Arcimboldo, le “teste composte” e le “pitture ridicole”, a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

La mostra “Arcimboldo”presenta a Palazzo Barberini,, dal 20 ottobre 2017  all’11 febbraio 2018, per la prima volta a Roma, le opere altamente evocative dell’artista milanese vissuto per un quarto di secolo come pittore di corte nelle sedi imperiali absburgiche di  Vienna e Praga. Oltre alle 20 celebri opere di Arcimboldo, circa 80 opere collegate perché espressione del mondo in cui l’artista ha potuto manifestare una creatività così insolita. Organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica  e da Mondo Mostre Skira, a cura di Sylvia Ferino-Pagden che ha diretto la Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum di Vienna ed è una delle maggiori studiose di Arcimboldo. Ha curato anche il catalogo Skira Editore.  

Un grande inizio, quello con Arcimboldo, del  programma  espositivo  negli spazi dedicati alle mostre temporanee delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Mentre le collezioni permanenti  nell’interminabile teoria di sale del palazzo offrono  un’immersione totale nell’arte al visitatore estasiato da una così vasta esposizione di opere  di valore incalcolabile, che culmina nel capolavoro caravaggesco  “Giuditta e  Oloferne”  e nella “Fornarina” di Raffaello. Ma la nuova direttrice Flaminia Gennari Sartori, disdegna la visione “iconica” basata sulle grandi attrazioni, per la visione “aniconica” che valorizza l’intera collezione. Si tratta comunque di un’opportunità aggiuntiva, un’opzione che accresce l’interesse per la visita alla mostra.

Il valore della mostra

Perché abbiamo definito la mostra di Arcmiboldo un “grande inizio”?  Per l’eccezionalità dell’evento, dato che è molto difficile avere a disposizione le sue opere,  estremamente scelte e selezionate,  sparse tra molti musei che se ne privano con difficoltà, data la loro forza attrattiva. Si è colta l’occasione della mostra “Arcimboldo nature of Art” al National Museum of Western Art di Tokyo, che ha favorito la disponibilità degli 11 prestatori, europei e americani –  solo 3 in Italia a Firenze, Milano, Genova – che hanno fornito   le  20  principali opere  esposte dell’artista, cui se ne sono  aggiunte circa 80 per inquadrarle nel contesto storico, culturale e artistico in cui sono state create.  

Così è stato possibile presentare Arcimboldo e il suo tempo  per la prima volta a Roma come inizio di un percorso con questo obiettivo, secondo le parole della direttrice Gennari Sartori: “Invitare il nostro pubblico a guardare diversamente, a giocare seriamente, a scoprire l’arte del passato con gli occhi di oggi”. Vedremo come si snoderà questo percorso nelle mostre successive,   intanto ecco come introduce questa mostra: “In uno dei suoi saggi Roland Barthes nel 1978 definì Arcimboldo ‘rhétoriqueur et magicien” mettendo  in luce come il maestro milanese con i suoi ritratti compositi ingaggiasse con lo spettatore un gioco, una sequenza di indovinelli visivi e mentali che ci tengono all’era mutando sottilmente  profondamente il nostro modo di guardare le opere d’arte”.  

Ci accingiamo a “guardare diversamente, giocare seriamente”, dunque. Immergendoci nel mondo di Arcimboldo, accuratamente ricostruito con le 80 opere di contorno al nucleo delle 20 dell’artista, un mondo affascinante che si  estende da Milano alle corti imperiali dell’Europa centrale  della seconda metà del ‘500, e consente, sono sempre parole della Gennari Sartori, di “immergersi in una cultura che metteva al centro la curiosità, la combinazione  di osservazione minuziosa e scientifica con il gioco, la meraviglia e l’ironia”.  

Il percorso artistico e personale di Arcimboldo 

Arcimboldo aveva la “forma mentis” adatta a valorizzare tutti gli stimoli che riceveva da quella cultura così aperta e coinvolgente. Oltre che pittore era anche poeta e filosofo, si formò nella bottega del padre  Biagio,  pittore di orientamento leonardesco;  a 23 anni, nel 1549,  fece dei disegni per le vetrate del Duomo di Milano,  risultano pagamenti a tale titolo fino al 1557.  Poi, dal 1558 al 1560, cartone per un arazzo del Duomo di Como e affresco per il Duomo di Monza. 

 Dal 1562 cambia tutto, si trasferisce alla corte dell’imperatore Massmiliano d’Asburgo A., dove viene definito “pittore di sua maestà reale”.  

Come sia passato  dagli austeri  ritratti della famiglia imperiale alle  “Quattro stagioni”  in forma quasi “grottesca” sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto che  era impegnato anche  nell’organizzazione di feste e tornei imperiali,  fornendo disegni per costumi e ornamenti, e in questo contesto  era normale lo sbizzarrirsi della fantasia, secondo il clima dell’epoca.  

Torna definitivamente a Milano nel 1587, dopo ben 25 anni, ma l’imperatore non lo dimentica, nel 1592, l’anno prima della morte, Rodolfo II  gli conferisce un’ambita onorificenza nominandolo Conte Palatino. 

La fantasia, dunque, come base dell’ispirazione artistica, che troviamo teorizzata nel “Dialogo di Comanini il Figino overo il fine della pittura” definita come imitazione  nelle due forme di “imitazione icastica”, con la riproduzione di un oggetto reale,  e “imitazione fantastica”   con la rappresentazione di un oggetto immaginario, come nelle “grottesche”, le pitture delle grotte romane.  Secondo Comanini  la fantasia entra anche nella rappresentazione della realtà, cosa che di recente è stata riconosciuta ad Arcimboldo riconoscendo che le sue “teste fantastiche”  sono basate su accurati studi scientifici del mondo animale e vegetale, realtà alla quale applica un metodo fantastico nella composizione immaginifica dei soggetti. 

Il suo metodo compositivo ha radici antiche, in Persia, nell’India, in Giappone,  addirittura si risale al Vecchio Testamento e alla poesia antica. In cosa consiste tale metodo “fantastico” che però combina elementi della “realtà” in modo insolito,  apparentemente paradossale?  Consiste nel comporre le teste  con elementi attinenti al significato attribuito al soggetto, se un individuo con elementi della sua attività, se una stagione elementi  della natura  che la caratterizza. Così abbiamo teste fatte di fogli e libri per il “Giurista” e il “Bibliotecario”, di fiori e frutti, pesci e uccelli a seconda della “Stagione”  o dei “4 elementi” naturali.  

Per questa sua vistosa  “irrazionalità”,  è stato considerato dai dadaisti e surrealisti un loro precursore, e addirittura Oskar Kokoschka lo ha definito “il patriarca del surrealismo”  affermando che i suoi ritratti di teste “sono composti da un’accozzaglia di cose riunite  per una coincidenza priva di senso”. Abbiamo già detto che questo è solo apparente, mentre vi è un preciso significato nella composizione di elementi attinenti al soggetto raffigurato. 

Qual è il risultato? La curatrice Sylvia Ferino- Pagden  lo vede così: “Ognuno di questi oggetti, accuratamente scelti, si intreccia e si sovrappone, gareggiando con gli altri per ottenere un ruolo preciso all’interno del dipinto e accentuarne l’impatto complessivo”.  E per il visitatore? “La raffigurazione mimetica della natura crea un effetto oltremodo divertente, che affascina lo spettatore suscitando in lui un piacere intellettuale. Con la sua buona dose di spirito  e ironia, il gioco arcimboldiano non poteva che costituire fonte di ispirazione per la creazione di altri generi, come ad esempio la caricatura”. Non resta che visitare la mostra per verificare direttamente il fascino surreale dell’artista immergendoci nel mondo in cui si è potuta sviluppare una  visione così inusitata, innovativa e indubbiamente spiazzante l’ortodossia artistica. 

L’ambiente milanese e le  opere di Arcimboldo prima della corte absburgica  

Le prime due sale preparano all’incontro con Arcimboldo, il “clou” della mostra,  inserendo il visitatore nell’ambiente milanese,  con una delle figure più seguite, Giovanni Paolo Lomazzo, di cui viene presentato l’“Autoritratto”, 1560-70, oltre al libro d’epoca, che abbiamo citato,  di Gregorio Comanini, Il Figino overo del fine della pittura“, 1591. Ma c’è soprattutto l’ “Autoritratto cartaceo” di Giuseppe Arcimboldo, a matita, inchiostro e acquerello, del 1587, a 61 anni, come un  dignitario, austero, con un alto collare dell’abito. 

Siamo a metà del ‘500, con il forte influsso leonardesco, sono esposti dipinti di artisti legati a Leonardo, di Cesare de Sesto,   “Madonna dell’Albero”, 1515-20,  di Martino Piazza da Lodi,a “Madonna  con Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta”, 1510-20.  E poi caricature a penna, “Due teste”  attribuite  a Francesco Melzi  che portò a Milano i codici e i disegni di Leonardo, divenuti subito oggetto di studio,  e “Quattro teste” di un Seguace di Leonardo. 

Ma non è tutto, l’inquadramento milanese è completato da una serie di Monete , tra il 1552 e il 1575, di Leone Leoni  e Annibale Fontana, Antonio Abondio e Francesco di Sangallo, che celebrano artisti impegnati nella produzione di oggetti artistici di lusso con materiali preziosi – Girolamo Cardano, Paolo Giovio e Giovanni Paolo Lomazzzo –  di cui sono esposti degli esemplari, alcune Coppe in cristallo e oro,  fino all’elmo in acciaio di un’armatura, “Borgognotta”.  Questi oggetti di lusso prodotti nel milanese erano conosciuti e  apprezzati  dai collezionisti europei, e in particolare dalla corte imperiale degli Absburgo, cui sono dedicate anche altre Monete, su Carlo V e Massimiliano II,  esposte insieme a quelle sugli artisti.  Si può capire da qui  come potè avvenire che Arcimboldo fosse chiamato alla corte absburgica  dove restò 25 anni. 

Prima di seguirlo a Vienna, come factotum delle feste imperiali,  e pittore di corte, vediamo esposte alcune opere di Arcimboldo,  2  pannelli di vetrata per il Duomo di Milano, “Santa  Caterina viene mandata in carcere” e “Santa Caterina viene decapitata”, 1556, quando aveva trent’anni, e  l’arazzo realizzato  dal celebre tessitore  Giovanni Kircher per il  Duomo di Como, su cartone di Arcimboldo, “Dormitio Virginis”,. 1561-62, l’anno del trasferimento alla corte imperiale. 

L’inquadramento preparatorio finalmente ci presenta opere di Arcimboldo in carattere con la sua assoluta peculiarità  che lo ha qualificato in modo così prestigioso nel mondo. Sono  celebri teste composte che risalgono al 1555-60, diversi anni prima di trasferirsi a ‘Vienna, “L’ Estate” e “L’inverno”, con la combinazione di una serie di elementi in carattere con tali stagioni. E, facendo un salto di un secolo, due allegorie delle Quattro stagioni, “Primavera-Estate” e “Autunno-Inverno”, acqueforti da Arcimboldo, con le sue teste in forma ancora più caricaturale, ci torneremo pià avanti. 

Dopo questo “assaggio” , torniamo alla cronaca, lo abbiamo lascito con il cartone per il Duomo di Como, prima della partenza per Vienna. Ora lo troviamo a Vienna, non più le opere religiose e le prime teste composte, bensì vediamo tre severi ritratti, a lui attribuiti, “L’arciduchessa Anna, figlia dell’imperatore Massimiliano II”,  “Una figlia di Ferdinando I (arciduchessa Elena)” e un “Ritratto di arciduchessa (Margherita?)”, tutti del 1663, l’anno dopo il suo arrivo alla corte imperiale, quando viene nominato “pittore di Sua maestà reale” alle dirette dipendenze  dell’arciduca Massimiliano che succederà molto presto al padre  sul trono imperiale,  nel 1664. Muore dopo 12 anni di impero  e gli succede  il figlio di 24 anni Rodolfo Ii, collezionista che stima molto Arcimboldo e lo tiene nella sua corte a Vienna, e lo porta con sé a Praga allorchè vi trasferisce la corte nel 1583.    

Per renderne l’ambiente attraverso  oggetti artistici,   sono esposte  4 Coppe di Ottavio Miseroni, realizzate tra il 1610 e il 1530, di varie forme, anche lui è un artista milanese presente a Vienna, con cui Arcimboldo entra in contatto,  e una  “Bacinella in quarzo” della prima metà del ‘600. 

Il “sancta sanctorum” della mostra, le “Quattro stagioni e i Quattro elementi 

Ma ora entriamo in una sorta di “sancta sanctorum”, il cuore della mostra, una rotonda al centro dell’area espositiva con le più celebrate “teste composte” di Arcimboldo, sono 8, il ciclo delle Quattro stagioni, 1555-1572, “La Primavera” e  “L’Estate”,  “L’Autunno” e “L’Inverno”, e il ciclo dei Quattro elementi, intorno al 1566, “L’Aria” e “L’Acqua”, “Il Fuoco” e “La  Terra”.  

E’ una bella sorpresa che invita a “giocare seriamente”,  secondo l’intento della direttrice,   con le opere singolari che circondano il visitatore e sembra che lo guardino. E il “gioco” consiste nell’identificare le componenti di queste teste, che sia  nelle Quattro  stagioni che nei Quattro elementi  evocano gli aspetti  caratteristici del periodo considerato,dai fiori e frutti di stagione agli animali in carattere con la stagione o l’elemento considerato. Il tutto con una maestria compositiva che amalgama  componenti così eterogenee non solo creando un effetto  del tutto particolare.  

A noi sono sembrati esseri silvani, elfi che emergono dai più riposti recessi naturali, creature di fiaba che, come avviene nelle fiabe, hanno un che di misterioso e di inquietante. La  curatrice Ferino-Pagden definisce così  l’impatto sul visitatore : ” Le teste composte di Arcimboldo  racchiudono una molteplicità di punti di vista:  guardando la testa da lontano – che sia raffigurata di profilo, di fronte o di tre quarti – l’osservatore ne coglie la forma complessiva, spesso mostruosa, ma solo dopo essersi avvicinato inizia a notare  la resa accurata dei singoli oggetti che la compongono”. E non è soltanto  una constatazione estetica: “Ognuno di essi – fiori, frutti, pesci, animali vari, ferri per caminetto, segnalibri, fasci di fiori, cannoni e molto altro ancora – contribuisce al significato della rappresentazione, sia che si tratti della caricatura di un individuo o di un mestiere. Di una stagione, di un elemento naturale, di un’allegoria, di una testa reversibile o di una natura morta”. 

Nel “sancta  sanctorum” della mostra abbiamo fatto la conoscenza con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  più avanti troveremo la “caricatura di un individuo o di un mestiere”, e anche di “una testa reversibile o di una natura morta”. Prima di queste ultime  trovate particolarmente intriganti, vogliamo citare opere di Arcimboldo più che sessantenne, molto successive alle “teste composite” ora descritte, rientranti però nella più assoluta normalità; riguardano disegni  per le feste di corte, come “Donna in costume con merletto”, “Costume per armigero” e “Costume per la figura allegorica della Musica”, “Slitta con satiri” e “Tre uomini su una slitta“, tutte del 1585,  trent’anni dopo “Le Quattro stagioni”, vent’anni dopo i “Quattro elementi”. Ma non è che la vena  irridente e surreale si fosse esaurita,  e lo vedremo. 

Due intermezzi, studi naturalistici e “stanza delle meraviglie”  

Prima, però, la mostra presenta  due intermezzi, importanti per meglio comprendere il contesto storico, culturale e di costume nel quale è stato possibile  che la creatività di Arcimboldo prendesse una direttrice così inusitata.  Il primo riguarda gli studi naturalistici in voga nel periodo alimentati dallo sviluppo dei commerci  con l’Estremo oriente, che portavano i prodotti esotici sconosciuti che suscitavano curiosità e interesse, soprattutto verso ciò che era diverso e stravagante. Vediamo questa tendenza nei  4 volumi di “Ornitologia” illustrati da Ulisse Aldrovandi tra il 1599 e il 1603, e in più “De Piscibus…” illustrato dallo stesso nel  1613; anche Arcimboldo illustrò libri naturalistici promossi dallo studioso bolognese. Oltre ai libri di Aldrovandi,  quelli  sugli “Animali” di Leonhart Fuchs, Conrad Genser, e Andrea Mattioli, tra il 1551 e il 1568, e quelli sui “Pesci” di Pierre Belon e Ippolito Salviani.del 1553-54.  Del’ 600,  spettacolari “Tavole di animali” anonime.   

Non solo illustrazioni, i collezionisti si orientavano verso oggetti che si inserivano in questa tendenza,  venivano creati ispirandosi a reperti scientifici con cui venivano raffrontati, nasce così la Wunderkammer”, “Stanza delle meraviglie”,  Vediamo esposti alcuni di questi oggetti, “La lepre” e “Due lucertole”, il “Serpente”  e la “Rana”,  fino al “Granciporro”; e anche lampade a olio di forma particolare, come la “Testa di satiro” o il “Volto che fa una smorfia”.  

Ma c’è dell’altro, in questa “stanza delle meraviglie” entrano elementi naturali che diventano vere icone per la lavorazione con materiali preziosi, vediamo esposti la “Noce di cocco”  e un “Corallo bianco” con montature in argento, così per il “Corno di rinoceronte” bianco in un calice  e una coppetta,  le “Zanne di tricheco”, il “Rostro di pesce sega”  e la “Mandibola di squalo”, come dei totem,  sono tutti del ‘600, appartengono alla collezione Koelliker. L’interesse  si acuiva dinanzi a fenomeni  patologici insoliti,  vediamo esposti due dipinti,  “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales”, e “Ritratto di Antonietta Gonzales” di Lavinia Fontana, tra il 1580 e il 1595, famiglia colpita da una malattia che creava  una crescita abnorme di peli, all’epoca gli “irsuti” venivano mostrati nelle corti come attrazione per il loro  aspetto stravagante, spesso repellente.  

Le nature morte con le teste reversibili  

Usciamo dall’immersione nel clima di allora tornando al mondo fantastico e insieme realistico di Arcimboldo, presentato nelle ultime 3 sale della mostra,  in un allestimento che abbiamo trovato magistrale. Ed è come se tornassimo nella rotonda con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  ma cronologicamente si è andati molto avanti, l’artista  è rientrato dopo 25 anni a Milano, dove lo accolgono Giovanni Ambrogio Figino e Vincenzo Campi. Sono gli anni della formazione di Caravaggio,le  opere  di Arcimboldo sono molto apprezzate per la sensibilità che emerge nella rappresentazione della realtà, piuttosto che per la bizzarria, e questo va inquadrato nella tendenza  verso i significati allegorici, e i simbolismi anche in senso morale che troviamo nel Figino e altri artisti, e che nel ‘600 sarà seguita da Fede Galizia di cui è esposto un piccolo dipinto che ritrae una “Fruttiera di ceramica  con uova, prugna  e pere”.  

La prima sorpresa è un altro “Inverno” di Acimboldo, 1572, sempre la testa arborea,mentre un “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto” è di un suo seguace del tardo ‘500, composizione meno ricca di elementi delle sue, anche se la tecnica compositiva è la stessa.  Analogamente, la  “Testa composta di uomo” e la “Testa composta di donna” di Bartolomo/Bartolo Bossi.  La sala con “Il bel composto”  presenta anche opere in  maiolica,  “Piatto con testa composta di falli”, 1536, attribuito a Francesco Urbani, e in bronzo,  “Medaglia con testa composta raffigurante un satiro (recto), e con testa composta di falli (verso)”, del XVI sec.,  riferimenti sessuali secondo la moda di rendere greve l’allusione satirica e il riferimento caricaturale;   2 xilografie, di Hans Meyer e Wenceslaus Hollr  con “Paesaggio antropomorfo” , tra il 1560 e il 1660, e 2 acqueforti in inchiostro rosso, “Allegorie delle Quattro Stagioni (da Arcimboldo)”, con due teste ciascuna, ” Primavera-Estate” e “Autunno-Inverno” . 

Siamo alla “natura morta” di  cui Arcimboldo ci dà una versione acrobatica  nelle due teste reversibili, “L’Ortolano (Priapo)/ Ciotola di verdure”, 1590-93, e “Il Cuoco/ Piatto di arrosto”: ha più di 65 anni, ma il suo spirito creativo resta molto attivo, l’inventiva non  è attenuata.  Non sappiamo se conosceva la “Figura da capovolgere” di Giovanni Andrea Maglioli, esposta in due versioni, maschile e femminile,che  capovolta mostra un’immagine animalesca; ,ma  il mimetismo rovesciato di Arcimboldo va ben oltre,  e l’allestimento della mostra consente al visitatore di cogliere l’effetto sorprendente delle due teste reversibili. 

Conclusione del viaggio famtastico, le “pitture ridicole” 

 Le “pitture ridicole” sono l’ultima sorpresa,  prendono avvio addirittura dalle”teste caricate” di Leonardo,  con i lineamenti deformati, delle quali le “teste composte” sono l’evoluzione  estrema   Vediamo  tre opere   emblematiche a questo fine, in chiave di reazione sarcastica al severo manierismo accademico:   “Homo ridiculo”,di Anonimo lombardo, intorno al 1550, con uno straripante riso ironico,  l’ “Autoritratto come abate dell’Accademia della Val di Blenio”, forse 1568, di Giovanni Paolo Lomazzo, ricorda come il pittore divenuto trattatista con la cecità, con altri artisti fondò una associazione di finti “facchini” di quella remota vallata all’insegna della semplicità contro le sofisticazioni,  e  “I mangiaricotta” 1585, di Vincenzo Ciampi , con l’esaltazione delle figure  popolaresche contro quelle paludate.  

Per Arcimboldo, dopo  le “Quattro stagioni” e i “Quattro  elementi” , dove  il simbolismo prevale, trattandosi di figure che richiamano fenomeni naturali;  abbiamo  il “Bibliotecario” e “Il Giurista”, entrambi di  Arcimboldo, il secondo datato 1566, 4 anni dopo il trasferimento alla corte imperiale, dove l’aspetto caricaturale è evidente, quindi rientrano a buon diritto nelle “pitture ridicole”. Non sono solo teste, ma figure a mezzo busto, il  primo ha i capelli formati da pagine aperte di un libro e il corpo da volumi accatastati, il secondo ha il volto formato dai capponi di Renzo, quindi il termine “giurista” sta ironicamente per “Azzeccagarbugli “.  

E’ un bel commiato, colmo di ironia da un artista che, pr nella sua eccentricità oltre ogni dire, ha avuto un’elevata valutazione non solo ai suoi tempi, e il quarto di secolo trascorso alla corte imperiale ne è un segno evidente, ma anche dopo.  Si pensi che dopo una  mostra a Parigi nel 2007, ricorda la curatrice Ferino-Pagden, “che  le Stagioni nel Louvre sarebbero diventati i dipinti più famosi dopo la Gioconda”.   

E, tornando alla mostra di  Palazzo Barberini, non è certo un caso che troviamo al termine  la “Testa composta, con elementi utilizzati nell’atelier Capucci”, è una gustosa realizzazione di  Roberto Capucci, nella contemporaneità più stringente, è del 2017. Meglio di così non si poteva concludere il viaggio nel mondo fantasioso di Arcibmboldo, in un realismo naturalistico esasperato fiuno al paradosso. 

Info

Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13. Da martedì a domenica, ore 9,00-19,00, lunedì chiuso. Ingresso, audio guida inclusa:  intero euro 15,  ridotto euro 13 per le categorie aventi diritto, gratuito under 18, invalidi, soci ICOM, guide turistiche, dipendenti MiBACT; con il biglietto di ingresso al Museo, intero euro 12, ridotto euro 6, l’ingresso alla mostra è ridotto a euro 10.. Tel 06.4824184, prenotazioni 06 81100257. www.barberinicorsini.org, www.arcimboldoroma.it; E mail: Gan-aar@beniculturali.it.   Catalogo “Arcimboldo”, a cura di Sylvia Ferino-Pagden,  Skira Editore 2017, pp. 176, formato 28 x 24.  

Foto 

Le immagini sono state riprese a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, le gallerie Nazionali di Arte Antica con Mondomostreskira”, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.

N.B. Per inconvenienti tecnici le 4 foto finali non sono inserite nel testo come le altre, ce ne scusiamo con i lettori.
 

Filippo Lippi con la Madonna di Tarquinia, e Giovanni da Rimini, a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

Due mostre, dal 17 novembre 2017 al 18 febbraio 2018,a Palazzo Barberini,: “Alto Rinascimento. Il giovane Lippi e la Madonna di Tarquinia” , a cura di Enrico Parlato, per il centenario della riscoperta dell’opera,  raffrontata ad altre 11 opere esposte, 5  dello stesso Lippi, 1 di Masaccio e Donatello, 3 di altri artisti, sempre del ‘400; “Giovanni da Rimini. Passato e presente di un’opera”, a cura di Alessandro Cosma, 2 tavole dell’artista e 1 dl Baronzio, del ‘300.

Il nuovo percorso delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica con la direzione di Flaminia Gennari Sartori, imperniato su mostre con poche opere accuratamente selezionate sulla base di una ricerca storico-artistica che ne mette in luce significati reconditi,  pone questa volta la “Madonna di Tarquinia” di Filippo Lippi del 1437  nel cono dei riflettori, contornata da  una preziosa documentazione di tavole e tomi e soprattutto da opere che rispondono ad artisti come il grande Donatello. In aggiunta,  un confronto la tavola con le “Storie dei Santi” di Giovanni da Rimini, degli inizi del ‘300, delle Gallerie Nazionali e quella parallela  della National Gallery di Londra.

La Madonna di Tarquinia e il suo valore nell’arte di Filippo Lippi

Per la “Madonna i Tarquinia” si celebra il centenario della riscoperta e attribuzione a Filippo Lippi, padre del più celebrato Filippino Lippi ma egli stesso di notevole valore artistico. Soltanto il fatto che fu  maestro del figlio Filippino e del grande  Sandro Botticelli ne qualificherebbe la caratura e l’importanza nella storia del ‘400 fiorentino, ma è soprattutto la sua personalità di artista definito “fuori del coro” a dare alla sua figura uno spicca particolare.

Lo storico dell’arte Pietro Toesca, protagonista della riscoperta e attribuzione di tale opera, come vedremo, lo definisce “creatore di modi nuovi per la pittura fiorentina, più che per solito non si stimi”, perché su di lui c’era l’ombra del figlio. Filippo Lippi era frate carmelitano, ma le sue Madonne non hanno la freddezza ieratica e iconica da pittura religiosa, bensì una grazia sensuale che è stata una sua peculiarità rimarchevole.

 Il quadro al centro della mostra ha un rilievo particolare nella sua produzione perché segna il passaggio alla maturità artistica dopo la sua formazione nello stile severo di Masaccio; diventa Donatello il suo ispiratore, in un confronto incrociato pittura-scultura di particolare interesse, che lo portò anche ad ispirarsi, per degli angeli, alle formelle di Luca della Robbia. 

Partendo dalle innovazioni  introdotte da Donatello, Lippi  orienta il suo stile verso toni eleganti e raffinati, dai colori cangianti e dolci, una pittura che definita “ornata e graziosa” dall’umanista Cristoforo Landino nel 1481, quasi mezzo secolo dopo la “Madonna di Tarquinia”.

Un’accurata ricerca è stata condotta sulle vicende della tavola nell’800, e oltre all’attribuzione del dipinto si è potuta accertare anche la provenienza e l’originalità della cornice. La mostra dà conto dei risultati evidenziandoli nelle tre sezioni poste in sequenza  logica e progressione spettacolare.

Filippo Lippi da Masaccio a Donatello

Ma prima di considerare le opere  esposte,  cerchiamo di conoscere meglio Filippo Lippi, “pittore carmelitano”, come lo definisa Donatelloe Keith Christiansen. Entrò nell’ordine, sembra per le ristrettezze familiari, e subito manifestò predilezione per la pittura, come scrive  il Vasari rivelando che da piccolo “in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl’altri; onde il priore si risolvete  a dargli ogni commodità ed agio d’imparare a dipignere”; e lo faceva nella cappella dipinta dal Masaccio “che bellissima era, piaceva molto a fra’ Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto l frequentava, e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di moli giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga d’altri avanzava di destrezza e di sapere”. . Ed ecco il risultato, sempre nelle parole di vasari: “”E così ogni giorno facendo meglio aveva preso la mano di masaccio sì che le cose sue in modo simili a quelle che faceva che molti dicevano lo spirito di masaccio essere entrato nel corpo di fra’ Filippo”. Ben più che se fosse stato nella sua bottega.

Poi, dalla copia delle opere di Masaccio alla conoscenza personale, il maestro aveva soltanto cinque anni più di lui. Di lui doveva affascinarlo, oltre alla solidità delle figure, il senso prospettico dello spazio in cui collocare la composizione  in termini emotivi e non razionali, così per i forti contrasti tra luci ed ombre .

 Lippi cominciò ad utilizzare le ombre “per il loro potere simbolico piuttosto che per definire una posizione”, osserva la Christensen, e aggiunge una considerazione che dà una spiegazione al confronto con la scultura cui abbiamo accennato. Sembra sia nato dai modelli scolpiti in creta o cera utilizzati da Masaccio per studiare gli effetti di luce era un pittore che sentiva come maestro ad utilizzare mezzi scultorei; di qui a trarre dalle sculture di Donatello l’ispirazione decisiva per la svolta pittorica della “Madonna di Tarquinia” il passo è breve. “In maniera crescente – viene ribadito dalla studiosa – la scultura agiva come catalizzatore  per le sue idee”, e lo troviamo intento  a combinare gli influssi di Donatello con quelli di Luca della Robbia.; anche da Brunelleschi prese ispirazione per le architetture di sue composizioni pittoriche.   

Ma l’influsso di Masaccio?  C’è stata una diretta incidenza sulla sua formazione attraverso i dipinti della cappella di cui parla Vasari, così ne parla Carl Brandon Strrehle: “Negli anni in cui Lippi stava imparando a dipingere, sembra aver lavorato seguendo passo passo Masaccio. Di seguito si propone una cronologia per questa relazione”. E lo studioso  dice che delle opere furono realizzate in stretto collegamento con lui, “dopo un primo contatto con Masolino nella tavola di Enpoli”, addirittura “Il giovane santo carmelitano”, esposto, di cui parleremo più avanti, lo avrebbe dipinto a Pisa, dove era andato come frate carmelitano, per volere di Masaccio; nella tavola della collezione Cini “è pienamente visibile il peso della lezione di Masaccio, evidente anche nella resa dell’architettura…”. Poi il cambiamento, ma intanto “sebbene non fosse più il pittore del Carmine, certamente gli anni della gioventù trascorsi lì, accanto a Masaccio. Gli avevano dato le basi per decenni di innovazioni che caratterizzeranno il resto della sua carriera”. Quando irrompe Donatello.

Diremo più avanti, parlando delle opere  esposte,  dell’influsso diretto sulla “Madonna di Tarquinia”. Intanto, più in generale , Laura Cavazzini afferma che dalle carte di archivio si trae la conclusione che durante i lavori per il polittico del Carmine di Pisa, nei quali fu collaboratore di Masaccio, come si è appena ricordato,  avrebbe incontrato anche Donatello. Lo scultore, infatti, si trovava a Pisa per lavorare al sepolcro Brancaccio e aveva rapporti con Masaccio documentati da una rata dei pagamenti  per il polittico del Carmine di Pisa dovuti al pittore, versata allo scultore  a saldo di un proprio credito verso il  primo. Ma  sarebbe soltanto un indizio, non una prova assoluta perché  il contatto Masaccio-Donatello nella persistenza del contatto Masaccio-Lippi non comporta necessariamente il contatto Lippi-Donatello, la proprietà transitiva può essere applicata solo in modo ipotetico, come probabilità, non come certezza. C’è, però, una prova documentale diretta, basata su analogo pagamento ricevuto diversi anni dopo da Donatello, una rata dovuta a Lippi per  “L’incoronazione della Vergine” della chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze, data allo scultore per lo stesso motivo, un debito del pittore verso di lui così compensato, che implica rapporti stretti e non occasionali

Dopo la svolta stilistica degli anni ’40 del ‘400  il dialogo artistico tra i due continua, afferma la Cavazzini, e conclude: “Nel decennio in cui Donatello lavora a Padova e una nuova generazione di scultori, cresciuti nel suo entourage, propone al pubblico fiorentino un nuovo ideale figurativo,  fatto di eleganze lineari, di una tecnica ipersofisticata, di un’espressività più posata rispetto alle accensioni donatelliane, ecco che Filippo Lippi trova con loro – e in particolare con Desiderio da Settignano – una imprevista sintonia, contribuendo a dar vita, questa volta da pari a pari, a una stagione dell’arte fiorentina pronta ad assecondare le istanze mecenatistiche della città ormai medicea”.

Siamo oltre la “Madonna di Tarquinia”, ma negli anni in cui Lippi ha realizzato altre opere esposte, di cui diremo di seguito, in particolare riguardo alla 3^ sezione della mostra.

Le 3 sezioni  della mostra, sei opere di Lippi,  una di Donatello e una di Masaccio

La documentazione esposta nella 1^ sezione ricostruisce l’evento dell’identificazione  della tavola nel 1917 a Santa Maria di Valverde a Tarquinia (allora si chiamava Corneto) e della sua attribuzione a Filippo Lippi da parte del rinomato storico e critico, che abbiamo citato all’inizio,    Pietro Toesca, che nel 1914 aveva ottenuto la cattedra di Storia dell’Arte a Firenze, con tutte le ripercussione che ne seguirono. A tal fine sono esposti documenti dell’Archivio di Stato.

Identificata l’opera si passa, nella 2^ sezione, ad identificare il committente: si tratta di Giovanni Vitelleschi,  arcivescovo di Firenze;  lo vediamo  in una xilografia di Tobias Stimmer, contenuta nel volume di Paolo Giovio, “Elogia virorum bellica virtute  illustrium”, perché era un “cardinale guerriero”; tornò nella città natale nel 1437,  data iscritta nel cartiglio posto ai piedi della Vergine nella tavola che portò con sé nel proprio palazzo dove si trova oggi il Museo Nazionale Etrusco. 

Una  tavola  di Bartolomeo di Tommaso da Foligno, “San Francesco rinuncia ai beni paterni”, 1420-30,  con il corpo nudo spogliato degli abiti, e un prezioso reliquario di un Argentiere fiorentino della 1^ metà del XV sec., “Pace”, con la figura di Cristo che emerge dal sepolcro,  la testa reclinata e le braccia abbassate – che ricorda un “Crocifisso” di Donatello del 1408 –   commissionati da lui, avvicinano ancora di più il visitatore al committente della “Madonna di Tarquinia”.

L’importanza di questo reliquiario appare evidente dal fatto che il cardinale, a differenza  degli altri oggetti liturgici tenuti nella cattedrale di Corneto, l’odierna Tarquinia, lo conservava, insieme ad un calice, messale e paramenti liturgici, nella cappella del  palazzo Vitelleschi, dove risiedeva, che aveva voluto dedicare  ai “Diecimila Martiri”,  i soldati romani crocifissi dall’imperatore Adriano sul monte ASrarat per essersi convertiti al cristianesimo.

Ma è la 3^ sezione quella che consente di apprezzare il livello artistico dell’opera al centro della mostra,  e il suo valore dell’autore sia in generale sia nella sua svolta stilistica:

Vediamo la “Madonna di Tarquinia” di Filippo Lippi , nella sua cornice dorata monumentale, come una nicchia d’altare, nella tenera dolcezza del suo viso le mani delicatamente inanellate stringono con un’affettuosità che è stata definita “quasi aggressiva”  il bambino, il quale si stringe a sua volta a lei con pari energia. E’ su un trono, ma il piedistallo è così vicino al piano del dipinto che la fa sentire vicina all’osservatore, non distante nella sua sacralità; accentua questa sensazione l’interno domestico che si apre dietro di lei, si intravede un letto e dalla finestra un paesaggio con ulivi con un sentiero che porta a una fortezza.  Toesca, allorché “scopre” l’opera nel 1917, scrive nell’ “Enciclopedia Treccani” che Filippo Lippi riesce a dare “un’energica impressione plastica,provocandola col contrasto d’ombra e di chiaro nel definire i contorni e nei guizzi di luce che accentuano la stabilità del rilievo, nonché nell’appassionato  impeto del Bambino”.

E proprio su questo particolare centrale si è indirizzata la ricerca, il volto del Bambino   ha le stesse fattezze e il medesimo atteggiamento energico dello “Spiritello ceroforo” di Donatello, una piccola statua del museo Jacquemart-André,  posta  a diretto confronto con il quadro di Lippi, sono entrambe del 1437.

La  Cavazzini parla di “esplosiva vitalità” degli “spiritelli” che Lippi potrebbe aver visto  nella bottega di Donatello, prima che fossero messi nella balaustra dell’organo di Santa Maria del Fiore di Firenze, la cui “cantoria” era stata affidata a Luca della Robbia. Dato che gli “spiritelli” scolpiti da  Donatello sono dello stesso anno del dipinto di Lippi, è inevitabile che il pittore li conoscesse perché, spiega la studiosa, “il bambino energico, sodo e vitale della Madonna di Tarquinia sarebbe inconcepibile senza il precedente dei ridenti e carnosi Spirittelli del Museo Jacquemart-Andrè”.. 

La severa ieraticità del “San Paolo” di Masaccio è l’altro termine di confronto proposto ai visitatori, è del 1426, precedente rispetto allo “spiritello” di  Donatello del 1437,  dal quale è evidente la radicale differenza; .come sono precedenti le altre opere di Filippo Lippi esposte in una piccola “personale”.

Il suo “Giovane santo carmelitano” sembra sia stato dipinto da Lippi nella bottega di Masaccio nello stesso 1426 in cui il maestro realizzava il “San Paolo” sopra citato. Cui si accosta nella ieraticità, le pieghe del mantello, la posizione delle mani.  Sempre di Lippi, dello stesso anno,  “Madonna con il Bambino, sette angeli e i santi Alberto da Trapani, Michele Arcangelo e Bartolomeo”, ieratica e fredda la Madonna e distaccata rispetto al Bambino che lo è altrettanto rispetto a lei, l’opposto della coinvolgente tenerezza reciproca della “Madonna di Tarquinia”.

Analoga considerazione per la “Madonna con Bambino, angeli e donatore con i santi Giovanni Battista e Ansano o Giorgio”, 1430-33, la Madonna è assorta e il Bambino distaccato, proteso verso il “donatore” inginocchiato, con la mano sinistra poggiata sul suo copricapo.

Seguono due “Annunciazioni”,  del 1935 e 1440,  nelle quali il viso della Madonna  è atteggiato alla stessa soave dolcezza della “Madonna di Tarquinia” con pari delicatezza ornamentale, evidentemente nell’artista  c’è stata la svolta “ornata e graziosa” dovuta all’influenza di Donatello negli anni ’30.. Infatti viene confrontata con opere precedenti e con un’opera di Donatello con la quale sono evidenti le notevoli affinità.

Giovanni da Rimini, due opere a confronto

Quando si riuniscono due opere, parti di una stessa composizione pittorica, separate per le vicende della storia, è sempre un evento perché si interrompe, anche se per il solo periodo dell’esposizione, una separazione innaturale.

In  questo caso vi è un interesse particolare  perché Giovanni da Rimini è  un importante artista trecentesco, tra i maggiori pittori riminesi,  protagonista del rinnovamento stilistico  dopo il passaggio di Giotto. Lo testimoniano le sue opere, quali gli affreschi del Convento di sant’Agostino e il “Crocifisso”  di San Francesco a Mercatello sul Metauro.

La tavola con le “Storie di Santi”, che la National Gallery di Londra ha acquistato nel 2015, viene posta a confronto  con quella che reca le “Storie di Cristo” della collezione di Palazzo Barberini, ovviamente sono coeve, risalgono agli inizi del ‘300. 

Si ritiene fossero parti di un’unica opera con scene multiple – in origine situata forse nel convento di sant’Agostino dove l’artista ha realizzato gli affreschi –  per le affinità nella composizione e nell'”impaginazione”, oltre che nello stile. Inoltre per il fatto che facevano parte entrambe delle collezioni della famiglia Barberini, per poi prendere direzioni diverse, tutte ben documentate.

La tavola con “Storie di Santi”,  dai Barberini passò alla collezione Camuccini, poi a quella dell’inglese Algernon Percy, IV Duca di Northumberland,  che la portò  nel proprio paese nel 1835, poi è finita nella National Gallery londinese dov’è tuttora. Mentre la tavola con “Storie di Cristo” di Palazzo Barberini, dalla famiglia Barberini  passò alla collezione Sciarra, fino all’acquisto da parte dello Stato italiano nel 1897; è tornata a Palazzo Barberini dopo l’acquisto del palazzo da parte dello Stato e la collocazione nello storico edificio della Galleria Nazionale d’Arte Antica.

Oltre alle due tavole con le Storie dei santi e di Cristo  di Giovanni da Rimini  è esposta la tavola con  le “Storie della passione di Cristo” di Giovanni Baronzio, del 1330-35, quindi di qualche decennio successivo rispetto alle altre due opere, come prova dell’influsso che continuava ad esercitare il più anziano pittore riminese tra gli artisti della sua terra.

Una considerazione finale

Anche le “Storie della passione di Cristo” di Baronzio,  come le “Storie di Cristo” di Giovanni da Rimini, fanno parte della collezione di Palazzo Barberini; come. per Filippo Lippi, la “Madonna di Tarquinia” e “Annunciazione con donatori”.  Tale  collezione è una miniera inesauribile per le ricerche attivate dalla nuova direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica,  mediante  il “focus” su poche opere qualificatez. Ma,  pur nella sua vastità, la collezione non basta per tali ricerche, per le due mostre considerate si sono aggiunti prestiti da Urbino e Tarquinia, Empoli e Pisa,  Berlino e Cambrdge, Psrigi e New York per la prima; dalla National Gallery di Londra per la seconda. E’ di fondamentale importanza, quindi, il programma di reciproca collaborazione in atto con i più grandi musei, la National Gallery di Londra, il Metropolitan Museum di New York, il Prado di Madrid.

Il museo così acquista dinamismo e le sue collezioni guadagnano visibilità, inoltre focalizzare ricerche mirate su opere selezionate e coinvolgere il pubblico con mostre di questo tipo è un’operazione culturale meritoria che al rilevante aspetto scientifico unisce quello non meno importante di carattere divulgativo. E’ indubbiamente intrigante il passaggio dalla mera contemplazione museale alla condivisione di indagini storico-artistiche, per questo ci sentiamo di dire,  dalla parte dei visitatori, che questa strada va perseguita con sempre maggiore decisione.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Ventrone, nella mostra “Matrix” le sue nature morte, ad Amelia

di Romano Maria Levante

Ad Amelia (Terni),  nell’ex Collegio Bocciarini, originariamente collegio francescano del XIII-XIV secolo, la mostra “Luciano Ventrone . Matrix. Oltre la realtà”, presenta, dal 19 novembre 2017 al 25 febbraio 2018, un’antologica di 30 dipinti dal 1990 al 2017, insieme alla collezione archeologica del Museo tra cui la statua bronzea del generale romano Germanico e l’ara di Dioniso del I sec. a. C. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura Città di Amelia, e organizzata dall’Associazione Archivi Ventrone in collaborazione con Sistema Museo, è  a cura di Cesare Buasini Selvaggi che ha curato anche il Catalogo di Carlo Cambi Editore.   

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Una presentazione inconsueta quella della mostra di Ventrone. In un palazzo nobiliare romano Vittorio Sgarbi ne ha parlato in un incontro nel quale ha sciorinato i suoi ricordi e i suoi giudizi, rispetto all’artista e non solo. La presentazione è stata pirotecnica, come si può immaginare. L’artista  è nato a Roma e vive e lavora tra Roma e Collelongo, presso L’Aquila.

Ha esposto per la prima volta in una personale a Roma nel 1963alla galleria “Il Fanale”, in tutto ne abbiamo contate 75, di cui circa 25 all’estero, tra Oslo e Colonia, San Pietroburgo e Mosca, Londra e Shanghai, New York e Tokyo. Lemostre collettive con la sua partecipazione superano le 200, precisamente 205. La bibliografia è sterminata. I maggiori critici hanno scritto sui suoi cataloghi, citiamo solo Federico Zeri e Vittorio Sgarbi, Duccio Trombadori e Achille Bonito Oliva.

I giudizi di Vittorio Sgarbi e Federico Zeri

Ciò premesso, per una brevissima presentazione, chi è Ventrone per Sgarbi, che ha curato una sua mostra alla Mole Antonelliana di Ancona nel lontano 1999, e poi a Como   nel 2010, oltre a scrivere di lui nl catalogo  della mostra di Brindisi del 2001? Un “ostinato genetista , specializzato in nature morte di solare evidenza”. E’ un genere antico che l’artista, senza volerlo emulare, rinnova  facendone “un’impressione universale del mondo”. 

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Ma non è “iperrealismo” come si potrebbe credere per la nitidezza della composizione in cui “il rombo cromatico dell’immagine si rifrange contro il compatto silenzio del fondo nero”. Non lo è  perché non deforma nel mentre riproduce la visione fotografica. “La materia di Ventrone è impalpabile, trasparente come se fosse illuminata da dietro, più vicina alla diapositiva che alla fotografia”.Non è la riproduzione meccanica della realtà, perché si presenta “con una costante deformazione anamorfica e un’implacabile freddezza che denuncia la provenienza ‘concettuale’ della sua operazione”, La sua pittura, quindi, non è una mera derivazione dalla pittura classica e si può definire “pittura colta” che ha anche un “grande riscontro di interesse popolare”.

Dopo il giudizio del “presentatore” della mostra, è d’obbligo quello di Federico Zeri che dal 1983 si è interessato a Ventrone  dopo aver letto un articolo di Antonello Trobadori e gli ha suggerito di dedicarsi al tema delle “nature morte”, poi ne ha curato una mostra a Londra nel 1989 e scritto di lui nei cataloghi delle mostre del 1990 e 1992 a Roma e Brindisi. Per Zeri le nature morte di Ventrone “non sono prese direttamente dalla realtà oggettiva, ma dalla  sua riscoperta compiuta attraverso il meccanismo ottico della fotografia”.

Del resto, la nostra percezione è largamente filtrata da media visivi oltre che fotografici. “Nel lavoro di Ventrone questo filtro non è né abolito né ignorato; al contrario viene accentuato, ed è d’aiuto per raggiungere una riscoperta della trasparenza, della densità”, in modo da “rimanere in armonia con un ambiente che non è più quello tradizionale, ma quello alterato dalle macchine”.Anche Zeri parla dell’ “iperrealismo”, nel senso che se “le sue radici risiedono nel periodo, ormai sorpassato, dell’iperrealismo, è evidente che oggi i suoi lavori siano in grado di superarlo ampiamente e, quindi di evitarne le insidie”, in questo collima, a sorpresa, con Sgarbi.

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Il giudizio del curatore Cesare Biasini Selvaggi

Il curatore della mostra Cesare Biasini Selvaggi, che ha scritto di lui nei cataloghi delle mostre di Londra e Mosca del 2004, dopo aver esteso il concetto di bellezza dai canoni estetici  a qualcosa di più profondo, afferma che “osservando le sue opere appare subito evidente come l’artista abbia mirato più all’interiorità, nonostante esiti formali dall’apparente verisimiglianza fotografica”.  E spiega come Ventrone riesca a rivelare “la bellezza interiore, ‘sottocutanea’, che va all’essenza stessa delle cose”. 

Lo studioso vi trova un riflesso della “psicologia della forma”, la Gelstad, che prese piede all’inizio del XX secolo in Germania, secondo cui mentre i sensi trasmettono le sensazioni, la mente le organizza componendole in un “tutto”, quindi con un ruolo attivo e non una funzione passiva.  Seguendo questo processo di natura sensoriale, per l’artista “è di vitale importanza decostruire per ricostruire, conseguendo così un nuovo accesso al mondo e un’inedita visione della sua bellezza”. Ventrone lo ottiene con “la sfaccettatura dei piani e la loro disposizione secondo un ordine dettato da esigenze compositive”, ricomponendo la realtà dopo averne individuato con precisione quasi microscopica le singole parti. “Il risultato è come un’immagine riflessa in uno specchio, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi”. 

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Non si pensi a duplicazioni alla Warhol o artifici del genere, il risultato è non solo assolutamente figurativo ma tale da poter essere accomunato ai grandi capolavori classici delle “nature morte”, si pensi alla  “Canestra di frutta” di Caravaggio, la citiamo perché le opere di Ventrone sono per lo più cesti o vasi con frutta o fiori,  a parte quelli su ruderi antichi ai quali fa riferimento il sindaco di Amelia, Laura Pernazza, sottolineando il “silenzioso e nobile ‘dialogo’ tra i dipinti di Luciano Ventrone e i reperti archeologici della storia amerina”. Si  riferisce alla esposizione parallela in mostra, ma anche all’ispirazione che ne ha tratto dagli inizi degli anni ’80, li vediamo in 4 opere esposte del 1990-91.  “Nel suo universo dunque, commenta il sindaco, il passato non si rinnega, si studia, si vive, si racconta, si cita. Comunque si supera”. Eccome se si supera, il curatore addirittura si riferisce a quanto di più attuale ci sia, i “pixel”.   Perché l’artista ha usato la fotografia digitale, e prima quella analogica, come “punto di partenza, dal quale decorre l’astrazione del soggetto, che si priva del suo essere materia per divenire un reticolo pulviscolare dalle fattezze di punti luce e colore”. I “pixel”, colori codificati non visibili, riesce a coglierli successivamente “con la pittura raggiungendo il massimo grado di astrazione concettuale”.  Questo “senza, tuttavia, cedere mai alle lusinghe della letteratura e del sentimento”.

Ricordiamo che Sgarbi ha parlato di “provenienza concettuale” e di “pittura colta”, e Duccio Trombadori parla di “prova di oratorio”, della stessa “incorruttibilità di una memoria elettronica”, perfino di “gara con la cibernetica”.

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Altri giudizi di critici, da Bonito Oliva a Duccio Trombadori

Speculare  a tutto questo il giudizio di Achille Bonito Oliva, che ha scritto di lui sin dal 1997-98 in due cataloghi per le mostre di Bologna e Shanghai.Il critico, senza entrare nel processo compositivo che ha portato ad evocare la tecnologia fino alla cibernetica, considera quella di Ventrone una battaglia “contro la tridimensionalità cosmetica e cinetica della telematica” mediante “l’uso non feticistico, ma eticamente strumentale, del trompe-l’oeil”. La pittura, e in particolare la natura morta, dell’artista dà “la possibilità di ristabilire nell’uomo un tempo di sosta, di riflessione che la telematica tende a sottrarre con la sua capacità di soddisfare i ‘bisogni’ a distanza”.

Troviamo una concordanza con gli altri giudizi nella considerazione che “l’arte di Ventrone è investigazione, domanda, complicazione” e non semplice riproduzione quasi fotografica della realtà, come potrebbe sembrare a prima vista  “Natura da camera versus telematica” conclude Bonito Oliva, nel senso che “per Ventrone l’arte significa riaprire la camera, riportare l’uomo nello spazio problematico di una conoscenza senza fine”.

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Non è eccessivo questo giudizio, se dopo la Gelstad  citata dal curatore, troviamo la “Stilleben” nel commento di Paolo dell’Elce “, nel fatto che l’artista, “toccando i temi ontologici della presenza  e del visibile, muove da un astrattismo puramente formale degli inizi per approdare, negli anni Novanta, a un astrattismo concettuale”, così concorda con i giudizi dei primi due critici citati, ma parla anche di “deriva iperrealista”, Ponendo l’attenzione sulle “angurie spaccate e le melograne aperte” il critico lo lega al divenire, che va anche oltre il significato simbolico, ripensiamo ai frutti aperti nelle “nature morte” di Botero per sottolineare “il mistero della presenza delle cose”, in un senso esistenziale definito “più complesso”.

 Le immagini sono “trasfigurate esteticamente in una luce cruda e inquisitoria da ‘terzo grado'” per rivelare “ogni minimo dettaglio della dimensione esistenziale dell’oggetto”;  anzi, più che rivelare, per far “spalancare gli occhi”  su ciò che altrimenti non vediamo “per colmare quella distanza che ci separa, in quanto individui umani, da ciò che non siamo e non conosciamo”, Una eco dello “spazio problematico di una conoscenza senza fine” di Bonito Oliva. E questo va oltre la mera “restituzione della ‘vita silenziosa” della realtà quotidiana conosciuta superficialmente.

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Edward Lucie-Smith ha scitto di lui nei cataloghi per le mostre di Londra del 2006e 2008, 2013 e 2014, Montreal del 2012, New York e San Pietroburgo del 2010. In particolare afferma che  “le nature morte di Ventrone sono oggetti per la contemplazione, e offrono il tipo di passaggio verso gli stati contemplativi che prima erano solo di una pertinenza dell’arte religiosa”. Ma non viene negata la matrice tecnologica, anzi si afferma che l’artista crea “una fusione tra antiche credenze e magia tecnologica moderna” in senso metafisico, “parlano di unità con la natura”.

Invece Roberto Tassi definisce la sua “l’operazione più semplice cui un pittore si possa dedicare” e cita Caravaggio e gli infiniti pittori che si sono cimentati con le nature morte, ricordiamo la mostra che è stata  dedicata a questo tema alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Tale operazione consiste nello scegliere i frutti, ortaggi e fiori, metterli su un tavolo o in un cestino o un vaso, illuminarli e dipingerli, “lentamente, faticosamente”. E precisa: “Tutto questo è semplice, sostenuto solo dalla testarda umiltà di un poeta. Ma, come sappiamo ormai, non è semplice il significato”, per il contrasto tra le frutta e i vegetali con “il colore e la freschezza del momento, dell’attimo, del presente quotidiano” e gli accessori, specie se si tratta di un capitello antico, come quello nelle opere citate di Ventrone, che “contiene racchiuso entro la sua forma il sentimento del tempo”.Il critico parla anche del senso di profondità dato dalla “nera parete” che fa da sfondo alla maggior parte delle sue nature morte , come fosse uno “spazio del nulla”, ma “prelevato dalle profondità dei cieli”; e della luce, che “non è luce naturale né mentale, sembra venire da un diverso mondo o essere prodotta da un faro misterioso”..

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Abbiamo già accennato alla definizione di “prova di laboratorio” con riferimento all’elettronica di Duccio Trombadori, nel senso di “calligrafia quasi elettronica” ottenuta con “un insieme di partiture fredde con millimetriche armonie di nature silenti che sbocciano dal meccanismo ottico in cromatismi differenziati”. Ricordiamo che De Chirico ebbe a definire “nature silenti” e non “nature morte” le proprie composizioni sul tema, e ripensiamo ai “pixel” citati dal curatore in una collimante interpretazione.

Trombadori va ancora oltre nel descrivere il “bagno di luce ultranaturale” in cui la natura morta è immersa: “Il quadro si presenta come la gigantografia di una miniatura elaborata al microscopio per la piatta monocromia dei suoi fondi e per il punto di vista ravvicinato fin quasi alla forzatura del cono ottico”. E afferma: “A Ventrone piace vivisezionare la luce che mangia o produce il colore”. ,  La sua è una “micrometrica ricostruzione del dato di  natura” attraverso la superficie dipinta, il contorno e il fluire della luce, e “in questo passaggio fotoelettrico la percezione della assoluta relatività di spazio e tempo conta assai più del disegno per determinare il trionfo dei colori”.Il tiolo dato dal critico al suo commento è eloquente, “Il Mistero della Evidenza”.

I “mille pennelli” di Ventrone descritti da Sergio Zavoli

I  critici citati finora hanno sottolineato una serie di aspetti della pittura di Ventrone, alcuni riferendosi alla tecnologia anche nei suoi aspetti specialistici, altri al cromatismo e alla luce, chi ha parlato di complessità chi di semplicità.

Sergio Zavoli, autore di testi per i cataloghi delel mostre di Bologna del 2004 e New Yrg del 2008,  ha un approccio diverso, con cui chiudiamo questa carrellata di giudizi da parte di autorevoli critici. Parla di una sua visita all’atelier del pittore a Collelongo vicino L’Aquila, tra cavalletti e tavolozze, colori e soprattutto pennelli.  Definisce “rarità quasi sovrana il numero, la foggia, la misura dei pennelli. In un batter d’occhio ne vedi alcune centinaia e non mi stupirei se fossero mille e più ancora. Sono tutti in fila, dai piccolissimi ai piccoli, ai grandi”. Ci sono anche quelli in disuso che “continuano a vivere alla pari degli altri, come tante presenze sottilmente totemiche”.

Non ci sentiamo di omettere la loro descrizione, tanto è pittoresca, se si può usare questo aggettivo: “Sono esili, soffici, fino a diventare folti  e compatti ed essere un pennello vero  e proprio, d’artista, da usare a braccio fermo, con tre dita soltanto, come una piuma o un bisturi”. Ed evoca il gioco dello “Shangay” con la raggiera di pennelli sul tavolo: “Bisogna vedere con quale ritualità si svolge la scelta del pittore, e dopo l’uso l’abbandono, senza dubbio, un pentimento, una nostalgia”.

Dopo le “nature morte”, vive anche se “silenti”, vivono anche i pennelli, e vive la composizione illuminata da una luce che, nelle parole di Tassi, “blocca, candisce, tormenta, cristallizza e congela quella frutta, quelle foglie, quelle verdure”; e nelle parole di Trombadori, “luce e colore assumono unità in una forma armonica e omogenea, all’improvviso riconoscibile e familiare per lo spettatore”.

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Le  nature morte esposte in mostra, per lo più con frutti, alcune con fiori 

Dopo tanti giudizi critici, passiamo in rapida rassegna le opere esposte:  9 al piano terra del Museo, 7 delle quali recenti e 2 dei primi anni ’90 con i vegetali poggiati sui reperti archeologici dell’antica Ameria;  20 dipinti recenti ai piani superiori dove sono in vista anche i reperti archeologici con iscrizioni funerarie di illustri famiglie armerine tra cui la Gens Roscia di cui parla Cicerone.

Il titolo della mostra, “Matrix”, con il suo riferimento alla matrice che genera, allude, come indicano gli organizzatori, a “una sorta di realtà simulata dagli atomi che organizzano ogni cosa intorno a noi, nel mondo fisico o in natura”. Per questo motivo i soggetti delle composizioni “non vanno visti come tali, ma astrattamente, nella traduzione pittorica della loro struttura atomico-molecolare”. Ne deriva che “per la loro comprensione è richiesta prima un’osservazione ravvicinata, quasi da microscopio, per poi allontanarsi dai dipinti. Prendendone le distanze”.

Soltanto per mettersi alla distanza giusta, dato che non si possono prendere le distanze in senso lato da opere che quanto abbiamo riportato dei giudizi dei critici d’arte rende quanto mai intriganti.

Notiamo che tutte hanno dei titoli ben precisi, nessuna quello generico di “natura morta”,  e questo prova i contenuti profondi evocati da qualche critico, le dimensioni vanno da 60 x 50 a 100 x 100. Le prime 4 sono le più lontane nel tempo, dal 1990 al 1992,  intitolate “Quella luce di Amelia” e  “L’altra luce di Amelia”, “Moon light” e “L’ora felice”, recano bene in vista il rudere funerario di pietra con ampie volute sul quale è poggiata frutta con ortaggi, in 3 di loro spicca il rosso della fetta di cocomero sbocconcellata. Sono tutte con lo sfondo nero.

Troviamo le natura morte con frutta anche su sfondo chiaro, e non sembra esista una correlazione con il contenuto della composizione. Infatti le ciliegie le vediamo con lo sfondo chiaro in un vaso di vetro nell’opera “Voci“, 2015, e con lo sfondo scuro quasi nero in un cestino in  “Coerenza geometrica”, 2015-17. 

Neppure il contenitore della frutta è alla base della scelta dello sfondo perché ha lo sfondo scuro lo stesso vaso di vetro delle ciliegie, ora pieno di uva debordante nell’opera “Accordi”, 2015.  Ugualmente  per il cestino che invece delle ciliegie contiene noci, castagne e noccioline  in “Forme nella luce”, 2017. Così, sfondo chiaro nel cestino con l’uva di “Bacco”, 2009, e in quello con limoni e arance, alcune delle quali aperte,  di “Universi”, 2012-17, nel cestino colmo di  uva e arance, pere e mele con un pomodoro in “Ombre impalpabili“, 2017,  e in quello con uva e arancia aperta, una fragola e due nespole  in “Senza stagioni”, 2017;  lo sfondo scuro in “Memorie”, 2014-17 con uva e una fragola, metà arancia e un melograno aperto, motivo ricorrente, come si è detto. 

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Dai vasi di vetro e dai cestini ai vasi istoriati, ce ne sono 3 con delicate volute celesti, in “Assonanze”, 2015, i soliti uva e mela, metà melograno e un pomodoro;  negli altri due, entrambi intitolati “Antichi sapori” e datati 2011-17, soltanto mele di diversa intonazione cromatica, sempre molto sfumata nella rotondità dei pomi. C’è anche un cestino metallico a strisce alternate ad aperture, contiene solo due limoni e un grande melograno aperto, è intitolato “Diversi”, 2017.

Sono senza contenitori, cosa che consente di dispiegare i frutti e vegetali sull’intero fronte del dipinto,  le  altre composizioni.  Distese su una roccia con sfondo chiaro le cipolle di “Scaramanzia”, 2012-14, e con sfondo scuro i tanti piccoli frutti con la  metà aperta di un enorme frutto, sembra un melone,  in “Senza motivo apparente”, 2017; distese su una tela di sacco appena visibile l’uva e le fragole, la mela e la solita metà arancia in “Riposo”, 2011-16            .

Nessun supporto invece, neppure minimo,  in “Amalfi”, 2011-17, solo limoni, una diecina, di cui 4 aperti in primo piano su sfondo chiaro, e in “Falò”, 2009, con metà cocomero e intorno fette sbocconcellate su fondo scuro, il titolo evoca l’incendio cromatico.Altrettanto incendiari “Le sorelle”, e “Atomi successivi”, del 2015, questa volta è il melograno su sfondo scuro a sprigionare i suoi bagliori di un rosso brillante, nel primo due melograni aperti in primo piano e uno dietro, nel secondo il frutto è squadernato aperto  e mostra i chicchi della sua “balausta” in tutta l’estensione del dipinto come una gigantografia materica.

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Fin qui i frutti, ma ci sono anche 7 dipinti con i fiori, uno solo senza contenitore: si tratta di “Le mimose”, 2016, su fondo nero sono frammiste a fiori rosa e arancio prevalenti.

Altri 6 dipinti con un contenitore, in 3 di essi il vaso ha  rilievi classici: Vi sono rose rosse e rosa, gialle e bianche in “Musica latente”, 2012.17, e in “Note di colore”, 2014-17; anche in “Linea di pensiero”, 2013-14, ma qui il contenitore, sempre con rilievi classici,  è cilindrico e non svasato come gli altri due., “Musica” e “Linea di pensiero” sono su sfondo chiaro, gli altri su sfondo scuro.

Stesse rose in “Regine e reginelle”, 2015, e “Urbe”, 2015-6, mentre in “Dedalo”, 2015, solo fiori rosa e bianchi, queste tre opere hanno vasi diversi senza rilievi e lo sfondo scuro.

 La realtà tangibile che sembra immaginaria

Che dire, in conclusione? Non possiamo nascondere che  ci sono tornati in mente i  dipinti con uguale tema visti nella mostra dei 2014 al Vittoriano di Orlando Ricci, scomparso il 14 luglio 2016,  definiti “iperrealisti”. Chiameremmo così anche i dipinti di Ventrone  se per lui il discorso non fosse più complesso, come si è visto. Ma sentiamo in quei frutti  e in quei fiori la stessa impressionante evidenza visiva iperrealistica.

Nell’ammirarli,  una forza ci spinge  a prendere in mano il grappolo d’uva, come avveniva quando guardavamo quelli di Ricci. Ci ferma l’interrogativo posto dal curatore: “Chi mi assicura, a questo punto, che ciò che vedo esista, oltre che nella mia testa come idea, anche nella realtà”.

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Museo Civico Archeologico e Pinacoteca “Edilberto Rosa”, Piazza A. Vera 10, Amelia (TR). Venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10,00-13,30 e 15,00-18,00, prefestivi 15,00-18,00. Infoline 348.9726993, call center Sistema Museo 199.151.123. Catalogo bilingue italiano-inglese “Luciano Vetrone. Matrix. Oltre la realtà”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, 2017, pp. 96, formato 24 x 28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo., Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su Botero, 2, 4, 6 giugno 2017 e 25 marzo 2016,  Warhol  15 e 22 settembre 2014, De Chirico 20 e 26 giugno 2013, 17 e 21 dicembre 2016,  Caravaggio 27 maggio 2016, 6 giugno 2013,  Ricci, 27 giugno 2014; in cultura.inabruzzo.it, su  De Chirico 8, 10, 11 luglio 2010,  Caravaggio 8, 11 giugno e 21, 22, 23 gennaio 2010  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); a stampa in “Metafisica” della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, n.ro 11-13 del 2013, pp. 403-18 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”

Foto

Le immagini sono  tratte dal Catalogo, si ringraziano gli organizzatori della mostra e l’Editore, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, “Universi”, 2012-17; seguono, “Accordi”,  e “Ombre impalpabili”, 2017;  poi “Voci”, 2015, e “Bacco”, 2009; quindi, “Forme nella luce”, 2017, e “Musica latente”, 2012-1; inoltre,”Coerenza geometrica”, 2915-17, e “Regine e reginelle”, 2015; ancora, “Memorie”, 2014-17, e “Dedalo”, 2015; infine, “Senza motivo apparente”, 2017, Le sorelle”, 2015, e “Generosa 2”, 2014; in chiusura, “Falò”, 2009.  

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Passalacqua, Fiabe e leggende nell’antologica al Vittoriano

 di Romano Maria Levante 

Al Complesso del Vittoriano, dal 15 dicembre 2017 al 14 gennaio 2018,  la mostra “Lina Passalacqua. Cosmico dinamismo”  espone circa 130 opere tra le 20 della serie più recente “Fiabe e leggende” e le altre dei cicli precedenti, da  “Le Quattro stagioni” oggetto di una mostra tematica nello stesso Vittoriano nel 2013 ai “Voli”, le “Vele” i ciclidei decenni dagli anni ’60 al ‘2000, fino all'”Arte sacra”, ai “Ritratti” e  ai “Flash”. La mostra, che si svolge nell’ala Brasini, Sala Giubileo, è a cura di Carlo Fabrizio Carli, che ha curato anche il catalogo di Gangemi Editore International,

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Un’esposizione dai colori sfolgoranti, sciabolate cromatiche e luminose che hanno allietato le festività dei visitatori, dopo lo spettacolo non certo esaltante dell’abete natalizio spelacchiato di Piazza Venezia e degli addobbi smorti di Via del Corso. Benvenuta l’arte che rianima e ravviva!

Nel commentare la mostra del 2013 al Vittoriano con 40 dipinti sul tema “Le quattro stagioni”, realizzati nei tre anni precedenti,  riportavamo le parole di Carmine Siniscalco: “Ce l’ha fatta Lina Passalacqua a realizzare il suo sogno: dipingere un ciclo concepito quale epilogo di una vita dedicata alla pittura per vizio e passione”.  Ma, scusandoci ora dell’autocitazione,  aggiungevamo: “Un epilogo che è solo una nuova tappa, data la vitalità dell’artista e la sua storia personale”. Ebbene, avevamo visto giusto perché  l’attuale mostra è imperniata sulle opere successive, addirittura di un nuovo ciclo, “Fiabe e leggende”, realizzate anche queste nel triennio precedente l’esposizione nella stessa prestigiosa sede del Vittoriano, che se si estende alla antologica dell’intera vita artistica.  

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L’artista conferma la predilezione per i cicli pittorici decennali, che prima delle “Quattro stagioni” avevano visto i “Voli”, prima  ancora le “Vele”, e i cicli dei decenni precedenti, “anni 90” e “anni ‘80”, “anni 70 e “anni ‘60”, fino all’“Arte sacra”, ai “Ritratti” e ai “Flash”,  tutti  nella mostra.

Una vita artistica lunga e movimentata, dunque, nella quale, oltretutto, la pittura ha seguito l’iniziale attività di attrice su opere teatrali di Goethe e Shakespeare, di Testori e Verga, con i più grandi attori come Memo Benassi e Annibale Ninchi, Turi Ferro e Umberto Spadaro, del quinquennio 1957-62 nel quale ha calcato le scene, prima di dedicarsi interamente alla pittura e all’insegnamento in scuole d’arte nelle Marche e nel Lazio fino all’approdo a Roma alla cattedra di Discipline pittoriche al 1° Liceo Artistico Ripetta.

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Ma della sua vita, come delle numerosissime esposizioni personali e dei riconoscimenti ottenuti abbiamo già parlato a suo tempo in occasione della mostra del 2013. Questa mostra, a differenza della precedente, oltre a dare conto della più recente produzione, è un’antologica che presenta  i vari cicli  artistici, che ripercorreremo dopo aver sottolineato gli elementi comuni.

Freschezza ed entusiasmo, futurismo, “astrattismo di matrice lirica” e “presenza figurale”

Sul piano umano spicca l’atteggiamento che sempre Siniscalco ha definito “la freschezza e l’entusiasmo di una neofita che non rimpiange l’ieri ma vive il suo oggi guardando al domani”. Anche qui una conferma di quanto già avevamo notato per le “Quattro stagioni”, nate da un’osservazione della nipotina Sara sul loro susseguirsi, ciascuna con i propri colori; bastò questo accenno perché l’artista lo sentisse come una sfida che raccolse dando questa risposta:  “Picasso diceva che ‘occorre una vita per diventare bambini’. Io con te lo sono diventata”.

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Ora è andata oltre, quello che poteva essere l’epilogo è stato superato da un ciclo ancora più legato ai bambini, dando corpo maggiormente alla massima picassiana. Perché questa volta si è ispirata alle favole infantili, oltre alle leggende che si possono definire favole per adulti. E ci vuole freschezza per immedesimarsi ed entusiasmo per impegnarsi, gi stessi stimoli che l’hanno portata ai cicli precedenti, altrettante sfide raccolte.

Non è soltanto una “forma mentis”, nè un atteggiamento, ma una vera e propria modalità espressiva che nasce dai bozzetti realizzati con piccole tessere variopinte di varia natura, come in un gioco di puzzle che richiede la freschezza quasi infantile unita all’entusiasmo nella composizione. Questi bozzetti nella mostra accompagnano spesso i quadri a olio che ne sono derivati, ponendosi peraltro come opere a sé stanti, e non meri studi preliminari superati dall’opera finita: sostituire le pennellate con petali, carte colorate o frammenti di fotografie è un altro modo di fare arte.  

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Come si traduce tutto questo nell’espressione artistica? L’altro elemento comune è un cromatismo brillante, anzi rutilante nelle sue sciabolate di colori giustapposti in contrasti che rendono il senso di un dinamismo vitale, quali che siano i soggetti nei diversi cicli. E’ una evidente matrice futurista vissuta in chiave personalissima che dà all’artista l’ulteriore merito di essere sempre sfuggita, in oltre mezzo secolo di intensa attività pittorica, al fascino delle tante avanguardie per ancorarsi al patrimonio pittorico forse più originale che il nostro paese può vantare nell’epoca moderna, quello del futurismo; e lo ha fatto ben prima dello sdoganamento, per così dire, seguito a un’innegabile forma di ostracismo che per tanto tempo ha oscurato tale corrente artistica italianissima.

I riconoscimenti a questo riguardo non sono mancati, nel 1998  e nel 2008, allorché  le viene conferita dal Presidente della Repubblica  una medaglia con ls motivazione che “Lina Passalacqua rappresenta una delle più illustri continuità del linguaggio futurista…”. Segue, nel 2009, il “Premio per il Neofuturismo”  alla Biennale d’Arte di Lamezia Terme, e la partecipazione alle mostre “Futurismo nel suo centenario, la continuità” a Lecce fino all’ultima mostra ed esposizione permanente nella “Sala dei futuristi calabresi” aperta da Umberto Boccioni.

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Abbiamo detto che rivive il futurismo in chiave personalissima, con l’apporto di evidenti elementi dell’astrattismo, in un contesto travolgente di cromatismo rutilante e  dinamismo compositivo.

Così ne parla Maria Teresa Benedetti, che curò la mostra sulle “Quattro stagioni”:  “L’eredità futurista si ritrova nell’energia plastica, nel fluire dinamico del segno, nell’eliminazione di strutture rigidamente prospettiche, nel tendere della visione all’infinito, nel premere di forze che sembrano volere uscire dal dipinto”. Si aggiungono gli apporti di un astrattismo anch’esso particolare che in quanto tale riesce ad essere complementare al futurismo: “L’adesione a un astrattismo di matrice lirica si manifesta nel senso di libertà del ‘ductus’ pittorico, nell’individuazione di una capacità espressiva che superi ogni suggestione naturalistica, nell’importanza attribuita allo spessore di un colore compatto e squillante, che riflette una risonanza interiore”. 

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Il curatore della mostra attuale Carlo Fabrizio Carli, conviene sulla compresenza di futurismo e astrattismo  ma  riguardo ai casi in cui “la presenza figurale è ridotta al minimo”, che ci sembrano prevalenti, osserva: “Eppure ritengo che la pittura di Passalacqua resti, anche in questi casi, di istanza perentoriamente figurale a tal punto che le motivazioni concretiste vengono meno rispetto alle pulsioni del vero fenomenico, che la pittura della nostra artista assedia con urgenza non eludibile”. Vero fenomenico che non è l’apparenza visibile ma la realtà rivissuta dall’artista.  

Il ciclo più recente, “Fiabe e leggende”

Dopo alcune opere introduttive  che accompagnano all’ingresso, nella sala principale si è subito in presenza della grande novità costituita dal ciclo “Fiabe e leggende”, del 2015-17.  Nelle 20 opere esposte si trovano frammenti figurativi  percepibili, inseriti nell’esplosione cromatica e nel dinamismo compositivo di marca futurista con elementi di astrattismo, tre stili integrati mirabilmente nella difficile sfida di rendere gli stupori e le illusioni, la fantasia e la sensibilità infantile. Possiamo dire che l’artista ha vinto questa sfida, proprio per l’entusiasmo e la freschezza che la contraddistingue,  fattori  indispensabili per immedesimarsi in un mondo così particolare.  Un mondo da non considerarsi minore,  per il significato profondo e i messaggi trasmessi dalle favole, al di là dell’apparente semplicità e ingenuità delle vicende che sorprendono la sensibilità infantile.

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L’elemento figurativo è in maggiore evidenza nelle due versioni di “Pinocchio”: un grande olio su tela del 2016 con l’inconfondibile figura del burattino in alto a destra con dei riquadri colorati nel corpo, tra intensi piani cromatici in cui si intravedono altre figure, e un piccolo  collage su carta in cui si vede chiaramente la figura del burattino che si muove deciso,  a terra una maschera.

Ritroviamo l’ornamento carnevalesco  in “La maschera  e il volto”,  un figurativo altrettanto marcato in cui la maschera viene sollevata dal volto di cui colpisce l’incarnato rosa con i grandi occhi, sempre all’interno di un cromatismo molto intenso.  Così “Malefica”  e “Specchio delle mie brame”, oli su tela in cui il figurativo è dominante come in”Pinocchio”, con i due volti che occupano il centro del dipinto, intrigante il primo scuro e aggrottato, misterioso il secondo coperto da un maschera chiara.  Queste due ultime,  inserite nel ciclo, sono “meno positive  e scontate, osserva  Carli. Non  a caso, al loro proposito, Passalacqua evoca l’immagine della maschera, pronta ad occultare i lineamenti del volto,a dare vita a una continua alternanza di verità e di finzione: una realtà metamorfica, com’è metamorfica la vita”.

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Sono, in fondo, le più tenebrose,  tutto torna nella chiarezza adamantina della freschezza unita all’entusiasmo in “Peter Pan”, dal dinamismo estremo reso dalla proiezione verso l’alto dell’esplosione di un verde intenso con sprazzi bianchi come nell’avvento della primavera. Stessa sensazione dinamica ed esplosiva in “L’uccello di fuoco”, invece del verde il rosso e l’arancio, non si punta verso il cielo ma verso la terra, ci ricorda specularmente l’avvento dell’estate .

La dominante rossa anche in “Il bosco incantato” e “La lampada di Aladino”,  in cui invece del prorompente dinamismo si sente l’elaborazione fantasiosa, nell’intrico cromatico del bosco e nelle spire che evocano la magia del gigante che esaudirà qualunque desiderio, il sogno di tutti i bambini.

Dai colori caldi, anche ardenti, alle tinte fredde in “Il soldatino di piombo” e nelle tre opere più recenti, del 2017, “Il principe azzurro”, “La fata turchina” e “L’uccellino azzurro”: nella “Fata turchina” spicca  la “presenza figurale” di cui parla Carli..

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Nei “Tre porcellini” e in “Alice nel paese delle meraviglie”  bastano delle forme apparentemente indistinte ad evocare le fiabe, ma non si cerca la presenza figurativa, presi dall’esplosione cromatica  che in entrambi è notevole.

Si resta con un interrogativo, chissà quale intimo richiamo interiore porta l’artista a modulare la presenza figurativa  nel contesto futurista e astrattista lirico della composizione?  La risposta non può darla, crediamo, neppure l’artista, dato che è evidente come sia trasportata dall’impeto creativo.

Abbiamo lasciato per ultima la distesa di sabbia, mossa e variegata, con delle piccole sagome appena delineate, dell’opera nata dalla leggenda araba che l’artista ci ha invitato a considerare con molta attenzione, “La nascita del deserto”.  Un granello di sabbia lasciato cadere dalla divinità per ogni cattiva azione degli uomini ed ecco che il verde lussureggiante – ci torna in mente com’era ubertosa l'”Arabia felix”  – lascia il posto al deserto inospitale. 

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Con una battuta impertinente abbiamo osservato che l’Europa – e tanto più il nostro Abruzzo, “la regione verde d’Europa” – sembrerebbe la terra delle buone azioni mancando i deserti, ma il nostro è un dio diverso che evidentemente ha punito l’uguale cattiveria in un altro modo. A parte le battute, l’immagine è coinvolgente con il giallo arancio abbacinante, come nel film “Lawrence d’Arabia”.

Il ciclo precedente, “Le quattro stagioni”

Nelle  “Quattro stagioni”, del 2010-13, pur nell’incrocio tra futurismo e astrattismo che dovrebbe portare a forme incorporee segnate solo dalla luce e dai colori, si avverte una intrinseca plasticità che fa sentire la presenza viva  e non solo virtuale della natura. E nel contempo ne rende la sublimazione in qualcosa che va oltre la percezione sensoriale perché attiene ad un’altra dimensione, quella dello spirito e della fantasia.

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Sono circa 20 le opere che esprimono queste sensazioni, 5 per ogni stagione. Al verde prevalente della Primavera, in tante tonalità che rendono le diverse fasi del “risveglio”, segue l’incendio cromatico dei “rossi” dell’Estate, anche qui con modulazioni e irruzioni cromatiche, che si spegne nel giallo e marrone dell’Autunno, sempre variegato e mutevole, fino all’azzurro-ghiaccio e al bianco dell’Inverno, con “le ultime foglie”  che con i residui di verde chiudono il ciclo.

Pur con queste prevalenze cromatiche, la variabilità delle opere rappresentative delle singole stagioni è notevole, prevalgono i fiori come elemento simbolico, lo sottolinea Carli: “Un fiore, si sa, è appena un frammento minuscolo della realtà, fragile ed effimero, eppure in quel microcosmo si specchia il macrocosmo, può affacciarsi il Tutto”.

Vediamo questi fiori nel verde di “Primavera” in “Germoglio”e “Fresie”, in “Annuncio” e “Risveglio”, mentre  in “Divenire”  tra le e tonalità di verde e gli sprazzi chiari  irrompe un rosso violento, anticipando l’estate. 

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 A a sua volta “L’estate”  presenta “Gli ibicus del mio giardino”, in un rosso squillante ancora più esplosivo negli evocativi ““Tramonto a Nettuno”  e “Cielo infuocato”, “I colori dell’estate” ed “Energia”. L’“Autunno”  è rappresentato, nelle tonalità che ricordano le foglie secche cadute dai rami, da “Fogliame”  e “Profumo della terra”, “Nuvole” e “Magia d’autunno” , non è stagione di fiori, ma l’artista non li dimentica, ed ecco accendersi i i “Petali di rosa” .E’ un ultimo sprazzo di calore, l’ “Inverno”  nelle fredde tonalità cromatiche incombe con “La voce del vento” e il “Silenzio”, i “Riflessi di ghiaccio” e la “Valanga”, vengono i brividi finché “Le ultime foglie “ esprimono la resistenza alla natura inclemente in vista della primavera.

La visione d’insieme che si ha ponendosi al centro dello spazio espositivo è suggestiva, ci si sente circondati dalle forze della natura nel loro manifestarsi in una tempesta cromatica che diventa uno tsunami travolgente.   

Ancora indietro,  “I voli” e “Le vele”

Indubbiamente la serie “Le quattro stagioni” è stata preparata da quella dei “Voli”,  2003-06, entrambe animate dallo stesso dinamismo cosmico: forme a luce sono strettamente compenetrate nell’interpretare i fenomeni naturali con la vitalità futurista unita al lirismo dell’astrazione che traduce l’evento esteriore in emozione interiore. Nei “Voli” il soggetto sono i 4 elementi della filosofia classica,  Aria, acqua, terra e fuoco, che sono il fondamento di tutto. 

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 “Al sogno dell’immensità cosmica corrisponde, – osserva  la Benedetti riportando le parole di Gaston Bachelard – il tema della immensità interiore”.  E lo spiega: “L’artista istituisce una dialettica serrata fra natura e coscienza, allude a una continua capacità di evoluzione e rinnovamento, articola le immagini secondo un impulso felice ed estroso, in una sfida esigente nei confronti della propria ricchezza fantastica. Propone traiettorie di segni sorrette da linee luminose, sublimate in essenza dinamica”.

L’“Aria”  è evocata da forme mutevoli e mobili, come scosse dal vento. In “Turbinio” e Fremito”,  “Volerò come un gabbiano”, “Voli” e “Lassù una stella”, l’intrico di forme e colori rende il senso del volo e lo slancio vitale, insieme con il senso dell’ignoto. Nell’ “Acqua”  evocata nella superficie e profondità, si percepisce la presenza figurativa  in “Addii”, “Alghe” e “Abissi”;  quest’ultimo con una sciabolata di luce verticale che ricorda le cascate di Hokusai, mentre in “Dal mare” e “Notturno”  il blu intenso dell’acqua è rischiarato da fiotti di luce bianchissima.  La “Terra”  ha tonalità ombrose, intime, ma anche macchie di luce, in “Vento” e “Vortice”  si esprime tutto il dinamismo futurista, in “Vita” e “Silenzio”  immagini luminose quanto enigmatiche si muovono nell’oscurità,  in “Terra” un battito d’ali evoca lo slancio nell’elevarsi dal suolo.  Infine il  “Fuoco”  è un incendio cromatico di luce e di calore, festoso e vitale  nel rosso senza variazioni, percorso da  forme allungate in  “Icone”, “Tensione” e “Fuoco”, rotondeggianti in “Misteri”, “Visione” e “Alba”.

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 Con le “Vele”, 1993-97, si entra in una materia allegorica, come osserva Carli, nel ricordare la sua presentazione della relativa mostra nel 1999: “Gonfiare le vele è espressione sinonimica della partenza, dell’avvio dell’umana avventura, degli Argonauti che puntano temerari oltre le colonne d’Ercole, al di là di terre e  mari allora conosciuti”. Sono “associazioni simboliche” esplicite in “La vela di Ulisse” e “Vele sul Nilo”,  “Verso la libertà” e “Vele di fuoco”; mentre l’elemento cosmico, evocato nell’opera omonima, torna in “Tramonto” e “Nel sole”,  “Ombre”  e  “Riflessi”, “Notte magica” e “Trasparenze”.  La maggior parte con dominante rossa , soltanto “La vela di Ulisse” e “Trasparenze”  con dominante blu, a riprova che non è tanto la natura il riferimento delle opere, quanto le “valenze mitiche” evocate, fino al “folle volo” dantesco.

Dagli anni ’90 agli anni ’60

Andando oltre le tematiche fin qui illustrate, che arrivano agli anni ’90,  la retrospettiva  abbraccia addirittura altri tre decenni  di intensa attività artistica nei quali le presenze figurative sono sempre più evidenti man mano che si va all’indietro nel tempo.  Le troviamo nei 4 “Frammenti” del 1992, delle ruote e un’immagine femminile, in “Le palme dell’oasi” con il ventaglio di foglie e, negli anni ‘2000,  nei visi dall’espressione intensa in “Cleopatra, più forte della morte”, 2002,  e “Nei meandri della bellezza”, 2015, bellezza evocata dalle trasparenze dietro cui si delinea il corpo della Tosca di Puccini in “Le belle forme disciogliea dai veli”.

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Negli anni ’80 abbiamo lavori nati dall’emozione del momento, nei quali la presenza figurativa è dominante.  Così lo sportello dell’automobile  di “Uno spiraglio di luce in uno stato di angoscia”, 1982, e i due visi diafani in “Nozze d’argento”, il volo della donna che si eleva sulle banalità in “Liberati dalle pastoie! Esisti!”, 1984,  gli elementi identificativi in “La luna fa capolino tra i boschi di Cesiano”, e “Frammenti nello spazio”, entrambi del 1984;  negli ultimi anni del decennio, 1988-89  i particolari figurativi sono meno evidenti, anche se percepibili, in “Traguardo” e “La motoretta”, “Movimento” e “Mischia”, mentre in “Schegge di memoria”, 1988, due figure femminili e due volti maschili sono inseriti tra i consueti intriganti viluppi cromatici.

Di sorpresa di  sorpresa, negli anni ’70 abbiamo dei “Bassorilievi”, 1972-73, in legno, e un’altra serie di opere ispirate dalla quotidianità, però lontane dal figurativo: sono gli anni dell’ “Omaggio a Balla”, che segna l’ingresso dell’artista nel futurismo, prevalgono le segmentazioni geometriche con cromatismo armonizzato e non contrastato come nelle opere successive. Ecco i titoli: “Bosco” e “A Pezzara”, “Frammenti meccanici” e “Autunno”, “Costruire (paravento” e “Sinfonia”.

Il figurativo è la forma espressiva iniziale, pur con inflessioni cubiste nei volumi, lo vediamo soprattutto nel “Panorama di Sant’Eufemia d’Aspromonte”, 1960,  e nel “Cortile dei cugini Grilli”, 1962; sfumate le vedute degli “Altipiani di Aspromonte”,1960, e “Dal terrazzo di Via Laura Mantegazza”, 1965.  Da queste vedute inizia il viaggio artistico di un sessantennio.

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Le tematiche senza tempo: “Arte sacra”  e “Ritratti”, fino ai “Flash”   

Abbiamo  detto che nei diversi periodi della propria vita artistica la Passalacqua si è concentrata su precise tematiche, dai “Voli” e le“Vele”, alle “Quattro stagioni” fino a “Fiabe e leggende”,  in genere non tornando sugli stessi temi dopo essere passata ad altri.

Non è stato così per le tre ulteriori espressioni artistiche con cui concludiamo il nostro racconto della mostra e dell’arte della Passalacqua: l'”Arte sacra”, i “Ritratti” e infine i “Flash”.

Per l’“Arte sacra” si va da “E venne un uomo”, “Paolo VI”,  “Calvario”,  “Calvario tecnologico”, 1968-71,  ad “Armonia”,  “Calvario oggi”, “Dolore cosmico”, 1984-87,  fino a  “Il verbo si è fatto carne”, 1989.  I più antichi a inchiostro e acquerello, gli altri a olio: “Calvario oggi” lo accostiamo alla “Crocifissione” di Guttuso,  “Dolore cosmico” è struggente nell’immagine della “deposizione” in un figurativo con sprazzi futuristi; che sono prevalenti in “Il verbo si è fatto carne”, sul quale Carli  afferma: “Non è eccessivo parlare di capo d’opera: Fillia l’avrebbe sicuramente inserito in un ideale repertorio di arte sacra futurista”

I “Ritratti” vanno dal 1963 al 2017, soprattutto  in carboncino su carta, come “Mia madre” e “Dos Passos”, “Henry Furst” e Carlo Alianello”, tutti del 1963; in matite anche colorate su carta,“Mario Verdone”, 1988 e, negli anni ’90, “Fiammetta Jori” ed “Elena Sofia Ricci”, “Mia figlia Laura” e “Mia figlia Livia”, fino al critico “Renato Civiello” e, nel 2001, “Giorgio di Genova”. Ritratti disegnati con ombreggiature e chiaroscuri, volti e busti visti al naturale. 

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 Negli oli, invece, i ritratti fanno parte di composizioni futuriste, come in “Autoritratto” e “Ritratto di Katia Luisi“, mentre nel “Ritratto di Carlo Bilotti”  e nel “Ritratto di Edvige Bilotti Miceli”  vi sono dei multipli alla Warhol, nel primo anche con la solarizzazione,  ma non incasellati geometricamente bensì inseriti in un intrigante contesto di atteggiamenti e richiami alla memoria.

L’ultima serie senza tempo è quella dei “Flash”, che accompagnano l’intera produzione artistica della Passalacqua, tanto che nella mostra loro dedicata ne furono presentati circa 70  ordinati per decenni, dagli anni ’60 agli anni ’90,  e nella mostra attuale una diecina rappresentativi degli stessi decenni: si va dal “Centennale dell’Unità d’Italia”, “Mele” e “I media” degli anni ’60, a “Maternità” e “Incidente”, “Lo specchietto delle allodole” e “Il negativo e il positivo” degli anni ’70-‘80,  “Fermare il tempo” e “Lisa”, “Abbraccio” e “Stelle marine” degli anni ’90.

Sono ispirati alle sensazioni immediate dell’artista la quale, in un colloquio con Enzo Benedetto  del 1989, ha detto di essere “impressionata dai flash della nostra epoca, dalle ‘schegge’ di vita che ci colpiscono continuamente”, allorché “tutto appare frammentario, anche i sentimenti” e ha concluso: “Vivo in una società fatta di flash, che rischia di perdere la memoria storica e, forse, anche quella morale”.  La mantiene in vita l’artista, col ricorso alla Pop Art oltre che al futurismo e all’astrattismo lirico legati alle “presenze figurali”. 

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Descriviamo i disegni-pittura con le parole di Renato Civiello: “C’è tanto delicato vibrare di motivazioni colloquiali, pur nella persistenza della metafora e dell’analogia allegorizzante, c’è tanto flusso patetico sotto la generosa vendemmia delle forme, tanto calore di avvertimenti dietro le smaglianti fughe della illusorietà fenomenica, che l’approdo d’arte è interamente abilitato ad un rapporto corale  e permanente”.  C’è anche tanta umanità, per questo sono “interamente fruibili come dono di grazia e di forza; come eloquenza attiva, che coinvolge la cronaca e l’universale”. E, per concludere, pensando all’intera produzione artistica; “Nell’opera della Passalacqua tutto è armonia, sapienza distributiva, respiro poetico. La gamma che s’innnerva o si dissolve riconduce alla stessa mediazione non asettica, ma implicante, piuttosto, e prodiga di risonanze durature.  L’arabesco e il volume, l’idea e la passione concorrono, parallelamente, ad esplorare il mistero di vivere”.  In un percorso artistico durato finora 60 anni.

“E la storia continua”, sono le parole con cui si chiudeva, oltre dieci anni fa,  il catalogo della mostra sui “Flash”. Ebbene, restano quanto mai valide anche oggi per merito dell’entusiasmo e della freschezza che hanno sempre accompagnato Lina Passalacqua nel suo appassionato itinerario  di arte e di vita.

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Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Via San Pietro in carcere, ala Brasini, sala Giubileo, tel. 06.6789664. Tutti i giorni,  lunedì-giovedì ore 9,30-19,30, venerdì-sabato fino alle 22,30, domenica fino alle 20,30, entrata fino a 45 minuti dall’orario di chiusura. Ingresso gratuito. Catalogo  Lina Passalacqua, “Cosmico dinamismo”, a cura di Carlo Fabrizio Carli, Gangemi Editore International, dicembre 2017, pp.144, formato  21 x 30; cataloghi di mostre precedenti: Lina Passalacqua, “Le quattro stagioni”, Gangemi Editore, aprile 2013, pp. 64, formato 21 x 29,5; Lina  Passalacqua, “Voli”, Studio S – Arte contemporanea, pp. 64, formato 21 x 29,5; Lina Passalacqua, “Flash”,  Società Editrice Romana, marzo 2009, pp.103, formato 21 x 29,5. Da tali cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri precedenti articoli, in questo sito, sull’artista: “Passalacqua, le quattro stagioni, al Vittoriano”, 25 aprile 2013, “Collage-Pittura, Passalacqua e Terlizzi allo Studio S di Roma”, 28 maggio 2014, “Food Art. Coltura e cultura, cibo di corpo, intelletto e anima”, 1° aprile 2015; per le interpretazioni artistiche di favole  cfr, anche “Alice, le meraviglie della favola nella galleria  R.v.B. Arts”, 25 dicembre 2015;  per le altre citazioni, Hokusai, 2, 8, 27 dicembre 2017,  le opere sacre di Guttuso, 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016,   Warhol 15 e 22 settembre 2014; per i futuristi Tato, 19 febbraio 2015,  Dottori e serata futurista, 2 marzo 2014,  Marinetti, 2  marzo 2013. Inoltre, cfr., in cultura.inabruzzo.it, i nostri articoli del 2009, nel centenario, sulla  Mostra del Futurismo a Roma, 30 aprile, “A Giulianova un ferragosto futurista” 1° settembre, “Futurismo presente” 3 dicembre (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).                  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel complesso del Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. Dalla nuova serie  “Favole e leggende”  le prime 13 immagini: in apertura, “La maschera e il volto” 2015; seguono, “Pinocchio” 2016, e “Malefica” 2015; poi, “Specchio delle mie brame”2015, e “Peter Pan” 2015; quindi, “Il bosco incantato” 2016, e “La lampada di Aladino” 2016;  inoltre, “Il soldatino di piombo” 2015, e “Il principe azzurro” 2017; ancora, “La fata turchina” 2017 e “L’uccellino azzurro” 2017; prosegue, “Alice nel paese delle meraviglie” 2017 e “La nascita del deserto”  2016; in retrospèttiva, dalla serie “Le Quattro stagioni” un’immagine dell’ “Autunno”  2011 e dalla serie “Voli ” “Notturno”  2005; più oltre, dalla serie “Vele”  “Nel sole” 1997 e dalla serie “Anni 90-2000 “Le belle forme disciogliea dai veli (‘Tosca’ di Puccini)” 2015; infine, dalla serie “Anni ’70” “Frammenti meccanici” 1973 e dalla serie “Arte sacra”  “Il Verbo si è fatto carne” 1989; in chiusura, dalla serie “Ritratti”, “Autoritratto” 1991.

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Monet, dalla sinfonia all’intimità della natura, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, dal 19 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018,prorogata “a grande richiesta” al 3 giugno, la mostra “Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi”, espone 54 opere provenienti dalla raccolta privata dell’artista approdate al museo anche tramite gli eredi del collezionista De Bellio, in particolare la figlia Victorine  sposata con Eugéene Donop de Monchy. La mostra, promossa e organizzata da “Arthemisia”,in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi è a cura di Marianne Mathieu, al pari del catalogo edito da Arthemisia Books.

“Ninfee”, 1916-19

Dalla mostra sugli impressionisti “Da Corot a Monet. La sinfonia della natura”  del 2010 all’attuale mostra monografica  “Monet”, sono passati oltre  sette anni, sempre il Vittoriano la sede espositiva, la “sinfonia della natura” diventa l’ “intimità” della natura nell’assolo di un artista che per primo ha fissato le “impressioni”  en plein air sulla tela e ha poi seguito un itinerario molto particolare, culminato nella  identificazione della natura nel proprio giardino fino alla sublimazione nelle ninfee dello stagno anch’esso appositamente realizzato per un’immersione continua e totale in un mondo divenuto esclusivo del pittore e dell’uomo.  Un valore aggiunto rilevante della mostra è rappresentato dal fatto che le opere esposte sono quelle che l’artista aveva tenuto per sé fino alla loro collocazione definitiva  nel Museo Marmottan Monet.

E’ una bella storia punteggiata di opere dal fascino intramontabile,  che vanno dai paesaggi  cangianti nelle diverse luci del giorno, sempre vibranti  e delicati in un’atmosfera  tremula e soffusa, alle visioni ravvicinate delle ninfee e del  tripudio della natura con toni invece decisi e brillanti. Cercheremo  di rievocare questa storia nel mentre scorrono dinanzi a noi le visioni incomparabili di bellezza prorompente dei dipinti di Monet, in un allestimento dalle sorprese spettacolari, come i “corridoi” fioriti in cui il visitatore è come se camminasse nel giardino di Monet fino a sentirsi sospeso nell’incanto acquatico dello stagno delle ninfee.  

“La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto”, 1882

Le caricature e i ritratti familiari

Ma prima di immergerci  in un mondo così ricco di suggestioni ambientali e vibrazioni umane, entriamo nella vita personale dell’artista attraverso due cicli molto diversi, minori ma significativi:  19 caricature a matita su carta e 4 ritratti di bambino  a olio su tela di piccole dimensioni.

Le caricature risalgono al periodo iniziale o addirittura precedono la sua vita artistica, quando a scuola ritraeva i volti dei propri  insegnanti deformandoli  con irriverenza. Quelle esposte riproducono tipi umani visti nei loro atteggiamenti consueti, come “Vecchia normanna”  e “Piccolo Pantheon teatrale”,  “Un redditiere” e “Giovane donna al piano verticale”,  e singoli personaggi in forma caricaturale: “Adolphe d’Ennery” e “Théodore Pelloquet”, “Jules-Francois Fleury-Husson detto ‘ Champfleury'” e “Jules de Prémaray”,  “Eugéne Scribe” e “Louis- Francois Nicolaie detto  ‘Clairville Ainè’“, sono del 1858, li ha realizzati a  18 anni.

“Il castello di Dolceacqua”,1884

Invece i  ritratti a olio sono di 20-25 anni dopo, riprendono il secondo  figlio “Michel Monet”, nato da Camille Donceux, conosciuta come modella nel 1865 e sposata nel 1870, il primo figlio  Jean era nato nel 1867. Camille morirà nel 1879 a soli 32 anni, e il pittore si unirà con Alice Hoschedè, moglie del collezionista Ernest che aveva sei figli, e nel 1876 gli aveva commissionato, con la consorte, pannelli decorativi per il loro castello di Montgeron, la sposerà nel 1892.   

I ritratti esposti mostrano Michel neonato paffuto con la cuffietta bianca nel 1878, poi a 2 anni nel 1880, infine a 5 anni nel 1883. Anche ai figli di Alice dedicherà ritratti pieni di dolcezza, mentre non ritrarrà mai Alice, invece Camille l’ha ritratta con il primo figlio in giardino e in campagna in pochi rari dipinti. Li definiamo rari perché gli altri, in particolare quelli esposti con il secondo figlio Michel, hanno uno sfondo neutro senza alcun elemento naturale quasi non volesse distrarre l’attenzione dal volto cui è dedicato  l’estro pittorico ma soprattutto l’affetto paterno. Inoltre la maestria dell’artista riesce a rendere l’atmosfera di un’età di rapida transizione, come se non potesse fissarne lineamenti e personalità “in fieri” dando così al dipinto un senso di incompiuto.

“Il ponte di Vervy”, 1889

Per tale motivo, nonostante le apparenze modeste rispetto agli altri dipinti, “le tele esposte in questa mostra sono dunque pezzi inestimabili – commenta Aurèlie Gavoille – utili alla riscoperta del Monet ritrattista. L’insieme di questi ritratti di grande sobrietà costituisce “un eccezionale album di famiglia grazie al quale ricostruire gli affetti dell’artista”.  Basti pensare che li ha tenuti nella sua casa senza mai esporli, “come una sorta di giardino segreto”, prova evidente di “quanto amasse quei dipinti, ricordi straordinari dei momenti d’intimità trascorsi con la famiglia”.

Dall’icona “Impressione, levar del sole” “alla caccia di soggetti

Come inizia in Monet l’avventura dell’impressionismo che trova in lui non solo uno dei massimi esponenti, ma addirittura il creatore, per così dire, di un termine che esprime in modo così efficace la capacità di cogliere al volo l’ “impressione” di un attimo, a contatto con la natura?

La Senna a Port-Villez”, 1894

La curatrice Marianne Mathieu nella “genesi di un’icona” ricorda come  il titolo da lui suggerito per un suo quadro del 1872, raffigurante il porto di Le Havre nella luce translucida e tremolante dell’alba che ne rendeva sfumati i contorni, fu “Impressione, levar del sole”, diede così nome agli “impressionisti”, termine sulle prime visto in senso negativo se non dispregiativo. Tale quadro ha costituito, con altri di Monet e colleghi, la base su cui è stato realizzato,  in un palazzo donato dal collezionista Paul Marmottan, l’omonimo museo al quale la signora Victorine Donop de Monchy conferì 11 dipinti impressionisti tra cui “Impressione” e altri più noti, “Il treno nella neve” e “Il ponte dell’Europa”.

“Impressione, levar del sole” divenne celebre soltanto in epoca recente, come è stato per le sue grandi decorazioni, 125 pannelli decorativi realizzati tra il 1914 e il 1926 donati  alla nazione per celebrare la fine della prima Guerra mondiale, che furono esposti soltanto dopo la sua morte.

Ma andiamo con ordine nel ripercorrere i momenti della sua vita in parallelo con la galleria pittorica che dopo le caricature e i ritratti infantili ci mostra una visione sempre più personale e intima della natura alla quale approda dopo una ricerca di luoghi suggestivi senza confini, che lo fa definire da Claire Gooden, “cacciatore di soggetti”.

Ponte di Charing Cross”, 1899-1901

Il soggiorno a Londra nel 1870 – c’è anche la parentesi inglese nella sua vita – in realtà avvenne per sfuggire alla guerra franco-prussiana, ma fu determinante perché gli fece scoprire gli effetti di luce di pittori inglesi come Constance e Turner, alla base delle sue ripetizioni di soggetti ripresi in condizioni di luce differenti, che divenne una peculiarità particolarmente suggestiva del “suo” impressionismo, si pensi alla “Cattedrale di Rouen” che si trasfigura nelle diverse ore della giornata. 

Tornato in Francia, consigliato da Manet,  nel 1871 si trasferisce ad Argenteuil con la moglie Camille e il primo figlio Jean, in diretto contatto con la Senna, di cui dipinge le rive seguendo il corso del fiume, tanto che affermerà: “La Senna l’ho dipinta per tutta la vita, a tutte le ore, in ogni stagione. Non me ne sono mai stancato; per me è sempre nuova”, come sono nuovi altri soggetti, naturali e non, ritratti nelle diverse condizioni di luce. Vediamo esposti “Il treno nella neve. La locomotiva”, ed “Effetto neve, sole al tramonto”, entrambi del 1875, nel primo si intravedono le sagome di persone, non ce ne sono più nell’intera mostra salvo due ombre indistinte su una barca sotto  il ponte ad arco in “Il castello di Dolceacqua”..

“Ponte di Charing Cross”, 1902

Il trasferimento a Vétheuil nel 1878 con la famiglia cui si è aggiunto il secondo figlio Michel è seguito l’anno successivo dalla prematura scomparsa di Camille, è di questo anno, il 1879, “Vétheuil nella nebbia“, un’atmosfera irreale raggelata come una morsa di solitudine e tristezza.

Supera la crisi per l’appoggio del mercante Durand-Ruel e l’apprezzamento di scrittori come Emil Zola, tra il 1880 e il 1885 soggiorna nella sua terra, la Normandia, torna sulle spiagge dove ritrova i soggetti naturali che dipingeva all’aperto nell’adolescenza, li ritrae affascinato dai giochi di luce. Come “La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto”, 1882, “Barca a vela. Effetto sera” e “Etretat, falesia e Porta d’Amont. Effetto del mattino”, entrambi del 1885,  la terra e il mare, il mare  e il cielo  in una gara di vibrazioni  e luminescenze sfumate ed evanescenti.

“Londra, il Parlamento. Riflessi sul Tamigi“, 1905

Dal 1883 si trasferisce a Giventry nell’abitazione che sarà la dimora definitiva, i primi sette anni in affitto, poi la acquista, differenza essenziale perché nel periodo in cui non la sentiva sua vi tornava dopo peregrinazioni alla ricerca di ambienti e paesaggi, trascorreva metà dell’anno lontano. Poi l’ispirazione pittorica l’ha trovata nel giardino che ha pazientemente realizzato e infine nello stagno con le sue predilette ninfee, lavorando  in atelier costruiti in tali ambienti naturali.

Ma non anticipiamo i tempi, siamo nella fase in cui compie una serie di viaggi con Renoir nella costa mediterranea fino alla riviera ligure,  oltre alla “magica luce” cisono sfavillanti colori.  In “Il Castello di Dolceacqua”, 1884, il castello, il monte, il torrente offrono una spettacolare visione d’insieme alleggerita dall’arcata di ponte sottesa con leggiadria.

Nel 1886 è nei Paesi Bassi, Claire Gooden riporta la sua descrizione dei paesaggi olandesi, “di una luminosità incomparabile. L’acqua sfavilla di riflessi iridescenti, il cielo si agghinda di azzurri sconosciuti altrove e le cose stesse assumono sfumature nitide e gioiose”; il contatto con l’arte giapponese lo porta a contrapporre colori diversi senza le sfumature. Poi è la volta della Bretagna, a diretto contatto questa volta con l’oceano in “un territorio superbo e selvaggio, un affastellarsi di scogli terribili  e un mare dai colori inverosimili”.

“Ninfee”, 1907.

Ne deriva una serie di tele, una quarantina, che a differenza delle opere precedenti sono  molto nette e dal cromatismo intenso: così “Il ponte di Vervy” e “Valle delle Creuse. Effetto sera”, nel primo casolari  immersi in un magma naturale, il ponte quasi per togliere le abitazioni dall’innaturale isolamento, nel secondo un corso d’acqua che si inoltra in una natura inospitale, le ombre della sera accrescono il senso di struggente solitudine. Saltando invece al 1994, i due “La Senna a Port-Villez”, “Effetto rosa” ed “Effetto sera” rendono le differenze di luminosità;  la visione seriale, con le opportunità che offre di rappresentare in modo non ripetitivo lo stesso soggetto, sembra aver dischiuso nuove possibilità, maggiori aperture.

Nel 1895 il “cacciatore di soggetti” va in Norvegia, tra il 1899 e il 1901 compie i tre viaggi a Londra, ne vediamo i riflessi in tre opere:  due ritraggono il “Ponte di Charing Cross”, 1899-01, mentre vi passa sopra un treno sbuffante, in condizioni normali di luce, e con “Fumo nella nebbia. Impressione”, 1902, titolo aggiunto  a marcare uno straordinario impasto cromatico che riporta alla prima “Impressione” di Le Havre del 1872; la terza opera, “Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi”, 1905, è più marcata nella netta tripartizione tra cielo translucido, e acqua del fiume increspata di luce separati dal contorni scuri del palazzo turrito, che conferiscono un’atmosfera misteriosa, un vero spettacolo!

Seguirà un viaggio a Venezia nel 1908, dopo di che non si muoverà più da Giventry.

“Ninfee e agapanti“, 1914-17

A Giverny, dal giardino dell’anima allo stagno delle ninfee

Ed ora seguiamolo a Giventry, dopo averne rievocato i movimenti a caccia di soggetti naturali. Il borgo si trova a 75 chilometri da Parigi, ha 300 abitanti, è situato tra la Senna e le colline, campi fioriti e acquitrini con le piante acquatiche, vi si trasferisce con i due figli di Camille e la nuova compagna con i sei figli dalla precedente unione, è la primavera del 1883.

La casa è a due piani, 4 camere a piano, mansarde, cantina e un fienile che trasformerà in atelier, poi ne costruirà un secondo vicino alle serre ad ovest, quindi un terzo. Ma soprattutto lo conquista il vasto giardino di quasi un ettaro con un viale delimitato da filari di abeti e cipressi, un frutteto di peri e meli, aiuole e siepi di bosso.

Cambierà tutto, i fiori al posto degli alberi, la Mathieu ricorda: “Alla fine dell’estate, papaveri, crisantemi, girasoli, dalie, margherite bianche e gialle, gigli ed ellabori sistemati al riparo dalle intemperie offrono al pittore i soggetti per i pannelli decorativi” che gli erano stati appena commissionati nel 1882 da Durand-Ruel per la propria residenza a Parigi.  Paragona ai “fiori di Hokusai” i suoi fiori selvatici, dal nasturzio a “non ti scordar di me”, fino alle specie più rare che trapianta.

“Emerocallidi“, 1914-17

I lavori per il giardino lo assorbono completamente, “Clematidi bianche”, 1887, mostra questi fiori non come nature morte ma in forma di cespuglio fiorito, sono realtà vive che vede nascere e crescere sotto i suoi occhi mentre prosegue la trasformazione radicale in cui si impegna chiedendo consigli sulle specie floreali e sui relativi metodi di coltivazione. Con i fiori occupa lo spazio disponibile, sostituisce gli alberi sradicati con archi e piante rampicanti. Le aiuole ospitano fiori della stessa tonalità cromatica, per questo le chiama “barattoli di vernice” tra pergolati in una pioggia di clematidi e rose.  

Evidente che tutto questo lo lega sempre di più alla residenza, come dice a Mallarmè: “Devo ammettere che mi è molto difficile lasciare Giverny, soprattutto adesso che sto trasformando la casa e il giardino secondo i miei desideri”. Dipinge nelle zone circostanti e quando crea le stupende vedute della cattedrale di Rouen nelle diverse ore del giorno non manca di procurarsi nel giardino botanico locale passiflore e begonie rampicanti per il proprio giardino. “Il mio giardino è un’opera lenta, perseguita con amore, afferma. E non nascondo che ne vado fiero”.

“Iris“, 1924-25

Ma non è tutto, nel 1893 acquista un lotto di terreno adiacente di circa 1300 metri quadrati per realizzare uno stagno in cui coltivare piante acquatiche, che aveva già visto in natura nelle rive della Senna. Supera le difficoltà dovute ai timori dei paesani che la vegetazione inquinasse l’acqua da prelevare per alimentare lo stagno, e ispirato anche dalle ninfee esposte sulla spianata del Trocadero di fronte alla Torre Eiffel nell’Esposizione Universale del 1889, realizza lo stagno artificiale con due fossati e una passerella di stile giapponese.  Al prefetto scrive:”La cosiddetta coltura di piante acquatiche non ha tutta l’importanza che le si attribuisce e si tratta solo di una cosa ornamentale, per il piacere degli occhi, e anche per la creazione di soggetti da dipingere”. E già nel 1895 realizza i primi 3 dipinti ispirati allo stagno delle ninfee.

Aurélie Gavoille lo chiama “il piccolo paradiso terrestre di Giverny”  e cita le parole due grandi estimatori: di Marcel Proust nel 1907, “una sorta di primo schizzo pieno di vita, o almeno la tavolozza già pronta e deliziosa sulla quale sono preparati i toni armoniosi”;  di Georges Truffalt nel 1913, “la più bella opera di Claude Monet è, a mio parere, il suo giardino”.

“Salice piangente”, 1918-19

E soprattutto è stato l’ispirazione pressoché unica della serie straordinaria di dipinti negli anni in cui si è rinserrato nel suo “paradiso terrestre”. Scrive Philippe Piguet:: “L’artista vive in maniera empatica, se non morbosa, il rapporto con la natura, i mutamenti di luce e le variazioni climatiche su cui si fonda l’impressionismo. Monet è un vero barometro vivente e la sua opera è quella di un meteorologo dell’anima”. Ed ecco cosa avviene in pratica: “Se la giornata si annuncia radiosa, il pittore la affronta con entusiasmo; si colloca dinanzi al soggetto prescelto pronto a catturare su varie tele le più impercettibili alterazioni della luminosità”. Ma è altrettanto pronto ad alterarsi lui stesso, come scriveva la moglie Alice alla figlia nel luglio 1901: “Ha finalmente ripreso i pennelli e iniziato una veduta, ma io tremo al pensiero che non ne sia soddisfatto o che il tempo cambi perché sai quando la cosa lo agiti, soprattutto quando ricomincia…”. Lavorare sulle serie, osserva Piguet, “lo costringe a stare sempre sul chi vive, pronto a cogliere l’attimo”. 

I suoi non sono solo dipinti intimisti, per sfogare le proprie emozioni, ma anche tele di notevoli dimensioni a destinazione pubblica, come le “Grandi decorazioni” , pannelli con paesaggi acquatici, le amate ninfee, destinati alle Tuileries per celebrare la fine del primo conflitto mondiale;  a tal fine fece costruire un terzo atelier lungo 23 metri, largo 12 e alto 15, per contenere i grandi pannelli sui quali lavorava simultaneamente ritoccandoli per anni fino alla morte.

“Salice piangente“, 1921-22

Vediamo esposti 2 grandi oli su tela, “Ninfee”, 1907, una sorta di cascata di luce  che approda alla pianta acquatica, mentre i piccoli disegni su carta “Ritratti di salice” e “Ninfee”, 1818-19, ne delineano con delicatezza i contorni. E poi una sequenza di 3 oli su tela lunghi 3 metri e alti 1 metro, 2 raffiguranti “Glicini”, entrambi del 1919-20, e uno “Ninfee”, 1917-19, soggetto quest’ultimo anche di due grandi opere  dello stesso periodo non più lunghe e strette ma di forma quasi quadrata. Non ci sono parole per descrivere la soffusa delicatezza delle immagini  distese in lunghezza che sembrano .aprirsi all’orizzonte come delle altre visioni più dense e concentrate che riportano alla realtà naturale.

L’ultimo periodo, il salto al cromatismo violento fino al ritorno con  “Le rose”

Sono raffigurati anche gli “Emerocallidi”, 1914-17, una sorta di vulcano verde che erutta fiori rossi, con una delicatezza unita alla forza espressiva di questa autentica sinfonia della natura, mentre “Iris”, 1924-25, sconfina nell’astrazione pur se i tratti restano sempre chiaramente naturalistici.

“Il ponte giapponese, 1918-24

L’ultima parte della vita dell’artista, morto il 5 dicembre 1926 all’età di 86 anni, fu tormentata. Nel 1911 scompare la seconda moglie Alice Hoschedé, da lui definita “compagna adorata”, poi il figlio Jean; mentre lui, per una cataratta ancora non operabile nel 1912 è costretto a una pausa di due anni, con difficoltà anche a distinguere i colori: “Vedo tutto blu – ebbe a confidare – non vedo più il rosso, non vedo più il giallo; mi dà terribilmente fastidio perché so che questi colori esistono, so che sulla mia tavolozza c’è del rosso, del giallo, un verde speciale, un particolare viola; non li vedo più come li vedevo un tempo, e tuttavia li ricordo bene”. I salici piangenti che dipinge rendono visivamente il suo stato d’animo, è una pianta tra l’altro cui era molto affezionato e proprio nel 1912 furono abbattuti da una tempesta facendogli dire: “I salici piangenti di cui andavo fiero sono stati distrutti, sfigurati, provo un grande dolore”. 

Tre operazioni agli occhi nel 1923 gli restituiscono la percezione dei colori, ripudia alcune opere dipinte in modo anomalo, in altre si riconosce appieno.

“Il viale del roseto“,1920-22

Vediamo esposti i dipinti degli anni di crisi visiva, pur se l’alterazione era da lui controllata, in effetti il cromatismo è intenso e pesante, un altro Monet ci si presenta, molto diverso e lontano dall’impressionismo soffuso e delicato, quasi evanescente. Ecco 4 “Salici piangenti”, tra il 1918 e il 1922, una tempesta di colpi cromatici, e 3 opere intitolate “Il viale del roseto”, un addensarsi di viluppi cromatici inestricabili. Mentre le 2 intitolate “Il ponte giapponese” mostrano immagini opposte, il ponte in blu solca un’atmosfera bianca-cilestrina nel 1818-19, in un rosso intenso è percorso da tratti tormentati nel 1918-24; altrettanto irriconoscibile lo “Stagno delle ninfee”, 1918.19, sembra in preda a un incendio, come “Il giardino di Giverny”, 1922.26, in una dicotomia cromatica quanto mai violenta.

“Stagno delle ninfee“, 1918-19

La Gooden la definisce “una parentesi sorprendente nel lavoro del pittore” e lo spiega: “In queste opere molto personali, il soggetto tende a disgregarsi mentre assumono  rilievo il ritmo della pennellata e l’ampiezza del gesto che determinano un’esplosione di colori la cui densità e intensità rendono quasi indecifrabile l’immagine rappresentata”. Proprio per questo, “raramente la sua pittura si dimostra così libera e vicina all’astrazione”, e al riguardo precisa: “Lo straripante profluvio di colori stesi con pennellate verticali e il dinamismo visivo che ne sprigiona non possono che ricordare l’all-over e il dripping di Jackson Pollock e le ricerche di altri esponenti dell’espressionismo astratto americano o della scuola di Parigi”. Dall’impressionismo soffuso e delicato all’espressionismo astratto, dunque quest'”altro Monet” è anche  precursore!

Il giardino di Giverny” , 1922-26

E il Monet intimo e sommesso dell'”impressione” fugace? Lo ritroviamo nell’ultima opera esposta, “Le rose”, è il 1925-25, dopo gli interventi agli occhi ha ripreso al padronanza della vista, torna la delicatezza nella superficie grigia su cui sono  sparse le rose abbozzate in modo altrettanto delicato.

Un ritorno il suo, e dopo lo sconfinamento in una forma espressiva che ci dà comunque un altro modo di rappresentare la stessa realtà naturale, questo diverso Monet completa il primo, lo fa apprezzare ancora di più. Sono quanto mai vere le parole dell’amico Gustave Geffroy, citate  dalla Gooden: “Il suo lavoro, rivelatore e poetico, mostra un universo che nessuno aveva visto prima di lui”. E soprattutto nessuno aveva visto come lui. Pertanto è anche vero che la sua opera “non somiglia a nessuna di quelle che scandiscono il corso della storia dell’arte”.

“Le rose”, 1925-26

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12, ridotto euro 10 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Monet, Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi”, Arthemisia Books, 2017, pp. 100, formato 22,5 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per utili riferimenti cfr. i nostri articoli, in questo sito, su Hokusai 5, 8 e 12 dicembre 2017, sulle mostre  “Impressionisti tète a tète” 5 febbraio 2016,  “Impressionisti e moderni” 12, 18 e 27 gennaio 2016; “Guggenheim”  29 novembre  2012; in arteculturaoggi.it per la mostra “Da Corot a Monet”  27 e 29 giugno 2010  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Il corridoio fiorito, allestimento per far rivivere ls magia del giardino di Giverny

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Ninfee” 1916-19; seguono, “La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto” 1882, e “Il castello di Dolceacqua” 1884; poi, “Il ponte di Vervy” 1889, e “La Senna a Port-Villez” 1894; quindi, “Ponte di Charing Cross” 1899-1901, e “Ponte di Charing Cross”, 1902; inoltre, “Londra, il Parlamento. Riflessi sul Tamigi” 1905, e “Ninfee” 1907; ancora, “Ninfee e agapanti” 1914-17 e “Emerocallidi” 1914-17; continua, “Iris” 1924-25, e “Salice piangente” 1918-19; prosegue, “Salice piangente” 1921-22, e “Il ponte giapponese, 1918-24; poi, “Il viale del roseto”  1920-22, e”Stagno delle ninfee” 1918-19; quindi, “Il giardino di Giverny” 1922-26, e “Le rose” 1925-26; infine, Il corridoio fiorito, allestimento per far rivivere la magia del giardino di Giverny; in chiusura, Presentazione della mostra, parla al microfono la  presidente di Arthemisia, Iole Siena.

Presentazione della mostra, parla al microfono la presidente di Arthemisia, Iole Siena

Picasso, 3. Dal teatro alla monumentalità classica, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Si conclude, con il resto della storia artistica del decennio 1915-25, la nostra visita alla mostra   “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25”, che si svolge alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018  con 100  tra dipinti, disegni e gouaches e un ricca documentazione di fotografie  e lettere-cartoline inerente il  viaggio in Italia che compì nel 1917,  in preparazione delle scene e costumi del balletto “Parade”, di cui è esposto anche il monumentale “Sipario” a Palazzo Barberini. Mostra prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira, con le Gallerie Nazionali di Arte Antica, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris,  curata da Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf,. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée national Picasso-Paris.

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Abbiamo dedicato le prime due parti del nostro resoconto della visita alle motivazioni, ai contenuti e ai riflessi del viaggio in Italia di Picasso del febbraio-aprile 1917 per raggiungere la “troupe”  dei Balletti russi di Djagilev  a Roma, poi a Napoli, in modo da poter preparare in contatto con loro scene e costumi del balletto  “Parade” presentato per la prima volta a Parigi il 18 maggio 1017,  e il 10  novembre a Barcellona; quindi a questo balletto, nella sua genesi e nella sua preparazione tormentata e insieme esaltante per il fervore creativo dei protagonisti. La mostra si sofferma in modo particolare su di esso, data la sua importanza anche simbolica nel segnare la contaminazione e il sincretismo tra diverse arti, nonché la compresenza di diversi stili nella produzione artistica di Picasso di tale periodo con la rivalutazione del classicismo legato alla tradizione insieme al “cubismo sintetico” delle avanguardie di cui Picasso era antesignano e tra i maggiori esponenti.

Nonostante i riflettori siano puntati su “Parade”, è stata una delle tante “performance” teatrali dell’artista legato all’impresario russo Djagilev che operava con una propria compagnia indipendente dopo lo scioglimento di quella ufficiale. Abbiamo accennato anche alle altre, ora parliamo in  particolare di “Pulcinella”, musiche di  Stravisnskij, e di “Mercure”, fino  all’epilogo.

 “Pulcinella” con Stravinskji e gli ultimi balletti

Il 1919 è anche l’anno in cui alla fine dell’estate inizia la preparazione del balletto “Pulcinella”, con le musiche di Stravinskji con il quale aveva visitato Napoli preso dagli spettacoli da commedia dell’arte nelle variopinte strade cittadine nei c’era questa maschera napoletana che, però, non era piaciuta al compositore il quale lo aveva definito “un lestofante ubriacone” aggiungendo: “Ogni suo gesto, e probabilmente ogni sua parola, se mai l’avessi capita era oscena”. Il bozzetto di Picasso per il “Costume di Pulcinella” che vediamo esposto presenta una figura notevolmente rigonfia, a differenza della fotografia di Massine che lo indossa con la sua corporatura snella, la maschera nera in viso. C’è anche un bozzetto con “Prudenza”, una fanciulla danzante, snella e leggiadra.

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Nonostante la scarsa comprensione iniziale dell’umanità giocosa di Pulcinella, e sebbene avesse scarsa simpatia per le musiche settecentesche di Pergolesi che avrebbe dovuto arrangiare e orchestrare secondo l’impostazione data da Djagilev, Stravinskji era affascinato dalla forma d’arte popolare nella quale trovava valori universali e motivi di attrazione al pari di Picasso, fino ad avere con lui le “affinità elettive” sottolineate dal curatore Olivier Breggruen: “A parte l’amicizia, Picasso e Stravinskji avevano molto in comune: il rapporto non facile con il modernismo aggressivo di dadaisti e futuristi, il rifiuto dell’espressionismo, l’utilizzo di forme d’arte popolari, la scarsa simpatia per i movimenti artistici organizzati, e soprattutto la somiglianza delle rispettive concezioni artistiche. Entrambi avevano un retroterra simbolista… e le loro tendenze moderniste erano per così dire temperate  da un influsso classicizzante. Entrambi si sentivano a disagio rispetto al tentativo dell’avanguardia di tagliare ogni legame con le tradizioni storiche. A differenza di dadaisti e futuristi, il loro lavoro cercava l’ispirazione nel passato”.

Di tutto ciò troveremo conferma, per quanto riguarda Picasso,  anche nelle sue opere non legate alle rappresentazioni teatrali. Per ora proseguiamo nella rievocazione del balletto su “Pulcinella” ricordandone la gestazione tormentata, con Djagilev che rifiutò per due volte la scena proposta da Picasso nella quale veniva trasformata in teatro con quinte e palchi la vista di Napoli e del Vesuvio, finché l’artista la inquadrò come sfondo di una caratteristica strada cittadina. In mostra è presentato il bozzetto in cui tra le quinte teatrali a sipario aperto spiccano due grandi edifici quasi metafisici con in alto la luna piena su un cielo nero. 

L’esito fu notevole, dal punto di vista spettacolare e artistico, lo ricorda il curatore: “I costumi di Picasso creavano uno spassoso contrasto con lo scenario cubista, mostrando la sua interpretazione moderna del classicismo. Comunque, come osservò in seguito Stravinskji, era ‘una di quelle produzioni in cui tutto trova un’armonia, in cui tutti gli elementi – soggetto, musica, danza e ambientazione artistica- formano un tutto coerente e omogeneo'”.

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“Pulcinella” fu rappresentato il 15  maggio 1920 all’Opera di Parigi ed esattamente un anno dopo, il 17 maggio 1921, sempre a Parigi, al Theatre de la Gaité-Lyrique, andò in scena il balletto “Cuadro flamenco”, anch’esso della compagnia di Djagilev, rappresentato al Prince’s Theatre di Londra due settimane dopo. Le scene furono ricavate, su indicazione dell’impresario, dai disegni predisposti da Picasso per “Pulcinella”, ma scartati. Dopo “Pulcinella” non lavorerà più con Stravinskji.

Nel 1922 nuovo dissenso con Djagilev che rifiuta il soggetto da lui individuato per il fondale dello spettacolo “L’Aprés-midi d’un faune”, poi l’anno si conclude con la scenografia, da lui curata, dell’Antigone”di Sofocle, opera in cui lavorò con Jean Cocteau, il suo mentore in “Parade”.

Nel triennio conclusivo del periodo considerato dalla mostra, lo vediamo impegnato a dipingere scene, costumi e sipario del balletto “Mercure”presentato a Parigi al “Teatro dei Campi Elisi” il 15 giugno 1924 con un’accoglienza da parte del pubblico altrettanto contrastata che per “Parade”. Di questo balletto sono esposte 8 immagini fotografiche di una serie di momenti, “La notte della tenerezza” e “La danza della tenerezza”, “I segni” e “Mercurio che uccide Apollo per poi rianimarlo”, “La furia” e “Il bagno delle Tre Grazie”, “Festa a casa di Bacco” e “Il ratto di Proserpina”, nelle quali spicca la fantasia compositiva e la maestria di Picasso nel dare una veste cubista alla magia del mito che ben si presta a tali trasposizioni. Anche se sono tra le ultime sue opere teatrali non ci sembra mostrino alcuna stanchezza.

Intanto una sua opera di cui parleremo al termine, “Deux femme courant sur la plage (La course)” viene utilizzata con il suo consenso come modello per il sipario del balletto “Le Train Blu” messo in scena dai Balletti Russi il 20 giugno, sempre del 1924, nello stesso  teatro parigino.Il teatro nelle maschere Arlecchino e Pierrot e nei danzatori

Ma la sua partecipazione diretta non è stata l’unico modo con cui si è avvicinato al teatro. “E’ noto che Picasso – osserva Berggruen- amava ritrarsi in veste di Arlecchino: è un indizio della sua passione per il teatro, soprattutto nelle sue forme più umili e popolari, come il circo e il vaudeville. E’ anche una metafora della vulnerabilità dell’artista. Picasso si identificava con la folla girovaga di giocolieri e musicisti, e si dipingeva come Arlecchino già nel 1905 in ‘Au Lapin Agile'” Il tema di ‘Parade’ è quello di uno spettacolo che ricorda il popolare teatro di vaudeville.

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“L’artista può essere visto come un trickster, un burlone, e l’Arlecchino, con il suo costume variopinto e sfaccettato, funge da metafora della versatilità stilistica”, di cui abbiamo già parlato. Del resto era “servo di due padroni”, che per Picasso potrebbero essere  il cubismo e il classicismo, anche se non mancano incursioni in altri versanti come il puntillismo e il surrealismo.

In effetti, sono molti i dipinti con Arlecchino esposti in mostra, cui si aggiungono altre maschere a lui care come Pierrot. Ne abbiamo già citati due in apertura del nostro resoconto, posti all’inizio della galleria espositiva, parliamo ora degli altri della sezione apposita.

E’ del 1917 “Arlequin (Léonide Massine)” in cui ritrae il coreografo con il quale era impegnato in “Parade”, la testa reclinata con espressione pensierosa, il gomito destro appoggiato a una balaustra con il caratteristico berretto nella mano sinistra vicino a un tendaggio rosso aperto, in un costume con accennate le losanghe ma non variopinto, bensì sul celeste-verde e bianco. Mentre è seduto davanti a un tendaggio sempre rosso con a lato una colonna classica, il berretto nero in testa e il costume a losanghe questa volta variopinte “Arlequin avec guitare”, 1919, raffigurato mentre suona lo strumento con il viso sorridente.

Vediamo anche “Arlequin au mirror”, 1923, espressione attenta mentre guarda nel minuscolo specchietto che tiene nella mano destra, la sinistra verso la testa come per riavviare una ciocca di capelli o sistemare meglio il berretto. L’anno successivo dipinge “Paul en Arlequin”, il figlio Paolo con il caratteristico costume a losanghe diventate celesti e gialle. Tutti dipinti a olio su tela. in perfetto linguaggio figurativo senza la benché minima trasgressione.

Ma nel 1924 torna l’Arlecchino del 1917-18, in “cubismo sintetico” anche se con migliore identificazione antropomorfa, si tratta di “Arlequin musician”, su una poltrona verde con uno strumento a corde nelle mani, forse una chitarra, alla quale nello stesso anno dedica due acquerelli, sempre in stile cubista, intitolati “Guitar sur une table”.

Arlecchino non è sempre solo, è con Pierrot in due raffigurazioni entrambe intitolate “Pierrot et Arlequin”, ma molto diverse. Nel piccolo disegno a matita del 1918  il primo ha il flauto, il secondo la chitarra, l’uno accanto all’altro in piedi sono delineati in un perfetto figurativo;  l’altrettanto piccolo acquerello su carta del 1920 li ritrae invece in stile cubista molto addolcito perché chiaramente antropomorfo, anche se .con tutte le semplificazioni del caso. Ancora  più addolcito, aggiungiamo per inciso, il cubismo di un altro piccolo acquerello forse anch’esso legato al teatro, “Due femme conversant en pied, fond bicolore bleu et beige”, 1934, le due donne in conversazione sono antropomorfe anche se non figurative, è una sorta di terza via tra cubismo e classicismo che di tanto in tanto si fa strada.

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L’altra maschera si trova anch’essa da sola nei suoi quadri. Ecco “Pierrot”, 1918, un originale olio su carta che lo ritrae seduto con il caratteristico abito e il cappello, il gomito sinistro appoggiato a un tavolo con una tovaglia rossa su cui si trova un libriccino aperto su due pagine scritte; c’è anche un piccolo disegno dello stesso anno con il medesimo titolo, la maschera in piedi sembra stropicciarsi le mani, l’espressione sorridente. Infine abbiamo anche qui l’identificazione del figlio, ecco “Paul en Pierrot”, ritratto nel 1925, l’anno successivo di “Paul en Arlequin”, vestito bianco, maschera nera in mano, davanti a una ringhiera tra il rosso del pavimento e il nero del lato destro con il celeste nel lato sinistro, un figurativo in un contrasto cromatico magistrale.

Nel mondo del teatro ha anche ripreso in rapidi schizzi dei momenti particolari, come “Deux danseuses”, 1919, una composizione con le due figure delineate in equilibrio armonico, la loro forma arrotondata è confermata da “Danceuse”, 1919, con la ballerina in piedi, i gomiti già puntati; invece “Couple de danceurs II”, 1922, è fatta di secche linee schematiche che richiamano certo Matisse. In “Deux danseurs”, 1925, due ballerini sono ripresi in pose diverse, uno seduto a riposo appena delineato, l’altro che si esercita alla sbarra con segni molto marcati in un dinamismo coinvolgente. Invece in“Quattre danseurs”, 1925, i ballerini sono quasi avviluppati in un intreccio  da “Laocoonte”, delineati in modo calligrafico con forme michelangiolesche appena accennate.

Ci sembra di particolare interesse accostare le due raffigurazioni dello stesso soggetto in due anni successivi: “Saltimbanque accoudé”,un piccolo disegno del 1922 che mostra il saltimbanco seduto su una sedia, le gambe accavallate, la testa appoggiata al braccio destro sulla spalliera; mentre “Saltimbanque assis, le bras croisé”, 1923,  un grande olio su tela lo rappresenta sempre seduto ma senza piegare la testa .

“Les trois danseures”, 1925, chiude la mostra cronologicamente e logicamente essendo il canto del cigno, per così dire: le tre ballerine appaiono smagrite e la deformazione oltre che stilistica è anche metaforica, per Picasso la stagione di “pittore di teatro” si è proprio conclusa.

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I due versanti compresenti: il lato cubista

Ma non si conclude qui la nostra rievocazione del magico decennio 1915-25 cui è dedicata l’esposizione, perché mentre lasciamo Picasso “pittore di teatro” ritroviamo l’artista senza confini in due sue manifestazioni particolarmente significative, giustapposte e complementari al contempo: nelle nature morte di rigoroso stile cubista e nei dipinti classicisti di nudi e soggetti  vari. E’ un modo anche per noi di rientrare nella realtà quotidiana dopo il viaggio fantastico nel mondo del teatro iniziato con “Parade”, lo spettacolare “Sipario” a Palazzo Barberini e le altre opere citate.

Dopo quanto abbiamo detto in precedenza sul significato prevalente che dava agli oggetti, ci restano da commentare le sue 5 nature morte, facendo premettere una citazione di “Etudes”, 1920, l’olio su tela che appare un manifesto programmatico della compresenza di stili, diviso com’è in 3 riquadri con piccole composizioni in stile cubista indecifrabili cui se ne aggiungono 3 più piccoli, e 4 riquadri di impronta classicista con una coppia di persone, una testa e due mani in stile figurativo.

Accostiamo “Composition au verre et à la pipe”, 1917,  a “Mandoline sur un guèridon”, 1920, perché il bicchiere e la pipa da un lato e il mandolino dall’altro sono sfigurati e resi irriconoscibili dal cubismo esasperato con frammentazioni geometriche, come di sezioni ritagliate e piani sovrapposti; mentre le tre “Nature morte” dipinte a Saint Raphael nel 1919, anno intermedio tra i due appena citati, “A’ la guitare devant une fenétre”, “Sur une table devant un a fenètre” e “Devant une fenètre” esprimono l’impegno alla sintesi tra i dettami cubisti e i criteri classici, le componenti sono perfettamente riconoscibili con l’elemento comune della finestra sul mare. Non si può non ripensare alle parole della canzone “Fenesta che luciva”: “A Mergellina ce sta na fenesta…”, del resto era stato a Napoli due anni prima e aveva già cominciato  a lavorare per “Pulcinella” con Stravinskji, suo compagno nell’escursione napoletana.

Una attenuazione di stampo diverso del cubismo la troviamo in “Fillette au cerceau”, dello stesso  1919, pur con i frammenti ritagliati e le superfici sovrapposte del “cubismo sintetico” sono percettibili la figura della fanciulla e il cerchio che ha in mano, con volto e piedi visibili pur se molto schematizzati.

Questa figura umana di confine, per così dire, oltre ai festosi acquerelli e gouache, rende meno brusco il passaggio a quello che per noi è il culmine della mostra dopo tanta pittura teatrale e tanto cubismo: la reinvenzione del classico, quasi per reagire alle distruzioni fisiche e morali di una guerra sanguinosa – come è stata la prima Guerra mondiale – rifacendosi ai principi universali dell’arte classica, dall’architettura alla statuaria greca, semplice e solenne, per ripartire su basi ben più solide di quelle offerte dagli stili d’avanguardia, nati da impulsi transitori e spesso effimeri..

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L’approdo classicista

Nel suo ricorso alla classicità è ben visibile l’esperienza teatrale che stava vivendo. Silvia Loreti scrive: “Prima del 1917 Picasso considerava l’antichità classica come l’origine di una tradizione inpartitagli da studente e da lui sfidata con l’avanguardismo. La collaborazione con i Balletti Russi gli rivelò le potenzialità di un’alleanza tra l’iconoclasmo avanguardista e l’arte altamente accademica, codificata e aristocratica del balletto classico. Lavorando con musicisti e coreografi, le sue collaborazioni teatrali sovvertirono le teorie classiche dell’arte, che esortavano alla separazione tra le arti visive, la musica e la danza. In Italia, il paese di più lunga tradizione classica, Picasso prese coscienza, per parafrasare Rodin, della giovinezza dell’antichità”.

Ed è visibile anche la propria impronta stilistica, la monumentalità delle figure è accompagnata da una certa visione parodistica con gesti eccessivi e positure esagerate, quasi volesse segnare un certo distacco nel momento stesso dell’adesione per non cadere nell’accademismo, mentre non  tagliava i ponti con il cubismo, che continua ad essere la cifra stilistica di opere  contemporanee, come “Mandolin sur un guèridon” del 1920, oltre a “Fillette au cerceau” del 1919 sopra citate.

L’ispirazione classica porta ai nudi e alle teste che troviamo nella galleria espositiva di questa sezione. Vediamo alcuni disegni a matita su carta, per lo più di piccole dimensioni, e dei grandi dipinti a olio in una sorta di escalation spettacolare e artistica.

Tra i primi, il piccolo “Groupe de quatre baigneuses”, 1921, presenta le quattro bagnanti che conversano in una composizione dinamica delineandone i contorni con segno sottile, come il grande “Nu drapé assis dans un fauteil”, 1923, nel quale la figura femminile nuda seduta su una poltrona con il drappo in grembo appena delineata appare invece in posa statuaria. Nello stesso anno troviamo all’opposto “Deux nudes musiciens au Pan-flùte”, con forti chiaroscuri quasi che il flauto di Pan – che ha ispirato una grande tela come vedremo – meritasse la sottolineatura grafica; e, intermedi tra i due estremi citati,  “Baigneuse allongèe”, in parte chiaroscurata, e “Trois nus”,  1923, dei tre nudi due chiaroscurati, il primo solo delineato tranne la macchia scura dei capelli.

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“Nu debout”, 1922, è forse la più classicheggiante delle figure disegnate su carta, la donna nuda in piedi sembra una statua greca e le ombreggiature sono ben diverse da quelle sopra riscontrate, danno il senso del rilievo e della solennità. Ispirati direttamente alla statuaria classica appaiono anche le tre “Téte de femme”, 1921, rispettivamente pastello, carboncino su carta, olio su tela, un crescendo sempre più vicino all’originale classico che arriva alla testa riccioluta da divinità greca.

Le grandi gouache, sanguigne e pastello “Deux baigneuses“, 1920, “Trois femmes à la fontaine”, e “Nu assis s’essuyant le pied”, 1921, preparano il passaggio ai dipinti nei quali il ritorno al classico si manifesta in modo particolarmente spettacolare. Nel primo, che sembra un olio, c’è ancora la deformazione cubista pur se appena accennata, i corpi mostrano la compostezza classica, mentre gli altri due segnano il passaggio del Rubicone pure nelle ombreggiature che danno il rilievo statuario alle figure delle donne alla fontana e della donna nuda seduta che si asciuga il piede.

“Grande bagneuse”, 1921, potrebbe essere, in ben maggiori dimensioni – è un olio di 180 cm per 1 metro – e in altra posizione, la stessa donna nuda che abbiamo visto asciugarsi il piede e ora vediamo seduta su una poltrona con un drappo a righe; una classicità che troviamo attenuata in “Femme assise en chemise”, 1923, la donna è seduta in posa statuaria e indossa una camicia che diventa veste, ma in un tratto pittorico diverso dal precedente, con pennellate tratteggiate e quasi incerte, come per un ripensamento dell’artista.

Il clou classicista, il “flauto di Pan”  e “la corsa”

Non è così, si tratta forse di reminiscenze etrusche, perché nello stesso 1923 vediamo il clou classicista della mostra al culmine di questo periodo picassiano, “La flùte de Pan”,  la statuaria classica è ineccepibile, le ombreggiature in modo molto meno accentuato presentano comunque qualche segno delle pennellate riscontrate nell’opera precedente, ma sono reminiscenze meno pronunciate. A parte questo particolare, è un’opera cui sono state date diverse interpretazioni, anche autobiografiche e da gossip trovandovi allusioni personali, come ricorda la Loreti.

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Anche se soltanto a fine anni ’20 Picasso ebbe l’incarico di illustrare le “Metamorfosi” di Ovidio, dove è rievocato il mito del flauto di Pan, probabilmente lo conobbe dopo aver visto a Roma il gruppo “Apollo e Dafne” di Bernini che lo avvicinò al poeta latino. Ovidio racconta che il flauto fu costruito da Pan usando le canne in cui era stata trasformata la ninfa Siringa per sfuggire alle sue pressanti lusinghe. Vi si è vista la trasposizione del triangolo tra la coppia costituita dall’ereditiera americana Sara Murphy, e il marito Gerald, pittore, entrambi restauratori di Sipari per i Balletti Russi, con Picasso, loro ospite ad Antibes nell’estate del 1923. Le figure hanno un classicismo mitigato da reminiscenze di Cèzanne, “i loro tratti generici e teatrali e il freddo distacco li contraddistinguono come rappresentazioni di una moderna perdita d’identità, profondità, intimità e autenticità”. La Loreti conclude: “Non stupisce che ‘La Flùte de Pan’ possa essere – e sia stato – letto come emblematico di una fase nella carriera di Picasso e nella storia dell’avanguardia considerata come ‘un ritorno all’ordine’ antimodernista, di cui i due giovani rappresentano l’ideale umanistico dell’uomo occidentale che domina sulla natura”.

Il flauto come metafora della .chiamata collettiva alla riscossa nel segno della classicità invece che come espressione del “soddisfacimento solitario del frustrato desiderio sessuale del satiro”?

Restiamo con questo intrigante interrogativo, mentre registriamo il giudizio sui “giovani separati da un immobile e solido mare” che “appaiono congelati nel tempo”. Tutt’altra immagine quella dell’estate precedente trascorsa con la famiglia sulle spiagge della Bretagna, a Dinard, della gouache “Deux femmes courant sur la plage (La course)”, 1922: il mare non è solido e immobile, le giovani non sembrano congelate, tutt’altro, si muovono con leggerezza pur se i loro corpi hanno la pesantezza della statuaria classica, così  la loro corsa sulla spiaggia è sinonimo della “corsa”.

Forse anche della “corsa” di Picasso verso i tanti ulteriori traguardi della sua lunga  e luminosa vita d’artista che nel decennio 1915-25 ha avuto lo splendido slancio documentato meritoriamente alle Scuderie del Quirinale nella mostra che significativamente ha preso “La course” come testimonial.

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Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00.22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità), gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli precedenti sulla mostra sono usciti, in questo sito, il  5 e 25 dicembre 2017, con altre 10 immagini ciascuno. Cfr. inoltre i nostri articoli: in questo sito per il cubismo 16 maggio 2013, Matisse 23 e 26 maggio 2014, Rodin 20 febbraio 2013, Cezanne 24 e 31 dicembre 2013; in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Ales S.p.A.,  con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “La Flùte de Pan” [Il flauto di Pan] 1923; seguono, “Deux baigneuses” [Due bagnanti] 1920, e “Trois femmes à la fontaine” [Tre donne alla fontana] 1921; poi, “Grande bagneuse” [Grande bagnante] 1921, e “Nu debout” [Nudo in piedi] 1922; quindi, “Femme assise en chemise” [Donna seduta in camicia] 1923, e “Deux femmes conversant en pied, fond bicolore bleu et beige”  [Donne in conversazione, in piedi, su fondo blu e beige] 1924; inoltre, “Couple de danceurs III” [Coppia di ballerini] 1922, e “Arlequin musicien” [Arlecchino musicista] 1924; infine, “Les trois danseuses” [Le tre ballerine] 1925, e, in chiusura, “Etudes” [Studi] 1920. 

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Hokusai, 3. Sulle orme del maestro, Eisen e la beltà femminile, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della visita alla mostra in corso a Roma, all’Ara Pacis, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, che espone  circa 300 opere,  i delicati paesaggi di  Hokusai pervasi di spiritualità che abbiamo già descritto,  e le intriganti figure femminili di Eisin, con i loro spettacolari kimono avvolgenti e protettivi, che descriveremo insieme agli altri suoi soggetti, i paesaggi ispirati a Hokusai. La mostra è organizzata da  MondoMostre Skira con Zétema, nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni di relazioni tra Italia e Giappone, è a cura di Rossella Menegazzo che ha curatoanche  il monumentale catalogo Skira.

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Eisen, e le sue icone di beltà femminile

Abbiamo descritto in precedenza le caratteristiche del procedimento “ukiyoe” con il quale venivano prodotte stampe artistiche utilizzando matrici lignee inchiostrate con colori cui la tecnica degli stampatori oltre all’usura attribuiva particolari sfumature  in modo che risultassero multipli non identici.  E l’evoluzione della società giapponese per l’emergere impetuoso della borghesia mercantile ricca e dinamica e lo sviluppo dei collegamenti che favorivano comunicazioni e mobilità,  con il moltiplicarsi dei luoghi di intrattenimento e divertimento – come teatri, case da te e case di piacere – prediletti dalla nuova classe insieme al turismo nei luoghi più caratteristici.

Insieme a questo il desiderio di mantenerne il ricordo con le immagini che una fervente industria editoriale forniva nei multipli dell’ “ukiyoe” e in altre forme, incentrate sui paesaggi dei luoghi più suggestivi delle varie provincie, nonché sulle figure di geishe, cortigiane ed  altri archetipi di beltà femminile esaltata dall’eleganza nell’abbigliamento e  dalle movenze negli atteggiamenti.

Alle beltà femminile si dedicò soprattutto Keisai Eisen, il maestro che viene affiancato ad Hokusai in una sorta di “vite parallele”, perché scomparso l’anno prima anche se più giovane di trent’anni, proveniente da una famiglia di samurai, che abbandonò questo status e si dedicò alla pittura  dell’“ukiyoe” deluso dalle vicissitudini di una vita irrequieta e indisciplinata fino al matrimonio e all’adozione di una figlia.

Ha raccontato le sue vicende in modo romanzato  e teatrale negli “Scritti di un vecchio senza nome”, dandosi un’immagine romantica di sregolatezza che viene collegata alla sua rappresentazione della beltà femminile, cui si dedicò in modo particolare anche se non mancò di esprimersi anche attraverso i paesaggi e non solo. 

Anzi, nel paesaggi segnò una sorta di staffetta con Hokusai, in quanto entrò in quel campo nel 1935 quando il maestro ne uscì per dedicarsi a una pittura più personale al di fuori  dei “nishiki” seriali destinati al grande pubblico. Era suo punto di riferimento più  del maestro diretto Eizan, si dichiarava “suo successore”, era stato suggestionato dalle  visioni paesaggistiche di Hokusai, in particolare dalle “Trentasei vedute del monte Fuji”, tanto che ne dipinse alcune imitandone  la struttura compositiva.

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D’altra parte,  i paesaggi erano più richiesti dei ritratti, vi si dedicava anche Hiroshige il quale anzi nella serie del Kisokaido  subentrò a Eisen che dava maggiore originalità e solennità alle proprie raffigurazioni, appassionato com’era stato fin da giovane per la pittura paesaggistica cinese e la sua base culturale. Forse per questo, osserva Tanabe Makado, “l’osservatore percepisce nei paesaggi di Eisen un sensibilità particolare che li differenzia dalle opere di Hokusai e di Hiroshige”.

Ma i paesaggi sono stati il secondo motivo della sua espressione artistica, sia in termini temporali che d’importanza, del resto è stato pure illustratore di romanzi e realizzatore  di “surinomo”, come Hokusai, anche da questi elementi oltre alla contemporaneità nascono le “vite parallele”.  Il primo motivo in assoluto sono stati  i ritratti di donne con ricchi kimono, “bjiinga”,  dei quali la curatrice Menegazzo dice: “La cosa più interessante è l’approccio completamente nuovo di Eisen al tema di beltà, che ne segnò il successo. Con un ventennio di differenza rispetto alla produzione di Hokusai, Eisen porta questo genere verso altre direzioni. Produce dipinti e silografie in cui il ritratto della beltà diventa imponente”: nel primo periodo  “vi sono ritratti a mezzo busti (‘okubie’, lett. ‘grandi colli o grandi volti’) con cui Eisen affermò la sua originalità a partire dagli anni 1821.22″, della bellezza riesce a dare un’immagine originale fino alla parodia. “I ricchi elementi decorativi dei tessuti e la sensazione quasi tattile caratterizzano anche le immagini erotiche di Eisen, al pari di quelle di Hokusai”.

Clara Tosi Pamphili lo definisce “ispiratore di beltà tra oriente ed ccidente ed esplora il modo con cui viene resa  l’idea della donna “come oggetto di bellezza”: “In questa celebrazione della beltà, dove il femminile usa il proprio corpo e volto come un copione per una parte d recitare, le opere di Eisen segnano una rivoluzione artistica e sociale, forte e intensa”. E ancora: “La pittura di beltà femminile (‘bjiinga’) di Eisen produce una serie di ritratti capaci di andare oltre il concetto di bellezza, superando il lavoro accademico di altri autori di genere perché non si limita alla rappresentazione della grazia o dell’eleganza ma, guardando più nel profondo, riesce a coglierne la psicologia e le sfumature sensuali ed erotiche”. 

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L’attenzione ai dettagli, dall’acconciatura al trucco, dall’abbigliamento ai motivi dei tessuti, è un aspetto non secondario, sono “le immagini del Mondo Fluttuante; la riproduzione dell’effimero, del fluttuante inteso come intangibile che rappresenta la moda nell’accezione più elevata”. Si tratta di un concetto molto moderno: “La moda in continuo cambiamento che mantiene un forte legame con la tradizione ma insegue un’immagine perennemente giovane di novità”. E ancora: “L’immagine di Eisin segna l’inizio della riproduzione estetica orizzontale fine a se stessa dove l’abito è il vero protagonista, come strumento magico di beltà: è la prima vera copertina della storia della moda”.

Tutto questo ha colpito fortemente la sensibilità europea, e non si è trattato solo di un banale  giapponesismo ma ha influenzato anche gli artisti al punto che Van Gogh dipinse una versione della “Cortigiana di Eisin” con l’unica differenza della testa rivolta a sinistra invece che a destra,  e Claude Monet “La giapponese”, con un viso aperto e sorridente  invece della stilizzazione dell’originale.

Ma com’è la beltà femminile di Eisen, come ne esprime insieme psicologia e sensualità? Makado ne fa un’analisi penetrante partendo dalla descrizione di quei volti per nulla stereotipati, anzi con i lineamenti alterati, gli occhi spesso divergenti, la bocca aperta; e i corpi che sembrano  contorcersi nei loro kimono con i piedi che sporgono dalla lunga veste dando l’idea di una solidità sostanziale, l’opposto della fragilità delle delicate immagini orientaliste.

“La rappresentazione distorta ed enfatizzata dei corpi è innaturale e sembra priva di aspetti piacevoli”, è un diverso tipo di ideale femminile che viene proposto, ben diverso da quello del  maestro Elzan cui si ispiravano i suoi primi “bijinga”, “ritratti a figura intera di donne dalla corporatura delicata, graziose e dallo sguardo disincantato come fossero delle bambole”. I ritratti femminili a mezzo busto dal 1821-22 presentano “una varietà di espressioni che riflettono i diversi sogegtti, senza che  mai i volti rimangano cristallizzati in stereotipi di bellezza: è anzi dalla vivida espressività che scaturisce la loro decisa personalità”

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 Così  conclude Makado su questo tema: “Lo stile proposto da Eisen  trasmette il sapore amaro della vita reale e dei sentimenti umani”. Ed ecco come: “Corpi e volti dai profili sinuosi e forme distorte non sono il frutto di un processo di idealizzazione che vuole allontanarsi dal reale, ma la rappresentazione enfatizzata di persone che hanno affrontato le difficoltà delle vita: questa è la ragione  per cui sono intrisi di un forte senso della realtà”. Eisen rappresentò donne comuni nelle occupazioni quotidiane, quando  nel 1842 furono vietate le raffigurazioni di cortigiane e geishe,

Tutto questo in un mondo artistico improntato a un estetismo lezioso ed esteriore era fonte di forti emozioni e sollecitazioni, ed ha rappresentato una vera rivoluzione, come per altri versi lo è stata l’opera del più grande di tutti, Hokusai. Non resta che ammirarne le opere esposte nella sterminata galleria dell’Ara Pacis.in parallelismo con quelle di Hokusai dalle quali si differenzia molto la rappresentazione della beltà femminile, per Hokusai è stato un soggetto minore, per Eisen è “il soggetto”  in assoluto, salvo le incursioni neri paesaggi, questi sull’ “orma del maestro” Hokusai.

Le immagini delle cortigiane di Eisen sovrastano i paesaggi

Nnella prima sezione della mostra, tra gli sconfinati paesaggi di Hokusai troviamo molte figure femminili di Eisen, mentre nessuna di Hokusai: sono collocate in una parte dedicata ai luoghi più prestigiosi e  alla natura rigogliosa per il fatto che in Eisen sullo sfondo fanno capolino i paesaggi. Diciamo “fanno capolino” perché sono in un riquadro di piccole dimensioni, una finestrella  nella parete posteriore dell’ambiente occupato dalla figura predominante, anzi prorompente, della figura femminile avvolta in un sontuoso kimono istoriato  Sono immagini di locandine pubblicitarie in cui la veduta della località celebre o del locale è riprodotta in piccolo mentre in grande spicca la figura femminile attraente e invitante.

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C’è sempre il riferimento per così dire turistico nelle  30  opere di Eisin di soggetto femminile della sezione in cui il paesaggio locale è “relegato” nella finestrella.  Le prime serie sono del 1818-30, ciascuna rappresentata da 2 delicati “ritratti”, “Luoghi famosi delle province al paragone di ‘Murasaki'”,  con la donna seduta a terra , la seconda con un bambino, e la serie “Collezione delle specialità Edo”,  in cui sono in piedi con un linguaggio del corpo volto al dinamismo, l’abito che le avvolge nelle 4 raffigurazioni è elaborato con disegni, righe e riquadri geometrici.

La serie più ricca è senza dubbio il  “Gioco da tavolo delle cortigiane in parata. 53 parodie di Yoshiwara”, del 1825, con 24 opere esposte ciascuna identificata da un nome diverso.  Le immagini abbinano le 53 stazioni del Tokaido – che segnavano la sosta nella strada principale che lungo la costa collegava la capitale imperiale Kyoto ad Edo, l’odierna Tokyo, sede amministrativa dello “shogunato” – alla bellezza di altrettante cortigiane dei quartieri di piacere di Yoshiwara, riprese a figura intera con 53 piccole vedute delle singole stazioni nelle finestrelle.

Sono avvolte da kimono opulenti  per la ricchezza delle decorazioni e l’intensità cromatica, mentre i corpi scompaiono nella pesante coltre protettiva dell’abito e i volti sono l’unico elemento identificativo,  limitato dall’omologazione dei lineamenti,  ridotti al sottile contorno del viso e alle fessure degli occhi.  Anche l’acconciatura è omologata, i capelli sempre neri raccolti con delle vistose e ridondanti bacchette ornamentali; soltanto “Yoshida. Takanoo della Sagata Ebiya” li ha sciolti e molto lunghi perché è ripresa mentre si pettina, la citiamo per questa sua singolarità.

Sembrerebbero aspetti riduttivi, questi, invece rappresentano il segreto del fascino delle cortigiane, simili nei visi ma diversissime nelle vesti sontuose e nel linguaggio del corpo, che pur nascosto dai pesanti tessuti fa sentire la sua presenza, anche di qui emerge la loro psicologia.

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In una diecina di immagini sono in piedi, sempre sole, ad eccezione  di “Michinnoku e Michikusa dalla Maruebiya”, citiamo i nomi perché è la composizione che si differenzia dalle altre mostrando due donne vicine e simili come sorelle siamesi; le altre immagini le raffigurano sempre singole, accoccolate o sedute. Pochissimi gli elementi di contorno, spesso non c’è nulla a parte la finestrella paesistica, o c’è un tavolinetto, un mobile, un libro,  per lo più sono assorte, alcune suonano uno strumento musicale, leggono o preparano il te, ma questo non è messo in evidenza, l’elemento dominante, lo ripetiamo, è il sontuoso kimono che le avvolge in una maestosità teatrale.

Abbiamo detto che in questa serie i visi sono sovrastati dal sontuoso abbigliamento e anche dal vistoso ornamento della capigliatura. Ebbene, fanno eccezione due opere della serie “Collezione di ristoranti di cucina”, 1830-44, incui i volti di “Ebisu’an a Nihonhashi” e di “Tomoeya a Namiki ad Asakusa”  sono ripresi in primissimo piano con i capelli raccolti ma quasi liberi da stecche ornamentali, l’espressione attenta nella lettura o assorta nella riflessione, sulla parete invece della finestrella un quadretto con il paesaggio costituito da un ponte nel primo, una piazza affollata nel secondo, ben più elaborati di quelli molto sommari delle finestrelle..

In una evidente  progressione,  la serie “Beltà delle stazioni di Takaido”, 1842, dà un  rilievo molto maggiore al paesaggio, né finestrelle né “quadri nel quadro”, ma  occupa la metà superiore della composizione perché la donna, che pure resta in primo piano, è all’esterno, inserita in un ambiente altrettanto protagonista.  La vediamo nella “Stazione  di Oiso”, sulla spiaggia mentre lava in una tinozza, è l’unica immagine a seno nudo, e nella “Stazione di Numazu” in cui apre  una grossa scatola piena di oggetti avvolta in una lunga veste a fiori.

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Ma abbiamo interi paesaggi di Eisen, a parte i pur significativi “assaggi” delle finestrelle, del “quadro nel quadro” e del secondo piano rispetto alla preminente figura femminile? Certo, anzi va sottolineato che Eisen decise addirittura di dedicarsi al paesaggio intorno al 1835, quando Hokusai lasciò la produzione di serie degli “ukiyoe”  per dedicarsi a una pittura più raccolta, tutto preso dall’ammirazione che aveva per simile maestro e anche per occuparne lo spazio lasciato libero.

Sono 8 le opere paesaggistiche esposte nella mostra, la prima risale al 1818-30, “Illustrazione del tempio del 500 Arhats”,  al centro la pagoda  con sullo sfondo a sinistra l’inconfondibile monte Fuji, tra altri edifici, è della serie “Nuova edizione di stampe prospettiche” e la ricerca della prospettiva è evidente.  Come nella “Illustrazione della veduta del portale del Dio del trono al Sensoj nel Kinryuzan” con il portale in primo piano,  entrambi sono movimentati da molte piccole figure umane in un omogeneo cromatismo verde-azzurro; sembra lo stesso portale quello raffigurato nella “Veduta del Sensoj con la neve nel Kiuryuzan nella Capitale Orientale”, tutto è coperto di bianco con piccole macchie di verde degli alberi mentre dal cielo fiocca la neve. Entrambi sono del 1830-44, come lo “Schizzo della ricostruzione del santuario Sumijoshi e delle sue lanterne nell’isola Tsukada a Edo” e “Il mercato del rafano alla festa di Shiba Shimmei”,  nel primo grande maestria prospettica e architettonica unita alla brulicante presenza umana, nel secondo l’edificio fin qui sempre presente è immerso nel verde che avvolge l’intera composizione.

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Non manca la costruzione neppure nei paesaggi che possiamo definire “acquatici”, prediletti da Hokusai, come nella “Stazione di Unuma. Veduta in lontananza del monte Inuyama”, una bassa catena montuosa ben diversa dalla verticalità conica del monte Fuji che si staglia dietro la distesa cerulea delle acque, e nei due ultimi esposti come datazione, “Luce del tramonto sul ponte di Ryugoku”, con un ponte affollato di persone e “Luna autunnale sul monte  Atago”, l’immancabile costruzione a sinistra, barchette in fondo,  tre alberi di cui quello al centro sembra toccare la luna. I titoli evocativi ricordano quelli di Hokusai.

 La beltà muliebre con e senza paesaggi di Eisen 

Nella seconda sezione della mostra la beltà femminile viene esaltata senza più il corollario ambientale delle finestrelle e dei quadretti paesaggistici che abbiamo visto nella prima sezione, ma ci sono sempre dei quadretti con iscrizioni giapponesi nella serie “I sette saggi nel quartiere di piacere [Yoshiwara]”, 1818-30, quartiere che abbiamo conosciuto nelle immagini del “Gioco da tavolo delle cortigiane”. Sono 6 opere dalle caratteristiche analoghe a quelle della prima sezione, la stessa sontuosa ricchezza di abiti istoriati, un linguaggio del corpo altrettanto espressivo, volti dai lineamenti appena delineati.

Così altre 3 opere, sempre con immagine singola in piedi o accosciata, della serie “Quattro stagioni nei quartieri del piacere Eventi a Yoshiwara”, 1823, che ritroviamo ancora, i quadretti alla parete raffigurano gli eventi celebrati, la “Danza il primo giorno dell’anno”, il “Lavaggio dei capelli al sesto mese”,  i “Festival di Hassaku e Niwaka nell’ottavo mese“.

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Due serie riportano ai primissimi piani dei volti della serie già citata “Ristoranti di cucina”, sono la serie intitolata esplicitamente “Beltà alla moda del Mondo Fluttuante al paragone”, 1823-24, con 2 opere esposte, “Cortigiana” e “Geisha che beve  il sale”, e la serie “Dodici paesaggi di beltà moderna”, 1822-23, con 4 opere esposte. Questa seconda serie è dedicata ai “paesaggi di beltà” perché i paesaggi tornano ad essere rappresentati nei quadretti sulla parete di fondo, e nei titoli è abbinato il nome della località con l’atteggiamento della persona, come “Atagoya e donna dall’aspetto maturo”, “Il tempio Benzatem… Donna dall’aspetto di maschiaccio” e così via.

Sono del periodo 1830-44  2 opere della serie “Specialità moderne”, nella prima  la figura femminile è in piedi nel “Ristorante di tofu”  dinanzi a vasi floreali, il corpo  arcuato con la camicia aperta che scopre il seno, nella seconda è seduta su una panca e guarda  i “Fuochi d’artificio sul ponte Ryogoku”.  Ma colpiscono soprattutto 4 opere monocromatiche in un blu intensissimo, dello stesso periodo, 2 delle serie “Beltà durante le cinque festività al paragone”, e “Riflessi dello stile moderno”, 2 isolate raffiguranti una “Cortigiana con soprakimono” diversamente istoriato.

La sterminata galleria della beltà muliebre di Eisen comprende anche 6 opere con più figure femminili, del periodo 1818-30, sono leziose  e raffinate, ci ricordano quelle di Hokusai, non sembrano quelle tipiche di Eisen che abbiamo descritto finora. I titoli: “Beltà sotto le luci serali ad Akiba” e “Pioggia d’inizio d’estate”, “Mode delle donne delle quattro classi sociali: samurai, contadini, artigiani, mercanti”, e “Cortigiane e attendenti che si intrattengono in privato”, “Cortigiane  attendenti alla Suyata Ebiya” e “Cortigiane a attendenti nei quartieri temporanei”, quest’ultima in uno spettacolare blu in cui spiccano i visi bianchi, le altre affollate e  movimentate, con linee raffinate medainte un segno sottile fino all’arabesco pur nella ricchezza ornamentale.

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 Non finisce qui la celebrazione della beltà femminile di Eisen, come in Hokusai ci sono anche le “Immagini pericolose” “abunae”degli anni 1818-30, “Amanti che si baciano” e  “Amanti furtivi”, “Amanti che si godono la brezza serale” e “Amanti allo specchio”‘, “Amanti dentro un’imbarcazione con la neve”  e “Coppia di amanti dopo il risveglio”, “Coppia di amanti al chiaro di luna” e “Coppia di amanti con braciere”.. L’intensità del rapporto è resa dai visi e dalle posizioni, con qualche nudità spinta fino alle parti intime, e un amplesso esplicito, ancora non era scattata la puritana censura. Anche qui le linee sono sottili, avvolgenti, come arabeschi, le tinte pastello.

I “surinomo” e i “manga” di Eisin

Parimenti, come è stato per Hokusai, nella terza sezione vediamo di Eisin  i surinomo” e altri lavori celebrativi di località, incontri ed eventi,  come i “Luoghi e specialità della provincia di Yamashiro” e “La barca del tesoro”, i “Simboli benaugurali per l’anno del bue”, l’“Alcova decorata per il nuovo anno con simbolo cinese” e il “Campionario di tessuti importati”, sempre  con un segno sottile e colori pastello ben diversi dall’impeto plastico e cromatico delle figure femminili che abbiamo descritto. E troviamo anche, nella quarta sezione,  i suoi “manga”, le 8 pagine del libro illustrato “La borsa di broccato” e le 2 pagine della “Raccolta di scritti di Shotei”, schizzi di insetti e altro che citiamo per completezza.

L”immagine che vogliamo conservare di questo grande artista è la sua celebrazione della beltà femminile attraverso il linguaggio del corpo e dell’abbigliamento, piuttosto che con il viso e le forme del tutto nascoste, ma la cui psicologia e sensualità emergono attraverso i sontuosi kimono. Un’immagine, tante immagini indimenticabili come, per altro verso, i mitici paesaggi di Hokusai, primi tra tutti  il “Fuji rosso”, la montagna sacra, e la “grande onda”, una vera icona.

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Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  5 e l’8 dicembre u. s., con altre 12 immagini ciascuno. Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito, “Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, tranne  le n. 8, 11, 12 tratte dal DVD cortesemente fornito, si  ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Cortigiana” 1823-24; seguono 7 immagini della serie “Gioco da tavolo delle cortigane in parata. 53 parodie di Yoshiwara“, 1825, Nihonbashi a Edo. Hanaogi della Ogiya” e “Hodogaya. Hanamurasaki della Tamaya” ; poi, “Fujisawa. Matsushima della Sano Matsuya”  e “Kameyama. Hanagawa della Wakamatsuya”; quindi,  “Yoshida. Takanoo della Suyata Ebiya”, “Naruni. Tamagawa della Maruebiya”, e “Hisaka. Michisode della Owariya”; inoltre,  “Cortigiana con soprakimono con motivo di carpa che risale la cascata” 1830-44; e “Cortigiane e attendenti alla Suyata Ebiya” 1828; infine, “Momongawa” 1830-44, e, in chiusura, “Cortigiane e attendenti nei quartieri temporanei”  1835.

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