Picasso, 3. Dal teatro alla monumentalità classica, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Si conclude, con il resto della storia artistica del decennio 1915-25, la nostra visita alla mostra   “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25”, che si svolge alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018  con 100  tra dipinti, disegni e gouaches e un ricca documentazione di fotografie  e lettere-cartoline inerente il  viaggio in Italia che compì nel 1917,  in preparazione delle scene e costumi del balletto “Parade”, di cui è esposto anche il monumentale “Sipario” a Palazzo Barberini. Mostra prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira, con le Gallerie Nazionali di Arte Antica, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris,  curata da Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf,. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée national Picasso-Paris.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b4745e2.jpg

Abbiamo dedicato le prime due parti del nostro resoconto della visita alle motivazioni, ai contenuti e ai riflessi del viaggio in Italia di Picasso del febbraio-aprile 1917 per raggiungere la “troupe”  dei Balletti russi di Djagilev  a Roma, poi a Napoli, in modo da poter preparare in contatto con loro scene e costumi del balletto  “Parade” presentato per la prima volta a Parigi il 18 maggio 1017,  e il 10  novembre a Barcellona; quindi a questo balletto, nella sua genesi e nella sua preparazione tormentata e insieme esaltante per il fervore creativo dei protagonisti. La mostra si sofferma in modo particolare su di esso, data la sua importanza anche simbolica nel segnare la contaminazione e il sincretismo tra diverse arti, nonché la compresenza di diversi stili nella produzione artistica di Picasso di tale periodo con la rivalutazione del classicismo legato alla tradizione insieme al “cubismo sintetico” delle avanguardie di cui Picasso era antesignano e tra i maggiori esponenti.

Nonostante i riflettori siano puntati su “Parade”, è stata una delle tante “performance” teatrali dell’artista legato all’impresario russo Djagilev che operava con una propria compagnia indipendente dopo lo scioglimento di quella ufficiale. Abbiamo accennato anche alle altre, ora parliamo in  particolare di “Pulcinella”, musiche di  Stravisnskij, e di “Mercure”, fino  all’epilogo.

 “Pulcinella” con Stravinskji e gli ultimi balletti

Il 1919 è anche l’anno in cui alla fine dell’estate inizia la preparazione del balletto “Pulcinella”, con le musiche di Stravinskji con il quale aveva visitato Napoli preso dagli spettacoli da commedia dell’arte nelle variopinte strade cittadine nei c’era questa maschera napoletana che, però, non era piaciuta al compositore il quale lo aveva definito “un lestofante ubriacone” aggiungendo: “Ogni suo gesto, e probabilmente ogni sua parola, se mai l’avessi capita era oscena”. Il bozzetto di Picasso per il “Costume di Pulcinella” che vediamo esposto presenta una figura notevolmente rigonfia, a differenza della fotografia di Massine che lo indossa con la sua corporatura snella, la maschera nera in viso. C’è anche un bozzetto con “Prudenza”, una fanciulla danzante, snella e leggiadra.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b4901a5.jpg

Nonostante la scarsa comprensione iniziale dell’umanità giocosa di Pulcinella, e sebbene avesse scarsa simpatia per le musiche settecentesche di Pergolesi che avrebbe dovuto arrangiare e orchestrare secondo l’impostazione data da Djagilev, Stravinskji era affascinato dalla forma d’arte popolare nella quale trovava valori universali e motivi di attrazione al pari di Picasso, fino ad avere con lui le “affinità elettive” sottolineate dal curatore Olivier Breggruen: “A parte l’amicizia, Picasso e Stravinskji avevano molto in comune: il rapporto non facile con il modernismo aggressivo di dadaisti e futuristi, il rifiuto dell’espressionismo, l’utilizzo di forme d’arte popolari, la scarsa simpatia per i movimenti artistici organizzati, e soprattutto la somiglianza delle rispettive concezioni artistiche. Entrambi avevano un retroterra simbolista… e le loro tendenze moderniste erano per così dire temperate  da un influsso classicizzante. Entrambi si sentivano a disagio rispetto al tentativo dell’avanguardia di tagliare ogni legame con le tradizioni storiche. A differenza di dadaisti e futuristi, il loro lavoro cercava l’ispirazione nel passato”.

Di tutto ciò troveremo conferma, per quanto riguarda Picasso,  anche nelle sue opere non legate alle rappresentazioni teatrali. Per ora proseguiamo nella rievocazione del balletto su “Pulcinella” ricordandone la gestazione tormentata, con Djagilev che rifiutò per due volte la scena proposta da Picasso nella quale veniva trasformata in teatro con quinte e palchi la vista di Napoli e del Vesuvio, finché l’artista la inquadrò come sfondo di una caratteristica strada cittadina. In mostra è presentato il bozzetto in cui tra le quinte teatrali a sipario aperto spiccano due grandi edifici quasi metafisici con in alto la luna piena su un cielo nero. 

L’esito fu notevole, dal punto di vista spettacolare e artistico, lo ricorda il curatore: “I costumi di Picasso creavano uno spassoso contrasto con lo scenario cubista, mostrando la sua interpretazione moderna del classicismo. Comunque, come osservò in seguito Stravinskji, era ‘una di quelle produzioni in cui tutto trova un’armonia, in cui tutti gli elementi – soggetto, musica, danza e ambientazione artistica- formano un tutto coerente e omogeneo'”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b49451d.jpg

“Pulcinella” fu rappresentato il 15  maggio 1920 all’Opera di Parigi ed esattamente un anno dopo, il 17 maggio 1921, sempre a Parigi, al Theatre de la Gaité-Lyrique, andò in scena il balletto “Cuadro flamenco”, anch’esso della compagnia di Djagilev, rappresentato al Prince’s Theatre di Londra due settimane dopo. Le scene furono ricavate, su indicazione dell’impresario, dai disegni predisposti da Picasso per “Pulcinella”, ma scartati. Dopo “Pulcinella” non lavorerà più con Stravinskji.

Nel 1922 nuovo dissenso con Djagilev che rifiuta il soggetto da lui individuato per il fondale dello spettacolo “L’Aprés-midi d’un faune”, poi l’anno si conclude con la scenografia, da lui curata, dell’Antigone”di Sofocle, opera in cui lavorò con Jean Cocteau, il suo mentore in “Parade”.

Nel triennio conclusivo del periodo considerato dalla mostra, lo vediamo impegnato a dipingere scene, costumi e sipario del balletto “Mercure”presentato a Parigi al “Teatro dei Campi Elisi” il 15 giugno 1924 con un’accoglienza da parte del pubblico altrettanto contrastata che per “Parade”. Di questo balletto sono esposte 8 immagini fotografiche di una serie di momenti, “La notte della tenerezza” e “La danza della tenerezza”, “I segni” e “Mercurio che uccide Apollo per poi rianimarlo”, “La furia” e “Il bagno delle Tre Grazie”, “Festa a casa di Bacco” e “Il ratto di Proserpina”, nelle quali spicca la fantasia compositiva e la maestria di Picasso nel dare una veste cubista alla magia del mito che ben si presta a tali trasposizioni. Anche se sono tra le ultime sue opere teatrali non ci sembra mostrino alcuna stanchezza.

Intanto una sua opera di cui parleremo al termine, “Deux femme courant sur la plage (La course)” viene utilizzata con il suo consenso come modello per il sipario del balletto “Le Train Blu” messo in scena dai Balletti Russi il 20 giugno, sempre del 1924, nello stesso  teatro parigino.Il teatro nelle maschere Arlecchino e Pierrot e nei danzatori

Ma la sua partecipazione diretta non è stata l’unico modo con cui si è avvicinato al teatro. “E’ noto che Picasso – osserva Berggruen- amava ritrarsi in veste di Arlecchino: è un indizio della sua passione per il teatro, soprattutto nelle sue forme più umili e popolari, come il circo e il vaudeville. E’ anche una metafora della vulnerabilità dell’artista. Picasso si identificava con la folla girovaga di giocolieri e musicisti, e si dipingeva come Arlecchino già nel 1905 in ‘Au Lapin Agile'” Il tema di ‘Parade’ è quello di uno spettacolo che ricorda il popolare teatro di vaudeville.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b49f12d.jpg

“L’artista può essere visto come un trickster, un burlone, e l’Arlecchino, con il suo costume variopinto e sfaccettato, funge da metafora della versatilità stilistica”, di cui abbiamo già parlato. Del resto era “servo di due padroni”, che per Picasso potrebbero essere  il cubismo e il classicismo, anche se non mancano incursioni in altri versanti come il puntillismo e il surrealismo.

In effetti, sono molti i dipinti con Arlecchino esposti in mostra, cui si aggiungono altre maschere a lui care come Pierrot. Ne abbiamo già citati due in apertura del nostro resoconto, posti all’inizio della galleria espositiva, parliamo ora degli altri della sezione apposita.

E’ del 1917 “Arlequin (Léonide Massine)” in cui ritrae il coreografo con il quale era impegnato in “Parade”, la testa reclinata con espressione pensierosa, il gomito destro appoggiato a una balaustra con il caratteristico berretto nella mano sinistra vicino a un tendaggio rosso aperto, in un costume con accennate le losanghe ma non variopinto, bensì sul celeste-verde e bianco. Mentre è seduto davanti a un tendaggio sempre rosso con a lato una colonna classica, il berretto nero in testa e il costume a losanghe questa volta variopinte “Arlequin avec guitare”, 1919, raffigurato mentre suona lo strumento con il viso sorridente.

Vediamo anche “Arlequin au mirror”, 1923, espressione attenta mentre guarda nel minuscolo specchietto che tiene nella mano destra, la sinistra verso la testa come per riavviare una ciocca di capelli o sistemare meglio il berretto. L’anno successivo dipinge “Paul en Arlequin”, il figlio Paolo con il caratteristico costume a losanghe diventate celesti e gialle. Tutti dipinti a olio su tela. in perfetto linguaggio figurativo senza la benché minima trasgressione.

Ma nel 1924 torna l’Arlecchino del 1917-18, in “cubismo sintetico” anche se con migliore identificazione antropomorfa, si tratta di “Arlequin musician”, su una poltrona verde con uno strumento a corde nelle mani, forse una chitarra, alla quale nello stesso anno dedica due acquerelli, sempre in stile cubista, intitolati “Guitar sur une table”.

Arlecchino non è sempre solo, è con Pierrot in due raffigurazioni entrambe intitolate “Pierrot et Arlequin”, ma molto diverse. Nel piccolo disegno a matita del 1918  il primo ha il flauto, il secondo la chitarra, l’uno accanto all’altro in piedi sono delineati in un perfetto figurativo;  l’altrettanto piccolo acquerello su carta del 1920 li ritrae invece in stile cubista molto addolcito perché chiaramente antropomorfo, anche se .con tutte le semplificazioni del caso. Ancora  più addolcito, aggiungiamo per inciso, il cubismo di un altro piccolo acquerello forse anch’esso legato al teatro, “Due femme conversant en pied, fond bicolore bleu et beige”, 1934, le due donne in conversazione sono antropomorfe anche se non figurative, è una sorta di terza via tra cubismo e classicismo che di tanto in tanto si fa strada.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b4a2df6.jpg

L’altra maschera si trova anch’essa da sola nei suoi quadri. Ecco “Pierrot”, 1918, un originale olio su carta che lo ritrae seduto con il caratteristico abito e il cappello, il gomito sinistro appoggiato a un tavolo con una tovaglia rossa su cui si trova un libriccino aperto su due pagine scritte; c’è anche un piccolo disegno dello stesso anno con il medesimo titolo, la maschera in piedi sembra stropicciarsi le mani, l’espressione sorridente. Infine abbiamo anche qui l’identificazione del figlio, ecco “Paul en Pierrot”, ritratto nel 1925, l’anno successivo di “Paul en Arlequin”, vestito bianco, maschera nera in mano, davanti a una ringhiera tra il rosso del pavimento e il nero del lato destro con il celeste nel lato sinistro, un figurativo in un contrasto cromatico magistrale.

Nel mondo del teatro ha anche ripreso in rapidi schizzi dei momenti particolari, come “Deux danseuses”, 1919, una composizione con le due figure delineate in equilibrio armonico, la loro forma arrotondata è confermata da “Danceuse”, 1919, con la ballerina in piedi, i gomiti già puntati; invece “Couple de danceurs II”, 1922, è fatta di secche linee schematiche che richiamano certo Matisse. In “Deux danseurs”, 1925, due ballerini sono ripresi in pose diverse, uno seduto a riposo appena delineato, l’altro che si esercita alla sbarra con segni molto marcati in un dinamismo coinvolgente. Invece in“Quattre danseurs”, 1925, i ballerini sono quasi avviluppati in un intreccio  da “Laocoonte”, delineati in modo calligrafico con forme michelangiolesche appena accennate.

Ci sembra di particolare interesse accostare le due raffigurazioni dello stesso soggetto in due anni successivi: “Saltimbanque accoudé”,un piccolo disegno del 1922 che mostra il saltimbanco seduto su una sedia, le gambe accavallate, la testa appoggiata al braccio destro sulla spalliera; mentre “Saltimbanque assis, le bras croisé”, 1923,  un grande olio su tela lo rappresenta sempre seduto ma senza piegare la testa .

“Les trois danseures”, 1925, chiude la mostra cronologicamente e logicamente essendo il canto del cigno, per così dire: le tre ballerine appaiono smagrite e la deformazione oltre che stilistica è anche metaforica, per Picasso la stagione di “pittore di teatro” si è proprio conclusa.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b508120.jpg

I due versanti compresenti: il lato cubista

Ma non si conclude qui la nostra rievocazione del magico decennio 1915-25 cui è dedicata l’esposizione, perché mentre lasciamo Picasso “pittore di teatro” ritroviamo l’artista senza confini in due sue manifestazioni particolarmente significative, giustapposte e complementari al contempo: nelle nature morte di rigoroso stile cubista e nei dipinti classicisti di nudi e soggetti  vari. E’ un modo anche per noi di rientrare nella realtà quotidiana dopo il viaggio fantastico nel mondo del teatro iniziato con “Parade”, lo spettacolare “Sipario” a Palazzo Barberini e le altre opere citate.

Dopo quanto abbiamo detto in precedenza sul significato prevalente che dava agli oggetti, ci restano da commentare le sue 5 nature morte, facendo premettere una citazione di “Etudes”, 1920, l’olio su tela che appare un manifesto programmatico della compresenza di stili, diviso com’è in 3 riquadri con piccole composizioni in stile cubista indecifrabili cui se ne aggiungono 3 più piccoli, e 4 riquadri di impronta classicista con una coppia di persone, una testa e due mani in stile figurativo.

Accostiamo “Composition au verre et à la pipe”, 1917,  a “Mandoline sur un guèridon”, 1920, perché il bicchiere e la pipa da un lato e il mandolino dall’altro sono sfigurati e resi irriconoscibili dal cubismo esasperato con frammentazioni geometriche, come di sezioni ritagliate e piani sovrapposti; mentre le tre “Nature morte” dipinte a Saint Raphael nel 1919, anno intermedio tra i due appena citati, “A’ la guitare devant une fenétre”, “Sur une table devant un a fenètre” e “Devant une fenètre” esprimono l’impegno alla sintesi tra i dettami cubisti e i criteri classici, le componenti sono perfettamente riconoscibili con l’elemento comune della finestra sul mare. Non si può non ripensare alle parole della canzone “Fenesta che luciva”: “A Mergellina ce sta na fenesta…”, del resto era stato a Napoli due anni prima e aveva già cominciato  a lavorare per “Pulcinella” con Stravinskji, suo compagno nell’escursione napoletana.

Una attenuazione di stampo diverso del cubismo la troviamo in “Fillette au cerceau”, dello stesso  1919, pur con i frammenti ritagliati e le superfici sovrapposte del “cubismo sintetico” sono percettibili la figura della fanciulla e il cerchio che ha in mano, con volto e piedi visibili pur se molto schematizzati.

Questa figura umana di confine, per così dire, oltre ai festosi acquerelli e gouache, rende meno brusco il passaggio a quello che per noi è il culmine della mostra dopo tanta pittura teatrale e tanto cubismo: la reinvenzione del classico, quasi per reagire alle distruzioni fisiche e morali di una guerra sanguinosa – come è stata la prima Guerra mondiale – rifacendosi ai principi universali dell’arte classica, dall’architettura alla statuaria greca, semplice e solenne, per ripartire su basi ben più solide di quelle offerte dagli stili d’avanguardia, nati da impulsi transitori e spesso effimeri..

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b4c3a0b.jpg

L’approdo classicista

Nel suo ricorso alla classicità è ben visibile l’esperienza teatrale che stava vivendo. Silvia Loreti scrive: “Prima del 1917 Picasso considerava l’antichità classica come l’origine di una tradizione inpartitagli da studente e da lui sfidata con l’avanguardismo. La collaborazione con i Balletti Russi gli rivelò le potenzialità di un’alleanza tra l’iconoclasmo avanguardista e l’arte altamente accademica, codificata e aristocratica del balletto classico. Lavorando con musicisti e coreografi, le sue collaborazioni teatrali sovvertirono le teorie classiche dell’arte, che esortavano alla separazione tra le arti visive, la musica e la danza. In Italia, il paese di più lunga tradizione classica, Picasso prese coscienza, per parafrasare Rodin, della giovinezza dell’antichità”.

Ed è visibile anche la propria impronta stilistica, la monumentalità delle figure è accompagnata da una certa visione parodistica con gesti eccessivi e positure esagerate, quasi volesse segnare un certo distacco nel momento stesso dell’adesione per non cadere nell’accademismo, mentre non  tagliava i ponti con il cubismo, che continua ad essere la cifra stilistica di opere  contemporanee, come “Mandolin sur un guèridon” del 1920, oltre a “Fillette au cerceau” del 1919 sopra citate.

L’ispirazione classica porta ai nudi e alle teste che troviamo nella galleria espositiva di questa sezione. Vediamo alcuni disegni a matita su carta, per lo più di piccole dimensioni, e dei grandi dipinti a olio in una sorta di escalation spettacolare e artistica.

Tra i primi, il piccolo “Groupe de quatre baigneuses”, 1921, presenta le quattro bagnanti che conversano in una composizione dinamica delineandone i contorni con segno sottile, come il grande “Nu drapé assis dans un fauteil”, 1923, nel quale la figura femminile nuda seduta su una poltrona con il drappo in grembo appena delineata appare invece in posa statuaria. Nello stesso anno troviamo all’opposto “Deux nudes musiciens au Pan-flùte”, con forti chiaroscuri quasi che il flauto di Pan – che ha ispirato una grande tela come vedremo – meritasse la sottolineatura grafica; e, intermedi tra i due estremi citati,  “Baigneuse allongèe”, in parte chiaroscurata, e “Trois nus”,  1923, dei tre nudi due chiaroscurati, il primo solo delineato tranne la macchia scura dei capelli.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b53d72a.jpg

“Nu debout”, 1922, è forse la più classicheggiante delle figure disegnate su carta, la donna nuda in piedi sembra una statua greca e le ombreggiature sono ben diverse da quelle sopra riscontrate, danno il senso del rilievo e della solennità. Ispirati direttamente alla statuaria classica appaiono anche le tre “Téte de femme”, 1921, rispettivamente pastello, carboncino su carta, olio su tela, un crescendo sempre più vicino all’originale classico che arriva alla testa riccioluta da divinità greca.

Le grandi gouache, sanguigne e pastello “Deux baigneuses“, 1920, “Trois femmes à la fontaine”, e “Nu assis s’essuyant le pied”, 1921, preparano il passaggio ai dipinti nei quali il ritorno al classico si manifesta in modo particolarmente spettacolare. Nel primo, che sembra un olio, c’è ancora la deformazione cubista pur se appena accennata, i corpi mostrano la compostezza classica, mentre gli altri due segnano il passaggio del Rubicone pure nelle ombreggiature che danno il rilievo statuario alle figure delle donne alla fontana e della donna nuda seduta che si asciuga il piede.

“Grande bagneuse”, 1921, potrebbe essere, in ben maggiori dimensioni – è un olio di 180 cm per 1 metro – e in altra posizione, la stessa donna nuda che abbiamo visto asciugarsi il piede e ora vediamo seduta su una poltrona con un drappo a righe; una classicità che troviamo attenuata in “Femme assise en chemise”, 1923, la donna è seduta in posa statuaria e indossa una camicia che diventa veste, ma in un tratto pittorico diverso dal precedente, con pennellate tratteggiate e quasi incerte, come per un ripensamento dell’artista.

Il clou classicista, il “flauto di Pan”  e “la corsa”

Non è così, si tratta forse di reminiscenze etrusche, perché nello stesso 1923 vediamo il clou classicista della mostra al culmine di questo periodo picassiano, “La flùte de Pan”,  la statuaria classica è ineccepibile, le ombreggiature in modo molto meno accentuato presentano comunque qualche segno delle pennellate riscontrate nell’opera precedente, ma sono reminiscenze meno pronunciate. A parte questo particolare, è un’opera cui sono state date diverse interpretazioni, anche autobiografiche e da gossip trovandovi allusioni personali, come ricorda la Loreti.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627afdc4f0.jpg

Anche se soltanto a fine anni ’20 Picasso ebbe l’incarico di illustrare le “Metamorfosi” di Ovidio, dove è rievocato il mito del flauto di Pan, probabilmente lo conobbe dopo aver visto a Roma il gruppo “Apollo e Dafne” di Bernini che lo avvicinò al poeta latino. Ovidio racconta che il flauto fu costruito da Pan usando le canne in cui era stata trasformata la ninfa Siringa per sfuggire alle sue pressanti lusinghe. Vi si è vista la trasposizione del triangolo tra la coppia costituita dall’ereditiera americana Sara Murphy, e il marito Gerald, pittore, entrambi restauratori di Sipari per i Balletti Russi, con Picasso, loro ospite ad Antibes nell’estate del 1923. Le figure hanno un classicismo mitigato da reminiscenze di Cèzanne, “i loro tratti generici e teatrali e il freddo distacco li contraddistinguono come rappresentazioni di una moderna perdita d’identità, profondità, intimità e autenticità”. La Loreti conclude: “Non stupisce che ‘La Flùte de Pan’ possa essere – e sia stato – letto come emblematico di una fase nella carriera di Picasso e nella storia dell’avanguardia considerata come ‘un ritorno all’ordine’ antimodernista, di cui i due giovani rappresentano l’ideale umanistico dell’uomo occidentale che domina sulla natura”.

Il flauto come metafora della .chiamata collettiva alla riscossa nel segno della classicità invece che come espressione del “soddisfacimento solitario del frustrato desiderio sessuale del satiro”?

Restiamo con questo intrigante interrogativo, mentre registriamo il giudizio sui “giovani separati da un immobile e solido mare” che “appaiono congelati nel tempo”. Tutt’altra immagine quella dell’estate precedente trascorsa con la famiglia sulle spiagge della Bretagna, a Dinard, della gouache “Deux femmes courant sur la plage (La course)”, 1922: il mare non è solido e immobile, le giovani non sembrano congelate, tutt’altro, si muovono con leggerezza pur se i loro corpi hanno la pesantezza della statuaria classica, così  la loro corsa sulla spiaggia è sinonimo della “corsa”.

Forse anche della “corsa” di Picasso verso i tanti ulteriori traguardi della sua lunga  e luminosa vita d’artista che nel decennio 1915-25 ha avuto lo splendido slancio documentato meritoriamente alle Scuderie del Quirinale nella mostra che significativamente ha preso “La course” come testimonial.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b5134da.jpg

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00.22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità), gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli precedenti sulla mostra sono usciti, in questo sito, il  5 e 25 dicembre 2017, con altre 10 immagini ciascuno. Cfr. inoltre i nostri articoli: in questo sito per il cubismo 16 maggio 2013, Matisse 23 e 26 maggio 2014, Rodin 20 febbraio 2013, Cezanne 24 e 31 dicembre 2013; in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Ales S.p.A.,  con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “La Flùte de Pan” [Il flauto di Pan] 1923; seguono, “Deux baigneuses” [Due bagnanti] 1920, e “Trois femmes à la fontaine” [Tre donne alla fontana] 1921; poi, “Grande bagneuse” [Grande bagnante] 1921, e “Nu debout” [Nudo in piedi] 1922; quindi, “Femme assise en chemise” [Donna seduta in camicia] 1923, e “Deux femmes conversant en pied, fond bicolore bleu et beige”  [Donne in conversazione, in piedi, su fondo blu e beige] 1924; inoltre, “Couple de danceurs III” [Coppia di ballerini] 1922, e “Arlequin musicien” [Arlecchino musicista] 1924; infine, “Les trois danseuses” [Le tre ballerine] 1925, e, in chiusura, “Etudes” [Studi] 1920. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b3cc625.jpg

Hokusai, 3. Sulle orme del maestro, Eisen e la beltà femminile, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della visita alla mostra in corso a Roma, all’Ara Pacis, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, che espone  circa 300 opere,  i delicati paesaggi di  Hokusai pervasi di spiritualità che abbiamo già descritto,  e le intriganti figure femminili di Eisin, con i loro spettacolari kimono avvolgenti e protettivi, che descriveremo insieme agli altri suoi soggetti, i paesaggi ispirati a Hokusai. La mostra è organizzata da  MondoMostre Skira con Zétema, nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni di relazioni tra Italia e Giappone, è a cura di Rossella Menegazzo che ha curatoanche  il monumentale catalogo Skira.

Kelsai Elsen, “Donna dall’aspetto maturo, 1822-23

Eisen, e le sue icone di beltà femminile

Abbiamo descritto in precedenza le caratteristiche del procedimento “ukiyoe” con il quale venivano prodotte stampe artistiche utilizzando matrici lignee inchiostrate con colori cui la tecnica degli stampatori oltre all’usura attribuiva particolari sfumature  in modo che risultassero multipli non identici.  E l’evoluzione della società giapponese per l’emergere impetuoso della borghesia mercantile ricca e dinamica e lo sviluppo dei collegamenti che favorivano comunicazioni e mobilità,  con il moltiplicarsi dei luoghi di intrattenimento e divertimento – come teatri, case da te e case di piacere – prediletti dalla nuova classe insieme al turismo nei luoghi più caratteristici.

Insieme a questo il desiderio di mantenerne il ricordo con le immagini che una fervente industria editoriale forniva nei multipli dell’ “ukiyoe” e in altre forme, incentrate sui paesaggi dei luoghi più suggestivi delle varie provincie, nonché sulle figure di geishe, cortigiane ed  altri archetipi di beltà femminile esaltata dall’eleganza nell’abbigliamento e  dalle movenze negli atteggiamenti.

Alle beltà femminile si dedicò soprattutto Keisai Eisen, il maestro che viene affiancato ad Hokusai in una sorta di “vite parallele”, perché scomparso l’anno prima anche se più giovane di trent’anni, proveniente da una famiglia di samurai, che abbandonò questo status e si dedicò alla pittura  dell’“ukiyoe” deluso dalle vicissitudini di una vita irrequieta e indisciplinata fino al matrimonio e all’adozione di una figlia.

Ha raccontato le sue vicende in modo romanzato  e teatrale negli “Scritti di un vecchio senza nome”, dandosi un’immagine romantica di sregolatezza che viene collegata alla sua rappresentazione della beltà femminile, cui si dedicò in modo particolare anche se non mancò di esprimersi anche attraverso i paesaggi e non solo. 

Anzi, nel paesaggi segnò una sorta di staffetta con Hokusai, in quanto entrò in quel campo nel 1935 quando il maestro ne uscì per dedicarsi a una pittura più personale al di fuori  dei “nishiki” seriali destinati al grande pubblico. Era suo punto di riferimento più  del maestro diretto Eizan, si dichiarava “suo successore”, era stato suggestionato dalle  visioni paesaggistiche di Hokusai, in particolare dalle “Trentasei vedute del monte Fuji”, tanto che ne dipinse alcune imitandone  la struttura compositiva.

” Nihonbashi a Edo. Hanaogi della Ogiya”, 1825

D’altra parte,  i paesaggi erano più richiesti dei ritratti, vi si dedicava anche Hiroshige il quale anzi nella serie del Kisokaido  subentrò a Eisen che dava maggiore originalità e solennità alle proprie raffigurazioni, appassionato com’era stato fin da giovane per la pittura paesaggistica cinese e la sua base culturale. Forse per questo, osserva Tanabe Makado, “l’osservatore percepisce nei paesaggi di Eisen un sensibilità particolare che li differenzia dalle opere di Hokusai e di Hiroshige”.

Ma i paesaggi sono stati il secondo motivo della sua espressione artistica, sia in termini temporali che d’importanza, del resto è stato pure illustratore di romanzi e realizzatore  di “surinomo”, come Hokusai, anche da questi elementi oltre alla contemporaneità nascono le “vite parallele”.  Il primo motivo in assoluto sono stati  i ritratti di donne con ricchi kimono, “bjiinga”,  dei quali la curatrice Menegazzo dice: “La cosa più interessante è l’approccio completamente nuovo di Eisen al tema di beltà, che ne segnò il successo. Con un ventennio di differenza rispetto alla produzione di Hokusai, Eisen porta questo genere verso altre direzioni. Produce dipinti e silografie in cui il ritratto della beltà diventa imponente”: nel primo periodo  “vi sono ritratti a mezzo busti (‘okubie’, lett. ‘grandi colli o grandi volti’) con cui Eisen affermò la sua originalità a partire dagli anni 1821.22″, della bellezza riesce a dare un’immagine originale fino alla parodia. “I ricchi elementi decorativi dei tessuti e la sensazione quasi tattile caratterizzano anche le immagini erotiche di Eisen, al pari di quelle di Hokusai”.

Clara Tosi Pamphili lo definisce “ispiratore di beltà tra oriente ed ccidente ed esplora il modo con cui viene resa  l’idea della donna “come oggetto di bellezza”: “In questa celebrazione della beltà, dove il femminile usa il proprio corpo e volto come un copione per una parte d recitare, le opere di Eisen segnano una rivoluzione artistica e sociale, forte e intensa”. E ancora: “La pittura di beltà femminile (‘bjiinga’) di Eisen produce una serie di ritratti capaci di andare oltre il concetto di bellezza, superando il lavoro accademico di altri autori di genere perché non si limita alla rappresentazione della grazia o dell’eleganza ma, guardando più nel profondo, riesce a coglierne la psicologia e le sfumature sensuali ed erotiche”. 

“Hodogaya. Hanamurasaki della Tamaya”, 1825

L’attenzione ai dettagli, dall’acconciatura al trucco, dall’abbigliamento ai motivi dei tessuti, è un aspetto non secondario, sono “le immagini del Mondo Fluttuante; la riproduzione dell’effimero, del fluttuante inteso come intangibile che rappresenta la moda nell’accezione più elevata”. Si tratta di un concetto molto moderno: “La moda in continuo cambiamento che mantiene un forte legame con la tradizione ma insegue un’immagine perennemente giovane di novità”. E ancora: “L’immagine di Eisin segna l’inizio della riproduzione estetica orizzontale fine a se stessa dove l’abito è il vero protagonista, come strumento magico di beltà: è la prima vera copertina della storia della moda”.

Tutto questo ha colpito fortemente la sensibilità europea, e non si è trattato solo di un banale  giapponesismo ma ha influenzato anche gli artisti al punto che Van Gogh dipinse una versione della “Cortigiana di Eisin” con l’unica differenza della testa rivolta a sinistra invece che a destra,  e Claude Monet “La giapponese”, con un viso aperto e sorridente  invece della stilizzazione dell’originale.

Ma com’è la beltà femminile di Eisen, come ne esprime insieme psicologia e sensualità? Makado ne fa un’analisi penetrante partendo dalla descrizione di quei volti per nulla stereotipati, anzi con i lineamenti alterati, gli occhi spesso divergenti, la bocca aperta; e i corpi che sembrano  contorcersi nei loro kimono con i piedi che sporgono dalla lunga veste dando l’idea di una solidità sostanziale, l’opposto della fragilità delle delicate immagini orientaliste.

“La rappresentazione distorta ed enfatizzata dei corpi è innaturale e sembra priva di aspetti piacevoli”, è un diverso tipo di ideale femminile che viene proposto, ben diverso da quello del  maestro Elzan cui si ispiravano i suoi primi “bijinga”, “ritratti a figura intera di donne dalla corporatura delicata, graziose e dallo sguardo disincantato come fossero delle bambole”. I ritratti femminili a mezzo busto dal 1821-22 presentano “una varietà di espressioni che riflettono i diversi sogegtti, senza che  mai i volti rimangano cristallizzati in stereotipi di bellezza: è anzi dalla vivida espressività che scaturisce la loro decisa personalità”

“Fujisawa. Matsushima della Sano Matsuya”, 1825 

 Così  conclude Makado su questo tema: “Lo stile proposto da Eisen  trasmette il sapore amaro della vita reale e dei sentimenti umani”. Ed ecco come: “Corpi e volti dai profili sinuosi e forme distorte non sono il frutto di un processo di idealizzazione che vuole allontanarsi dal reale, ma la rappresentazione enfatizzata di persone che hanno affrontato le difficoltà delle vita: questa è la ragione  per cui sono intrisi di un forte senso della realtà”. Eisen rappresentò donne comuni nelle occupazioni quotidiane, quando  nel 1842 furono vietate le raffigurazioni di cortigiane e geishe,

Tutto questo in un mondo artistico improntato a un estetismo lezioso ed esteriore era fonte di forti emozioni e sollecitazioni, ed ha rappresentato una vera rivoluzione, come per altri versi lo è stata l’opera del più grande di tutti, Hokusai. Non resta che ammirarne le opere esposte nella sterminata galleria dell’Ara Pacis.in parallelismo con quelle di Hokusai dalle quali si differenzia molto la rappresentazione della beltà femminile, per Hokusai è stato un soggetto minore, per Eisen è “il soggetto”  in assoluto, salvo le incursioni neri paesaggi, questi sull’ “orma del maestro” Hokusai.

Le immagini delle cortigiane di Eisen sovrastano i paesaggi

Nnella prima sezione della mostra, tra gli sconfinati paesaggi di Hokusai troviamo molte figure femminili di Eisen, mentre nessuna di Hokusai: sono collocate in una parte dedicata ai luoghi più prestigiosi e  alla natura rigogliosa per il fatto che in Eisen sullo sfondo fanno capolino i paesaggi. Diciamo “fanno capolino” perché sono in un riquadro di piccole dimensioni, una finestrella  nella parete posteriore dell’ambiente occupato dalla figura predominante, anzi prorompente, della figura femminile avvolta in un sontuoso kimono istoriato  Sono immagini di locandine pubblicitarie in cui la veduta della località celebre o del locale è riprodotta in piccolo mentre in grande spicca la figura femminile attraente e invitante.

“Kameyama. Hanagawa della Wakamatsuya”; 1825

C’è sempre il riferimento per così dire turistico nelle  30  opere di Eisin di soggetto femminile della sezione in cui il paesaggio locale è “relegato” nella finestrella.  Le prime serie sono del 1818-30, ciascuna rappresentata da 2 delicati “ritratti”, “Luoghi famosi delle province al paragone di ‘Murasaki'”,  con la donna seduta a terra , la seconda con un bambino, e la serie “Collezione delle specialità Edo”,  in cui sono in piedi con un linguaggio del corpo volto al dinamismo, l’abito che le avvolge nelle 4 raffigurazioni è elaborato con disegni, righe e riquadri geometrici.

La serie più ricca è senza dubbio il  “Gioco da tavolo delle cortigiane in parata. 53 parodie di Yoshiwara”, del 1825, con 24 opere esposte ciascuna identificata da un nome diverso.  Le immagini abbinano le 53 stazioni del Tokaido – che segnavano la sosta nella strada principale che lungo la costa collegava la capitale imperiale Kyoto ad Edo, l’odierna Tokyo, sede amministrativa dello “shogunato” – alla bellezza di altrettante cortigiane dei quartieri di piacere di Yoshiwara, riprese a figura intera con 53 piccole vedute delle singole stazioni nelle finestrelle.

Sono avvolte da kimono opulenti  per la ricchezza delle decorazioni e l’intensità cromatica, mentre i corpi scompaiono nella pesante coltre protettiva dell’abito e i volti sono l’unico elemento identificativo,  limitato dall’omologazione dei lineamenti,  ridotti al sottile contorno del viso e alle fessure degli occhi.  Anche l’acconciatura è omologata, i capelli sempre neri raccolti con delle vistose e ridondanti bacchette ornamentali; soltanto “Yoshida. Takanoo della Sagata Ebiya” li ha sciolti e molto lunghi perché è ripresa mentre si pettina, la citiamo per questa sua singolarità.

Sembrerebbero aspetti riduttivi, questi, invece rappresentano il segreto del fascino delle cortigiane, simili nei visi ma diversissime nelle vesti sontuose e nel linguaggio del corpo, che pur nascosto dai pesanti tessuti fa sentire la sua presenza, anche di qui emerge la loro psicologia.

  “Yoshida. Takanoo della Suyata Ebiya”, 1825

In una diecina di immagini sono in piedi, sempre sole, ad eccezione  di “Michinnoku e Michikusa dalla Maruebiya”, citiamo i nomi perché è la composizione che si differenzia dalle altre mostrando due donne vicine e simili come sorelle siamesi; le altre immagini le raffigurano sempre singole, accoccolate o sedute. Pochissimi gli elementi di contorno, spesso non c’è nulla a parte la finestrella paesistica, o c’è un tavolinetto, un mobile, un libro,  per lo più sono assorte, alcune suonano uno strumento musicale, leggono o preparano il te, ma questo non è messo in evidenza, l’elemento dominante, lo ripetiamo, è il sontuoso kimono che le avvolge in una maestosità teatrale.

Abbiamo detto che in questa serie i visi sono sovrastati dal sontuoso abbigliamento e anche dal vistoso ornamento della capigliatura. Ebbene, fanno eccezione due opere della serie “Collezione di ristoranti di cucina”, 1830-44, incui i volti di “Ebisu’an a Nihonhashi” e di “Tomoeya a Namiki ad Asakusa”  sono ripresi in primissimo piano con i capelli raccolti ma quasi liberi da stecche ornamentali, l’espressione attenta nella lettura o assorta nella riflessione, sulla parete invece della finestrella un quadretto con il paesaggio costituito da un ponte nel primo, una piazza affollata nel secondo, ben più elaborati di quelli molto sommari delle finestrelle..

“Naruni. Tamagawa della Maruebiya”, 1825

In una evidente  progressione,  la serie “Beltà delle stazioni di Takaido”, 1842, dà un  rilievo molto maggiore al paesaggio, né finestrelle né “quadri nel quadro”, ma  occupa la metà superiore della composizione perché la donna, che pure resta in primo piano, è all’esterno, inserita in un ambiente altrettanto protagonista.  La vediamo nella “Stazione  di Oiso”, sulla spiaggia mentre lava in una tinozza, è l’unica immagine a seno nudo, e nella “Stazione di Numazu” in cui apre  una grossa scatola piena di oggetti avvolta in una lunga veste a fiori.

Ma abbiamo interi paesaggi di Eisen, a parte i pur significativi “assaggi” delle finestrelle, del “quadro nel quadro” e del secondo piano rispetto alla preminente figura femminile? Certo, anzi va sottolineato che Eisen decise addirittura di dedicarsi al paesaggio intorno al 1835, quando Hokusai lasciò la produzione di serie degli “ukiyoe”  per dedicarsi a una pittura più raccolta, tutto preso dall’ammirazione che aveva per simile maestro e anche per occuparne lo spazio lasciato libero.

Sono 8 le opere paesaggistiche esposte nella mostra, la prima risale al 1818-30, “Illustrazione del tempio del 500 Arhats”,  al centro la pagoda  con sullo sfondo a sinistra l’inconfondibile monte Fuji, tra altri edifici, è della serie “Nuova edizione di stampe prospettiche” e la ricerca della prospettiva è evidente.  Come nella “Illustrazione della veduta del portale del Dio del trono al Sensoj nel Kinryuzan” con il portale in primo piano,  entrambi sono movimentati da molte piccole figure umane in un omogeneo cromatismo verde-azzurro; sembra lo stesso portale quello raffigurato nella “Veduta del Sensoj con la neve nel Kiuryuzan nella Capitale Orientale”, tutto è coperto di bianco con piccole macchie di verde degli alberi mentre dal cielo fiocca la neve. Entrambi sono del 1830-44, come lo “Schizzo della ricostruzione del santuario Sumijoshi e delle sue lanterne nell’isola Tsukada a Edo” e “Il mercato del rafano alla festa di Shiba Shimmei”,  nel primo grande maestria prospettica e architettonica unita alla brulicante presenza umana, nel secondo l’edificio fin qui sempre presente è immerso nel verde che avvolge l’intera composizione.

“Hisaka. Michisode della Owariya”;1825

Non manca la costruzione neppure nei paesaggi che possiamo definire “acquatici”, prediletti da Hokusai, come nella “Stazione di Unuma. Veduta in lontananza del monte Inuyama”, una bassa catena montuosa ben diversa dalla verticalità conica del monte Fuji che si staglia dietro la distesa cerulea delle acque, e nei due ultimi esposti come datazione, “Luce del tramonto sul ponte di Ryugoku”, con un ponte affollato di persone e “Luna autunnale sul monte  Atago”, l’immancabile costruzione a sinistra, barchette in fondo,  tre alberi di cui quello al centro sembra toccare la luna. I titoli evocativi ricordano quelli di Hokusai.

 La beltà muliebre con e senza paesaggi di Eisen 

Nella seconda sezione della mostra la beltà femminile viene esaltata senza più il corollario ambientale delle finestrelle e dei quadretti paesaggistici che abbiamo visto nella prima sezione, ma ci sono sempre dei quadretti con iscrizioni giapponesi nella serie “I sette saggi nel quartiere di piacere [Yoshiwara]”, 1818-30, quartiere che abbiamo conosciuto nelle immagini del “Gioco da tavolo delle cortigiane”. Sono 6 opere dalle caratteristiche analoghe a quelle della prima sezione, la stessa sontuosa ricchezza di abiti istoriati, un linguaggio del corpo altrettanto espressivo, volti dai lineamenti appena delineati.

Così altre 3 opere, sempre con immagine singola in piedi o accosciata, della serie “Quattro stagioni nei quartieri del piacere Eventi a Yoshiwara”, 1823, che ritroviamo ancora, i quadretti alla parete raffigurano gli eventi celebrati, la “Danza il primo giorno dell’anno”, il “Lavaggio dei capelli al sesto mese”,  i “Festival di Hassaku e Niwaka nell’ottavo mese“.

  “Cortigiana con soprakimono con motivo di carpa che risale la cascata”, 1830-44

Due serie riportano ai primissimi piani dei volti della serie già citata “Ristoranti di cucina”, sono la serie intitolata esplicitamente “Beltà alla moda del Mondo Fluttuante al paragone”, 1823-24, con 2 opere esposte, “Cortigiana” e “Geisha che beve  il sale”, e la serie “Dodici paesaggi di beltà moderna”, 1822-23, con 4 opere esposte. Questa seconda serie è dedicata ai “paesaggi di beltà” perché i paesaggi tornano ad essere rappresentati nei quadretti sulla parete di fondo, e nei titoli è abbinato il nome della località con l’atteggiamento della persona, come “Atagoya e donna dall’aspetto maturo”, “Il tempio Benzatem… Donna dall’aspetto di maschiaccio” e così via.

Sono del periodo 1830-44  2 opere della serie “Specialità moderne”, nella prima  la figura femminile è in piedi nel “Ristorante di tofu”  dinanzi a vasi floreali, il corpo  arcuato con la camicia aperta che scopre il seno, nella seconda è seduta su una panca e guarda  i “Fuochi d’artificio sul ponte Ryogoku”.  Ma colpiscono soprattutto 4 opere monocromatiche in un blu intensissimo, dello stesso periodo, 2 delle serie “Beltà durante le cinque festività al paragone”, e “Riflessi dello stile moderno”, 2 isolate raffiguranti una “Cortigiana con soprakimono” diversamente istoriato.

La sterminata galleria della beltà muliebre di Eisen comprende anche 6 opere con più figure femminili, del periodo 1818-30, sono leziose  e raffinate, ci ricordano quelle di Hokusai, non sembrano quelle tipiche di Eisen che abbiamo descritto finora. I titoli: “Beltà sotto le luci serali ad Akiba” e “Pioggia d’inizio d’estate”, “Mode delle donne delle quattro classi sociali: samurai, contadini, artigiani, mercanti”, e “Cortigiane e attendenti che si intrattengono in privato”, “Cortigiane  attendenti alla Suyata Ebiya” e “Cortigiane a attendenti nei quartieri temporanei”, quest’ultima in uno spettacolare blu in cui spiccano i visi bianchi, le altre affollate e  movimentate, con linee raffinate medainte un segno sottile fino all’arabesco pur nella ricchezza ornamentale.

“Cortigiane e attendenti alla Suyata Ebiya”, 1828.

 Non finisce qui la celebrazione della beltà femminile di Eisen, come in Hokusai ci sono anche le “Immagini pericolose” “abunae”degli anni 1818-30, “Amanti che si baciano” e  “Amanti furtivi”, “Amanti che si godono la brezza serale” e “Amanti allo specchio”‘, “Amanti dentro un’imbarcazione con la neve”  e “Coppia di amanti dopo il risveglio”, “Coppia di amanti al chiaro di luna” e “Coppia di amanti con braciere”.. L’intensità del rapporto è resa dai visi e dalle posizioni, con qualche nudità spinta fino alle parti intime, e un amplesso esplicito, ancora non era scattata la puritana censura. Anche qui le linee sono sottili, avvolgenti, come arabeschi, le tinte pastello.

I “surinomo” e i “manga” di Eisin

Parimenti, come è stato per Hokusai, nella terza sezione vediamo di Eisin  i surinomo” e altri lavori celebrativi di località, incontri ed eventi,  come i “Luoghi e specialità della provincia di Yamashiro” e “La barca del tesoro”, i “Simboli benaugurali per l’anno del bue”, l’“Alcova decorata per il nuovo anno con simbolo cinese” e il “Campionario di tessuti importati”, sempre  con un segno sottile e colori pastello ben diversi dall’impeto plastico e cromatico delle figure femminili che abbiamo descritto. E troviamo anche, nella quarta sezione,  i suoi “manga”, le 8 pagine del libro illustrato “La borsa di broccato” e le 2 pagine della “Raccolta di scritti di Shotei”, schizzi di insetti e altro che citiamo per completezza.

L”immagine che vogliamo conservare di questo grande artista è la sua celebrazione della beltà femminile attraverso il linguaggio del corpo e dell’abbigliamento, piuttosto che con il viso e le forme del tutto nascoste, ma la cui psicologia e sensualità emergono attraverso i sontuosi kimono. Un’immagine, tante immagini indimenticabili come, per altro verso, i mitici paesaggi di Hokusai, primi tra tutti  il “Fuji rosso”, la montagna sacra, e la “grande onda”, una vera icona.

“Momongawa”, 1830-44

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  5 e l’8 dicembre u. s., con altre 12 immagini ciascuno. Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito, “Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, tranne  le n. 8, 11, 12 tratte dal DVD cortesemente fornito, si  ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Donna dall’aspetto maturo 1822-23; seguono 7 immagini della serie “Gioco da tavolo delle cortigane in parata. 53 parodie di Yoshiwara“, 1825, Nihonbashi a Edo. Hanaogi della Ogiya” e “Hodogaya. Hanamurasaki della Tamaya” ; poi, “Fujisawa. Matsushima della Sano Matsuya”  e “Kameyama. Hanagawa della Wakamatsuya”; quindi,  “Yoshida. Takanoo della Suyata Ebiya”, “Naruni. Tamagawa della Maruebiya”, e “Hisaka. Michisode della Owariya”; inoltre,  “Cortigiana con soprakimono con motivo di carpa che risale la cascata” 1830-44; e “Cortigiane e attendenti alla Suyata Ebiya” 1828; infine, “Momongawa” 1830-44, e, in chiusura, “Cortigiane e attendenti nei quartieri temporanei”  1835.

“Cortigiane e attendenti nei quartieri temporanei”,  1835

Picasso, 2. Dal “Sipario” a “Parade”, da Palazzo Barberini alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

A Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018 la mostra “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25” espone oltre 100 opere, tra  dipinti, disegni e gouaches dell’artista con una ricca documentazione soprattutto di fotografie e lettere autografe.  A Palazzo Barberini, nel salone affrescato da Piero da Cortona,  viene esposto  il grande Sipario realizzato per lo spettacolo teatrale “Parade”  che fu il motivo alla base della sua visita in Italia.  La mostra, prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira con la partecipazione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica “, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris, è a cura di Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf,. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée Picasso-Paris.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b0b6cc5.jpg

E’un evento nell’evento la mostra di Picasso alle Scuderie del Quirinale,  nove anni dopo la mostra al Vittoriano dall’ottobre 2008 al gennaio 2009, “Picasso 1917-1937”. E questo per il notevole sforzo organizzativo, con quasi 40 prestatori da ogni parte del mondo e oltre 60 soggetti che hanno fornito contribuiti alla preparazione;  come sono oltre 60 le istituzioni impegnate nel grande progetto internazionale “Picasso – Méditerranée” con una serie di mostre e manifestazioni.

Per  l’Italia la mostra è al culmine delle celebrazioni per il centenario della sua prima visita nel nostro paese, nel 1917,  a 36 anni quando aveva già compiuto la rivoluzione cubista, ma il viaggio fu rivoluzionario per la sua irruzione nel teatro e l’immersione nella classicità  romana, mentre anche  la sua vita personale ne fu investita,  perché trovò l’amore. Classicismo, cubismo e anche figurativo sono compresenti nella sua arte in una alternanza continua anche nello stesso periodo.

In coincidenza con l’inaugurazione della mostra si è svolto, nei giorni 21 e 22 settembre 2017, il seminario “Les Mèditerranèes de Picasso” nell’Accademia di Francia a Villa Medici, chiuso solennemente  nella sede dell’Ambasciata a Palazzo Farnese, in cui è stato approfondito il rapporto dell’artista con il Mediterraneo e il mondo arabo, in particolare l’Algeria, il Marocco e la Palestina. 

La permanenza a Roma dell’artista viene rievocata in quattro incontri dal 5 ottobre al 20 novembre  in sedi particolarmente significative, dall’antico atelier romano di via Margutta sul suo fervore creativo e sui contatti con gli artisti nella quotidianità romana, alle Terme di Diocleziano sul dialogo tra antico e contemporaneo nelle sue opere, a Palazzo Barberini  sulla posizione dell’artista tra cubismo e classicismo, al Teatro dell’Opera sull’irruzione della sua arte nello spettacolo teatrale.

A Palazzo Barberini, inoltre, il 27 settembre, nella presentazione del libro di Gabriele Guercio, “Il demone di Picasso. Creatività generica  e assoluto della creazione”, è stato affrontato il problema dell’arte contemporanea che sconfina nella non-arte, basandosi su Picasso che, pur essendo “il pioniere della sregolata disseminazione del fare creativo che ancor oggi connota la pratica artistica”, nondimeno “ha attraversato l’anarchia e ha toccato l’altra riva della libertà” , come un “demone bifronte”  che mentre alimentava il “relativismo creativo” riconquistava il “creazionismo artistico”.

I consueti Laboratori per ragazzi sono particolarmente curati nelle due sedi delle Scuderie del Quirinale  e di Palazzo Barberini. In quest’ultima con la “ludoteca dell’arte nello studio di Picasso” e con “esplora l’arte”, nelle Scuderie ripercorrendo “il viaggio compiuto dall’artista in Italia esattamente cento anni fa  quando “il Bel Paese incanta l’artista creando forti suggestioni che andranno a costituire il nuovo repertorio formale e iconografico da cui attingerà nei tempi a venire.”

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b0ba3c6.jpg

Ebbene, ci sembra  un itinerario così appassionante e rivelatore che lo seguiremo nel nostro racconto della mostra, cercando di ripercorrere i momenti culminanti della visita di Picasso in Italia rivivendone sensazioni ed emozioni, come quelle dinanzi alla severa classicità della Roma antica e all’atmosfera pittoresca degli artisti di via Margutta a Roma e dei quartieri popolari di Napoli.

Quindi ci soffermeremo sui momenti e le tappe del viaggio in Italia commentando le opere più strettamente connesse agli ambienti e alle atmosfere che lo colpirono maggiormente. In una fase successiva tratteremo della sua irruzione nel teatro, soprattutto con “Parade”, ma anche con “Pulcinella” e altri spettacoli, e sul significato della sinergia tra le varie arti. Infine illustreremo in modo specifico le opere pittoriche di grande  rilevanza artistica meno legate a questi aspetti.

Il viaggio in Italia del 1917 e le opere precedenti

La vista al nostro paese  nel 1917   ha un prologo nei due anni precedenti, coperti dalla mostra celebrativa del centenario. Infatti nel 1915 avviene il primo incontro con Jean Cocteau, che accompagnava  un musicista in visita all’atelier di Picasso, lo scrittore fu così colpito da desiderare di avere un ritratto dipinto da lui, fini al punto di andarlo a  trovare vestito da Arlecchino.

Questa maschera sarà oggetto di diversi ritratti di Picasso -negli anni successivi, come vedremo, intanto la mostra documenta la vigilia, per così dire, del viaggio in Italia con un’opera del 1914, “Homme à la pipe”, e tre del 1916,  “Homme à la cheminée”,  e due dallo stesso titolo “Homme accoudé à une table”. Sono quattro opere rigorosamente cubiste, a prima vista dalla difficile riconoscibilità rispettivamente della pipa, del caminetto e del tavolo,  che però ad una osservazione acuta sono visibili nella trasposizione di forme e volumi di questo stile dall’impatto così forte.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b0da93a.jpg

E’ una fase in cui, nota Cécile Godefroy, “Picasso prolunga  e spinge al parossismo decorativo le sperimentazioni del “cubismo sintetico”  e l’uso di elementi del quotidiano”, come nei dipinti appena citati. “La citazione puntinista gli permette di ritrovare un contatto con il colore, escluso dal periodo ermetico, e di manifestare l’opacità e la trasparenza degli oggetti”. .

Nel 1916  si intensificano i contatti con Cocteau che va spesso a visitarlo nel nuovo atelier alla periferia di Parigi, a Montrouge, e lo scrittore dopo averlo interessato al progetto di un balletto che sta definendo con la Compagnia di Balletti Russi di Djagilevs, gli chiede di aiutarlo nella realizzazione di scenografia e costumi perché Djagilev non aveva accettato due sue proposte chiedendogli di “stupirlo” con una proposta innovativa e fantasiosa. Il bozzetto di un ritratto in uniforme preparato da Picasso colpisce Djagilev che lo va a trovare di persona, nasce “Parade”, che doveva rappresentare, per il fondatore dei Balletti russi, il riscatto dopo il fallimento della “tournée” americana.  I Balletti russi da alcuni anni avevano conquistato il pubblico parigino reinterpretando i classici con allestimenti originali di scenografi e coreografi nonché artisti e musicisti d’avanguardia.  

Imperversa la prima Guerra Mondiale, Picasso si sente isolato perché i suoi  amici più cari, il pittore cubista Braque e il poeta Apollinaire, sono al fronte, il 25 febbraio 1916 c’è stata la sanguinosa battaglia di Verdun, Picasso è impegnato con le avanguardie dadaiste e nella presentazione del suo capolavoro “Les Demoiselles d’Avignon”.

Con l’inizio del 1917  l’incarico per “Parade” diviene effettivo, oltre a 5.000 franchi di compenso peri bozzetti, 1.000  per un viaggio a Roma dove si trova Djagilev con la sua compagnia che  terrà alcuni spettacoli anche a Napoli, Picasso deve stare con loro per creare costumi e scene.  Sarò un viaggio breve e intenso, visiterà anche Firenze e Milano e rientrerà a Parigi ad aprile.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b2301b6.jpg

Il 17 febbraio raggiunge la città eterna con Cocteau e si stabilisce in un albergo nel centro tra piazza di Spagna e Piazza del Popolo, vicino a via Margutta, la strada degli artisti, prende anche un atelier al numero 53 b di via Margutta all’interno degli Studi Patrizi di fronte alla sede dell’Associazione Artistica Internazionale. Si immerge nel mondo romano con Cocteau, e Stravinskji, l’autore delle musiche e Massime, il coreografo, lavora intensamente alle scenografie e ai costumi e  fa molti disegni, collabora con lui anche il futurista Fortunato Depero, a riprova del sincretismo artistico che prende piede dopo la fase cubista con la forte influenza classicista delle antichità romane.  Si invaghisce della bellissima ballerina russa Ol’ga Chochlova, la sposerà il 12 luglio 1918 nella chiesa ortodossa russa di parigi, testimoni Cocteau, Apollinaire e Jacob.

A marzo sempre del 1917 l’intera “troupe”  di “Parade” fa due escursioni a Napoli, Picasso viene preso non solo dal fascino del parco archeologico di Pompei e di Ercolano, ma anche  dagli spettacoli napoletani della commedia dell’arte e dalla atmosfera pittoresca degli ambienti popolari.

 In particolare a Forcella insieme a Stravinskji potè assistere a uno spettacolo all’aperto di marionette che improvvisavano per le strade del quartiere nei modi della commedia dell’arte: Tale forma d’arte popolare dalla lunga tradizione  colpì sia il musicista  che Picasso,  facendo capire come anche le più semplici espressioni artistiche potessero avere un fascino senza confini.

Collegando una simile sensazione a quella avuta a Roma dinanzi alla compresenza di ruderi antichi ed edifici storici  monumentali, si giunge alla conclusione del curatore della mostra Oliver Bergggruen: “Fonti di ispirazione disparate, che andavano dalle più basse alle più alte, potevano essere integrate nelle loro opere, proprio come il paesaggio romano offriva una visione in cui antichità, chiese rinascimentali e palazzi barocchi sembravano fondersi”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b0fbcec.jpg

Già dal 1914, osserva la Godefroy, “appaiono disegni puramente figurativi, tra cui una serie di ritratti e nature morte dal tratto preciso e illusionistico… La ripresa del figurativo, che durante e soprattutto dopo la guerra domina la vita artistica europea, per Picasso rappresenta anche una reazione dialettica alla propria opera”.  Ma non è una svolta senza ritorno, “lungi dal rinnegare il cubismo, confronta il suo linguaggio con forme al tempo stesso più vive e più atemporali, in una nuova riflessione attorno alle difficoltà della rappresentazione su cui, per tutti quegli anni, non ha mai cessato di interrogarsi”. 

A questo ripiegamento interiore il viaggio in Italia ha dato un contributo notevole in termini di ripresa del classicismo in una visione realistica che Roma gli offriva non soltanto per i ruderi dell’antichità ma anche per i valori tradizionali espressi nelle figure più popolari.

Le opere legate al viaggio in Italia

Ne vediamo un riflesso in alcune opere del 2017, cominciando da due raffigurazioni di “Villa Medici a Roma”, 2017, una a matita su carta in chiave nettamente figurativa, l’altra ad acquerello su un foglio con la sagoma dell’edificio che si staglia su un cielo puntinista. Mentre  “Italienne a’ le fleur”  è un delicato acquerello su cartoncino  in cui la “donna italiana con fiore”  richiama con una rarefazione cromatica puntinista una cartolina del ‘900 sulla “fioraia di piazza di Spagna”, in costume tradizionale con il cestino sotto il braccio sinistro e il fiore nella mano destra protesa. Si tratta della contadina  in costume folcloristico proveniente dalla Ciociaria, divenuta in un certo senso identitaria per la popolazione romana, soggetto prediletto dagli artisti di via Margutta al punto che era frequente incontrarvi ragazze campagnole vestite per offrirsi come modelle..   

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b29d801.jpg

Altrettanto figurativi  i ritratti di piccolissime dimensioni, “Autoritratto” a matita, serio e dignitoso, e l’olio su tela “Téte de femme (Olga)”, in cui la testa di donna è impersonata dal viso della ballerina russa di cui, come abbiamo detto,  si era invaghito e che avrebbe sposato l’anno dopo.

Invece sono in stile “cubista sintetico”, a conferma della compresenza delle diverse espressioni pittoriche, due  opere a olio su tela dello stesso 1917 e una del 2018, considerate autentici capolavori.

“Arlequin et femme au collier”, di 2 m  per 2 m, del 1917,  è una composizione enigmatica, definita dall’artista  Gino Severini “una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione”, come ricorda Valentina Moncada la quale, dopo un’accurata ricerca su centinaia di rappresentazioni della ciociara, collega la trasposizione cubista di Picasso alla riproduzione in stile figurativo del “Costume tradizionale ciociaro” di Enrico Tarenghi – che aveva lo studio in via Margutta 48, quindi vicino a quello di Picasso – con la giovane donna di profilo, il copricapo, la collana e la cesta, particolari tanto stilizzati nella visione cubista da essere quasi irriconoscibili. Questa constatazione la fa concludere che non è Colombina vicino ad Arlecchino, ma una popolana, come le modelle in costume tradizionale che incontrava in via Margutta. Arlecchino è evocato con cappello, maschera e colletto appena percepibili, come la mano, tre  linee bianche.

Ben diverso “Arlequin au violon”, 1918, la maschera è perfettamente riconoscibile, pur nella trasposizione cubista, addirittura lo spartito che ha in mano per il violino è figurativo, come gli scacchi dell’abito anche se monocromatici, il viso con gli occhi e lo strumento musicale, E’ un altro modo di declinare il cubismo, esperito con spirito di ricerca per un soggetto simile.  

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b258d07.jpg

Più trasposizione e meno astrazione anche in “L’Italienne”, di 1,5 m per 1 m, che a differenza del quadro appena commentato, quasi in bianco e nero,  ha forti contrasti cromatici, dal rosso al verde al giallo e alcune componenti figurative, come la cupola di San Pietro sullo sfondo e il cestino in primo piano. E’ un’immagine coinvolgente la cui forza espressiva supera  la mimesi cubista, la figura sembra protesa in avanti con le sue forme, l’effetto è veramente straordinario. In questo caso l’identificazione delle parti componenti la figura è evidente,  a differenza di “Arlecchino e la donna della collana”, ma ci sono particolari enigmatici che la Moncada riesce a decifrare riferendosi a una cartolina di “Italiana in costume tradizionale”,questa volta senza fiore in mano, appoggiata a una staccionata cui rimandano delle fasce bianche ondulate del dipinto, e a un manifesto pubblicitario  “Rome – Express”  con le arcate di ponte Sant’Angelo stilizzate nel dipinto.

Non si fermano al 1917 le opere esposte di diretta ispirazione “italiana”. Sono del 1919 i 3 disegni a matita e carboncino su carta di 50 cm per 65 circa. Paysans Italiens”  raffigura una coppia di ,  “contadini italiani in costume ciociaro” in atteggiamento composto, lo sguardo espressivo, stile calligrafico dai contorni ben definiti; “Femme italienne à la cruche”  presenta in costume tradizionale  una “donna con brocca”, ma si tratta di una “conca”, il recipiente tradizionale con cui le donne portavano a casa l’acqua attinta dalle fontane reggendolo in equilibrio sulla testa protetta dal “torcinello”; invece in”Femme à la cruche” .il recipiente tenuto sotto braccio dall’imponente figura femminile è ben diverso da quello precedente, forse qui è appropriato chiamarlo brocca.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b275449.jpg

 Questi disegni, come “Nu allongè au tourban” dello stesso anno, ancora più classicista, sono in stile chiaramente figurativo, dopo i due capolavori con le donne italiane del 1917, e l’Arlecchino del 1918 di stile prettamente cubista, una compresenza più che un’alternanza che sarà confermata negli anni successivi della straordinaria evoluzione artistica nel decennio considerato.

La Moncada, dopo le sue accurate ricerche, conclude “che via Margutta, con la sua lunga storia e con le sue forti tradizioni abbia rappresentato un filo conduttore nel viaggio di Picasso a Roma e un veicolo delle tematiche che lo hanno ispirato, così come è stato per secoli per gli artisti che hanno vissuto e lavorato in questa importante strada, dando vita a memorabili capolavori”.

Non vogliamo restringere l’ispirazione di Picasso soprattutto nel 1917  alla matrice italiana, anche se il suo viaggio in Italia ha lasciato un segno profondo anche negli anni successivi. Sono esposte anche due opere del 1917 di chiara matrice “pointellista”, “Compotier aver fruit“, in cui la composizione è una massa puntiforme  variopinta in cui si può intuire la presenza di un grappolo d’uva, e “Le retour du baptéme d’après le Nain”, con le figure meglio delineate in una pittura   puntiforme  più precisa e definita. E’ la sperimentazione continua, la compresenza di diversi stili che non consente di confinare Picasso in una determinata corrente, è stato pittore universale.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b35d73f.jpg

La documentazione fotografica

Non c’è soltanto la parte pittorica nella mostra, la documentazione fotografica presenta Picasso in 6  fotografie scattate da Cocteau, 5 lo ritraggono a Pompei da solo o con Massine e Djagilev; una a Roma con Massine e Cocteau davanti a uno specchio. Lo vediamo con Massine a Roma in una fotografia su una terrazza, con il viso dello scenografo quasi deformato dal primissimo piano mentre Picasso è più dietro in posizione eretta, in una singolare inquadratura obliqua alla Rodcenko.

Particolarmente suggestive le immagini fotografiche di Ol’ga Chochlova, al centro dell’interesse di Picasso sotto l’aspetto sentimentale oltre che quello artistico, essendo la prima ballerina di cui si era invaghito. La vediamo a Roma in una foto con Picasso e Cocteau sulla terrazza dell’hotel Minerva, dove è fotografata anche da sola in tre pose diverse, in piedi o seduta davanti alla ringhiera, e al centro con i palazzi sullo sfondo, in uno spiritoso atteggiamento con il ventaglio in mano e lo scialle che la avvolge completamente fino a coprirle la testa in modo sbarazzino.

Una sequenza fotografica ben diversa la ritrae forse a Roma, su sfondo scuro, ,in 4 pose da “femme fatale”, come in effetti era,  sguardo penetrante, emana un fascino irresistibile, sono immagini che più di qualsiasi descrizione fanno capire come Picasso ne fosse perdutamente innamorato.

Tornato a Parigi nell’aprile dello stesso 1917, dipinge il Sipario e segue la realizzazione dei costumi e delle scene dai suoi bozzetti di “Parade”. Il 18 maggio la prima dello spettacolo che doveva segnare una rivoluzione teatrale all’insegna dello “Stupiscimi” richiesto da Djalev a Cocteau e dallo scrittore a Picasso. Ed effettivamente ci fu e c’è da stupirsi, nella mostra viene proiettato il video dello spettacolo e si vede che vanno in scena veri e propri disegni cubisti animati, imponenti gigantografie che camminano, saltano, danzano. Ci fu da stupirsi ma non mancò chi reagì a quella che sembrò una provocazione, tanto era innovativa.

Ne parleremo prossimamente commentando i costumi  e le scene disegnati da Picasso per questa e altre rappresentazioni teatrali nonché lo spettacolare “Sipario” lungo 17 metri e alto 11, esposto nel Palazzo Barberini perché  soltanto il suo vasto salone poteva contenerne le dimensioni oltre che consentire un contrappunto spettacolare con il grande affresco del soffitto di Pietro da Cortona.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b37d836.jpg

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00.22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso con audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità,, gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito  da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il   5 dicembre u.s., il terzo e ultimo uscirà il 6 gennaio 2018, con altre 10 immagini ciascuno. Cfr. i nostri articoli, in questo sito per il cubismo 16 maggio 2013;  in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Ales S.p.A., con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Sipario” per il balletto ‘“Parade”, 1917; seguono,  “Costume”  su disegno di Picasso per il balletto “Parade”  1917, e “Projet de costume pour le ballet ‘Pulcinella’: Pulcinella” [Studio di costume per il balletto Pulcinella: Pulcinella] 1920; poi, una visione della scenografia  e un primo piano di due ballerini russi   di “Parade” ripresi dal video del balletto; quindi, “Pierrot” 1918, e“Potrait d’Ol’ga dans un fauteuil” [Ritratto di Ol’ga in poltrona] 1918; inoltre, “Arlequin au mirror” [Arlecchino con specchio] 1923, e “Saltinbanque assis, les bras croisé” [Saltinbanco seduto con braccia conserte] 1923; infine, “Paul en Arlequin” [Paolo vestito da Arlecchino] 1924, e, in chiusura, “Paul en Pierrot” [Paolo vestito da Pierrot” 1925. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b394294.jpg

Hokusai, 2. La sua maestria nei paesaggi dell’oriente, nella mostra all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Raccontiamo la visita alla mostra in corso a Roma, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, con esposte  moltissime opere, soprattutto i paesaggi di  Hokusai tra i quali delle vere icone per la delicatezza evocativa di valori spirituali, e le intriganti figure femminili di Eisin, avvolte in spettacolari kimono. L’organizzazione della mostra, per il 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, è di MondoMostre Skira con Zétema, è curata da Rossella Menegazzo come il sontuoso catalogo  Skira, che ne documenta la ricchezza iconografica.

Katsushika Hokusai, “Monte Fuji all’alba”, 1843

Abbiamo inquadrato in precedenza la mostra descrivendo innanzitutto la peculiarità della tecnica  dell’ “ukiyoe” – stampe ottenute da incisioni su legno inchiostrate a colori con un lavoro di squadra –  poi l’evoluzione nella società giapponese che portò alla loro diffusione: in particolare la crescente domanda di ricordi tangibili dei luoghi frequentati sempre più dalla borghesia mercantile emergente, dotata di mezzi finanziari e avendo a disposizione tempo libero non essendo gravata dal pressante lavoro dei contadini e pescatori, e senza il rigore etico della classe dei samurai che non era più dominante.

La diffusione anche in Europa e soprattutto in Francia dei “giapponesismi” avvenne dopo l’apertura del Giappone – che era rimasto chiuso ad ogni contatto con l’esterno per due secoli – avvenuta alla metà del XIX secolo, pochi anni dopo la morte di Hokusai, un grande maestro dell’ “ukiyoe” autore di cicli pittorici incentrati soprattutto sui paesaggi con una straordinaria carica evocativa di valori spirituali, rappresentati  in particolare nell’abbinamento della natura con la persona umana.

Inoltre abbiamo tratteggiato le caratteristiche principali dell’arte di Hokusai, in cui la figura della donna è presente in tono minore. La beltà femminile è invece il soggetto prevalente di Eisin, uno dei seguaci di maggior valore di Hokusai di cui daremo conto nell’ultima parte dopo aver descritto la galleria delle opere del primo maestro indiscusso dell “ukiyoe”.

A questo punto raccontiamo la visita alla mostra, articolata in 4 sezioni che abbinano questi due grandi artisti intorno a precise scelte tematiche. Ma noi ne parliamo in modo distinto, riferendo per ciascuno, in sequenza,  il contenuto delle 4 sezioni senza alternare le loro “vite parallele”. 

“La cascata di Onu lungo la strada Kiso” 1833

Le mete da non perdere, i paesaggi di Hokusai

Nella prima sezione della mostra troviamo una sterminata esposizione, 157 opere di cui 113 di Hokusai e le altre di Eisin . Cominciamo dalle opere più antiche, tra quelle esposte, prima dell’ ‘800, del “periodo Shunro”, dal nome d’arte iniziale, dal 1779 al 1794 realizzò circa 250 opere e illustrò 35 piccoli libri. Ne vediamo 2  intitolate entrambe “Illustrazione dello spettacolo di fuochi artificiali  nella brezza serale al Ponte Ryogoku” , rispettivamente del 1785 e del 1789-94, che appartengono alla serie “Nuova edizione di stampe prospettiche”  perché ispirate alla prospettiva occidentale come si vede dalle arcate del ponte, dalle persone e dagli elementi naturali, le barche e le piccole costruzioni. Così nella “Illustrazione della veduta in lontananza del monte  Atago a Shaba”, 1811, stessa serie.  Ma prima di quest’opera abbiamo 10 illustrazioni di libri del 1802,  in tinte pastello e tratti delicati, si va dai “Negozi”, in particolare il “Negozio di libri illustrati“,  alla “Residenza con pruneto“, al “Quartiere di piacere”.

Dopo queste prime illustrazioni, andiamo oltre il “periodo Sori” ed entriamo nel “periodo Hokusai”, datato fino al 1810, al quale appartiene l’“Illustrazione di Hommoku nella baia di  Kanagawa”, 1807-09, che precorre la celeberrima “La [Grande]  onda”  del 1930-32  raffigurando nello stesso luogo l’onda montante però dalla destra; l’onda monta invece dalla sinistra, come nell’icona definitiva di quasi trent’anni dopo cui somiglia molto, in un’opera precedente, l’ “Illustrazione di  imbarcazioni da trasporto in mezzo alle onde”, della serie “Paesaggi in stile occidentale”, 1800-05, non esposto in mostra, ..

A questa fase, la principale del suo percorso artistico, il “periodo Iitsu”, a  trent’anni dalla fine del periodo iniziale “Shumro”, appartiene il maggior numero delle sue opere esposte nella sezione, che vogliamo descrivere in progressione, in una sorta di “escalation” che ci porta ai paesaggi dalla spiritualità e contenuto evocativo particolarmente intensi. 

“Sotto il ponte Mannem a Fukagawa in Edo”, 1830-31

La prima è la “Nuova edizione del gioco del sugoroku”, una tavola composta di  circa 50 riquadri dipinti con scene delle località nelle quali si sviluppa il gioco, ricordiamo le tavole apparentemente analoghe di Pablo Echaurren, non legate al gioco ma dallo stesso effetto visivo. 

Ritroviamo un ponte, come in un’evoluzione di quello delle “Nuove stampe prospettiche”, anzi diversi ponti, la serie si intitola  “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi in tutte le provincie”, 1831,  non c’è più la ricerca della prospettiva, nei  ponti di Tenjin  Kameido e Yahagi con le loro arcate rotonde, a tamburo o a lunga campata, né di Ashikaga, “appeso alle nvole”, e Kintai, invece  fantasiosi, immersi nella natura, .

L’acqua è protagonista nel ciclo “Otto vedute delle isole Ryukyu”, 1832, sono esposte tutte contitoli  come “Cielo autunnale”, “La voce del lago”e “Notte di luna”, in cui spicca il sottile ponte sinuoso, come un istmo, che collega alle isolette; “Bosco di bambù”, “Boschetto di banani” e “Fonte sacra”presentano le isole lussureggianti di vegetazione, senza ponti o istmi;  “Il rumore del vento tra i pini” offre una visione idilliaca come il titolo, mentre “Tramonto a Jungai” mostra un agglomerato i verde che si protende  sull’acqua solcata da due barchette.

Ancora acqua nella serie  “Viaggio tra le cascate giapponesi”,  1833,  hanno in comune la presenza umana  evidente con  persone e anche piccole abitazioni, il tutto sovrastato dall’imponenza della natura con il salto vertiginoso dell’acqua tra rocce e vegetazione. Nelle  cascate “Kiyotaki Kannon a Sakanoshita”  e “Roben a Oyama nel Sagami”prevale  il verde e la vegetazione, nelle cascate di“Ono lungo la strada Kiso” e “Yoro nel Mino”invece l’acqua prorompe dall’alto in fasci verticali di luce che si proiettano al suolo evidenziando plasticamente la forza della natura.

“Illustrazione del tempio dei 500 Arhats” ,1818-30

Dello stesso 1833, nella serie “I tre bianchi, neve, luna, fiori”, 3  opere estremamente raffinate come i loro titoli,  “Chiaro di luna sul fiume Yodo”,  “Fiori di ciliegio a Yoshino”, “Neve sul fiume Sumida”, nella suggestiva  compenetrazione con la natura di persone, barche, residenze.

La dominante blu, il “Blu Berlin” caratteristico dell’artista, spicca nelle due opere esposte della serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati dalla balia”, 1835, è il “periodo Manji” dal nome che iniziò ad usare dopo aver lasciato il precedente Iitsu,  creò le 100 immagini preparatorie, una per ogni poeta di una famosa antologia, ma ne furono pubblicate soltanto 27. In “Kakinomoto no Hitomaro” si vedono i contadini impegnati nel duro lavoro, in “Sango Takamura”  una barca con fanciulle discinte, alcune nuotano nel mare di un intenso colore ceruleo.

Il clou del “Fuji rosso”, l’icona della “grande onda”

Siamo giunti al clou delle visioni paesaggistiche,  le “Trentasei vedute del monte Fuji”, serie di poco anteriore alle precedenti, essendo del 1830-31, ma merita l’onore della conclusione dei soggetti paesaggistici, il punto forte dell’artista del quale vedremo poi anche altri soggetti delle restanti sezioni.

Il cono vulcanico del monte sacro fa quasi capolino nei paesaggi di località molto lontane, che danno il titolo alle singole opere: una piccola punta vista dal di sotto delle arcate di un ponte o da una veranda con figure femminili, tra arbusti  e scenari agresti, con lo sfondo  di scene marine animate da barche cariche di persone o alla fonda con il marinaio che vuota un secchio d’acqua fuori bordo. Soltanto in “Gruppo di alpinisti”non si vede il classico cono, ma l’arrampicata anche con l’ausilio di una scala a pioli.

“Luce del tramonto sul ponte di Ryugoku”, 1843-46.

Poi la visione del monte si fa più ravvicinata, la sua sagoma inconfondibile spicca sempre di più pur restando come sfondo  di scene di vita  e di lavoro oppure di ambienti naturali ma pur sempre abitati. Finchè si passa al primo piano del cono vulcanico maestoso e imponente nelle diverse condizioni ambientali e metereologiche.

Ecco il monte Fuji in una “Giornata limpida col vento del sud” e  con un “Temporale sotto la cima”. Nel primo, definito “Fuji rosso” per la particolare tonalità data dalla luce del mattino, le striature di bianco in alto evocano la neve da un lato, i cirri del cielo dall’altro, l’ombreggiatura in basso ricorda i boschi alla base. Il secondo presenta il cono con un rosso molto più scuro, le nuvole non sono sottili striature come nel primo ma  agglomerati bianchi. Sono esposte per ciascuno due  versioni con tonalità differenti a seconda della pressione nell’inchiostrazione cromatica, era la caratteristica dei multipli  dell’ “ukiyoe” come abbiamo avuto modo di ricordare in precedenza.

Se questo è il clou della marcia di avvicinamento al Fuji, con il primissimo piano del monte sacro, l’icona divenuta non solo simbolo dell’arte giapponese ma dell’arte in assoluto è “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, un motivo che viene da lontano, come abbiamo detto all’inizio si trova in un’opera di venti anni prima.. Già nelle “cascate” avevamo visto esaltata la forza della natura dinanzi alla figura umana spettatrice inerme, qui tutto questo è esaltato al massimo dall’immensa onda che si eleva sulla sinistra tra un ribollire di schiuma, mentre due lunghe ma esili barche con a bordo molti pescatori cercano di fronteggiare l’impeto dei marosi nell’avvallamento tra il grande picco ondoso a sinistra e il riflusso  a destra. Blu e bianco i colori che fissano questo momento, con due leggeri striature di giallo per le barche. E il monte Fuji? Se ne vede la punta dietro l’avvallamento dove transita la barca più lontana, la neve che la copre la assimila all’onda con la spuma, sembra assistere impotente alla lotta nella quale rifulge l’ardimento degli uomini coraggiosi sulle due barche. Anche di quest’opera  sono esposti due esemplari, una del museo d’arte orientale “Edoardo Chiossone”, l’incisore genovese vissuto all’epoca più di vent’anni ad Edo, dove raccolse una preziosa collezione di arte orientale.

“Alba a Isawa nella provincia di Kai”, 1830-31

In queste opere c’è una dominante blu spettacolare per intensità e contrasto cromatico con le altre parti delle composizioni che sono molto chiare, bianche o in tonalità pastello. Grafica pura senza cromatismi, invece, la serie  di “Cento vedute del monte Fuji”, in 3 volumi, rispettivamente del 1834, 1835, e 1849. E’ esposta una ventina di fogli più piccoli delle “Trentasei vedute” , si sviluppano in verticale e non in orizzontale, sono disegni dalle linee sottili con leggere ombreggiature, nei più significativi con la grande montagna e la grande onda, la composizione prende due fogli quindi ripete lo sviluppo orizzontale, la “grande onda” questa volta ha il picco sulla destra e non vi sono le due barche che lottano contro i marosi,  il “Fuji” viene riprodotto dalle angolazioni più diverse, Dietro una ragnatela” e “Riflesso su uno specchio d’acqua”, “Tra il bosco di bambù” e “Dalla scogliera”, “Sopra l’acqua” e “Con dragone che sale“.

Figure umane e beltà femminile in Hokusai

Abbiamo detto che il paesaggio è non solo il soggetto prediletto da Hokusai, ma quello in cui la maestria è stata massima e così l’influenza sugli  altri artisti,  tra cui Eisin di cui diremo dopo aver completato l’excusus su di lui.

Ma anche la figura umana è stata rappresentata da Hokusai in modo molto personale, a cominciare dalle “Cinquantatrè stazioni di posta di Takaido”, 1804, aveva 44 anni si firmava Hokusai dopo aver utilizzato i nomi di Shunro e Sori, come abbiamo ricordato.  Sono  esposte, sempre nella prima sezione,  8 illustrazioni dell’album, su altrettante stazioni di posta viste non negli aspetti paesaggistici del tipo di quelli di  cui abbiamo parlato, ma nella presenza di persone in diverse attività e atteggiamenti delineati in tratti sottili di eleganza, in un cromatismo discreto con prevalenza di rosso tenue e marroncino. Ecco i nomi delle stazioni delle illustrazioni esposte di cui si evoca l’umanità della gente che le popola: “Nihonhashi” e “Shinagawa”, “Kawasaki” e “Kanawaga”, “Yoshiwara” e “Misaka”, “Mitsuke” e “Goya”, “Ishiyakushi” e “Otsu”.

“Le nuoive risaie di Ono nella provincia di Suraga”,1830-31

Dalla figura umana alla beltà femminile il passo non è breve, perché la rappresentazione di geishe e cortigiane veniva osteggiata dalla censura, anche al di là dell’erotismo, soprattutto nell'”era Tenpo” allorché, tra gli anni ’30 e ’40, il governo voleva smantellare il mondo del divertimento intorno alle case da te, alle case di piacere e al teatro, per ridimensionare la classe che stava imponendosi con la sua crescente ricchezza e andava alla ricerca di occasioni sempre nuove di lusso e intrattenimento.

Le opere di Hokusai esposte nella seconda sezione dedicata a questo tema coprono un periodo molto ampio. Si comincia da “Tre belle donne”, 1798-99, a “Raccolta di conchiglie“, 1801-04, con due figure femminili deliziose e in basso un bambino in un’atmosfera trasognata, da “Ventaglio dipinto con una cortigiana in parata a Nakanocho”,  1803,  a “Giovane donna di Ohara con bue”, 1805.Un salto di molti anni  con “Beltà stante”, 1815-20,  e “Beltà e ventaglio tradizionale”, 1815-24, la prima con un kimono a riquadri geometrici,  ravvivato dal disegno delle  spire di un drago  in tinta pastello,  la seconda con un severo abito scuro in una silhouette arcuata, i visi appena segnati con  sottili linee per occhi e sopracciglia e un puntino rosso per le labbra.

Si tratta del genere “bijinga” su una serie di supporti diversi, dalle silografie policrome delle stampe tipiche dell'”ukiyoe” ai rotoli verticali in carta o seta da  appendere, ne parleremo in modo più approfondito rispetto a Eisen, l’artista che ha dato il meglio di sé nel celebrare la beltà femminile.

“Tre belle donne”, 1798-99

Le “immagini pericolose” di Hokusai

Come vedremo anche per Eisin, troviamo in Hokusai le ” abunae”, “immagini pericolose” di esplicito contenuto erotico, da considerarsi eccezionali se si pensa ai ricorrenti divieti della censura sin dal 1800 che vietò in certi periodi addirittura di ritrarre attori e cortigiane e giunse a proibire determinati colori come simbolo di lusso. L’erotismo spinto di Hokusai si esprime nelle illustrazioni del libro “Germogli di pino nel primo giorno del Topo”, 1814, sono 4 immagini. Le prime 2 rappresentano in due fogli sciolti, “Coppia di amanti donne”, e  “Coppia di amanti nel futon”, entrambi in una sensualità spinta fino all’erotismo con nudità anche delle parti intime in composizioni peraltro estremamente raffinate nel segno arabescato, nelle tinte pastello e nelle forme  con chiara evidenza dello stato di immedesimazione nella posizione, nei gesti e soprattutto nei volti. Altrettanto esplicito  “Pivieri sulle onde”, 1822-23, che fa parte della collezione Chiossone. 

Lo stesso nella composizione che si sviluppa su due fogli successivi  dello stesso libro, “Amanti durante l’amplesso”, e il “durante” del titolo è giustificato dall’immagine quanto mai esplicita nella nudità intima ed espressiva nella posizione e nei volti,  ma altrettanto delicata per la raffinatezza del segno, l’eleganza delle vesti, la leggerezza dei colori.

Una citazione speciale merita l’ultima illustrazione del libro che vediamo, sempre su due fogli successivi, “Piovre e pescatrici di awabi“, un’immagine divenuta celebre per l’innaturale connubio quanto mai esplicito con la donna distesa nuda preda dei tentacoli e della bocca del mostro con il viso nel quale Huysmans ha visto “l’espressione quasi sovrumana di tormento e dolore che sconvolge la lunga forma aggraziata dal naso aquilino e la gioia isterica che allo stesso tempo scaturisce dalla fronte”.

“Raccolta di conchiglie”, 1801-04

I “surinomo” e i “manga” di Hokusai    –

Nella società giapponese dell’epoca erano molto diffuse stampe con la tecnica “ukiyoe” di biglietti augurali e calendari, annunci e inviti a spettacoli teatrali e incontri culturali, spesso abbinate a testi poetici o in prosa. Erano i “surinomo” che, a differenza delle stampe policrome, le “nishikie”, avevano precisione nelle sottili linee di contorno e  tonalità sobrie, spesso ottenute dalla matrice a secco senza inchiostro, in piccoli formati, quadrati o lunghi in orizzontale, con l’impiego di tecniche più raffinate di quelle usate nelle produzioni di massa.

Hokusai fu attivo nei “surinomo”, cui la mostra dedica la terza sezione, , tanto che le “Cinquantatre stazioni di posta di Takaido”, oltre che essere il soggetto delle illustrazioni sopra commentate, sono anche in una serie di “surinomo”  “In occasione dell’incontro poetico di fine anno”,  il 1804.  Sono in grande formato orizzontale  con l’eleganza grafica e la delicatezza cromatica delle illustrazioni appena citate delle stesse “stazioni di posta”, alcune in interni, altre in esterni con sullo sfondo ponti, le tipiche costruzioni a pagoda e l’onnipresente monte Fuji in una serie di varianti che enfatizzano le tante attrattive dei luoghi celebrati.  Il titolo indica la località e addirittura la distanza dalla stazione successiva, la figura i prodotti tipici e le attrazioni.

Dopo 35 anni abbiamo la serie “Parodia di esseri immortali, divinità della fortuna e attori di kyogen”, 1839, sono 22 rotoli verticali con figure singole di attori e personaggi nelle pose e negli abbigliamenti più originali, per lo più contorti e avviluppati in abiti sovrabbondanti, con un effetto d’isieme parodistico, comunque sempre in una grafica elaborata e una cromia delicata.

“Aquila su ramo innevato”, 1843

Siamo giunti così alle opere di Hokusai esposte nella quarta e ultima sezione della mostra, intitolata significativamente “Catturare l’essenza della natura“. Abbiamo due tipi molto diversi, i “Manga e manuali per imparare”, si tratta di 60 fogli stampati tra il 1814 e il 1878, con le più diverse raffigurazioni,  il segno è delicato come per un arabesco. Molti sono divisi in riquadri come quelli con i volti,in numero di 12, raffrontati forse con finalità fisognomiche, oppure senza divisioni recano molte piccole figure umane o animali,  vegetali o geometriche, anch’esse raffrontate, altri presentano scene a pagina intera e anche divisa nei due fogli successivi, come per grandi pagode e l’immancabile montagna sacra Fuji. I “manga”, in realtà, sono fumetti che sviluppano storie lette da destra a sinistra, questi sono invece molto diversi per forma e contenuto. .

All’opposto, l’essenza della natura espressa negli animali la vediamo celebrata in 6 grandi rotoli verticali, dipinti con tratti decisi e intensi, in un insieme quasi monocromatico di grande efficacia. I rotoli esposti coprono l’intero arco della vita dell’artista, dal 1804 al 1846 .Gli “Animali” ritratti da Hokusai sono  leoni cinesi e  tigri, carpe e tartarughe, gru e anche draghi, per lo più mitici e legati alle divinità. Sono “animali dallo sguardo umano e dai lineamenti umani – commenta la curatrice Menegazzo – con cui Hokusai si identifica diventando un tutto con loro, e ai quali sono associati significati beneauguranti di forza, coraggio, perseveranza, longevità”. Vediamo esposti  “Gallo, gallina e bambù”, 1804,  e “Gallo e gallina appollaiati su un tamburo da guerra”, 1820, con i bargigli rossi che spiccano su tonalità discrete, “Tigre fra i bambù che  guarda la luna piena”, 1818, e  “Tigre in un bosco di bambù”, 1839, “Carpa e tartaruga”, 1839, e “Drago che sale al cielo”, 1846. Hokusai muore nel 1849, in questa ascesa in cielo del drago in cui evidentemente si identifica diventando un tutto con lui, c’è tutta la sua  intensa spiritualità espressa sull’orlo della vita..

Termina così la straordinaria galleria di Hokusai, ma non il nostro racconto della  mostra. C’è l’altro grande artista, Eisin, la curatrice ha sottolinea le “vite parallele” sua e di Okusai, tanto che li ha alternati nelle quattro sezioni. Noi abbiamo preferito raccontarli separatamente, essendo complementari ma al contempo alternativi, Hokusai primeggia nei paesaggi, Eisin nei ritratti femminili. Ed è su questi che ci soffermeremo in particolare nel dare conto prossimamente di quest’altro grande artista, molto diverso dal precedente di cui è stato ammiratore e seguace.

“Gallo, gallina e bambù”,1804

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. ll primo  articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  5 dicembre u. s., il terzo e ultimo uscirà  il  27 dicembre  p. v., con altre 12 immagini ciascuno. Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito, “Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’  alla Gnam”  25 aprile 2013. Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, ad eccezione delle prime due e dell’ultima tratte dal DVD fornito cortesememte e delle n. 6, 7, 9  tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Sono tutte opere di Katsushika Hokusai. In apertura, “Monte Fuji all’alba”, 1843; seguono, “La cascata di Onu lungo la strada Kiso” 1833, e “Sotto il ponte Mannem a Fukagawa in Edo” 1830-31; poi, “Illustrazione del tempio dei 500 Arhats” 1818-30, e “Luce del tramonto sul ponte di Ryugoku” 1843-46; quindi, “Alba a Isawa nella provincia di Kai” 1830-31, e “Le nuoive risaie di Ono nella provincia di Suraga” 1830-31; inoltre, “Tre belle donne” 1798-99; e “Raccolta di conchiglie” 1801-04, infine “Aquila su ramo innevato” 1843; e “Gallo, gallina e bambù” 1804; !n chiusura, “Nuova edizione del gioco del sugoroku. Viaggio a Kamakura, Enoshima, Oyama” 1830.,

Nuova edizione del gioco del sugoroku.
Viaggio a Kamakura, Enoshima, Oyama” 1830

Picasso, 1. In Italia tra cubismo e classicismo, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

A Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018 la mostra “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25” espone oltre 100 opere, tra  dipinti, disegni e gouaches dell’artista con una ricca documentazione soprattutto di fotografie e lettere autografe.  A Palazzo Barberini, nel salone affrescato da Piero da Cortona,  viene esposto  il grande Sipario realizzato per lo spettacolo teatrale “Parade”  che fu il motivo alla base della sua visita in Italia.  La mostra, prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira con la partecipazione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica “, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris, è a cura di Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée Picasso-Paris.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627ae63102.jpg

E’un evento nell’evento la mostra di Picasso alle Scuderie del Quirinale,  nove anni dopo la mostra al Vittoriano dall’ottobre 2008 al gennaio 2009, “Picasso 1917-1937”. E questo per il notevole sforzo organizzativo, con quasi 40 prestatori da ogni parte del mondo e oltre 60 soggetti che hanno fornito contribuiti alla preparazione;  come sono oltre 60 le istituzioni impegnate nel grande progetto internazionale “Picasso – Méditerranée” con una serie di mostre e manifestazioni.

Per  l’Italia la mostra è al culmine delle celebrazioni per il centenario della sua prima visita nel nostro paese, nel 1917,  a 36 anni quando aveva già compiuto la rivoluzione cubista, ma il viaggio fu rivoluzionario per la sua irruzione nel teatro e l’immersione nella classicità  romana, mentre anche  la sua vita personale ne fu investita,  perché trovò l’amore. Classicismo, cubismo e anche figurativo sono compresenti nella sua arte in una alternanza continua anche nello stesso periodo.

In coincidenza con l’inaugurazione della mostra si è svolto, nei giorni 21 e 22 settembre 2017, il seminario “Les Mèditerranèes de Picasso” nell’Accademia di Francia a Villa Medici, chiuso solennemente  nella sede dell’Ambasciata a Palazzo Farnese, in cui è stato approfondito il rapporto dell’artista con il Mediterraneo e il mondo arabo, in particolare l’Algeria, il Marocco e la Palestina. 

 La permanenza a Roma dell’artista viene rievocata in quattro incontri dal 5 ottobre al 20 novembre  in sedi particolarmente significative, dall’antico atelier romano di via Margutta sul suo fervore creativo e sui contatti con gli artisti nella quotidianità romana, alle Terme di Diocleziano sul dialogo tra antico e contemporaneo nelle sue opere, a Palazzo Barberini  sulla posizione dell’artista tra cubismo e classicismo, al Teatro dell’Opera sull’irruzione della sua arte nello spettacolo teatrale.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627ae7cf73.jpg

A Palazzo Barberini, inoltre, il 27 settembre, nella presentazione del libro di Gabriele Guercio, “Il demone di Picasso. Creatività generica  e assoluto della creazione”, è stato affrontato il problema dell’arte contemporanea che sconfina nella non-arte, basandosi su Picasso che, pur essendo “il pioniere della sregolata disseminazione del fare creativo che ancor oggi connota la pratica artistica”, nondimeno “ha attraversato l’anarchia e ha toccato l’altra riva della libertà” , come un “demone bifronte”  che mentre alimentava il “relativismo creativo” riconquistava il “creazionismo artistico”.

I consueti Laboratori per ragazzi sono particolarmente curati nelle due sedi delle Scuderie del Quirinale  e di Palazzo Barberini. In quest’ultima con la “ludoteca dell’arte nello studio di Picasso” e con “esplora l’arte”, nelle Scuderie ripercorrendo “il viaggio compiuto dall’artista in Italia esattamente cento anni fa  quando “il Bel Paese incanta l’artista creando forti suggestioni che andranno a costituire il nuovo repertorio formale e iconografico da cui attingerà nei tempi a venire.”

 Ebbene, ci sembra  un itinerario così appassionante e rivelatore che lo seguiremo nel nostro racconto della mostra, cercando di ripercorrere i momenti culminanti della visita di Picasso in Italia rivivendone sensazioni ed emozioni, come quelle dinanzi alla severa classicità della Roma antica e all’atmosfera pittoresca degli artisti di via Margutta a Roma e dei quartieri popolari di Napoli.

Quindi ci soffermeremo sui momenti e le tappe del viaggio in Italia commentando le opere più strettamente connesse agli ambienti e alle atmosfere che lo colpirono maggiormente. In una fase successiva tratteremo della sua irruzione nel teatro, soprattutto con “Parade”, ma anche con “Pulcinella” e altri spettacoli, e sul significato della sinergia tra le varie arti. Infine illustreremo in modo specifico le opere pittoriche di grande  rilevanza artistica meno legate a questi aspetti.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627af5b1ed.jpg

Il viaggio in Italia del 1917 e le opere precedenti

La vista al nostro paese  nel 1917   ha un prologo nei due anni precedenti, coperti dalla mostra celebrativa del centenario. Infatti nel 1915 avviene il primo incontro con Jean Cocteau, che accompagnava  un musicista in visita all’atelier di Picasso, lo scrittore fu così colpito da desiderare di avere un ritratto dipinto da lui, fini al punto di andarlo a  trovare vestito da Arlecchino.

Questa maschera sarà oggetto di diversi ritratti di Picasso -negli anni successivi, come vedremo, intanto la mostra documenta la vigilia, per così dire, del viaggio in Italia con un’opera del 1914, “Homme à la pipe”, e tre del 1916,  “Homme à la cheminée”,  e due dallo stesso titolo “Homme accoudé à une table”. Sono quattro opere rigorosamente cubiste, a prima vista dalla difficile riconoscibilità rispettivamente della pipa, del caminetto e del tavolo,  che però ad una osservazione acuta sono visibili nella trasposizione di forme e volumi di questo stile dall’impatto così forte.

E’ una fase in cui, nota Cécile Godefroy, “Picasso prolunga  e spinge al parossismo decorativo le sperimentazioni del “cubismo sintetico”  e l’uso di elementi del quotidiano”, come nei dipinti appena citati. “La citazione puntinista gli permette di ritrovare un contatto con il colore, escluso dal periodo ermetico, e di manifestare l’opacità e la trasparenza degli oggetti”. .

Nel 1916  si intensificano i contatti con Cocteau che va spesso a visitarlo nel nuovo atelier alla periferia di Parigi, a Montrouge, e lo scrittore dopo averlo interessato al progetto di un balletto che sta definendo con la Compagnia di Balletti Russi di Djagilevs, gli chiede di aiutarlo nella realizzazione di scenografia e costumi perché Djagilev non aveva accettato due sue proposte chiedendogli di “stupirlo” con una proposta innovativa e fantasiosa.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627aff61c6.jpg

Il bozzetto di un ritratto in uniforme preparato da Picasso colpisce Djagilev che lo va a trovare di persona, nasce “Parade”, che doveva rappresentare, per il fondatore dei Balletti russi, il riscatto dopo il fallimento della “tournée” americana.  I Balletti russi da alcuni anni avevano conquistato il pubblico parigino reinterpretando i classici con allestimenti originali di scenografi e coreografi nonché artisti e musicisti d’avanguardia.  

Imperversa la prima Guerra Mondiale, Picasso si sente isolato perché i suoi  amici più cari, il pittore cubista Braque e il poeta Apollinaire, sono al fronte, il 25 febbraio 1916 c’è stata la sanguinosa battaglia di Verdun, Picasso è impegnato con le avanguardie dadaiste e nella presentazione del suo capolavoro “Les Demoiselles d’Avignon”.

Con l’inizio del 1917  l’incarico per “Parade” diviene effettivo, oltre a 5.000 franchi di compenso peri bozzetti, 1.000  per un viaggio a Roma dove si trova Djagilev con la sua compagnia che  terrà alcuni spettacoli anche a Napoli, Picasso deve stare con loro per creare costumi e scene.  Sarò un viaggio breve e intenso, visiterà anche Firenze e Milano e rientrerà a Parigi ad aprile.

Il 17 febbraio raggiunge la città eterna con Cocteau e si stabilisce in un albergo nel centro tra piazza di Spagna e Piazza del Popolo, vicino a via Margutta, la strada degli artisti, prende anche un atelier al numero 53 b di via Margutta all’interno degli Studi Patrizi di fronte alla sede dell’Associazione Artistica Internazionale. Si immerge nel mondo romano con Cocteau, e Stravinskji, l’autore delle musiche e Massime, il coreografo, lavora intensamente alle scenografie e ai costumi e  fa molti disegni, collabora con lui anche il futurista Fortunato Depero, a riprova del sincretismo artistico che prende piede dopo la fase cubista con la forte influenza classicista delle antichità romane.  Si invaghisce della bellissima ballerina russa Ol’ga Chochlova, la sposerà il 12 luglio 1918 nella chiesa ortodossa russa di parigi, testimoni Cocteau, Apollinaire e Jacob.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627afa8b70.jpg

A marzo sempre del 1917 l’intera “troupe”  di “Parade” fa due escursioni a Napoli, Picasso viene preso non solo dal fascino del parco archeologico di Pompei e di Ercolano, ma anche  dagli spettacoli napoletani della commedia dell’arte e dalla atmosfera pittoresca degli ambienti popolari.

In particolare a Forcella insieme a Stravinskji potè assistere a uno spettacolo all’aperto di marionette che improvvisavano per le strade del quartiere nei modi della commedia dell’arte: Tale forma d’arte popolare dalla lunga tradizione  colpì sia il musicista  che Picasso,  facendo capire come anche le più semplici espressioni artistiche potessero avere un fascino senza confini.

Collegando una simile sensazione a quella avuta a Roma dinanzi alla compresenza di ruderi antichi ed edifici storici  monumentali, si giunge alla conclusione del curatore della mostra Oliver Bergggruen: “Fonti di ispirazione disparate, che andavano dalle più basse alle più alte, potevano essere integrate nelle loro opere, proprio come il paesaggio romano offriva una visione in cui antichità, chiese rinascimentali e palazzi barocchi sembravano fondersi”.

Già dal 1914, osserva la Godefroy, “appaiono disegni puramente figurativi, tra cui una serie di ritratti e nature morte dal tratto preciso e illusionistico… La ripresa del figurativo, che durante e soprattutto dopo la guerra domina la vita artistica europea, per Picasso rappresenta anche una reazione dialettica alla propria opera”.  Ma non è una svolta senza ritorno, “lungi dal rinnegare il cubismo, confronta il suo linguaggio con forme al tempo stesso più vive e più atemporali, in una nuova riflessione attorno alle difficoltà della rappresentazione su cui, per tutti quegli anni, non ha mai cessato di interrogarsi”. 

A questo ripiegamento interiore il viaggio in Italia ha dato un contributo notevole in termini di ripresa del classicismo in una visione realistica che Roma gli offriva non soltanto per i ruderi dell’antichità ma anche per i valori tradizionali espressi nelle figure più popolari.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b00fcb8.jpg

Le opere legate al viaggio in Italia

Ne vediamo un riflesso in alcune opere del 2017, cominciando da due raffigurazioni di “Villa Medici a Roma”, 2017, una a matita su carta in chiave nettamente figurativa, l’altra ad acquerello su un foglio con la sagoma dell’edificio che si staglia su un cielo puntinista. Mentre  “Italienne a’ le fleur”  è un delicato acquerello su cartoncino  in cui la “donna italiana con fiore”  richiama con una rarefazione cromatica puntinista una cartolina del ‘900 sulla “fioraia di piazza di Spagna”, in costume tradizionale con il cestino sotto il braccio sinistro e il fiore nella mano destra protesa. Si tratta della contadina  in costume folcloristico proveniente dalla Ciociaria, divenuta in un certo senso identitaria per la popolazione romana, soggetto prediletto dagli artisti di via Margutta al punto che era frequente incontrarvi ragazze campagnole vestite per offrirsi come modelle..   

Altrettanto figurativi  i ritratti di piccolissime dimensioni, “Autoritratto” a matita, serio e dignitoso, e l’olio su tela “Téte de femme (Olga)”, in cui la testa di donna è impersonata dal viso della ballerina russa di cui, come abbiamo detto,  si era invaghito e che avrebbe sposato l’anno dopo.

Invece sono in stile “cubista sintetico”, a conferma della compresenza delle diverse espressioni pittoriche, due  opere a olio su tela dello stesso 1917 e una del 2018, considerate autentici capolavori.

“Arlequin et femme au collier”, di 2 m  per 2 m, del 1917,  è una composizione enigmatica, definita dall’artista  Gino Severini “una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione”, come ricorda Valentina Moncada la quale, dopo un’accurata ricerca su centinaia di rappresentazioni della ciociara, collega la trasposizione cubista di Picasso alla riproduzione in stile figurativo del “Costume tradizionale ciociaro” di Enrico Tarenghi – che aveva lo studio in via Margutta 48, quindi vicino a quello di Picasso – con la giovane donna di profilo, il copricapo, la collana e la cesta, particolari tanto stilizzati nella visione cubista da essere quasi irriconoscibili. Questa constatazione la fa concludere che non è Colombina vicino ad Arlecchino, ma una popolana, come le modelle in costume tradizionale che incontrava in via Margutta. Arlecchino è evocato con cappello, maschera e colletto appena percepibili, come la mano, tre  linee bianche.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b5d164a.jpg

Ben diverso “Arlequin au violon”, 1918, la maschera è perfettamente riconoscibile, pur nella trasposizione cubista, addirittura lo spartito che ha in mano per il violino è figurativo, come gli scacchi dell’abito anche se monocromatici, il viso con gli occhi e lo strumento musicale, E’ un altro modo di declinare il cubismo, esperito con spirito di ricerca per un soggetto simile.  

Più trasposizione e meno astrazione anche in “L’Italienne”, di 1,5 m per 1 m, che a differenza del quadro appena commentato, quasi in bianco e nero,  ha forti contrasti cromatici, dal rosso al verde al giallo e alcune componenti figurative, come la cupola di San Pietro sullo sfondo e il cestino in primo piano. E’ un’immagine coinvolgente la cui forza espressiva supera  la mimesi cubista, la figura sembra protesa in avanti con le sue forme, l’effetto è veramente straordinario. In questo caso l’identificazione delle parti componenti la figura è evidente,  a differenza di “Arlecchino e la donna della collana”, ma ci sono particolari enigmatici che la Moncada riesce a decifrare riferendosi a una cartolina di “Italiana in costume tradizionale”,questa volta senza fiore in mano, appoggiata a una staccionata cui rimandano delle fasce bianche ondulate del dipinto, e a un manifesto pubblicitario  “Rome – Express”  con le arcate di ponte Sant’Angelo stilizzate nel dipinto.

Non si fermano al 1917 le opere esposte di diretta ispirazione “italiana”. Sono del 1919 i 3 disegni a matita e carboncino su carta di 50 cm per 65 circa. Paysans Italiens”  raffigura una coppia di ,  “contadini italiani in costume ciociaro” in atteggiamento composto, lo sguardo espressivo, stile calligrafico dai contorni ben definiti; “Femme italienne à la cruche”  presenta in costume tradizionale  una “donna con brocca”, ma si tratta di una “conca”, il recipiente tradizionale con cui le donne portavano a casa l’acqua attinta dalle fontane reggendolo in equilibrio sulla testa protetta dal “torcinello”; invece in”Femme à la cruche” .il recipiente tenuto sotto braccio dall’imponente figura femminile è ben diverso da quello precedente, forse qui è appropriato chiamarlo brocca.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b03931f.jpg

Questi disegni, come “Nu allongè au tourban” dello stesso anno, ancora più classicista, sono in stile chiaramente figurativo, dopo i due capolavori con le donne italiane del 1917, e l’Arlecchino del 1918 di stile prettamente cubista, una compresenza più che un’alternanza che sarà confermata negli anni successivi della straordinaria evoluzione artistica nel decennio considerato.

La Moncada, dopo le sue accurate ricerche, conclude “che via Margutta, con la sua lunga storia e con le sue forti tradizioni abbia rappresentato un filo conduttore nel viaggio di Picasso a Roma e un veicolo delle tematiche che lo hanno ispirato, così come è stato per secoli per gli artisti che hanno vissuto e lavorato in questa importante strada, dando vita a memorabili capolavori”.

Non vogliamo restringere l’ispirazione di Picasso soprattutto nel 1917  alla matrice italiana, anche se il suo viaggio in Italia ha lasciato un segno profondo anche negli anni successivi. Sono esposte anche due opere del 1917 di chiara matrice “pointellista”, “Compotier aver fruit“, in cui la composizione è una massa puntiforme  variopinta in cui si può intuire la presenza di un grappolo d’uva, e “Le retour du baptéme d’après le Nain”, con le figure meglio delineate in una pittura   puntiforme  più precisa e definita. E’ la sperimentazione continua, la compresenza di diversi stili che non consente di confinare Picasso in una determinata corrente, è stato pittore universale.

La documentazione fotografica

Non c’è soltanto la parte pittorica nella mostra, la documentazione fotografica presenta Picasso in 6  fotografie scattate da Cocteau, 5 lo ritraggono a Pompei da solo o con Massine e Djagilev; una a Roma con Massine e Cocteau davanti a uno specchio. Lo vediamo con Massine a Roma in una fotografia su una terrazza, con il viso dello scenografo quasi deformato dal primissimo piano mentre Picasso è più dietro in posizione eretta, in una singolare inquadratura obliqua alla Rodcenko.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b040297.jpg

Particolarmente suggestive le immagini fotografiche di Ol’ga Chochlova, al centro dell’interesse di Picasso sotto l’aspetto sentimentale oltre che quello artistico, essendo la prima ballerina di cui si era invaghito. La vediamo a Roma in una foto con Picasso e Cocteau sulla terrazza dell’hotel Minerva, dove è fotografata anche da sola in tre pose diverse, in piedi o seduta davanti alla ringhiera, e al centro con i palazzi sullo sfondo, in uno spiritoso atteggiamento con il ventaglio in mano e lo scialle che la avvolge completamente fino a coprirle la testa in modo sbarazzino.

Una sequenza fotografica ben diversa la ritrae forse a Roma, su sfondo scuro, ,in 4 pose da “femme fatale”, come in effetti era,  sguardo penetrante, emana un fascino irresistibile, sono immagini che più di qualsiasi descrizione fanno capire come Picasso ne fosse perdutamente innamorato.

Tornato a Parigi nell’aprile dello stesso 1917, dipinge il Sipario e segue la realizzazione dei costumi e delle scene dai suoi bozzetti di “Parade”. Il 18 maggio la prima dello spettacolo che doveva segnare una rivoluzione teatrale all’insegna dello “Stupiscimi” richiesto da Djalev a Cocteau e dallo scrittore a Picasso. Ed effettivamente ci fu e c’è da stupirsi, nella mostra viene proiettato il video dello spettacolo e si vede che vanno in scena veri e propri disegni cubisti animati, imponenti gigantografie che camminano, saltano, danzano. Ci fu da stupirsi ma non mancò chi reagì a quella che sembrò una provocazione, tanto era innovativa.

Ne parleremo prossimamente commentando i costumi  e le scene disegnati da Picasso per questa e altre rappresentazioni teatrali nonché lo spettacolare “Sipario” lungo 17 metri e alto 11, esposto nel Palazzo Barberini perché  soltanto il suo vasto salone poteva contenerne le dimensioni oltre che consentire un contrappunto spettacolare con il grande affresco del soffitto di Pietro da Cortona.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b08c753.jpg

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità, gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito  da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli successivi sulla mostra usciranno, in questo sito, il  25 dicembre p. v. e il 6 gennaio 2018, con altre 10 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito,  per  il cubismo  16 maggio 2013;  in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Deux femems courant sur la plage (La course)” [Due donne che corrono sulla spiaggia (La corsa] 1922; seguono, “Homme à la pipe” [Uomo con la pipa] 1914, e “Homme accoudé a une table” [Uomo seduto al tavolo] 1916; poi, “Arlequin” [Arlecchino] 1917 in mostra e non in Catalogo, e  “Arlequin au violon” [Arlecchino con il violino] 1918; quindi, “Le retour du baptéme, d’aprés Le Nain” [Il ritorno dal battesimo, da Le Nain] 1917, e  “Nature morte devant una fenètre” [Natura morta davanti alla finestra] 1919; inoltre, “Femme italienne aà la cruche” [Donna italiana con brocca] o, più precisamente, conca, e “Paysans italiens”  [Contadini italiani] entrambi 1919;  infine, “Portrait d’Igor Stravinsky” [Ritratto di Igor Stravinsky] 1920, e, in chiusura, “Autoportrait” [Autoritratto] 1917.  

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1627b0b10cd.jpg

Hokusai, 1. Il maestro dell'”ukiyoe” giapponese, con Eisen, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Un evento la mostra aperta a Roma, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, con esposte  oltre 300 opere, tra quelle di Hukusai e di Eisen grande anch’egli,  sulle origini della moderna scuola di pittura giapponese fondata dal maestro sulla base di quella cinese nella prima metà dell’800.  La mostra celebra il  150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, è organizzata da MondoMostre Skira con Zétema, a cura di Rossella Menegazzo che ha curato pure il monumentale e raffinato catalogo edito da Skira.

Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanawaka”, 1830-31.

La mostra fa entrare in un mondo molto diverso dal nostro, quello dell’esotismo orientale, nel quale l’espressione artistica su avvale di tecniche molto particolari ed è manifestazione di una società e di costumi altrettanto speciali. In questo contesto, che ne accresce l’interesse e il fascino, vanno inquadrate le opere  presentate.L’esposizione merita una speciale attenzione data la sua spettacolarità che rende la visita un vero evento: la penombra delle sale accresce l’emozione dinanzi all’elevatissimo numero di opere esposte, che spiccano per la luce che le colpisce come fosse un occhio di bue sulla star nel palcoscenico immerso nell’ombra, e le star sono le straordinarie immagini della natura di bellezza incomparabile soprattutto di Hokusai, e di  donne misteriose e intriganti avvolte nei loro sontuosi kimono soprattutto di Eisin.

L’ “ukiyoe” nell’arte e nella società giapponese

Cominciamo dalla tecnica, il primo elemento caratteristico dell’arte orientale e giapponese in particolare, si tratta della “ukiyoe”, sono stampe artistiche su carta  da matrici di legno incise da intagliatori provetti sulla base dei disegni dei maestri pittori, matrici sfruttate in multipli di centinaia di pezzi fino alla consunzione, con la possibilità di modificare i colori anche limitandoli per motivi economici. Anche in occidente alcuni tipi di opere d’arte sono state frutto di collaborazione tra l’artista e  coloro che traducevano materialmente la sua creazione utilizzando materiali come l’argento e altro, nell’ “ukiyoe” oltre all’artista, l’intagliatore e lo stampatore c’era l’editore che si occupava della parte economica e della vendita sul mercato, per questo aveva voce in capitolo anche in alcune scelte come la forma e la dimensione dell’opera. L’intagliatore aveva un ruolo importante in quanto la resa della creazione artistica dipendeva anche dalla sua abilità nel tradurla in incisioni sul legno della matrice; altrettanto lo stampatore che per ognuna passava i colori indicati dall’artista con l‘abilità di renderne le sfumature differenziando in modo appropriato la pressione della matrice a secco sul foglio. .

Ushibori nella provincia di Hitachi” , 1830-31.

Il risultato era notevole, tanto da conquistare anche il pubblico europeo,  particolarmente francese,  dalla seconda metà dell’800, nell’ambito di una crescente predilezione per “giapponeserie” d’importazione di ogni tipo, compresi kimono e ceramiche, lacche e armature.  Ciò avvenne dopo l’apertura del mondo giapponese – chiuso per due secoli, dal 1641, ad ogni contatto con l’esterno per volere del despota Tokugawa -, apertura che avvenne nel 1854 su pressione della flotta americana; poi, nel 1867, il Giappone presentò un padiglione all’Expo di Parigi, e fu un successo strepitoso.

Nella seconda metà dell’800  il genovese Edoardo Chiossone, chiamato nell’antica Edo, l’odierna Tokyo, nel 1875,  come incisore di banconote, e vissutovi 23 anni fino alla morte nel 1898,  divenne ritrattista ufficiale e raccolse una vasta collezione della pittura “ukiyoe”, come rievoca il saggio di Donatella Failla.

Ma quello che ci interessa è vedere come questa produzione artistica si inserisse nella società giapponese dell’epoca Edo, che termina nel 1868, vent’anni dopo la morte di Hokusai e di Eisin.  .

Con l’emergere della classe mercantile borghese dopo il dominio aristocratico avvennero radicali mutamenti in campo sociale e urbanistico e negli stili di vita. Tale classe non era condizionata né dalla  rigorosa etica imposta a samurai e nobili, né dal gravoso lavoro dei contadini e pescatori, inoltre acquisiva crescenti disponibilità economiche. Era molto dinamica con i continui spostamenti nel paese,  la voglia di conoscere i  luoghi caratteristici, la ricerca di divertimenti nel tempo libero. Le maggiori città si svilupparono, ed Edo raggiunse un milione di abitanti.

e “Ruota idraulica a Onden”, 1830-31

Si moltiplicarono così i luoghi di intrattenimento  e di svago, dai teatri alle case di tè e di piacere, sempre più  frequentati e, in relazione a questa evoluzione del costume, nacque il desiderio di conservarne la memoria con ricordi visivi: piccole immagini che li facessero rivivere, fossero essi paesaggi e immagini ambientali o figure evocatrici della vita quotidiana Nella tradizione precedente  le immagini pittoriche erano invece riservate ad arredare castelli e residenze aristocratiche, con grandi pannelli scorrevoli e paraventi per riaffermare il potere della classe dominante. 

Inizialmente si riproducevano vedute cittadine e attività correnti, poi si passò all’evasione rappresentando i teatri e le case da tè. “Le prime grandi scuole dell”ukiyoe’ –  ricorda la curatrice Rossella Menegazzo nel suo saggio “Hokusai ed Eisen. Sulle orme del maestro” – erano specializzate nei ritratti di attori di teatro kabuki (“yakushae”) e di beltà femminili (“bijnga”), generi che continuarono  a rappresentare nel tempo una grossa fetta di mercato delle immagini del ‘Mondo Fluttuante’, dato che rappresentavano i volti e i nomi  più noti dell’epoca, i beniamini del popolo, gli ideali di bellezza cui tutti aspiravano anche se  irraggiungibili”.Il “Mondo fluttuante” era quello tutto particolare creato dall’isolamento del Giappone.

Soggetti, quindi, comuni in queste rappresentazioni pittoriche sulle stampe artistiche dell’ “ukiyoe”, nei quali divennero prevalenti, a parte i paesaggi, le cortigiane e le geishe di ristoranti e case da tè, nonché donne di alta classe. Soprattutto l’abbigliamento è particolarmente curato con kimono dai colori sgargianti, gonne sovrapposte e una serie di elementi ornamentali quasi codificati per le donne delle case di piacere. Anche la capigliatura in queste stampe era molto curata ed elaborata.

“Il pino a cuscino nel parco di Aoyama”, 1830-31

Le immagini ritraggono queste bellezze nelle più diverse situazioni, a figura intera, sedute e mentre leggono, quando camminano,  brillanti decorazioni con motivi geometrici o floreali  negli abiti e atteggiamenti spesso sensuali. Vi sono anche “‘immagini pericolose’ (“abunae”), che lasciano intuire la scelta amorosa senza esplicitarne l’aspetto sessuale, come è invece tipico delle stampe erotiche (“shunga”).

La vita del maestro Hokusai

Premesso il contesto in cui si colloca la sua arte, in particolare la formula particolare dell’ “ukiyoe”, possiamo cercare di delineare il profilo caratteristico di Hukusai che ne è stato il massimo esponente, precisando subito che cambiò il proprio nome più volte, in corrispondenza con le diverse fasi evolutive della propria vita artistica, quasi a volerne marcare le svolte.:

Il suo nome era Tokitarò, nacque a Edo nel 1860,  fu adottato e, dopo essere stato da adolescente fattorino in un biblioteca, entrò come apprendista in una bottega di intaglio xilografico, di qui nasce l'”ukiyoe”, Poi entra nello studio artistico di  Shunsho Kawamura, fondatore della scuola omonima, dal 1779 al 1794 firma le sue prime opere come Shunro la cui parte iniziale evoca il nome del maestro, raffigura soprattutto attori di teatro  e illustra libri di narrativa popolare nello stile della scuola Kawamura, con pose fisse e poca  attenzione ai dettagli. . .

Nel 1795 passa nella bottega di Sori Tawaraya, fondatore di un’altra scuola omonima, e firma con il nome Sori quando ne prende la guida fino al 1798, muore la prima moglie lasciandogli tre figli piccoli, si sposa di nuovo ed ha altri due figli. Il suo stile ora si avvicina a quello di un altro maestro particolarmente in voga, Utamaro, comincia a dedicarsi al paesaggio nel quale è destinato ad eccellere, inizia ispirandosi alla prospettiva occidentale sull’esempio di un altro maestro, Shiba Kokan, ma mantenendo i caratteri orientali della sua arte.

Ejiri nella provincia di Suruga”; 1830-31

In tal modo, allontanatosi dallo stile della scuola Tawaraya e sentendosi in grado di operare in modo autonomo,  prima dell’inizio del 1800 cede il nome Sori  a un allievo e si mette in proprio con il nome di Hokusai, letteralmente “studio del nord”, riferito non più a un maestro ma a una divinità collegata con la stella polare. Può approfondire la conoscenza delle diverse correnti artistiche, come quella dominante di Kano che innestava elementi dell’arte cinese classica nella tradizione giapponese, divenendo  più libero nell’esprimersi, è il periodo di maggiore impegno artistico. Il suo stile diviene più penetrante nelle figure umane che tende ad inserire in  paesaggi e ambienti naturali.

Di questa fase si narrano episodi apparentemente sconcertanti, che mostrano come fosse creativo, eclettico, e anche d’avanguardia: si va dalla pittura su un granello di riso – un volo d’uccello – ai duecento metri quadri di carta dipinti a terra in pubblico con l’immagine del fondatore del buddismo, l’intero dipinto poi fissata su un supporto ligneo di pari dimensioni, sembra cronaca contemporanea. Come  appare d’avanguardia la sua inventiva in una gara pittorica allorché, dopo aver tracciato delle strisce blu sulla carta stesa a terra, vi fece passare un gallo al quale aveva  intinto le zampe di rosso.

Tutto ciò fa capire anche l’irrequietezza nei cambi di nome, nel 1810 lascia anche questo nome, con cui è divenuto celebre e che oggi viene citato  per l’intera sua opera, a un allievo, pur usandolo ancora saltuariamente, e prende il nome di Taito, l’abbreviazione di Taihokuto, una stella dell’Orsa minore. Si dedica alla didattica con un corso di disegno basato su forme geometriche, con i  “Manga”, che sarebbero i fumetti asiatici, ma li interpreta diversamente, 15 volumi  con un’infinità di immagini di persone  animali, divinità e architetture;  e una serie di altre opere educative, dalla danza alla pittura alla spiritualità. Non disdegna il genere erotico, con il libro “Spasimi d’amore” e l’immagine della donna rapita da un polipo.

Il Fuji da Gotenyama presso Shinagawa”, 1830-31

Alla fine del 1819; al compimento dei sessant’anni, con cui i giapponesi concludono un ciclo astrologico, cambia di nuovo il nome con cui si firmava in Jitsu, “nuovamente uno”, in effetti sentiva l’ansia del rinnovamento, si dedica anche ai “surinomo” in contatto con gli ambienti letterari e a lavori di grande abilità tecnica e di notevole creatività.  I suoi animali sono sempre più il riflesso di caratteri umani mentre per la figura umana torna allo stile iniziale della scuola Katsukawa.

E’ la fase dei maggiori capolavori, come le “Trentasei vedute del monte Fuji”,del 1830,  tra cui il clou del cono rossastro del monte  e l’icona della “grande onda” – il cui successo fece estendere il programma a cento opere, ma  ne furono prodotte 46. In questo modo il paesaggio tornò ad essere dominante come era stato nel passato, e seguirono molte serie di grande importanza di vedute delle località più rinomate e degli ambienti naturali più spettacolari come le “Cascate”. Combinò le immagini paesaggistiche anche con le storie  e le immagini di poeti in scene di grande effetto.

L’irrequietezza non si placa, a 75 anni nel 1934 cambia di nuovo nome, da Jitsu passa a “Manji”, di origine buddhista, lo mantiene fino alla morte del 1849. Non si placa neppure la straordinaria vitalità artistica, tra il 1835 e il 1849 abbiamo le “Cento vedute del monte Fuji”, questa volta non sono stampe policrome, ma in nero e grigio ma con toni suggestivi.

Nonostante si impegnasse molto nel lavoro artistico e godesse di un’alta consideraazione, nell’ultimo quindicennio di vita finì nelle ristrettezze, anche per la crisi economica che colpì il Giappone; perciò  si trasferì nella penisola di Miura, a 50 chilometri da Edo, ma  vi tornò nel 1836, poco prima della grave carestia del 1837 che seminò miseria e fame. Non solo, ma l’incendio scoppiato in città nel 1939 distrusse la sua casa  con i dipinti che conteneva, una “summa” della sua lunga attività. 

Riuscì  tuttavia anche  a produrre le stampe di “Cento poesie per cento poeti”, poi negli ultimi anni si dedicò ad opere singole, spesso aventi per con soggetto degli animali cui attribuiva significati particolari. L’ultima sua opera fu il “Libro illustrato sull’uso del colore”, aveva 88 anni, tre volumi di cui due pubblicati nel 1848. Vi si raffigura con  pennelli tra le dita di mani e piedi e in bocca. Con questa immagine si piace passare dopo la sua vita alla sua arte.   

“Il passo Mishima nella provincia di Kai”; 1830-31

Hokusai, l’ispirazione dalla natura e dalla poesia

Cominciamo con  le parole di Henri Focillon, il critico francese che nel 1914 in una biografia rivelatrice ne sottolineò la popolarità assunta in Francia analizzandone personalità, motivazioni e stile pittorico, dicendo che  Hokusai riusciva a vedere nella natura “uno splendido scenario ricco di apparenze”.  Ciò perché fa parte di quegli artisti che, a differenza di coloro per i quali l’arte si circonda di mistero, “non li incalza il senso della vita, ma la vita stessa che passa. Cercano di captarla senza pietrificarla. Né si affaticano a sovraccaricarla di simboli o di pensieri”.

In termini positivi: “La vita inebria l’ispirazione di questi pittori senza ottunderne l’osservazione. Ciò che li attrae non è il fatto che la vita sia misteriosa e profonda, ma che sia istantanea e diversa.. Un’attività instancabile li spinge ad essere duttili e rapidi come la vita  che assumono a modello”.  Ed è stato proprio instancabile Hokusai con le 3000 silografie policrome, i 1000 dipinti e i 200 libri illustrati, migliaia di opere prodotte in 70 anni di attività, del resto nella mostra a lui dedicata nel 2014 a Parigi sono state presentate 540 sue opere, a cura del suo grande conoscitore Nagata Seiji che nel 20015 aveva presentato  a Tokyo 490 opere del maestro e anche la mostra attuale è molto ricca.

“Temporale sotto la cima”, 1830-31

Focillon non colloca Hukusai tra i pittori realistici, bensì tra i “pittori dei fenomeni terrestri attuali. Infatti, proprio alla varietà dei fenomeni essi applicano tutte le risorse di un’arte che ha come principio la curiosità e come fine una sintesi espressiva”.

Una sintesi che la Menegazzo identifica nella serie di “Trentasei vedute del monte Fuji”, considerata il suo capolavoro, in cui anche se protagonista assoluta è la montagna sacra, “Hokusai incorpora come tema principale l’azione umana quotidiana, descritta in modo vivido e vivace, e una spazialità drammatica”. Ed ecco come ciò avviene: “In primissimo piano, ma decentrato rispetto al centro dell’immagine, c’è l’uomo, che lavora, si diverte, immerso nel paesaggio di una qualche provincia riconoscibile per un particolare luogo, ponte, scoglio, monte, fiume, per la presenza di una locanda, una casa da te, un tempio o santuario, o per uno scorcio da cui si può scorgere in lontananza la silouette del monte Fuji”.

 Il significato che assume è questo: “Una presenza costante, un punto di riferimento che segna il limite tra l’umano e il sacro ma che trasmette anche una prima consapevolezza di unità nazionale sotto il simbolo del Fuji”.

Sotto il profilo formale “Hokusai studia le sue composizioni secondo linee di forza precise, lasciando tra il soggetto in primissimo piano e il lontano monte Fuji  uno spazio decorativamente pieno, ma allo stesso tempo libero e vuoto (‘yohaku’) per lasciare libertà d’interpretazione all’osservatore”.

Koike Makiko ricorda l’emozione provata da bambina durante un’escursione sul monte Fuji in cui non solo riconobbe “i colori del celebre Fuji rosso’ di Hokusai”, ma percepì “la sacralità della montagna” e la suggestione del rito che “insegna a raggiungere la purezza attraverso la liberazione delle illusioni che riceviamo per mezzo di occhi, orecchie, naso, bocca, corpo e coscienza”. E commenta: “Credo che siano esperienze come queste ad alimentare in maniera spontanea la reverenza nei confronti della natura. La sapienza necessaria alla quotidiana convivenza con la natura ha edificato la cultura spirituale  degli uomini, ed è grazie a questo contesto culturale che riusciamo a percepire il sacro nella raffigurazione di un paesaggio quale quello del monte Fuji”.

Keisai Eisen: “Pioggia d’iniuzio estate” 1818-30

Ci siamo soffermati su questo particolare soggetto della sua ispirazione per entrare nella spiritualità dell’artista prima di visitare la sterminata  galleria di opere di cui le vedute fanno parte insieme a tante altre. La visione dell’umano in un alone di spiritualità non è ispirata soltanto dalla maestosa montagna sacra, si alimenta anche di influssi poetici come nella serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati della balia” del 1935, peraltro rimasta incompleta perché non ebbe successo.

La Makiko osserva come in “Sangi Takamura” di tale serie,  sul poeta destinato all’esilio, “le splendide gradazioni di blu delle acque sembrano sottolineare la bellezza del paesaggio e la fecondità del mare; mentre la nostra attenzione indugia sulle quotidiane fatiche in cui sono impegnati uomini  e donne in questo scenario maestoso”. Sono compresenti  l’impegno delle pescatrici e la gioia dei pescatori per l’abbondante pesca, insieme al dramma del poeta, pur indomito, il che fa concludere: “Questa immagine non si limita a rappresentare il paesaggio cantato nella poesia: è un paesaggio dell’anima in cui si rispecchia la vicenda umana del poeta”.

Dal punto di vista stilistico, una particolarità dell’artista sottolineata da Kawai Masatomo, direttore del Chiba City Mueseum of Art, è  l’avere innestato in modo assolutamente originale sulle tecniche tradizionali elementi della cultura pittorica occidentale come la prospettiva e il chiaroscuro utilizzati in modo, però, del tutto personale,  in quanto vi “sovrappone elementi non presenti in occidente prima del XIX secolo come le forti modulazioni tipicamente orientali della linea, il contrasto tra le campiture di colori scelti all’interno di una limitata gamma cromatica, la rappresentazione deformata dei soggetti”.  La stesura del colore come la pennellata è leggera, in punta di pennello.

L’artista ha utilizzato il “Berlin blue” (“berorin ai”)  dal 1831 al 1834 insieme ad altri colori rendendo più brillanti acqua e cielo con la  tecnica del “bokashi”. A questo punto, nel 1835, Hukusai  a 75 anni lascia le silografie policrome prodotte in ampie tirature e si dedica alla pittura prediletta più intima e personale in esemplari unici.

Keisal Eisen, “Atayoyama. Donna dall’aspetto annoiato” 1822-23

Sono tanti i soggetti rappresentati da Hokusai, anche se abbiamo voluto sottolineare in modo particolare le due serie che ci sembrano rappresentare motivi particolarmente intensi e profondi. Lui stesso dice che a 73 anni “ha cominciato  a intuire la struttura di animali e uccelli, insetti e pesci e la natura di erbe e piante”, infatti  non mancano nella mostra queste raffigurazioni.  Come non mancano immagini femminili, anzi “le cortigiane di Hokusai” erano rinomate, ben prima che il suo epigono, Eisen, di cui parleremo al termine, divenisse specialista nella rappresentazione della beltà femminile nel “bjinga”.

Inoltre l’artista si è dedicato a un altro tipo di lavori per la gente comune, come le silografie policrome del gioco del “sugoroku” con disegnate località a lui  note in una sorta di gioco dell’oca in cui si va avanti e si torna indietro con il lancio dei dadi, sembra incredibile dopo quanto abbiamo detto sui motivi ispiratori di fonte spirituale  e poetica. Ma tale era la sua  curiosità e la sua ricerca instancabile volta ad approfondire “il senso recondito delle cose”  penetrandone l’essenza, fino ad affermare: “A cento anni avrò forse veramente compreso la dimensione del divino. Quando ne avrò centodieci anche un punto o una linea saranno dotati di vita propria”. Per concludere: “Spero che quelli che godranno di lunga vita potranno verificare se quanto affermo sarà vero”. 

Toccò quasi i 90 anni, e non possiamo dire se riuscì ugualmente a realizzare questi desideri. Ma tutti hanno potuto constatare la sublime capacità di sintesi del suo capolavoro, l’icona della sua arte, “”La [grande] onda presso la costa di Kanagawa” rappresenta la titanica lotta dei marinai su fragili barchette per non essere travolti dai giganteschi marosi, sintesi raggiunta dopo una serie di opere sul tema, anche di trent’anni prima.  “In questa immagine .- commenta la Makiko – Hokusai fissa tutta la bellezza e la tensione di un singolo istante”.

E’ un’immagine ben diversa da quelle della montagna sacra, anche se fa parte del ciclo “Trentasei vedute del monte Fuji”. Il monte che, lo diciamo in conclusione, è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità come “luogo sacro e di ispirazione artistica”, per aver alimentato la religiosità popolare da un lato, la creatività di scrittori, poeti, pittori dall’altro. E di certo, gli “ukiyoe” di Hokusai hanno avuto un ruolo significativo per come ne hanno fatto sentire l’intensa spiritualità anche in occidente. Ne parleremo prossimamente nel raccontare la visita alla mostra.

Keisal Eisen, “Beltà sotto le luci serali ad Akiba”, 1818-30

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questo sito l’8 e 27 dicembre p. v., con altre 12 immagini ciascuno.  Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Le prime 8 sono opere di Katsushika Hokusai della serie “Trentasei vedute del monte Fuji”, 1830-31: in apertura, “La [grande] onda presso la costa di Kanawaka” , seguono,”Ushibori nella provincia di Hitachi” , e “Ruota idraulica a Onden”; poi, “Il pino a cuscino nel parco di Aoyama”, ed “Ejiri nella provincia di Suruga”; quindi, “Il Fuji da Gotenyama presso Shinagawa”, e “Il passo Mishima nella provincia di Kai”; noltre, “Temporale sotto la cima”. Le ultime 4 sono opere di Keisai Eisen: la prima, “Pioggia d’iniuzio estate” 1818-30, seguono “Atayoyama. Donna dall’aspetto annoiato” 1822-23, e “Beltà sotto le luci serali ad Akiba”, 1818-30; in chiusura, “Totsuka, Matsubama della Matsubaya” 1823 circa..

Keisal Eisen, “Totsuka, Matsubama della Matsubaya” 1823 circa

Annalia Amedeo, porcellane artistiche nelle “Sinestesie” alla “Casina delle Civette”

di Romano Maria Levante

Nella mostra “Annalia Amedeo. Sinestesie. Natura. Storia. Arte”, alla “Casina delle Civette” nella Villa Torlonia, a Roma,  sono esposte, dal 21 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018, circa 30 opere di porcellana  realizzate dall’artista negli ultimi cinque anni, e raccolte nel segno delle “sinestesie”, percezioni sensoriali in sequenza misteriosa. Promossa dall’Assessorato alla crescita culturale di Roma Capitale e presentata dal Centro Studi per la Storia della Ceramica Meridionale diretto da Guido Donatone, è a cura di Elena Paloscia la quale ha curato anche il Catalogo che contiene saggi suoi,  di Donatone e  della Massafra, responsabile del Museo.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c8f95a.jpg

E’ la terza mostra che seguiamo alla “Casina delle Civette”, all’interno del  parco di Villa Torlonia, e siamo sempre presi dallo stupore di come le opere esposte si inseriscano in un ambiente così particolare al punto che sembrano far parte dell’arredamento. Eppure si è trattato di opere molto diverse, dalle civette in tutte le varianti possibili ai “putti” scultorei di Wal ed ora alle porcellane di Annalia Amedeo. Il clima liberty della palazzina si presta alla vera e propria incorporazione delle opere presentate, per cui sembra difficile poterle rimuovere al termine della mostra, quasi come se si asportasse un qualcosa entrato a far parte intimamente di un contesto così particolare. C’è anche maestria nella scelta degli artisti espositori, e di questo va dato atto alla direzione del Museo.

La responsabile Maria Grazia Massafra, per la mostra attuale, ne parla espressamente, riferendosi alle porcellane della Amedeo: “La forza onirica e visionaria delle sue creazioni è la stessa che anima il decorativismo naturalistico della Casina delle Civette e il linguaggio simbolico dello stile floreale”. E lo spiega così: “La linea serpentina e filiforme della decorazione Liberty vivifica, con il ritmo della danza e della musica, le forme che l’artista aggrega secondo schemi di natura organica”. Con questo effetto: “Le sue opere creano suggestioni fantastiche, il cui significato simbolico viene accresciuto dall’assenza del colore che lascia liberi di immaginare senza l’illusione della mimesi”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194bede65.jpg

La porcellana nel processo creativo dell’artista

Prima di penetrare nei contenuti delle opere con i relativi significati simbolici, una premessa sul materiale in cui sono realizzate, con le parole di Guido Donatone, Direttore del Centro studi per la storia della porcellana meridionale, che rievoca come dal composto di quarzo e feldspato dell’antica Cina, nel ‘700 si sia giunti alla porcellana aggiungendo il bianco caolino: “Il composto si trasformò in magma duro, compatto marmo pario; non si scalfiva neanche con la punta di diamante. Il segreto passò, poi, a Capodimonte”.

L’artista, nata a Napoli, evidentemente è stata colpita anche dai reperti di porcellana che vi sono stati rinvenuti, “forse  archetipi inconsci delle avvolgenti sculture” da lei realizzate con un processo creativo prima, produttivo poi, così descritto:  “Le dita della scultrice trasmettono leggere vibrazioni sensoriali. Animano un arcano impasto  materico: è il mezzo espressivo da lei privilegiato, destinato col fuoco ad alta temperatura a divenire porcellana dopo aver assunto nelle sue mani forme intricate, tormentate, plastico-cromatiche”.

In tal modo, prosegue Donatone, “la ceramista Amedeo ha interiorizzato la porcellana. Si è avvalsa della precedente  esperienza di restauratrice per  impadronirsi magistralmente  delle tecniche di fabbricazione: ha impiegato il gres, le terre refrattarie, ma il medium privilegiato è la porcellana lavorata in strati sottilissimi”. Il risultato, sotto il profilo materico, è  suggestivo: A volte le opere restano prive di cristallina: in niveo bisquit. Oppure candide, perfette porcellane invetriate, spesso solo screziate con verde ossido di rame, e impreziosite all’esterno con venature di fili di rame e ottone: leggere, fluttuanti, librate installazioni. Per alcune sculture, invece, impiega in seconda cottura sali metallici di ferro e cobalto con esiti cromatici di delicato, serico, vellutato tessuto”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c42341.jpg

Queste parole, nelle quali  si sente l’amore per un materiale così particolare come la porcellana che accomuna l’artista e lo studioso, rivelano il ricamo materico ideale per esprimere contenuti così delicati come quelli che animano la produzione della Amedeo. Si va dalla Natura,  alla Storia all’Arte –  titoli delle 3 parti della mostra – senza soluzione di continuità, come approfondimento di un’introspezione sempre più intima e raccolta, che cerca all’esterno le forme per esprimersi.

Le “sinestesie” sensoriali nel processo creativo,

L’introspezione è definita “sinestesie” perché se ne possa percepire l’iter movimentato: si tratta, infatti, di una sequenza sensoriale tra percezioni successive, anche molto ravvicinate fino ad essere contemporanee, che possono risultare in contrasto tra loro, come lo sono le diverse sensazioni che dà la porcellana, di delicatezza e morbidezza da un lato, di durezza e asprezza dall’altro.

La curatrice Elena Paloscia spiega così il percorso, pur istintivo, della nascita delle creazioni dell’artista: “E’ il flusso di un discorso dalla sequenza non necessariamente univoca perché nei processi interiori che sottendono il suo lavoro spesso alcune intuizioni hanno bisogno di tempo per palesarsi, altre invece si manifestano repentinamente, mentre su altre ancora è necessario riflettere, talvolta tornare”.  Uno “slittamento percettivo” che si esprime anche nei temi prescelti e nei contenuti.  Essi, infatti, “sono classici, talvolta ancestrali, fino a sfiorare la dimensione astratta, ma ci appaiono contemporanei nella struttura sintattica con cui l’artista articola il racconto”.  

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194d0552b.jpg

 Tutto chiaro e semplice, dunque? Non è così, se la Massafra osserva: “Tutte le sue opere hanno una densità simbolica ambivalente: nella luce primaverile si percepisce un’ombra minacciosa, nel volto solare della divinità rigeneratrice si intuisce la presenza minacciosa e notturna dell’oscurità”. E se “le misteriose presenze femminili hanno capigliature sinuose” non è soltanto un fatto estetico ma “rinviano all’archetipo mitico della medusa” dove la chioma evoca “apparizione, visione, mistero”.Mentre la stessa  Paloscia avverte: “E’ un fare arte personale e fuori dagli schemi, con uno sviluppo che può essere raccontato e spiegato, ma i cui esiti non saranno mai compresi fino in fondo”.  

Ed è con questa consapevolezza che ci accingiamo a passare in rassegna le opere esposte, nelle tre parti, Natura, Storia e Arte,   in cui – sono sempre parole della curatrice – “diventano protagonisti la foglia, il fiore, la coppa, il fossile e la maschera, declinati secondo un sentire intimo, espressione di un percorso lento, di trasformazione, che ricalca i tempi dell’esistenza stessa”.

In effetti, le immagini evocano memorie remote e insieme presenti, dalle foglie ai fiori declinati in modo suggestivo, alle conformazioni fossili molto particolari fino alla classicità anch’essa rivista in modo sorprendente. Ambivalenza anche qui, le opere vengono presentate come qualcosa di nuovo, anzi d’antico, e viceversa. Lo vedremo citandole tutte ad una ad una.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194cc98d1.jpg

 La natura e la storia: viluppi, strati e cavità con richiami ancestrali 

Si nota una  perfezione stilistica e una grazia espressiva che vanno oltre la pura forma per investire il contenuto che l’artista vuol dare alle sue creazioni. E’ la ricerca di qualcosa di più profondo oltre l’apparenza esteriore, dalle foglie alle coppe la cui cavità viene esplorata aprendola a un’osservazione ansiosa di rivelarne gli intimi recessi. Forse per questo viene citata la massima di Baudelaire: “La Natura è un tempio dove incerte parole  mormorano pilastri che sono vivi, una foresta di simboli che l’uomo attraversa nei raggi dei suoi sguardi familiari”.

C’è tutto in queste parole, la sacralità che incute rispetto e i pilastri vivi nella candida porcellana, la foresta di simboli che riporta alle origini di tutto,  gli sguardi familiari che cercano di penetrare.

In apertura della parte dedicata alla “Natura”, “Leaves installation”, 2013-15 presenta  le foglie nelle loro larghe volute non appesantite dalla solidità della porcellana, mentre l’installazione del 2014 dallo stesso titolo le mostra distese su un supporto marrone di tipo arboreo, in uno dei contrasti cromatici che rompono la sostanziale monocromia dell’insieme.

Con “Root kinesis“, 2015, si cerca di penetrare nelle radici, è un viluppo di strati leggerissimi che nell’anno successivo ritroviamo con un’indoratura marroncina di sali metallici in “Tracce sensibili”. Sono viluppi che si elevano verso l’alto, mentre in precedenza erano stati creati più in orizzontale in “Bind”, 2014 e “Oblations”, entrambi a coppie.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194ccdb7f.jpg

L’installazione “Verso”, 2017, va oltre la naturale espressione vegetale, è costituita da una molteplicità di elementi diversi tra loro per minime varianti, in una sequenza creativa in cui la foglia subisce un processo di mutazione che la fa diventare corolla e fiore in un crescendo che coinvolge l’osservatore nella visione d’insieme e nel contempo nell’osservazione di dettaglio.

Finora si è trattato di porcellana candida,  a parte l’indoratura marroncina delle “Tracce sensibili” e della “Leaves installation” del 2014 e qualche leggera striatura in altre. Ma con “Blue-seed”, 2016,  sul candore della coppa sottostante si calano delicate conformazioni in celeste tenue,  più invasive delle piccole presenze celesti nelle bianche cavità di “Le foglie dentro # 1 e 2”, 2015. “Forme organiche”, 2015, mostra l’analoga cavità senza altre aggiunte.

Cavità candide  anche nelle prime opere che citiamo della parte dedicata alla “Storia”, al contrario di “Blue.seed”  sono le piccole coppe cave ad essere appoggiate su un supporto che evoca la sezione degli alberi  da cui si ricava l’età secondo il numero dei cerchi, forse per questo è marroncino. E’ come un richiamo alle origini della vita,  immagini ancestrali  che danno il titolo alla serie.

In  “Memoria fossile # 3” e “# 4”  il supporto richiama proprio la sezione dell’albero, mentre  in “Memoria fossile # 2”, tutte del 2017, il supporto è ancora un disco marrone ma non vi sono poggiate le due cavità, perché sono al centro di una sorta di irradiazione progressiva, riteniamo del senso della vita. Richiamo ancora più evidente in “Memoria fossile # 1”, 2016, dove al centro dell’irradiazione c’è qualcosa di diverso e di più allusivo che solo “uova dischiuse”.  in “Memoria fossile # 5“,  2017 le “uova dischiuse” si sono moltiplicate, il supporto  resta un sottile disco marrone.   

E’ il processo vitale della trasformazione legata all’esistenza che in “Madreforma # 1” e “# 2”, 2017,  assume aspetti diversi, ancora cavità ma ora percorse dai “cerchi della vita” oppure forme chiuse segnate nello stesso modo.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194cfd31e.jpg

L’arte, la Venere classica in trasmutazioni simboliche

Fin qui la genialità dell’artista ha  innestato il senso della vita nelle conformazioni floreali unite a memorie arboree e riferimenti ancestrali, lo abbiamo visto declinato in “natura” e “storia”. Nessuno shock né spiazzamento per l’osservatore, ma stimolo a penetrare i significati reconditi.

Questo stimolo è ancora più pressante dinanzi alle opere della serie dedicata all’“Arte” perché vi si aggiunge lo shock e lo spiazzamento. Né altro potrebbe esserci dinanzi alla perfezione del volto della classica Venere capitolina deturpato, sfregiato e  quasi aggredito, la sua bellezza brutalmente violata. E usare tale  avverbio avendo parlato finora di perfezione e delicatezza stilistica è tutto dire.Non ci basta ricordare l’avvertimento della curatrice che siamo “fuori dagli schemi”, per cui pur trovando le spiegazioni dell’itinerario artistico i suoi “esiti non saranno mai compresi fino in fondo”, a prima vista non comprendiamo nulla di tale profanazione. Ma basta approfondire la materia per entrare, sia pure con maggiore difficoltà che per le altre opere, nell’ambivalenza e nel simbolismo, qui particolarmente complesso.  All’evidente riferimento classico a Venere, dea della bellezza, si aggiungono rinvii anche ad Euridice  e  a Dafne; in più a un racconto di Primo Levi che ha  ispirato un ciclo di 4 immagini di Venere molto particolari. Perché tutte le opere della serie dedicata all'”Arte”  presentano il la testa scultorea di Venere dal bellissimo viso variamente “aggredito” soprattutto da foglie che arrivano a tappare la bocca e gli occhi, o a posarsi sul viso.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194cc4bf5.jpg

Il rinvio ad Euridice è motivato dalla leggenda secondo cui lasciava una scia di foglie perché la trovassero salvandola dall’Ade; quello a Dafne perché, per sottrarsi alle insidie di Apollo mutando i sui capelli in figlie ondulate chiamava a soccorso le divinità fluviali che la proteggevano. Ecco perché le foglie sul viso di Venere, che non è vuol essere un reperto museale nè un’immagine meramente estetica, ma un qualcosa di vivo dal carattere fortemente simbolico! Il ciclo “Come tu mi vuoi”, 2015,  presenta 5 immagini del viso scultoreo di Venere, su cui si posano delle foglie, in bocca o negli occhi, o sulle guance; in “Come tu mi vuoi # 4”  è coperta interamente la parte superiore del volto come da una maschera.

Un racconto di Primo Levi ha ispirato l’artista nell’opera “Angelica farfalla”, 2017, altre 4 immagini del viso di Venere in parte coperto da foglie;  il racconto ha lo stesso titolo e si è ispirato a sua volta al Purgatorio allorché Dante parla della trasformazione in creatura superiore, da larva a farfalla od angelo; però la mutazione nel racconto di Levi è mostruosa  nascendo dalla mente criminale nazista e si conclude  con una catarsi liberatoria della popolazione tedesca. “Allo stesso modo – commenta la Paloscia –  Annalia Amedeo  su quella maschera universale proietta emblematicamente la possibilità per l’essere umano di giungere ad un nuovo stato di coscienza  attraverso  una temporanea morte simbolica cui segue la rinascita”. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c15287.jpg

La farfalla era simbolo dell’anima, nasce dal bruco e  dopo un breve vita può rinascere. “Di questo straziante e bellissimo percorso l’artista lascia traccia  e lo fa con il suo lessico consueto che muta però nelle scelte cromatiche e nella finitura della superficie, che  a tratti perde la sua preziosità diventando scabra proprio come un percorso verso una nuova carnalità”.

Guardiamo i 4 volti, soprattutto nell’ “Angelica farfalla # 2”, come osserva Donatone, “sul divino, candido viso della dea germogliano tracce impure, foglie accecanti, invasive, taglienti. Segni proclamati dell’immagine della donna violata’, privata della sua integrità”; nel “#1” e “# 4″, il viso è integro ma sono tappati da foglie e altro rispettivamente l’occhio destro e il sinistro; nella “#  3”  il viso invece è libero da ogni intrusione, un fiore è nei capelli con le labbra e le gote leggermente arrossate come per un ritorno al calore della vita.La trasformazione così si perfeziona,  il contenuto di spiritualità e il senso della vita, che nelle cavità rimanda addirittura all’origine genitale, approda alla liberazione e alla rinascita, la statua prende colore, si libera anche delle foglie e delle farfalle, Venere diventa Eva la progenitrice. In questa visione si supera lo shock per il bellissimo viso deturpato che nella quarta opera del ciclo torna a risplendere nella sua perfezione  pur con una certa mestizia nel capo leggermente reclinato.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c94852.jpg

“Qualche volta il nostro angelo migliore depone le uova”, sono le parole di Ada Merini richiamate per la parte dedicata alla “Storia”. Le “uova dischiuse” le abbiamo viste rappresentate, ora troviamo le parole di Dante per la  parte dedicata all’ “Arte”: “Non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a  formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia senza schermi?”  Abbiamo visto anche l’angelica farfalla, Venere-Eva che l’artista ha fatto uscire dai Musei capitolini per darle vita; e anche se qualche foglia si è fissata sui suoi occhi e ne ha offuscato il viso, è stato momentaneo, dal bruco alla farfalla , dalle cavità genitali e dalle “uova dischiuse” la vita è entrata nelle gote di Venere-Eva.

E’ il miracolo dell’arte, dell’arte di Annalia Amedeo,  l’ambiente  particolare ed evocativo della “Casina delle Civette”  fa pensare alle sue opere  come a gioielli finemente incastonati.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c727c8.jpg

Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211. www.annalia-amedeo.it. Catalogo  “Annalia Amedeo. Sinestesie. Natura, storia, arte”  a cura di Elena Paloscia,  Editore Guida, Napoli, ottobre 2017, pp. 92,  formato 22 x 22. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per la precedente mostra collettiva alla Casina delle Civette, cfr. il nostro articolo, in questo sito,  “Civette, un’intrigante ‘civetteria’ alla ‘Casina’ di Villa Torlonia”,  15 marzo 2017.

Info 

Le immagini sono tratte dal Catalogo essendo risultate di cattiva qualità  le fotografie scattate alla presentazione della mostra, si  ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta.  In apertura, Angeliche farfalle # 1″, 2017;  seguono, Tracce sensibili”, 2015, e “Verso”. 2017; poi,  “Oblations”, 2015, e “Forme organiche”, 2015; quindi, “Le foglie dentro# 1!, 2015, e “Blu -seed”, 2016; inoltre,“Memoria fossile # 1”, 2016, e “Memoria fossile 2”, 2017; infine, “Memoria fossile # 5”, 2017, e “Angeliche farfalle # 4”, 2017; in chiusura, “Come tu mi vuoi”, 2015.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16194c5ddcf.jpg

Rigenerazione dell’arte, contro il degrado delle periferie, al Mitreo Iside

di Romano Maria Levante

Al Mitreo Iside di  Roma si è svolto il 26 novembre 2017 l’evento “La RigenerAzione dell’arte” che abbiamo preannunciato nei giorni scorsi:  un incontro-dibattito, una performance artistica  e la mostra d’arte con oltre 50 opere  di altrettanti artisti accorsi al bando dell’organizzazione, mostra aperta fino al 3 dicembre p. v,. Al di là del pur rilevante aspetto artistico sono emersi elementi strettamente connessi, forse prevalenti, di notevole importanza  per una mobilitazione  corale nel riscatto dal degrado urbano all’insegna della potenza rigeneratrice dell’arte dimostrata  in una realtà come Corviale che ha saputo voltare pagina con questo impulso divenuto salvifico.

Siamo andati alla manifestazione soprattutto  per il ricordo di Angelo Cesselon, cui è stata dedicata un’apposita performance. L’abbiamo fatto  in omaggio all’ “uomo dei sogni” cinematografici della nostra infanzia e prima giovinezza con la sua pittura per il cinema che imprimeva nella nostra fantasia  i volti dei grandi divi dei film in modo da farci sognare già prima di entrare al cinema; e anche con la curiosità di vedere le numerose opere d’arte esposte nel felice concorso  di tanti artisti.

Ebbene,  l’interesse perla performance su  Cesselon  e per l’esposizione artistica era ben riposto, anzi la nostra soddisfazione ha superato le aspettative. Ma c’è stato qualcosa che a nostro avviso va oltre la memoria personale e il fatto artistico e può incidere, al di là di quanto si possa immaginare, sulla vita stessa della nostra città, se non viene lasciato cadere per indifferenza o insensibilità.

La rigenerazione delle periferie con la forza salvifica dell’arte  

Ci ha fatto pensare a tutto questo l’intervento di Gianluca Martone –  presidente del gruppo del Movimento 5 stelle del Municipio XI e membro della Commisisone cultura – il quale ha inquadrato la manifestazione  nella prospettiva dell’intera città, partendo dalla metafora con cui  James Joyce all’inizio del  ‘900 sottolineava criticamente la “situazione di profondo abbandono” in cui  versava Roma,  che si cercava di mascherare esibendo gli antichi ruderi, le “bellezze del passato”.  Martone ha sostenuto che occorre una “RigenerAzione”,  ponendo l’accento sulla A di azione, “e l’arte è uno degli strumenti per attuarla”. Resterebbero termini generici e non le “parole concrete” che ha dichiarato di voler dire se non avesse aggiunto che “il più grande nemico della RigenerAzione urbana può essere solo la politica”; ma lui, politico consigliere del Movimento 5 stelle nel Municipio XI, non sostiene il primato della politica come ci si sarebbe potuto attendere, bensì afferma che “l’arte è molto più potente della politica ed è per questo che da sempre è temuta dal potere”.  Queste parole hanno acuito il nostro interesse, che non è stato deluso.

Perché ha parlato di “rigenerazione  in senso sociale e morale, la parola indica rinascita, rinnovamento radicale, redenzione che si attua in una collettività”; in termini ancora più precisi è “un’azione che implica la volontà collettiva di rinnovamento al fine di trovare soluzioni innovative ma soprattutto migliorative”. Iniziative concrete, dunque,  non prospettive astratte, alle quali l’arte può dare l’impulso decisivo: “In questo contesto l’arte diviene un esercizio culturale potentissimo in quanto compie l’Azione di presa di coscienza e di conoscenza di quello che è stato il passato, dei percorsi rigenerativi precedenti, divulgando consapevolezza condivisa”, attraverso un’operazione creativa “che dà vita alla RigenerAzione”.

Ed è proprio la “RigenerAzione”  al centro dell’evento al Mitreo Iside, i cui organizzatori hanno il merito di aver innescato questo percorso virtuoso  concretamente, in una manifestazione in cui varie arti si sono  mescolate con i suoni e i colori, le parole  e le musiche, le forme e la sostanza di un impegno corale.

Ma non è ancora la scintilla che può far scattare la RigenerAzione, la innesca lo stesso Martone: “Nel Municipio XI l’Arte è Azione riprendendosi quello che da sempre è il ruolo che le spetta: interpretare il presente e decodificarlo per lasciarne traccia in futuro, nel nostro territorio imponendo in maniera fisica la rigenerazione delle periferie”. Parole  forti di un giovane politico laureato al Dams, il quale quindi conosce la potenza dell’arte dall’interno, che assumono una portata generale con il riferimento alle periferie.

Il tema della periferie  è  stato tra quelli al centro degli  “Stati generali del paesaggio”,  voluti dal ministro per i Beni, le attività culturali e il turismo Dario Franceschini, che ha concluso le due giornate del  25 e 26 ottobre u. s. al Palazzo Altemps ribadendo l’impegno del Ministero su questo fronte.  E’  intervenuto il Direttore generale competente sulle periferie, Federica Galloni, che ha parlato di una ricerca su 10 aree metropolitane in merito a servizi, beni culturali e creatività per avere orientamenti utili alla “rigenerazione urbana” nelle periferie in cui i “ben comuni siano i motori” della partecipazione diretta di cittadini e comunità.  Ebbene, ci sembra che a questa riflessione, premessa dell’azione concreta, potrebbe dare un valido contributo la  positiva esperienza del Mitreo. Perché può risultare pionieristica e diffondersi negli altri Municipi della Capitale in modo da creare quella spinta irresistibile alla rigenerazione urbana di cui si ha tanto bisogno nelle condizioni di profondo degrado della città, ben più gravi del “profondo abbandono” denunciato da Joyce nel 1906. “L’arte, ha concluso Martone, responsabilizza la cittadinanza da un senso d’appartenenza e nelle zone più degradate innesca un senso di riscatto sociale. La bellezza diviene quindi un’alternativa possibile”.

Di sorpresa in sorpresa, questo messaggio di superamento del degrado con una rigenerazione volitiva dettata dall’arte viene dal Mitreo Iside, struttura  a servizio di quello che una volta era disprezzato al punto di  farne ipotizzare l’abbattimento,  l’allora famigerato Corviale, “il palazzo lungo 1 km”, anzi due palazzi paralleli, un “sepentone” di 980 m. Che da simbolo del degrado diviene così emblema del riscatto; una sorta di “spem contra spem”, tale da far sperare che nella capitale possa tornare la “grande bellezza” altrimenti destinata a restare nella memoria della “Roma sparita”. Una grande bellezza da recuperare con l’esplodere della creazione artistica nei municipi e la sua esibizione, come al Mitreo Iside, al punto che l’indifferenza e la rassegnazione al degrado e all’abbandono diventino inconcepibili: si creerebbe l’alternativa visibile dell’impegno volitivo nell’arte e questa sarebbe una comparazione troppo stridente per non suscitare la doverosa assunzione di responsabilità da parte di tutti. E ben venga che l’arte abbia per queste alte finalità il primato sulla politica.

La pratica rigeneratrice dell’arte nell’archetipo di Corviale

“La pratica rigeneratrice dell’arte” è stata approfondita da Monica Melani, curatrice dell’evento e direttrice dal 2007 del “Mitreo Arte contemporanea” di Corviale. Tale struttura, di cui è ideatrice e fondatrice, è stata concepita fin dall’inizio integrata nella “rete di beni relazionali e buone pratiche chiamata ‘Corviale Domani’, oggi APS”, di cui è vicepresidente,  con la finalità di strappare dal degrado una periferia dall’assetto anomalo, quindi più attaccabile dalle spinte degenerative se non si iniettano, come si è fatto, potenti anticorpi.

E’ un chiaro orientamento che riflette la sua formazione nell’Accademia delle Belle Arti e nell’Istituto di psicosomatica, alla base del suo impegno nell’esplorare “le  dinamiche fisiche e metafisiche del processo creativo”, alla ricerca, sono sue parole, “dell’invisibile filo che tutto unisce e di un’arte al servizio dell’essere umano”. Ricerca durata venti anni, sui rapporti tra arte  e psiche, culminata nella “pittura energetica”  e non solo.

Con una simile qualificazione assume particolare valore un’impostazione che supera l’evento contingente per divenire un archetipo, un modello cui fare riferimento su un piano più generale. Prende l’avvio dalla constatazione che all’arte non va riferito soltanto ciò che si sublima nel capolavoro: “Una cosa ‘fatta ad arte’ può non piacere a tutti, ma oggettivo è il suo distinguersi. Il suo andare diretto verso un bisogno, un richiamo che attira, per risonanza, chi può comprenderlo o avene necessità”. E questo perché si tratta di “una pratica naturale insita in ogni essere vivente e nella natura stessa che ‘realizza ad Arte’ tutto ciò che è funzionale alla Vita ed alla sua sopravvivenza, con una armonia e perfezione alle volte difficile da comprendere e da accettare”.  Ma che è impossibile ignorare essendo innata, anche se si deve risvegliare.

E’ il contesto culturale nel quale prende vita il “Progetto Mitreo” sin dal 2004, con l’intento, così espresso, di “rimettere al centro di un territorio, disagiato e separato dal resto della città, il ruolo salvifico dell’arte  e degli artisti, per educare a quella Energia Creativa che in tutto e per tutti gli esseri umani è espressione di unicità, da taluni chiamata ‘diversità'”. Con  delle potenzialità straordinarie, perché è un’energia radicata in ognuno e deve solo essere liberata: “Una ricchezza da accogliere, includere, comprendere, condividere, scambiare, espandere, trasformare… insieme all’unicità e diversità degli altri, riconosciuta e rispettata”. 

Non è astrazione teorica, è “una pratica che metta al centro la funzione Rigenerativa dell’Arte in quanto espressione del potenziale di ogni singolo individuo, a favore di un’intera comunità”.  Dà corpo al kennediano “non chiederti cosa lo Stato può fare per te ma ciò che tu puoi fare per lo Stato” perché fornisce alcuni strumenti per operare singolarmente ma nell’interesse generale, trovando l’equilibrio “fra il nostro essere, porci, progettare, ‘fare ad arte’ e quello degli altri  che, presenti in uno stesso spazio ci invitano al rispetto dell’altro, delle proprie produzioni e proposte, ma anche a metterci insieme per generare crescita personale  e prodotti culturali nati dall’incontro e dalla frequentazione”.

E se dalla crescita personale vengono “prodotti culturali”,  a maggior ragione si può sperare in comportamenti  quotidiani rispettosi degli altri: il pensiero va a quella parte del degrado come la pulizia urbana così carente che dipende da tutti e da ciascuno, oltre che dalle gravi deficienze dei servizi municipali a ciò deputati. La formula vincente per le periferie può nascere anche da qui, se viene raccolta la sfida e le autorità capitoline sono disposte a stimolare gli altri Municipi  a fare ciò che si è realizzato in modo così positivo nel  Municipio XI.

Nei giorni scorsi è stata diffusa la classifica sulla qualità della vita nelle città italiane, Belluno in testa senza neppure una cartaccia o una cicca di sigarette nelle strade, Caserta in coda,  mentre Roma, la capitale, la “città eterna” dalla storia gloriosa ha perduto in un anno 11 posizioni scendendo dal 13° al 24° posto nella graduatoria nazionale, e non ha più il primato che aveva nella “cultura  e tempo libero” sorpassata da Firenze, pur se anch’essa in discesa, mentre per l’ “ordine pubblico” si colloca addirittura al penultimo posto. E’ un’emergenza che fa tornare il pensiero allo storico “sacco di Roma”  non per un’impossibile analogia ma per sottolineare che allora seguì la rigenerazione proprio nel segno dell’arte.

Questo ci porta ad affermare che è giunto il momento di ripetere quella reazione vincente perché si è toccato il fondo, nell’inefficienza dei servizi ma anche nel decoro o meglio disdoro urbano, invasi dalla sporcizia e tormentati dalle buche; la via della rinascita è la stessa anche se questa volta non potrà intraprenderla il papa, ma dovrà farsene carico la cittadinanza con le proprie istituzioni.

 La forza dell’arte come atto creativo e come coinvolgimento virtuoso

Torniamo all’arte in senso stretto con l’intervento di Angelo Nardi, anch’egli  la collega ad altre discipline come la filosofia, in particolare quella del linguaggio in cui è laureato impegnandosi attivamente come operatore culturale: è l’estensore del “manifesto  per l’arte vivente a Roma” e in quanto tale sente in modo particolare l’esigenza di una rigenerazione che trovi nell’arte la molla per far scattare la reazione popolare. Da studioso di estetica organizza mostre d’arte e le divulga da giornalista, e così ha fatto per la mostra degli oltre 50 artisti espositori al Mitreo Iside, accorsi così numerosi al bando emesso per l’occasione.

Nella sua visione identifica la forza generatrice dell’arte non solo nell’atto creativo, ma anche nella sua capacità di “coinvolgere chi non ha alcuna relazionalità con il creatore. Le dimensioni evocate nella costruzione raffigurativa evidentemente toccano corde che non si sapeva di avere”. Ed ecco l’effetto più evidente: “Si stabilisce un contatto tra creatore e percipiente che senza l’espressione creativa non sarebbe avvenuto”, perché la visione utilitaristica della vita copre nella quotidianità “dinamiche sconosciute ma esistenti”.  In tal modo  può emergere “la generatività scoperta dall’arte come presenza nascosta, come capacità di evocare quel che altrimenti non avrebbe voce”.

L’introspezione va oltre: “L’artista ha il merito di generare, mettere al mondo, collocare tra l’infinità delle presenze ordinarie quel qualcosa  che nasce come uscente dall’ordinario, senza mai diventare straordinario, proprio perché scaturito, generato, da una naturalità espressiva che sarebbe delittuoso nascondere. Ed è qualcosa che ha sempre albergato  nell’umanità ed a vari titoli e funzioni l’accompagna nella sua storia”.

Un qualcosa di liberatorio dalle “clausole di salvaguardia della persona nella società”, quindi di rivoluzionario,  ma non di eversivo,  di condiviso e non di elitario. Questa rigenerazione vuole “semplicemente riportare la persona alla sua verità e trovare con altri, piani di complicità, comunanza e vicinanza altrimenti non immaginabili”. E non può essere questa la nuova spinta rigeneratrice delle periferie e non solo, tanto il centro di Roma è degradato, una spinta che può partire dall’arte per coinvolgere l’intera comunità?

Il messaggio è “prendere l’arte come metodica per comprendere sé stessi e cercare gli altri. Adottare un’opera per fare di sé la migliore opera realizzata in vita”.  Fino a giungere al paradosso che fa dire a Nardi “forse l’arte non esiste” per spiegare subito dopo “non esiste perché non è una eccezione. Fa parte integrante della vita di noi tutti e ciascuno ne è creatore e godente assimilatore (non fruitore)”.

E’ stata questa la premessa alla presentazione degli artisti da parte dello stesso Nardi che ha tracciato i tratti distintivi di ognuno con acutezza e capacità  interpretativa. Ne parleremo prossimamente, e daremo conto della performance “Donna – Cesselon & Cesselon”, una rievocazione suggestiva di tipo teatrale – con parole e immagini, nell’accompagnamento musicale di un pianista – di alcuni momenti fondamentali dell’itinerario di vita del grande pittore di cinema Angelo Cesselon che con i suoi volti dei divi e le sintesi magistrali dei film  ha fatto sognare intere generazioni alla vista dei manifesti ottenuti dai suoi bozzetti, prima ancora di assistere agli spettacoli nella magica suggestione della sala cinematografica.  

 Info

Mitreo Iside, via Marino Mazzacurati 61, Roma (Buon Pastore), Mostra Evento “La Rigenerazione dell’arte”. Dal lunedì al giovedì ore 14,30-20,00, venerdì 17,00-19,30; martedì e giovedì ore 8-12, sabato e domenica secondo eventi; ingresso gratuito. Catalogo “La RigenerAzione dell’arte”, Associazione culturale Mitreo Iside, pp. 70, formato 22 x 22, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il 1° dicembre p.v. Cfr., in questo sito, i nostri due articoli di presentazione dell’evento il 14 e 21 novembre u.s.  

Foto

Le immagini, tranne quelle di apertura e chiusura, che sono di repertorio, sono state riprese nel Mitreo Iside all’inaugurazione della mostra che sarà descritta nel prossimo articolo, si ringrazia l’Associazione culturale organizzatrice, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, il logo del Mitreo Iside; seguono, Emanuela Bellu, “La luna grossa”, e Alder, “Casa storta”; poi, Ernestina Zavarella, “Paesaggi”, e Paolo Residori, “Cabine”; quindi, Claudia Manelli, “Capriccioli al mattino“, e Roberto Pinetta, “La pallina gialla”; inoltre,  Adamo Modesto, “677sc – 11a – 016” (sopra), e Maurizio Bruziches, “Senza titolo”, ancora, Mario La Carrubba, “Cromaticamente Semiramide”, e Alessandro Piccinini, “Spazio ed ombre”;  prosegue, Inna Yanyeva, “Emozione”, e Francesca Boirsetti, “Fecondazione delle tenebre”;  più oltre, Adamo Modesto, “677 sc – 11a-016” (sopra), e Massimo Giovanni Di Carlo, “I sette vizi capitali”; infine, Monica Melani, “Aprirsi alla Realtà dell’Anima” e, in chiusura, un lato della vasta galleria espositiva del Mitreo Iside.. 

Marchi, tra futurismo, classicismo e razionalismo, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La mostra “Virgilio Marchi ‘Futur-classico-razionale. Opere dal 1910 al 1950”, espone  alla Galleria Russo di Roma dal 15 novembre al  7 dicembre 1917, un’ampia selezione di progetti architettonici, teatrali e non solo, con valore artistico per la qualità dell’autore, impegnato anche nel dare veste teorica alle proprie realizzazioni pratiche inserendosi attivamente nel dibattito tra le varie correnti: il futurismo che cercava il movimento, il classicismo la sobrietà, il razionalismo l’ordine. La mostra è a cura di Elena Pontiggia che ha  curato anche il catalogo di “Manfredi Editore”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e4fc8ef.jpg

La Galleria Russo prosegue nella  meritoria iniziativa di valorizzare gli artisti che hanno dato vita alla grande stagione del futurismo, la corrente artistica del ‘900 tipicamente italiana. Dopo Marinetti e Depero, Erba e Tato ecco Virgilio Macchi, una novità  trattandosi di architettura e scenografia, quindi attiene alle costruzioni e al teatro, dopo la pittura, la scultura e il design.

E’ un scoperta  interessante, che non è limitata al futurismo, e già sarebbe molto, ma si estende al classicismo e al razionalismo, i tre stili con i quali si è misurata  la sua attività progettuale, insieme al simbolismo e,  nella  fase giovanile, all’interesse per la secessione contro gli accademismi.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e4e83d3.jpg

Architettura e arte, il futurismo nell’architettura

Un artista precoce,  nato nel 1905, che già nel 1913, a 18 anni,  tenne a Livorno una mostra dei suoi progetti di edifici, in uno dei quali si riscontrano influssi secessionisti. A 21 anni conosce Balla e aderisce al movimento futurista  diventando, dopo la scomparsa di D’Elia,  uno dei maggiori esponenti  dell’architettura futurista , a 23 anni nella conferenza “L’arte è una vibrazione”  espone in modo organico la sua impostazione di architetto-pittore che cura l’espressività dei progetti insieme al cromatismo.

“Rivendichiamo l’architettura all’arte – scrisse nel 1919– accostiamola ai lirici,pittori, musicisti, poeti scultori… tutto  è architettura, poesia, musica danza, quando la materia si dimentichi in virtù di una lirica pura”, Pertanto, “è dunque l’architetto l’uomo versatile in tutti gli infiniti rami  dell’attività estetica”, per concludere: “Chi si cristallizza nella sola attività muraria  è incompleto, non basta all’architettura”, naturalmente si tratta dell’architettura futurusta.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e51a83b.jpg

“Per Marchi non è l’architettura a essere arte, ma l’arte a essere architettura”, osserva la curatrice Elena Pontiggia nell’ambito di un’accurata ricostruzione del percorso dell’artista. E lo spiega così: “Non esiste architettura che non possa essere anche quadro e statua,  e che non possa avere valori espressivi prima che funzionali. Anche la costruzione, dunque, può e deve essere lirica cioè rappresentare gli stati d’animo dell’uomo. Oltre che lirica deve essere drammatica nel senso etimologico del termine: cioè dinamica, perché dramma significa azione e non c’è azione senza movimento”.

Il “movimento”, parola d’ordine del futurismo,  diventa anche requisito delle costruzioni,  per loro natura assolutamente statiche, anzi immobili, quindi nell’impossibilità di qualunque espressione.  Sembrerebbe un ossimoro di impossibile traduzione pratica, ma Marchi  individua la lacuna nel fatto che, mentre  nelle costruzioni  ci sono “tutte le possibili combinazioni di verticalità e orizzontalità, l’architettura non ha ancora sfruttato del tutto l’obliquità, l’eccentricità, la policentricità e l’infinità delle curve messe in valore dalle meccaniche”,  altra parola evocativa del futurismo. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e54fee9.jpg

Il rimedio si trova proprio in questi elementi geometrici non sfruttati  nei quali risiedono le forze che spingono “all’agitazione nello spazio”, quindi al movimento, il requisito mancante che nella concezione futurista è l’elemento vitale. E in materiali non appesantiti dalla “volgarità della materia”, ma nobili, come il vetro, per utopistiche e irrealizzabili cattedrali di cristallo. Le  strutture trasparente e soprattutto curve di Marchi nella “Città futurista” si contrappongono non solo a quelle opache e rigide della tradizione, ma anche al panorama di case e fabbriche bocconiano  

Il dipinto del pittore-architetto “Motivo plastico. Generatore”, 1919, esemplifica “le infinite direzioni, dinamismi e movimenti che le moderne strutture abitative possono intraprendere”.  Viene ricordato che si interesò anche dell’arte astratta, pur senza praticarla, consederandola “esteriorizzazione dello stato d’animo, dell’emozione sincera che ci viene trasmessa  dalla potenza delel cose e dei fenomeni”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e55592a.jpg

Ma si devono a lui anche progetti avveniristici  ideati senza possibilità realizzative  con strutture oblique e aggettanti,  con piramidi e pinnacoli, come “Ricerca di volumi”, 1919, inseriti in città altrettanto irreali che come ottovolanti ruotano mentre sono percorse da vortici di volte ovoidali  e attraversate da mezzi di trasporto come proiettili. Esprimono “una vitalità febbrile”, la gioia di vivere dinamicamente in un perenne  movimento creativo .

Un’architettura non imprigionata da strutture immobili, ma espansiva ed elastica, provvista della “libera sensibilità meccanica”  di cui, secondo Marchi, è precursore il poeta Walt Whitman – quello dell'”Attimo fuggente”, sia detto per inciso –  fautore della poesia liberata dalla rima e dell’energia universale del cosmo.

Il  concetto della costruzione come stato d’animo è sviscerato nel suo libro“Architettura futurista”, 1924, che è stato preceduto da “Classicità futurista”, 1923,.secondo la quale “lo stile è disciplina”, quindi occorre la forza centripeta della classicità, mentre l’ortodossia futurista  postula lo “stile del movimento” per il quale occorre la forza centrifuga della libera creatività. La classicità e la disciplina non vanno bene a Marinetti e Prampolini, il disordine anarchico non va bene a Marchi, così concordano di usare un “linguaggio stilato”.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e56b73e.jpg

Nel “Convegno sul paesaggio” organizzato da Marinetti nel 1922, fece un intervenne anche Marchi, e lo pubblicò nel 1924 in “Architettura futurista” insieme a dei disegni su Capri e sulla villa che  aveva progettato per Marinetti e la moglie, come vedremo, in stile mediterraneo,  non futurista.  Mentre lo stile futurista dominava nel disegno del 1924 “Terrazza della città superiore” con una Roma avveniristica in cui sulle terrazze atterrano piccoli aerei a servizio della città, la verticalità squadrata dei grattacieli è bilanciata dalla rotondità delle cupole e da strutture d’avanguardia. 

Antonella Greco pone l’interrogativo “se sia ancora futurista il di/segno di Marchi  in quella prospettiva di Roma con le terrazze aeroporto”, e dà questa risposta: ” Sicuramente lo è nel senso di una solida utopia modernista ancorata alla città reale, ma non più espressa nel linguaggio e nella gioiosa e ironica provocazione delle visioni precedenti”,come nella “Ricerca di volumi” del 1919.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e588faa.jpg

E questo perché “nell’aporia dell’architettura futurista continua a pesare la visione lirica, la libertà irresponsabile, lo scollamento tra la visionarietà del progetto e la possibilità di realizzarlo”. Tutto ciò ne segna il superamento, come avviene per le utopie rispetto alla realtà, nel segno di un razionalismo, oltre che di un classicismo, fino a un certo punto sempre respinto a parole. Però quella di Marchi resterà comunque “un’architettura dinamica, emotiva e non neutrale, in una parola ‘scenografica’”, conclude la Grco, e la scenografia teatrale e cinematografica sarà l’altro grande filone del suo impegno di architetto-artista.   

Dal  futurismo al classicismo e razionalismo

E’ evidente come Marchi si stia allontanando dalle impostazioni utopistiche  incentrate sulle linee oblique e sul movimento dinamico di concezione futurista che propugnavano l’abbandono della  verticalità e orizzontalità tradizionali. delle costruzioni.  Non è, tuttavia, per un “ritorno all’ordine” e all’immobilità architettonica;,conserva gli elementi dinamici dati da torrioni e corpi ellissoidali, diagonali e cilindrici, lo vediamo nel Progetto per il Palazzo del Littorio”, 1934,con dei corpi tondeggianti  insieme a pareti rettangolari, e nel “Progetto del cinema Fenaroli  a Lanciano“, 1936, con le larghe volute architettoniche.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e6589fa.jpg

Si accosta al versante classicista nella sobrietà, non torna alle colonne classiche, anche se  il “Fondale del  Palazzo di Giustizia”  è impostato come il Partenone su colonne divaricate. E’ un’eccezione,  il passato è  solo un riferimento, nella facciata del” Teatro lirico comunale di Siena, con una cuspide a trabeazione come nei templi, nel “Progetto di chiesa” con dei corpi  a raggiera e nel “Teatro all’aperto”  con forme palladiane.

Non è più futurista ortodosso, dunque,  e neppure neoclassico, è diventato razionalista?   La risposta è negativa  sebbene abbia mostrato interesse per la  Mostra dell’Architettura Razionale tenutasi nel 1928 a Roma, nel  Palazzo delle Esposizioni e consideri questa tendenza una filiazione del futurismo. Ma per lui nel razionalismo “sono lontane le fonti dell’ispirazione e della fantasia” , com’è implicito nel termine, “tutto è così fermo e rigido”, e le costruzioni in quello stile hanno un nudo “aspetto di scatola”.  Però  c’è un’ampia serie di suoi  progetti vicini al razionalismo, ma anche in questo caso con temperamenti e attenuazioni dello stile.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e610073.jpg

La presenza nei  diversi progetti di  elementi dei tre diversi stili senza l’adesione alla rigorosa ortodossia di nessuno dei tre,  si riscontra non solo perle costruzioni, cui abbiamo accennato, ma anche per le scenografie teatrali.  Per il “Moro di Venezia”, 1930, a elementi classici si uniscono quelli futuristi  quali  poliedri, piramide, sfera, come nel “Boris Godunov”  in un clima espressionista di intrigo e mistero.

“In realtà, precisa la Pontiggia, la definizione che più si attaglia a tutto il suo lavoro e alla sua personalità di artista , al di là dei singoli esiti, è quella una  e trina che lui stesso conia: ‘futur-classico-razionale”. E conclude: “Un super ossimoro, verrebbe da dire, una contraddizione in termini” citando poi le parole di Gentilucci  “In arte non esistono contraddizioni. Quello che i logici chiamano contraddizione, per un artista è ricchezza di senso e di forme. E’, insomma , libertà”.

Quella libertà che Marchi chiedeva anche per il  poeta, il quale deve uscire dalla gabbia della rima e procedere  liberamente fuori da ogni schema, e rivendicava per l’ architetto liberato dalla  gabbia delle strutture verticali e orizzontali  per dare viva espressione a  progetti dinamici.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e677bcd.jpg

Le scenografie per teatro e cinema

Marchi oltre che architetto è stato pittore, e scenografo teatrale e cinematografico,  la mostra espone oltre alle opere già citate, delle sue incisioni, come “Cattedrale”,  1920, con il senso del dinamismo plastico, e “Donna fra i flutti”, 1921, illustrazione per il poema “L’immortalità di Francesco Flora”, il celebre critico letterario,  di ispirazione secessionista, un’incisione  espressionista con lo stato d’animo bocconiano.

A mezza strada tra la figurazione e il progetto architettonico le scenografie per gli spettacoli a  teatro nelle quali è stato impegnato soprattutto per il sodalizio con Gian Antonio Bragaglia, iniziato nel 1922, quando aveva 17 anni, con le illustrazioni del  Bollettino quindicinale della Fondazione della casa d’Arte Bragaglia e del Teatro sperimentale alle Terme Romane di via degli Avignonesi,  che diventerà il Teatro degli indipendenti, come per altri teatri romani ai quali fornisce i disegni per scenografie, costumi e architetture.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e699b90.jpg

Cominciamo con le “Scenografie teatrali” per la loro importanza nel percorso dell’artista, che ha lavorato quasi l’intera vita per il teatro. E ha dato ai costumi, come facevano le avanguardie, una funzione ben più ampia di quella della mera vestizione legata alla trama, suscitando attraverso la loro foggia spesso deformata, effetti speciali anche in chiave psicologica.

In quegli stessi anni, precisamente il decennio 1915-25,  anche Picasso era impegnato intensamente nella scenografie e nei costumi teatrali, nei quali trasferiva la forza stilistica cubista, lo abbiamo visto nella recente mostra a Roma. 

Vediamo innanzitutto una scena marina  per “L’Oceano” di Andreyeff, 1929, segue una  serie  del 1930, 3 di “Boris Godunov”  per l”Arena  di Verona,    due interni rustici e il terzo con delle volte,  e 2 di “Otello”; uno scorcio monumentale di Venezia e l’ingresso della nave a Cipro;  nell’anno precedente, 1929,  2 costumi  dell’“Italiana in Algeri” per la tourné a Parigi. Nel 1932,  la scenografia per “Valoria” di Massimo Bontempelli al Teatro Valle, 3 disegni con architetture classiche pencolanti, e poi negli anni ‘30, la “Camera Maria”  con il letto, un’ampia vetrata e il tetto spiovente. Nel 1940,  il prospetto esterno della porta di Troia per “Elena” di Euripide, e un interno  monumentale cupo, mentre negli anni ’40 la scena del trono per “Amleto”di Shakespeare,  aulica e solenne, ben diversa da quella di avanguardia che aveva realizzato per la stessa tragedia con il teatro sperimentale di Bragaglia. Seguono disegni scenografici per “Amore materno” di Strindberg al Teatro Valle e  “All’uscita” di Luigi Pirandello per il Teatro d’Arte di Roma con il quale ebbe la più lunga collaborazione tra artista e teatro. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e6f6deb.jpg

Sono esposte anche 4 “Scenografie cinematografiche”, una in esterno del 1930, 2 del 1940 e una del 1950 tutte in interno, l’ultima per “Francesco Giullare di Dio” di Roberto Rossellini , che comprovano la longevità dell’attività scenografica anche per il cinema. Sono piccoli scampoli di un’attività che lo ha visto impegnati in 70 film, con registi famosi.

Architetture teatrali e religiose

Torniamo al teatro per citare le “Architetture teatrali” progettate da Marchi:  vediamo esposto il progetto del “Teatro Lirico Comunale di Siena” , 1931, in 3 prospettive frontali e laterali che mostrano una serie di corpi sovrapposti dietro una facciata con trabeazione classica ma senza colonne,  e il progetto dell'”Istituto del Teatro Drammatico Nazionale di Roma”,  1933, quello del “Teatro all’aperto (Teatro Puccini, Viareggio)” , 1941, in  5 diverse visioni prospettiche e del “Teatro Odeon” , 1946, in prospettiva frontale e laterale, dalla caratteristica facciata rotonda.

Un’altra architettura per adunate di pubblico è “L’architettura religiosa”, abbiamo già citato il “Progetto per chiesa”, 1930, particolarmente significativo per i corpi  a raggiera,  sono esposte  3 prospettive, frontale, dal  viale e dal giardino, dello stesso anno il disegno di una “Cappella“, 1930, quasi un tempio classico; vediamo anche  il progetto di una “Chiesa a Borgo Pasubio”, 1934,  in stile littorio come l’architettura degli edifici pubblici negli insediamenti creati all’epoca delle bonifiche delle locali paludi pontine.  Molto particolare l’ “Ipotetico mausoleo per la famiglia dei marchesi Paulucci di Caboli, Forlì”, 1931, in stile razionalista.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e5363d2.jpg

Le architetture istituzionali e per edifici pubblici

Dell'”Architettura di Stato e razionalista”  fa parte il “Progetto per il mausoleo a Costanzo Ciano”, 1939, in 3 visioni prospettiche, ispirato alla sagoma del Mas  con i gradini che richiamano la scia dell’imbarcazione. Poi vediamo il già citato progetto presentato al “Concorso per il Palazzo del Littorio a Roma”, 1934, in 4 prospetti, la struttura cuneiforme con 5 torri cilindriche per armonizzarsi con le imponenti vestigia circostanti, la Basilica di Massenzio e nientemeno che il Colosseo.  Invece il progetto per l’ “Esposizione Universale di Roma”, 1938, in 3  disegni prospettici,  presenta forme lineari e squadrate, quasi metafisiche. Con il progetto del “Laboratorio razionalista per Ufficiali di Collaudo al Polverificio di Segni”, 1932, in 10 prospetti che lo presentano da ogni angolazione, l’architetto si cimenta con lo stile razionalista, mirando alla funzionalità e di valorizzando i materiali in una struttura “priva di banalità nella ripetizione dei corpi rigidi e speculari”..  

I  progetti esposti  per “Edifici di pubblica utilità”,  oltre allo “Studio per edificio pubblico”, anni ’30,  e allo “Studio per restauro edificio a Roma”, 1926, quanto mai spettacolari, riguardano le tipologie più diverse: si va dallo “Stand per Fiera del libro di Firenze”, 1934, al “Progetto per la sede di ‘Grandi vini italiani’“, 1935-39; dal “Progetto per un negozio di abbigliamento” al “Parco divertimenti Lido”, il primo della serie, del 1920, con 4 prospetti.. In tutti la sua inventiva  nella varietà delle soluzioni, senza nessuna ripetizione, si può apprezzare l’evoluzione nel tempo. 

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e6a27cc.jpg

I  progetti per villini

Anche i progetti dei “Villini” mostrano l’evoluzione,  si passa dalle reminiscenze medievali della “Villa castello Baldoni a Formia”, 1910-20 con la torre asimmetrica, e  del “Belvedere d’Arcinazzo”, anni ’10, un torrione anche qui, alla trabeazione della “Villa De Voronowska”a Roma, anni ’20 , e ai diversissimi “Studi di edificio per proprietà Parodi-Delfino” con l’andamento sinuoso di stile “Caprese. Vediamo anche  progetti per la “Villa Parodi-Delfino ad Arcinazzo” 1925, e per la “Villa Parodi-Delfino a Roma (dei tre orologi)”, 1927, in vari prospetti, come per la “Villa Piccirilli” che spicca per lo schizzo panoramico d’insieme e per lo spettacolare “Ingresso sulla via Tiburtina”  tra cipressi, pini e il moro di cinta sagomato.

Vogliamo concludere con il progetto per il “Villino Cappa-Marinetti”, 1927, in 3 prospetti,  è ispirato allo stile dei vecchi caseggiati meridionali che riflette la sua ricerca di classicità , prima dell’irruzione del razionalismo.

Che questo stile composto venga applicato per l’abitazione del promotore del Futurismo, invece delle architetture oblique e delle altre trovate rivoluzionarie per dare movimento e  rompere l’immobilità delle strutture verticali e orizzontali, è particolarmente significativo.

Si tratta del ripiegamento visto in generale per l’architettura futurista rispetto alla realtà, che però nulla toglie all’entusiasmo e alla forza con cui l’utopia avveniristica è stata coltivata. Anche questa verifica, possibile in pratica  guardando i tanti progetti esposti delle diverse tipologie e pensando alle enunciazioni teoriche, è un prezioso risultato della mostra, che apre a riflessioni più generali sul sogno nell’arte e sul risveglio nella vita seguendo l’appassionante evoluzione di Virgilio Marchi.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e80d227.jpg

Info

Galleria Russo, via Alibert 20. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica  chiuso. Ingresso gratuito. http://www.galleriarusso.com, tel. 06.6789949 – 06.69920692. Catalogo“Virgilio Marchi, Futur-classico-razionale” Opere dal 1910 al 1950″ , Manfredi Edizioni, novembre 2017, pp. 210, formato  23 x 23,a cura di Elena Pontiggia, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i  nostri articoli per mostre precedenti sui futuristi: in questo sito, per mostre nella Galleria Russo, “Dottori”  2 marzo 2014, e “Chez Marinetti”   2 marzo 2013,  in “cultura.inabruzzo.it” nel 2009 su “La mostra del Futurismo a Roma”  il 30 aprile, “A Giulianova un ferragosto futurista”  il 1° settembre, “Futurismo presente” il 2 dicembre..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella Galleria Russo, si ringrazia la direzione della galleria con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Esposizione Universale di Roma Soluzione B” 1938; seguono, “Laboratorio razionalista per Ufficiali di Collaudo al Polverificio di Segni. Prospetto B” 1932, e “Studio per restauro edificio a Roma” 192;6; poi, “Teatro Lirico Comunale di Siena”1931, e “Istituto del Teatro Drammatico Nazionale di Roma” 1933; quindi, due visioni del “Progetto per chiesa” 1930, la.” Prospettiva dal viale”  e la “Prospettiva della cappella dal 2° giardino”; inoltre, due visioni del  “Teatro Lirico Comunale di Siena” 1931, “laterale” e “frontale”; ancora, “Belvedere d’Arcinazzo” anni ’10, e “Villa Piccirilli. Schizzo d’insieme” 1940; prosegue, altre due visioni di “Villa Piccirilli, l'”Ingresso sulla via Tiberina”  e lo “”Schizzo ingresso posteriore” 1940; infine, “Progetto per negozio di abbigliamento ‘Massimi & Di Rienzo Mode’” 1940, e “Scenografia per ‘Boris Godunov. Stagione teatrale 1930. Arena di Verona, Atto I, scena 3^” 1930;; in conclusione, “Scenografia teatro. Camera Maria” anni ’30; in chiusura, “Scenografia per ‘Amleto’. Scena del trono” anni ’40..

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1635e6bb407.jpg

Rigenerazione dell’Arte, 60 artisti, “La donna – Cesselon & Cesselon” , al Mitreo Iside”

Romano Maria Levante

Completiamo la notizia – anticipata in via del tutto eccezionale in questo sito il 15 novembre u.s. –  sulla  mostra-evento “La Rigenerazione dell’arte”, che si terrà domenica 26 novembre 2017. al Mitreo Iside  di Roma con l’esposizione, fino al 3 dicembre 2017 delle opere di oltre 60 artisti.  Una parte della manifestazione “Rigenerarte: La donna – Cesselon & Cesselon” è  legata alla figura del pittore grande  cartellonista cinematografico Angelo Cesselon, la cui opera è stata da noi ricordata in questo sito nel novembre 2012 nel secondo dei tre articoli sul museo-mostra permanente di Montecosaro,  Macerata, “Cinema a pennello”. In tale museo, che ha sede nel Palazzo Marinozzi, inaugurato con Claudia Cardinale madrina,  sono  esposti in mostra permanente oltre 100 bozzetti  per manifesti cinematografici, di cui Cesselon è un maestro universalmente riconosciuto.

Angelo Cesselon, il grande pittore di cinema, maestro insuperabile nei volti

Abbiamo già citato il giudizio del titolare del museo Paolo Marinozzi, secondo cui “nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica dell’effetto incarnato è semplicemente insuperabile”; e due dei tanti riconoscimenti avuti,  “maggiore artista dell’anno” nel 1955 e “maggiore ritrattista internazionale” nel 1957.  Ora aggiungiamo qualche breve notizia sull’artista per preparare all’evento culturale di cui sono stati precisati i contenuti  nell’incontro del 15 novembre, “Arte per immagini” tenuto dalla storica dell’arte, operatrice culturale  e artista Alessandra Cesselon,  figlia di Angelo, curatrice dell’ “Archivio cinematografico Angelo Cesselon”.

Siamo a cinque anni dal centenario della nascita di Angelo Cesselon, avvenuta nel 1922 a Cinto Caomaggiore (Ve), dove rimase fino a quindici anni allorché la sua famiglia si trasferì a Roma. Era stato avviato all’arte del disegno da un pittore decoratore di chiese, amico di famiglia, Toni Paissan, e a Roma frequentò gli studi pubblicitari di pittura cinematografica. Inizialmente fece parte dello studio Brini, ma ben prestò la sua opera in modo autonomo alle grandi case cinematografiche, italiane e straniere, e a produttori come Goffredo Lombardo e tanti altri.

Innumerevoli i film per i quali ha realizzato i bozzetti pittorici su cui sono stati prodotti i manifesti, ne citiamo soltanto alcuni tra i più evocativi esposti nel museo citato. Tra i film stranieri  “Il ritratto di Jennie”  e “Il grande campione, “I marciapiedi di New York”  e “L’uomo di Laramie”, “Zarak Khan”  e “Il gigante”, tra i film italiani “Ladri di biciclette” e  “Umberto D”,Don Camillo” e “L’Armata Brancaleone”,  e soprattutto “La donna più bella del mondo” con Gina Lollobrigida la diva archetipo di bellezza muliebre nella performance “La donna” di Alessandra Cesselon.

La Rigenerazione dell’arte. Mostra, incontro-dibattito e performance-lettura recitata

Saranno esposte fino al 3 dicembre 2017 le opere di oltre 60 artisti, partecipanti a un bando aperto,  con la finalità di “testimoniare che l’arte non ha confini e che ogni luogo può risultare ‘rigenerato’ e nobilitato dalla presenza e operatività degli artisti”. Viene sottolineato “un valore sociale, quello dell’Arte e della CREAttività contemporanea, mission del Mitreo fin dalla sua nascita”.

Gli  artisti espositori saranno presentati all’inizio della manifestazione in un incontro-dibattito sul valore dell’arte per la rigenerazione del territorio, alla presenza del critico Angelo Nardi, della curatrice Monica Melani e di altri personaggi. Ci sarà la “dimostrazione di Book Art, come un vecchio libro diventa oggetto artistico che stimola a guardare ‘gli scarti’ in un’ottica di ‘Rinascita creativa’”, a cura di Anna Maria Scocozza, che figura tra gli artisti espositori.  

Sono molto precise le anticipazioni che abbiamo avuto da Alessandra Cesselon, autrice  e interprete  della “performance”  con lettura recitata legata al nome di Angelo Cesselon che si svolgerà, insieme alla mostra, nell’ambito della manifestazione.

La rigenerazione attraverso l’arte riguarda la realtà e getta un ponte tra passato e futuro. Nello specifico con l’opera e la performance “Rigenerarte: La donna – Cesselon &  Cesselon” verranno utilizzate diverse tecniche, da quella pittorica alla tecnica fotografica  fino alla tecnica performativa, e sarà rivisitato con la fotografia il poster cinematografico. Una lettura recitata rievocherà l’artista. 

In pratica, Alessandra Cesselon, anch’essa tra gli artisti espositori, attraverso la rielaborazione fotografica dell’opera pittorica del padre Angelo per il film “Anna di Brooklin”, si propone di “condurre lo spettatore in una realtà virtuale nella quale il presente si coniuga con il passato, mediante immagini scaturite da quello che è considerato un maestro della pittura pop del primo dopoguerra”. Vengono definite “moderne nel prodotto e creative nella sostanza, immagini creative della memoria che si trasfigura sempre nel ricordo di ciascuno di noi e di chi ci ha preceduto”. Le immagini, e la lettura di testi serviranno a raccontare “storie sempre attuali, di ieri e di oggi”, partendo dal manifesto cinematografico in uno spettacolo di forme, colori e suoni.

La performance si intitola alla donna come “archetipo universale di bellezza che supera il tempo”  impersonato dalle icone del cinema, come Gina Lollobrigida la cui bellezza esuberante fu resa in modo magistrale da Angelo Cesselon con il bozzetto per il manifesto del film “La donna più bella del mondo”, esposto nel museo di Montecosaro nella sala dedicata al pittore.

Ma non sarà una generica evocazione di temi e di valori, bensì una testimonianza visiva di come la creatività si fa strada nell’animo di un giovane, legata indissolubilmente alla “volontà di rigenerazione rispetto al contesto di provenienza”: il giovane è Angelo Cesselon, la cui preziosa testimonianza portata dalla figlia con immagini audiovisive e una lettura recitata, ce ne fa seguire l’escalation dal piccolo paese veneto di origine, Cinto Caomaggiore,  al “contatto full immersion, inquietante ed esaltante  a un tempo con il dorato mondo del cinema per il quale realizzerà migliaia di manifesti”.  I colori dell’arte veneta saranno sempre una  peculiarità della sua arte.   

I video sono a cura di Alessandra Cesselon che nella voce recitante interpreterà  la moglie di Angelo,  Lina Forte Cesselon, mentre Angelo Cesselon sarà interpretato da Silvano Iadanza. L’accompagnamento musicale del pianista Matteo Siscaro  renderà particolarmente suggestiva l’atmosfera durante la visione del video rievocativo dell’artista.

Ci sembra di poter concludere che nella manifestazione si trovano  gli elementi alla base di una autentica rigenerazione dell’arte: le opere di oltre 60 artisti spontaneamente accorsi, un dibattito culturale, una “performance” spettacolare,  nella cornice prestigiosa del Mitreo Iside.  Perciò ci sentiamo di esprimere un sincero apprezzamento per gli organizzatori e i protagonisti dell’evento.   

Info

Al Mitreo Iside, via Marino Mazzacurati 61, Roma (Buon Pastore), Mostra Evento “La Rigenerazione dell’arte”. Domenica 26 novembre ore 17,00-20,00  presentazione  degli oltre 60 artisti espositori, incontro-dibattito, dimostrazione di Book Art e performance-lettura recitata  “Rigenerarte: La donna – Cesselon & Cesselon”; dal 27 novembre al 7 dicembre 2017 ingresso alla mostra dal lunedì al giovedì ore 14,30-20,00, venerdì 17,00-19,30; martedì e giovedì ore 8-12, sabato e domenica secondo eventi. Tutti gli eventi sono a ingresso libero e gratuito. Per la performance “La donna”  contatti e info cell. 3393966432; alexandrella@yahoo.it,  www.archiviocinemacesselon.oneminutesite.it  retecultura@gmail.com. Cfr. in questo sito, la precedente nota informativa, con notizie sugli incontri “Storia dell’arte per immagini” di Alessandra Cesselon, il 14  novembre u.s., e i nostri tre articoli sul museo-mostra permanente “Cinema a pennello” di Montecosaro il 14, 16, 18 novembre 2012.

Foto    

In apertura la locandina della mostra-evento “La rigenerazione dell’Arte”; in chiusura il bozzetto di Angelo Cesselon per il film  “La donna più bella del mondo”,  1955, con Gina Lollobrigida, regia Leonard e Pierotti, immagine tratta dal Catalogo del museo “Cinema a pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, Centro del Collezionismo, Montecosaro,” giugno 2011, pp.302 in carta patinata a colori, formato 24 x 30 (su Cesselon le pagine 75-88), si ringrazia Paolo Marinozzi per l’opportunità offerta.