Picasso, 2. Dal “Sipario” a “Parade”, da Palazzo Barberini alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

A Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018 la mostra “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25” espone oltre 100 opere, tra  dipinti, disegni e gouaches dell’artista con una ricca documentazione soprattutto di fotografie e lettere autografe.  A Palazzo Barberini, nel salone affrescato da Piero da Cortona,  viene esposto  il grande Sipario realizzato per lo spettacolo teatrale “Parade”  che fu il motivo alla base della sua visita in Italia.  La mostra, prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira con la partecipazione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica “, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris, è a cura di Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf,. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée Picasso-Paris.

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E’un evento nell’evento la mostra di Picasso alle Scuderie del Quirinale,  nove anni dopo la mostra al Vittoriano dall’ottobre 2008 al gennaio 2009, “Picasso 1917-1937”. E questo per il notevole sforzo organizzativo, con quasi 40 prestatori da ogni parte del mondo e oltre 60 soggetti che hanno fornito contribuiti alla preparazione;  come sono oltre 60 le istituzioni impegnate nel grande progetto internazionale “Picasso – Méditerranée” con una serie di mostre e manifestazioni.

Per  l’Italia la mostra è al culmine delle celebrazioni per il centenario della sua prima visita nel nostro paese, nel 1917,  a 36 anni quando aveva già compiuto la rivoluzione cubista, ma il viaggio fu rivoluzionario per la sua irruzione nel teatro e l’immersione nella classicità  romana, mentre anche  la sua vita personale ne fu investita,  perché trovò l’amore. Classicismo, cubismo e anche figurativo sono compresenti nella sua arte in una alternanza continua anche nello stesso periodo.

In coincidenza con l’inaugurazione della mostra si è svolto, nei giorni 21 e 22 settembre 2017, il seminario “Les Mèditerranèes de Picasso” nell’Accademia di Francia a Villa Medici, chiuso solennemente  nella sede dell’Ambasciata a Palazzo Farnese, in cui è stato approfondito il rapporto dell’artista con il Mediterraneo e il mondo arabo, in particolare l’Algeria, il Marocco e la Palestina. 

La permanenza a Roma dell’artista viene rievocata in quattro incontri dal 5 ottobre al 20 novembre  in sedi particolarmente significative, dall’antico atelier romano di via Margutta sul suo fervore creativo e sui contatti con gli artisti nella quotidianità romana, alle Terme di Diocleziano sul dialogo tra antico e contemporaneo nelle sue opere, a Palazzo Barberini  sulla posizione dell’artista tra cubismo e classicismo, al Teatro dell’Opera sull’irruzione della sua arte nello spettacolo teatrale.

A Palazzo Barberini, inoltre, il 27 settembre, nella presentazione del libro di Gabriele Guercio, “Il demone di Picasso. Creatività generica  e assoluto della creazione”, è stato affrontato il problema dell’arte contemporanea che sconfina nella non-arte, basandosi su Picasso che, pur essendo “il pioniere della sregolata disseminazione del fare creativo che ancor oggi connota la pratica artistica”, nondimeno “ha attraversato l’anarchia e ha toccato l’altra riva della libertà” , come un “demone bifronte”  che mentre alimentava il “relativismo creativo” riconquistava il “creazionismo artistico”.

I consueti Laboratori per ragazzi sono particolarmente curati nelle due sedi delle Scuderie del Quirinale  e di Palazzo Barberini. In quest’ultima con la “ludoteca dell’arte nello studio di Picasso” e con “esplora l’arte”, nelle Scuderie ripercorrendo “il viaggio compiuto dall’artista in Italia esattamente cento anni fa  quando “il Bel Paese incanta l’artista creando forti suggestioni che andranno a costituire il nuovo repertorio formale e iconografico da cui attingerà nei tempi a venire.”

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Ebbene, ci sembra  un itinerario così appassionante e rivelatore che lo seguiremo nel nostro racconto della mostra, cercando di ripercorrere i momenti culminanti della visita di Picasso in Italia rivivendone sensazioni ed emozioni, come quelle dinanzi alla severa classicità della Roma antica e all’atmosfera pittoresca degli artisti di via Margutta a Roma e dei quartieri popolari di Napoli.

Quindi ci soffermeremo sui momenti e le tappe del viaggio in Italia commentando le opere più strettamente connesse agli ambienti e alle atmosfere che lo colpirono maggiormente. In una fase successiva tratteremo della sua irruzione nel teatro, soprattutto con “Parade”, ma anche con “Pulcinella” e altri spettacoli, e sul significato della sinergia tra le varie arti. Infine illustreremo in modo specifico le opere pittoriche di grande  rilevanza artistica meno legate a questi aspetti.

Il viaggio in Italia del 1917 e le opere precedenti

La vista al nostro paese  nel 1917   ha un prologo nei due anni precedenti, coperti dalla mostra celebrativa del centenario. Infatti nel 1915 avviene il primo incontro con Jean Cocteau, che accompagnava  un musicista in visita all’atelier di Picasso, lo scrittore fu così colpito da desiderare di avere un ritratto dipinto da lui, fini al punto di andarlo a  trovare vestito da Arlecchino.

Questa maschera sarà oggetto di diversi ritratti di Picasso -negli anni successivi, come vedremo, intanto la mostra documenta la vigilia, per così dire, del viaggio in Italia con un’opera del 1914, “Homme à la pipe”, e tre del 1916,  “Homme à la cheminée”,  e due dallo stesso titolo “Homme accoudé à une table”. Sono quattro opere rigorosamente cubiste, a prima vista dalla difficile riconoscibilità rispettivamente della pipa, del caminetto e del tavolo,  che però ad una osservazione acuta sono visibili nella trasposizione di forme e volumi di questo stile dall’impatto così forte.

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E’ una fase in cui, nota Cécile Godefroy, “Picasso prolunga  e spinge al parossismo decorativo le sperimentazioni del “cubismo sintetico”  e l’uso di elementi del quotidiano”, come nei dipinti appena citati. “La citazione puntinista gli permette di ritrovare un contatto con il colore, escluso dal periodo ermetico, e di manifestare l’opacità e la trasparenza degli oggetti”. .

Nel 1916  si intensificano i contatti con Cocteau che va spesso a visitarlo nel nuovo atelier alla periferia di Parigi, a Montrouge, e lo scrittore dopo averlo interessato al progetto di un balletto che sta definendo con la Compagnia di Balletti Russi di Djagilevs, gli chiede di aiutarlo nella realizzazione di scenografia e costumi perché Djagilev non aveva accettato due sue proposte chiedendogli di “stupirlo” con una proposta innovativa e fantasiosa. Il bozzetto di un ritratto in uniforme preparato da Picasso colpisce Djagilev che lo va a trovare di persona, nasce “Parade”, che doveva rappresentare, per il fondatore dei Balletti russi, il riscatto dopo il fallimento della “tournée” americana.  I Balletti russi da alcuni anni avevano conquistato il pubblico parigino reinterpretando i classici con allestimenti originali di scenografi e coreografi nonché artisti e musicisti d’avanguardia.  

Imperversa la prima Guerra Mondiale, Picasso si sente isolato perché i suoi  amici più cari, il pittore cubista Braque e il poeta Apollinaire, sono al fronte, il 25 febbraio 1916 c’è stata la sanguinosa battaglia di Verdun, Picasso è impegnato con le avanguardie dadaiste e nella presentazione del suo capolavoro “Les Demoiselles d’Avignon”.

Con l’inizio del 1917  l’incarico per “Parade” diviene effettivo, oltre a 5.000 franchi di compenso peri bozzetti, 1.000  per un viaggio a Roma dove si trova Djagilev con la sua compagnia che  terrà alcuni spettacoli anche a Napoli, Picasso deve stare con loro per creare costumi e scene.  Sarò un viaggio breve e intenso, visiterà anche Firenze e Milano e rientrerà a Parigi ad aprile.

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Il 17 febbraio raggiunge la città eterna con Cocteau e si stabilisce in un albergo nel centro tra piazza di Spagna e Piazza del Popolo, vicino a via Margutta, la strada degli artisti, prende anche un atelier al numero 53 b di via Margutta all’interno degli Studi Patrizi di fronte alla sede dell’Associazione Artistica Internazionale. Si immerge nel mondo romano con Cocteau, e Stravinskji, l’autore delle musiche e Massime, il coreografo, lavora intensamente alle scenografie e ai costumi e  fa molti disegni, collabora con lui anche il futurista Fortunato Depero, a riprova del sincretismo artistico che prende piede dopo la fase cubista con la forte influenza classicista delle antichità romane.  Si invaghisce della bellissima ballerina russa Ol’ga Chochlova, la sposerà il 12 luglio 1918 nella chiesa ortodossa russa di parigi, testimoni Cocteau, Apollinaire e Jacob.

A marzo sempre del 1917 l’intera “troupe”  di “Parade” fa due escursioni a Napoli, Picasso viene preso non solo dal fascino del parco archeologico di Pompei e di Ercolano, ma anche  dagli spettacoli napoletani della commedia dell’arte e dalla atmosfera pittoresca degli ambienti popolari.

 In particolare a Forcella insieme a Stravinskji potè assistere a uno spettacolo all’aperto di marionette che improvvisavano per le strade del quartiere nei modi della commedia dell’arte: Tale forma d’arte popolare dalla lunga tradizione  colpì sia il musicista  che Picasso,  facendo capire come anche le più semplici espressioni artistiche potessero avere un fascino senza confini.

Collegando una simile sensazione a quella avuta a Roma dinanzi alla compresenza di ruderi antichi ed edifici storici  monumentali, si giunge alla conclusione del curatore della mostra Oliver Bergggruen: “Fonti di ispirazione disparate, che andavano dalle più basse alle più alte, potevano essere integrate nelle loro opere, proprio come il paesaggio romano offriva una visione in cui antichità, chiese rinascimentali e palazzi barocchi sembravano fondersi”.

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Già dal 1914, osserva la Godefroy, “appaiono disegni puramente figurativi, tra cui una serie di ritratti e nature morte dal tratto preciso e illusionistico… La ripresa del figurativo, che durante e soprattutto dopo la guerra domina la vita artistica europea, per Picasso rappresenta anche una reazione dialettica alla propria opera”.  Ma non è una svolta senza ritorno, “lungi dal rinnegare il cubismo, confronta il suo linguaggio con forme al tempo stesso più vive e più atemporali, in una nuova riflessione attorno alle difficoltà della rappresentazione su cui, per tutti quegli anni, non ha mai cessato di interrogarsi”. 

A questo ripiegamento interiore il viaggio in Italia ha dato un contributo notevole in termini di ripresa del classicismo in una visione realistica che Roma gli offriva non soltanto per i ruderi dell’antichità ma anche per i valori tradizionali espressi nelle figure più popolari.

Le opere legate al viaggio in Italia

Ne vediamo un riflesso in alcune opere del 2017, cominciando da due raffigurazioni di “Villa Medici a Roma”, 2017, una a matita su carta in chiave nettamente figurativa, l’altra ad acquerello su un foglio con la sagoma dell’edificio che si staglia su un cielo puntinista. Mentre  “Italienne a’ le fleur”  è un delicato acquerello su cartoncino  in cui la “donna italiana con fiore”  richiama con una rarefazione cromatica puntinista una cartolina del ‘900 sulla “fioraia di piazza di Spagna”, in costume tradizionale con il cestino sotto il braccio sinistro e il fiore nella mano destra protesa. Si tratta della contadina  in costume folcloristico proveniente dalla Ciociaria, divenuta in un certo senso identitaria per la popolazione romana, soggetto prediletto dagli artisti di via Margutta al punto che era frequente incontrarvi ragazze campagnole vestite per offrirsi come modelle..   

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Altrettanto figurativi  i ritratti di piccolissime dimensioni, “Autoritratto” a matita, serio e dignitoso, e l’olio su tela “Téte de femme (Olga)”, in cui la testa di donna è impersonata dal viso della ballerina russa di cui, come abbiamo detto,  si era invaghito e che avrebbe sposato l’anno dopo.

Invece sono in stile “cubista sintetico”, a conferma della compresenza delle diverse espressioni pittoriche, due  opere a olio su tela dello stesso 1917 e una del 2018, considerate autentici capolavori.

“Arlequin et femme au collier”, di 2 m  per 2 m, del 1917,  è una composizione enigmatica, definita dall’artista  Gino Severini “una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione”, come ricorda Valentina Moncada la quale, dopo un’accurata ricerca su centinaia di rappresentazioni della ciociara, collega la trasposizione cubista di Picasso alla riproduzione in stile figurativo del “Costume tradizionale ciociaro” di Enrico Tarenghi – che aveva lo studio in via Margutta 48, quindi vicino a quello di Picasso – con la giovane donna di profilo, il copricapo, la collana e la cesta, particolari tanto stilizzati nella visione cubista da essere quasi irriconoscibili. Questa constatazione la fa concludere che non è Colombina vicino ad Arlecchino, ma una popolana, come le modelle in costume tradizionale che incontrava in via Margutta. Arlecchino è evocato con cappello, maschera e colletto appena percepibili, come la mano, tre  linee bianche.

Ben diverso “Arlequin au violon”, 1918, la maschera è perfettamente riconoscibile, pur nella trasposizione cubista, addirittura lo spartito che ha in mano per il violino è figurativo, come gli scacchi dell’abito anche se monocromatici, il viso con gli occhi e lo strumento musicale, E’ un altro modo di declinare il cubismo, esperito con spirito di ricerca per un soggetto simile.  

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Più trasposizione e meno astrazione anche in “L’Italienne”, di 1,5 m per 1 m, che a differenza del quadro appena commentato, quasi in bianco e nero,  ha forti contrasti cromatici, dal rosso al verde al giallo e alcune componenti figurative, come la cupola di San Pietro sullo sfondo e il cestino in primo piano. E’ un’immagine coinvolgente la cui forza espressiva supera  la mimesi cubista, la figura sembra protesa in avanti con le sue forme, l’effetto è veramente straordinario. In questo caso l’identificazione delle parti componenti la figura è evidente,  a differenza di “Arlecchino e la donna della collana”, ma ci sono particolari enigmatici che la Moncada riesce a decifrare riferendosi a una cartolina di “Italiana in costume tradizionale”,questa volta senza fiore in mano, appoggiata a una staccionata cui rimandano delle fasce bianche ondulate del dipinto, e a un manifesto pubblicitario  “Rome – Express”  con le arcate di ponte Sant’Angelo stilizzate nel dipinto.

Non si fermano al 1917 le opere esposte di diretta ispirazione “italiana”. Sono del 1919 i 3 disegni a matita e carboncino su carta di 50 cm per 65 circa. Paysans Italiens”  raffigura una coppia di ,  “contadini italiani in costume ciociaro” in atteggiamento composto, lo sguardo espressivo, stile calligrafico dai contorni ben definiti; “Femme italienne à la cruche”  presenta in costume tradizionale  una “donna con brocca”, ma si tratta di una “conca”, il recipiente tradizionale con cui le donne portavano a casa l’acqua attinta dalle fontane reggendolo in equilibrio sulla testa protetta dal “torcinello”; invece in”Femme à la cruche” .il recipiente tenuto sotto braccio dall’imponente figura femminile è ben diverso da quello precedente, forse qui è appropriato chiamarlo brocca.

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 Questi disegni, come “Nu allongè au tourban” dello stesso anno, ancora più classicista, sono in stile chiaramente figurativo, dopo i due capolavori con le donne italiane del 1917, e l’Arlecchino del 1918 di stile prettamente cubista, una compresenza più che un’alternanza che sarà confermata negli anni successivi della straordinaria evoluzione artistica nel decennio considerato.

La Moncada, dopo le sue accurate ricerche, conclude “che via Margutta, con la sua lunga storia e con le sue forti tradizioni abbia rappresentato un filo conduttore nel viaggio di Picasso a Roma e un veicolo delle tematiche che lo hanno ispirato, così come è stato per secoli per gli artisti che hanno vissuto e lavorato in questa importante strada, dando vita a memorabili capolavori”.

Non vogliamo restringere l’ispirazione di Picasso soprattutto nel 1917  alla matrice italiana, anche se il suo viaggio in Italia ha lasciato un segno profondo anche negli anni successivi. Sono esposte anche due opere del 1917 di chiara matrice “pointellista”, “Compotier aver fruit“, in cui la composizione è una massa puntiforme  variopinta in cui si può intuire la presenza di un grappolo d’uva, e “Le retour du baptéme d’après le Nain”, con le figure meglio delineate in una pittura   puntiforme  più precisa e definita. E’ la sperimentazione continua, la compresenza di diversi stili che non consente di confinare Picasso in una determinata corrente, è stato pittore universale.

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La documentazione fotografica

Non c’è soltanto la parte pittorica nella mostra, la documentazione fotografica presenta Picasso in 6  fotografie scattate da Cocteau, 5 lo ritraggono a Pompei da solo o con Massine e Djagilev; una a Roma con Massine e Cocteau davanti a uno specchio. Lo vediamo con Massine a Roma in una fotografia su una terrazza, con il viso dello scenografo quasi deformato dal primissimo piano mentre Picasso è più dietro in posizione eretta, in una singolare inquadratura obliqua alla Rodcenko.

Particolarmente suggestive le immagini fotografiche di Ol’ga Chochlova, al centro dell’interesse di Picasso sotto l’aspetto sentimentale oltre che quello artistico, essendo la prima ballerina di cui si era invaghito. La vediamo a Roma in una foto con Picasso e Cocteau sulla terrazza dell’hotel Minerva, dove è fotografata anche da sola in tre pose diverse, in piedi o seduta davanti alla ringhiera, e al centro con i palazzi sullo sfondo, in uno spiritoso atteggiamento con il ventaglio in mano e lo scialle che la avvolge completamente fino a coprirle la testa in modo sbarazzino.

Una sequenza fotografica ben diversa la ritrae forse a Roma, su sfondo scuro, ,in 4 pose da “femme fatale”, come in effetti era,  sguardo penetrante, emana un fascino irresistibile, sono immagini che più di qualsiasi descrizione fanno capire come Picasso ne fosse perdutamente innamorato.

Tornato a Parigi nell’aprile dello stesso 1917, dipinge il Sipario e segue la realizzazione dei costumi e delle scene dai suoi bozzetti di “Parade”. Il 18 maggio la prima dello spettacolo che doveva segnare una rivoluzione teatrale all’insegna dello “Stupiscimi” richiesto da Djalev a Cocteau e dallo scrittore a Picasso. Ed effettivamente ci fu e c’è da stupirsi, nella mostra viene proiettato il video dello spettacolo e si vede che vanno in scena veri e propri disegni cubisti animati, imponenti gigantografie che camminano, saltano, danzano. Ci fu da stupirsi ma non mancò chi reagì a quella che sembrò una provocazione, tanto era innovativa.

Ne parleremo prossimamente commentando i costumi  e le scene disegnati da Picasso per questa e altre rappresentazioni teatrali nonché lo spettacolare “Sipario” lungo 17 metri e alto 11, esposto nel Palazzo Barberini perché  soltanto il suo vasto salone poteva contenerne le dimensioni oltre che consentire un contrappunto spettacolare con il grande affresco del soffitto di Pietro da Cortona.

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Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00.22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso con audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità,, gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito  da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il   5 dicembre u.s., il terzo e ultimo uscirà il 6 gennaio 2018, con altre 10 immagini ciascuno. Cfr. i nostri articoli, in questo sito per il cubismo 16 maggio 2013;  in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Ales S.p.A., con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Sipario” per il balletto ‘“Parade”, 1917; seguono,  “Costume”  su disegno di Picasso per il balletto “Parade”  1917, e “Projet de costume pour le ballet ‘Pulcinella’: Pulcinella” [Studio di costume per il balletto Pulcinella: Pulcinella] 1920; poi, una visione della scenografia  e un primo piano di due ballerini russi   di “Parade” ripresi dal video del balletto; quindi, “Pierrot” 1918, e“Potrait d’Ol’ga dans un fauteuil” [Ritratto di Ol’ga in poltrona] 1918; inoltre, “Arlequin au mirror” [Arlecchino con specchio] 1923, e “Saltinbanque assis, les bras croisé” [Saltinbanco seduto con braccia conserte] 1923; infine, “Paul en Arlequin” [Paolo vestito da Arlecchino] 1924, e, in chiusura, “Paul en Pierrot” [Paolo vestito da Pierrot” 1925. 

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Hokusai, 2. La sua maestria nei paesaggi dell’oriente, nella mostra all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Raccontiamo la visita alla mostra in corso a Roma, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, con esposte  moltissime opere, soprattutto i paesaggi di  Hokusai tra i quali delle vere icone per la delicatezza evocativa di valori spirituali, e le intriganti figure femminili di Eisin, avvolte in spettacolari kimono. L’organizzazione della mostra, per il 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, è di MondoMostre Skira con Zétema, è curata da Rossella Menegazzo come il sontuoso catalogo  Skira, che ne documenta la ricchezza iconografica.

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Abbiamo inquadrato in precedenza la mostra descrivendo innanzitutto la peculiarità della tecnica  dell’ “ukiyoe” – stampe ottenute da incisioni su legno inchiostrate a colori con un lavoro di squadra –  poi l’evoluzione nella società giapponese che portò alla loro diffusione: in particolare la crescente domanda di ricordi tangibili dei luoghi frequentati sempre più dalla borghesia mercantile emergente, dotata di mezzi finanziari e avendo a disposizione tempo libero non essendo gravata dal pressante lavoro dei contadini e pescatori, e senza il rigore etico della classe dei samurai che non era più dominante.

La diffusione anche in Europa e soprattutto in Francia dei “giapponesismi” avvenne dopo l’apertura del Giappone – che era rimasto chiuso ad ogni contatto con l’esterno per due secoli – avvenuta alla metà del XIX secolo, pochi anni dopo la morte di Hokusai, un grande maestro dell’ “ukiyoe” autore di cicli pittorici incentrati soprattutto sui paesaggi con una straordinaria carica evocativa di valori spirituali, rappresentati  in particolare nell’abbinamento della natura con la persona umana.

Inoltre abbiamo tratteggiato le caratteristiche principali dell’arte di Hokusai, in cui la figura della donna è presente in tono minore. La beltà femminile è invece il soggetto prevalente di Eisin, uno dei seguaci di maggior valore di Hokusai di cui daremo conto nell’ultima parte dopo aver descritto la galleria delle opere del primo maestro indiscusso dell “ukiyoe”.

A questo punto raccontiamo la visita alla mostra, articolata in 4 sezioni che abbinano questi due grandi artisti intorno a precise scelte tematiche. Ma noi ne parliamo in modo distinto, riferendo per ciascuno, in sequenza,  il contenuto delle 4 sezioni senza alternare le loro “vite parallele”. 

Le mete da non perdere, i paesaggi di Hokusai

Nella prima sezione della mostra troviamo una sterminata esposizione, 157 opere di cui 113 di Hokusai e le altre di Eisin . Cominciamo dalle opere più antiche, tra quelle esposte, prima dell’ ‘800, del “periodo Shunro”, dal nome d’arte iniziale, dal 1779 al 1794 realizzò circa 250 opere e illustrò 35 piccoli libri. Ne vediamo 2  intitolate entrambe “Illustrazione dello spettacolo di fuochi artificiali  nella brezza serale al Ponte Ryogoku” , rispettivamente del 1785 e del 1789-94, che appartengono alla serie “Nuova edizione di stampe prospettiche”  perché ispirate alla prospettiva occidentale come si vede dalle arcate del ponte, dalle persone e dagli elementi naturali, le barche e le piccole costruzioni. Così nella “Illustrazione della veduta in lontananza del monte  Atago a Shaba”, 1811, stessa serie.  Ma prima di quest’opera abbiamo 10 illustrazioni di libri del 1802,  in tinte pastello e tratti delicati, si va dai “Negozi”, in particolare il “Negozio di libri illustrati“,  alla “Residenza con pruneto“, al “Quartiere di piacere”.

Dopo queste prime illustrazioni, andiamo oltre il “periodo Sori” ed entriamo nel “periodo Hokusai”, datato fino al 1810, al quale appartiene l’“Illustrazione di Hommoku nella baia di  Kanagawa”, 1807-09, che precorre la celeberrima “La [Grande]  onda”  del 1930-32  raffigurando nello stesso luogo l’onda montante però dalla destra; l’onda monta invece dalla sinistra, come nell’icona definitiva di quasi trent’anni dopo cui somiglia molto, in un’opera precedente, l’ “Illustrazione di  imbarcazioni da trasporto in mezzo alle onde”, della serie “Paesaggi in stile occidentale”, 1800-05, non esposto in mostra, ..

A questa fase, la principale del suo percorso artistico, il “periodo Iitsu”, a  trent’anni dalla fine del periodo iniziale “Shumro”, appartiene il maggior numero delle sue opere esposte nella sezione, che vogliamo descrivere in progressione, in una sorta di “escalation” che ci porta ai paesaggi dalla spiritualità e contenuto evocativo particolarmente intensi. 

La prima è la “Nuova edizione del gioco del sugoroku”, una tavola composta di  circa 50 riquadri dipinti con scene delle località nelle quali si sviluppa il gioco, ricordiamo le tavole apparentemente analoghe di Pablo Echaurren, non legate al gioco ma dallo stesso effetto visivo. 

Ritroviamo un ponte, come in un’evoluzione di quello delle “Nuove stampe prospettiche”, anzi diversi ponti, la serie si intitola  “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi in tutte le provincie”, 1831,  non c’è più la ricerca della prospettiva, nei  ponti di Tenjin  Kameido e Yahagi con le loro arcate rotonde, a tamburo o a lunga campata, né di Ashikaga, “appeso alle nvole”, e Kintai, invece  fantasiosi, immersi nella natura, .

L’acqua è protagonista nel ciclo “Otto vedute delle isole Ryukyu”, 1832, sono esposte tutte contitoli  come “Cielo autunnale”, “La voce del lago”e “Notte di luna”, in cui spicca il sottile ponte sinuoso, come un istmo, che collega alle isolette; “Bosco di bambù”, “Boschetto di banani” e “Fonte sacra”presentano le isole lussureggianti di vegetazione, senza ponti o istmi;  “Il rumore del vento tra i pini” offre una visione idilliaca come il titolo, mentre “Tramonto a Jungai” mostra un agglomerato i verde che si protende  sull’acqua solcata da due barchette.

Ancora acqua nella serie  “Viaggio tra le cascate giapponesi”,  1833,  hanno in comune la presenza umana  evidente con  persone e anche piccole abitazioni, il tutto sovrastato dall’imponenza della natura con il salto vertiginoso dell’acqua tra rocce e vegetazione. Nelle  cascate “Kiyotaki Kannon a Sakanoshita”  e “Roben a Oyama nel Sagami”prevale  il verde e la vegetazione, nelle cascate di“Ono lungo la strada Kiso” e “Yoro nel Mino”invece l’acqua prorompe dall’alto in fasci verticali di luce che si proiettano al suolo evidenziando plasticamente la forza della natura.

Dello stesso 1833, nella serie “I tre bianchi, neve, luna, fiori”, 3  opere estremamente raffinate come i loro titoli,  “Chiaro di luna sul fiume Yodo”,  “Fiori di ciliegio a Yoshino”, “Neve sul fiume Sumida”, nella suggestiva  compenetrazione con la natura di persone, barche, residenze.

La dominante blu, il “Blu Berlin” caratteristico dell’artista, spicca nelle due opere esposte della serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati dalla balia”, 1835, è il “periodo Manji” dal nome che iniziò ad usare dopo aver lasciato il precedente Iitsu,  creò le 100 immagini preparatorie, una per ogni poeta di una famosa antologia, ma ne furono pubblicate soltanto 27. In “Kakinomoto no Hitomaro” si vedono i contadini impegnati nel duro lavoro, in “Sango Takamura”  una barca con fanciulle discinte, alcune nuotano nel mare di un intenso colore ceruleo.

Il clou del “Fuji rosso”, l’icona della “grande onda”

Siamo giunti al clou delle visioni paesaggistiche,  le “Trentasei vedute del monte Fuji”, serie di poco anteriore alle precedenti, essendo del 1830-31, ma merita l’onore della conclusione dei soggetti paesaggistici, il punto forte dell’artista del quale vedremo poi anche altri soggetti delle restanti sezioni.

Il cono vulcanico del monte sacro fa quasi capolino nei paesaggi di località molto lontane, che danno il titolo alle singole opere: una piccola punta vista dal di sotto delle arcate di un ponte o da una veranda con figure femminili, tra arbusti  e scenari agresti, con lo sfondo  di scene marine animate da barche cariche di persone o alla fonda con il marinaio che vuota un secchio d’acqua fuori bordo. Soltanto in “Gruppo di alpinisti”non si vede il classico cono, ma l’arrampicata anche con l’ausilio di una scala a pioli.

Poi la visione del monte si fa più ravvicinata, la sua sagoma inconfondibile spicca sempre di più pur restando come sfondo  di scene di vita  e di lavoro oppure di ambienti naturali ma pur sempre abitati. Finchè si passa al primo piano del cono vulcanico maestoso e imponente nelle diverse condizioni ambientali e metereologiche.

Ecco il monte Fuji in una “Giornata limpida col vento del sud” e  con un “Temporale sotto la cima”. Nel primo, definito “Fuji rosso” per la particolare tonalità data dalla luce del mattino, le striature di bianco in alto evocano la neve da un lato, i cirri del cielo dall’altro, l’ombreggiatura in basso ricorda i boschi alla base. Il secondo presenta il cono con un rosso molto più scuro, le nuvole non sono sottili striature come nel primo ma  agglomerati bianchi. Sono esposte per ciascuno due  versioni con tonalità differenti a seconda della pressione nell’inchiostrazione cromatica, era la caratteristica dei multipli  dell’ “ukiyoe” come abbiamo avuto modo di ricordare in precedenza.

Se questo è il clou della marcia di avvicinamento al Fuji, con il primissimo piano del monte sacro, l’icona divenuta non solo simbolo dell’arte giapponese ma dell’arte in assoluto è “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, un motivo che viene da lontano, come abbiamo detto all’inizio si trova in un’opera di venti anni prima.. Già nelle “cascate” avevamo visto esaltata la forza della natura dinanzi alla figura umana spettatrice inerme, qui tutto questo è esaltato al massimo dall’immensa onda che si eleva sulla sinistra tra un ribollire di schiuma, mentre due lunghe ma esili barche con a bordo molti pescatori cercano di fronteggiare l’impeto dei marosi nell’avvallamento tra il grande picco ondoso a sinistra e il riflusso  a destra. Blu e bianco i colori che fissano questo momento, con due leggeri striature di giallo per le barche. E il monte Fuji? Se ne vede la punta dietro l’avvallamento dove transita la barca più lontana, la neve che la copre la assimila all’onda con la spuma, sembra assistere impotente alla lotta nella quale rifulge l’ardimento degli uomini coraggiosi sulle due barche. Anche di quest’opera  sono esposti due esemplari, una del museo d’arte orientale “Edoardo Chiossone”, l’incisore genovese vissuto all’epoca più di vent’anni ad Edo, dove raccolse una preziosa collezione di arte orientale.

In queste opere c’è una dominante blu spettacolare per intensità e contrasto cromatico con le altre parti delle composizioni che sono molto chiare, bianche o in tonalità pastello. Grafica pura senza cromatismi, invece, la serie  di “Cento vedute del monte Fuji”, in 3 volumi, rispettivamente del 1834, 1835, e 1849. E’ esposta una ventina di fogli più piccoli delle “Trentasei vedute” , si sviluppano in verticale e non in orizzontale, sono disegni dalle linee sottili con leggere ombreggiature, nei più significativi con la grande montagna e la grande onda, la composizione prende due fogli quindi ripete lo sviluppo orizzontale, la “grande onda” questa volta ha il picco sulla destra e non vi sono le due barche che lottano contro i marosi,  il “Fuji” viene riprodotto dalle angolazioni più diverse, Dietro una ragnatela” e “Riflesso su uno specchio d’acqua”, “Tra il bosco di bambù” e “Dalla scogliera”, “Sopra l’acqua” e “Con dragone che sale“.

Figure umane e beltà femminile in Hokusai

Abbiamo detto che il paesaggio è non solo il soggetto prediletto da Hokusai, ma quello in cui la maestria è stata massima e così l’influenza sugli  altri artisti,  tra cui Eisin di cui diremo dopo aver completato l’excusus su di lui.

Ma anche la figura umana è stata rappresentata da Hokusai in modo molto personale, a cominciare dalle “Cinquantatrè stazioni di posta di Takaido”, 1804, aveva 44 anni si firmava Hokusai dopo aver utilizzato i nomi di Shunro e Sori, come abbiamo ricordato.  Sono  esposte, sempre nella prima sezione,  8 illustrazioni dell’album, su altrettante stazioni di posta viste non negli aspetti paesaggistici del tipo di quelli di  cui abbiamo parlato, ma nella presenza di persone in diverse attività e atteggiamenti delineati in tratti sottili di eleganza, in un cromatismo discreto con prevalenza di rosso tenue e marroncino. Ecco i nomi delle stazioni delle illustrazioni esposte di cui si evoca l’umanità della gente che le popola: “Nihonhashi” e “Shinagawa”, “Kawasaki” e “Kanawaga”, “Yoshiwara” e “Misaka”, “Mitsuke” e “Goya”, “Ishiyakushi” e “Otsu”.

Dalla figura umana alla beltà femminile il passo non è breve, perché la rappresentazione di geishe e cortigiane veniva osteggiata dalla censura, anche al di là dell’erotismo, soprattutto nell'”era Tenpo” allorché, tra gli anni ’30 e ’40, il governo voleva smantellare il mondo del divertimento intorno alle case da te, alle case di piacere e al teatro, per ridimensionare la classe che stava imponendosi con la sua crescente ricchezza e andava alla ricerca di occasioni sempre nuove di lusso e intrattenimento.

Le opere di Hokusai esposte nella seconda sezione dedicata a questo tema coprono un periodo molto ampio. Si comincia da “Tre belle donne”, 1798-99, a “Raccolta di conchiglie“, 1801-04, con due figure femminili deliziose e in basso un bambino in un’atmosfera trasognata, da “Ventaglio dipinto con una cortigiana in parata a Nakanocho”,  1803,  a “Giovane donna di Ohara con bue”, 1805.Un salto di molti anni  con “Beltà stante”, 1815-20,  e “Beltà e ventaglio tradizionale”, 1815-24, la prima con un kimono a riquadri geometrici,  ravvivato dal disegno delle  spire di un drago  in tinta pastello,  la seconda con un severo abito scuro in una silhouette arcuata, i visi appena segnati con  sottili linee per occhi e sopracciglia e un puntino rosso per le labbra.

Si tratta del genere “bijinga” su una serie di supporti diversi, dalle silografie policrome delle stampe tipiche dell'”ukiyoe” ai rotoli verticali in carta o seta da  appendere, ne parleremo in modo più approfondito rispetto a Eisen, l’artista che ha dato il meglio di sé nel celebrare la beltà femminile.

Le “immagini pericolose” di Hokusai

Come vedremo anche per Eisin, troviamo in Hokusai le ” abunae”, “immagini pericolose” di esplicito contenuto erotico, da considerarsi eccezionali se si pensa ai ricorrenti divieti della censura sin dal 1800 che vietò in certi periodi addirittura di ritrarre attori e cortigiane e giunse a proibire determinati colori come simbolo di lusso. L’erotismo spinto di Hokusai si esprime nelle illustrazioni del libro “Germogli di pino nel primo giorno del Topo”, 1814, sono 4 immagini. Le prime 2 rappresentano in due fogli sciolti, “Coppia di amanti donne”, e  “Coppia di amanti nel futon”, entrambi in una sensualità spinta fino all’erotismo con nudità anche delle parti intime in composizioni peraltro estremamente raffinate nel segno arabescato, nelle tinte pastello e nelle forme  con chiara evidenza dello stato di immedesimazione nella posizione, nei gesti e soprattutto nei volti. Altrettanto esplicito  “Pivieri sulle onde”, 1822-23, che fa parte della collezione Chiossone. 

Lo stesso nella composizione che si sviluppa su due fogli successivi  dello stesso libro, “Amanti durante l’amplesso”, e il “durante” del titolo è giustificato dall’immagine quanto mai esplicita nella nudità intima ed espressiva nella posizione e nei volti,  ma altrettanto delicata per la raffinatezza del segno, l’eleganza delle vesti, la leggerezza dei colori.

Una citazione speciale merita l’ultima illustrazione del libro che vediamo, sempre su due fogli successivi, “Piovre e pescatrici di awabi“, un’immagine divenuta celebre per l’innaturale connubio quanto mai esplicito con la donna distesa nuda preda dei tentacoli e della bocca del mostro con il viso nel quale Huysmans ha visto “l’espressione quasi sovrumana di tormento e dolore che sconvolge la lunga forma aggraziata dal naso aquilino e la gioia isterica che allo stesso tempo scaturisce dalla fronte”.

I “surinomo” e i “manga” di Hokusai    –

Nella società giapponese dell’epoca erano molto diffuse stampe con la tecnica “ukiyoe” di biglietti augurali e calendari, annunci e inviti a spettacoli teatrali e incontri culturali, spesso abbinate a testi poetici o in prosa. Erano i “surinomo” che, a differenza delle stampe policrome, le “nishikie”, avevano precisione nelle sottili linee di contorno e  tonalità sobrie, spesso ottenute dalla matrice a secco senza inchiostro, in piccoli formati, quadrati o lunghi in orizzontale, con l’impiego di tecniche più raffinate di quelle usate nelle produzioni di massa.

Hokusai fu attivo nei “surinomo”, cui la mostra dedica la terza sezione, , tanto che le “Cinquantatre stazioni di posta di Takaido”, oltre che essere il soggetto delle illustrazioni sopra commentate, sono anche in una serie di “surinomo”  “In occasione dell’incontro poetico di fine anno”,  il 1804.  Sono in grande formato orizzontale  con l’eleganza grafica e la delicatezza cromatica delle illustrazioni appena citate delle stesse “stazioni di posta”, alcune in interni, altre in esterni con sullo sfondo ponti, le tipiche costruzioni a pagoda e l’onnipresente monte Fuji in una serie di varianti che enfatizzano le tante attrattive dei luoghi celebrati.  Il titolo indica la località e addirittura la distanza dalla stazione successiva, la figura i prodotti tipici e le attrazioni.

Dopo 35 anni abbiamo la serie “Parodia di esseri immortali, divinità della fortuna e attori di kyogen”, 1839, sono 22 rotoli verticali con figure singole di attori e personaggi nelle pose e negli abbigliamenti più originali, per lo più contorti e avviluppati in abiti sovrabbondanti, con un effetto d’isieme parodistico, comunque sempre in una grafica elaborata e una cromia delicata.

Siamo giunti così alle opere di Hokusai esposte nella quarta e ultima sezione della mostra, intitolata significativamente “Catturare l’essenza della natura“. Abbiamo due tipi molto diversi, i “Manga e manuali per imparare”, si tratta di 60 fogli stampati tra il 1814 e il 1878, con le più diverse raffigurazioni,  il segno è delicato come per un arabesco. Molti sono divisi in riquadri come quelli con i volti,in numero di 12, raffrontati forse con finalità fisognomiche, oppure senza divisioni recano molte piccole figure umane o animali,  vegetali o geometriche, anch’esse raffrontate, altri presentano scene a pagina intera e anche divisa nei due fogli successivi, come per grandi pagode e l’immancabile montagna sacra Fuji. I “manga”, in realtà, sono fumetti che sviluppano storie lette da destra a sinistra, questi sono invece molto diversi per forma e contenuto. .

All’opposto, l’essenza della natura espressa negli animali la vediamo celebrata in 6 grandi rotoli verticali, dipinti con tratti decisi e intensi, in un insieme quasi monocromatico di grande efficacia. I rotoli esposti coprono l’intero arco della vita dell’artista, dal 1804 al 1846 .Gli “Animali” ritratti da Hokusai sono  leoni cinesi e  tigri, carpe e tartarughe, gru e anche draghi, per lo più mitici e legati alle divinità. Sono “animali dallo sguardo umano e dai lineamenti umani – commenta la curatrice Menegazzo – con cui Hokusai si identifica diventando un tutto con loro, e ai quali sono associati significati beneauguranti di forza, coraggio, perseveranza, longevità”. Vediamo esposti  “Gallo, gallina e bambù”, 1804,  e “Gallo e gallina appollaiati su un tamburo da guerra”, 1820, con i bargigli rossi che spiccano su tonalità discrete, “Tigre fra i bambù che  guarda la luna piena”, 1818, e  “Tigre in un bosco di bambù”, 1839, “Carpa e tartaruga”, 1839, e “Drago che sale al cielo”, 1846. Hokusai muore nel 1849, in questa ascesa in cielo del drago in cui evidentemente si identifica diventando un tutto con lui, c’è tutta la sua  intensa spiritualità espressa sull’orlo della vita..

Termina così la straordinaria galleria di Hokusai, ma non il nostro racconto della  mostra. C’è l’altro grande artista, Eisin, la curatrice ha sottolinea le “vite parallele” sua e di Okusai, tanto che li ha alternati nelle quattro sezioni. Noi abbiamo preferito raccontarli separatamente, essendo complementari ma al contempo alternativi, Hokusai primeggia nei paesaggi, Eisin nei ritratti femminili. Ed è su questi che ci soffermeremo in particolare nel dare conto prossimamente di quest’altro grande artista, molto diverso dal precedente di cui è stato ammiratore e seguace.

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. ll primo  articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  5 dicembre u. s., il terzo e ultimo uscirà  il  27 dicembre  p. v., con altre 12 immagini ciascuno. Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito, “Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’  alla Gnam”  25 aprile 2013. Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, ad eccezione delle prime due e dell’ultima tratte dal DVD fornito cortesememte e delle n. 6, 7, 9  tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Sono tutte opere di Katsushika Hokusai. In apertura, “Monte Fuji all’alba”, 1843; seguono, “La cascata di Onu lungo la strada Kiso” 1833, e “Sotto il ponte Mannem a Fukagawa in Edo” 1830-31; poi, “Illustrazione del tempio dei 500 Arhats” 1818,30, e “Luce del tramonto sul ponte di Ryugoku” 1843-46; quindi, “Alba a Isawa nella provincia di Kai” 1830-31, e “Le nuoive risaie di Ono nella provincia di Suraga” 1830-31; inoltre, “Tre belle donne” 1798-99; e “Raccolta di conchiglie” 1801-04, infine “Aquila su ramo innevato” 1843; e “Gallo, gallina e bambù” 1804; !n chiusura, “Nuova edizione del gioco del sugoroku. Viaggio a Kamakura, Enoshima, Oyama” 1830.,

Picasso, 1. In Italia tra cubismo e classicismo, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

A Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018 la mostra “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-25” espone oltre 100 opere, tra  dipinti, disegni e gouaches dell’artista con una ricca documentazione soprattutto di fotografie e lettere autografe.  A Palazzo Barberini, nel salone affrescato da Piero da Cortona,  viene esposto  il grande Sipario realizzato per lo spettacolo teatrale “Parade”  che fu il motivo alla base della sua visita in Italia.  La mostra, prodotta da Ales  S. p. A, Arte Lavoro e Servizi, la società “in house” del MiBACT di cui è Presidente e A,D. Mario De Simoni, e MondoMostre Skira con la partecipazione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica “, e il sostegno eccezionale del Musée national Picasso-Paris, è a cura di Olivier Berggrruen con Annunciata von Liechtenstein, allestimento di Annabelle Selldorf. Catalogo di Skira, Scuderie del Quirinale, Musée Picasso-Paris.

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E’un evento nell’evento la mostra di Picasso alle Scuderie del Quirinale,  nove anni dopo la mostra al Vittoriano dall’ottobre 2008 al gennaio 2009, “Picasso 1917-1937”. E questo per il notevole sforzo organizzativo, con quasi 40 prestatori da ogni parte del mondo e oltre 60 soggetti che hanno fornito contribuiti alla preparazione;  come sono oltre 60 le istituzioni impegnate nel grande progetto internazionale “Picasso – Méditerranée” con una serie di mostre e manifestazioni.

Per  l’Italia la mostra è al culmine delle celebrazioni per il centenario della sua prima visita nel nostro paese, nel 1917,  a 36 anni quando aveva già compiuto la rivoluzione cubista, ma il viaggio fu rivoluzionario per la sua irruzione nel teatro e l’immersione nella classicità  romana, mentre anche  la sua vita personale ne fu investita,  perché trovò l’amore. Classicismo, cubismo e anche figurativo sono compresenti nella sua arte in una alternanza continua anche nello stesso periodo.

In coincidenza con l’inaugurazione della mostra si è svolto, nei giorni 21 e 22 settembre 2017, il seminario “Les Mèditerranèes de Picasso” nell’Accademia di Francia a Villa Medici, chiuso solennemente  nella sede dell’Ambasciata a Palazzo Farnese, in cui è stato approfondito il rapporto dell’artista con il Mediterraneo e il mondo arabo, in particolare l’Algeria, il Marocco e la Palestina. 

 La permanenza a Roma dell’artista viene rievocata in quattro incontri dal 5 ottobre al 20 novembre  in sedi particolarmente significative, dall’antico atelier romano di via Margutta sul suo fervore creativo e sui contatti con gli artisti nella quotidianità romana, alle Terme di Diocleziano sul dialogo tra antico e contemporaneo nelle sue opere, a Palazzo Barberini  sulla posizione dell’artista tra cubismo e classicismo, al Teatro dell’Opera sull’irruzione della sua arte nello spettacolo teatrale.

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A Palazzo Barberini, inoltre, il 27 settembre, nella presentazione del libro di Gabriele Guercio, “Il demone di Picasso. Creatività generica  e assoluto della creazione”, è stato affrontato il problema dell’arte contemporanea che sconfina nella non-arte, basandosi su Picasso che, pur essendo “il pioniere della sregolata disseminazione del fare creativo che ancor oggi connota la pratica artistica”, nondimeno “ha attraversato l’anarchia e ha toccato l’altra riva della libertà” , come un “demone bifronte”  che mentre alimentava il “relativismo creativo” riconquistava il “creazionismo artistico”.

I consueti Laboratori per ragazzi sono particolarmente curati nelle due sedi delle Scuderie del Quirinale  e di Palazzo Barberini. In quest’ultima con la “ludoteca dell’arte nello studio di Picasso” e con “esplora l’arte”, nelle Scuderie ripercorrendo “il viaggio compiuto dall’artista in Italia esattamente cento anni fa  quando “il Bel Paese incanta l’artista creando forti suggestioni che andranno a costituire il nuovo repertorio formale e iconografico da cui attingerà nei tempi a venire.”

 Ebbene, ci sembra  un itinerario così appassionante e rivelatore che lo seguiremo nel nostro racconto della mostra, cercando di ripercorrere i momenti culminanti della visita di Picasso in Italia rivivendone sensazioni ed emozioni, come quelle dinanzi alla severa classicità della Roma antica e all’atmosfera pittoresca degli artisti di via Margutta a Roma e dei quartieri popolari di Napoli.

Quindi ci soffermeremo sui momenti e le tappe del viaggio in Italia commentando le opere più strettamente connesse agli ambienti e alle atmosfere che lo colpirono maggiormente. In una fase successiva tratteremo della sua irruzione nel teatro, soprattutto con “Parade”, ma anche con “Pulcinella” e altri spettacoli, e sul significato della sinergia tra le varie arti. Infine illustreremo in modo specifico le opere pittoriche di grande  rilevanza artistica meno legate a questi aspetti.

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Il viaggio in Italia del 1917 e le opere precedenti

La vista al nostro paese  nel 1917   ha un prologo nei due anni precedenti, coperti dalla mostra celebrativa del centenario. Infatti nel 1915 avviene il primo incontro con Jean Cocteau, che accompagnava  un musicista in visita all’atelier di Picasso, lo scrittore fu così colpito da desiderare di avere un ritratto dipinto da lui, fini al punto di andarlo a  trovare vestito da Arlecchino.

Questa maschera sarà oggetto di diversi ritratti di Picasso -negli anni successivi, come vedremo, intanto la mostra documenta la vigilia, per così dire, del viaggio in Italia con un’opera del 1914, “Homme à la pipe”, e tre del 1916,  “Homme à la cheminée”,  e due dallo stesso titolo “Homme accoudé à une table”. Sono quattro opere rigorosamente cubiste, a prima vista dalla difficile riconoscibilità rispettivamente della pipa, del caminetto e del tavolo,  che però ad una osservazione acuta sono visibili nella trasposizione di forme e volumi di questo stile dall’impatto così forte.

E’ una fase in cui, nota Cécile Godefroy, “Picasso prolunga  e spinge al parossismo decorativo le sperimentazioni del “cubismo sintetico”  e l’uso di elementi del quotidiano”, come nei dipinti appena citati. “La citazione puntinista gli permette di ritrovare un contatto con il colore, escluso dal periodo ermetico, e di manifestare l’opacità e la trasparenza degli oggetti”. .

Nel 1916  si intensificano i contatti con Cocteau che va spesso a visitarlo nel nuovo atelier alla periferia di Parigi, a Montrouge, e lo scrittore dopo averlo interessato al progetto di un balletto che sta definendo con la Compagnia di Balletti Russi di Djagilevs, gli chiede di aiutarlo nella realizzazione di scenografia e costumi perché Djagilev non aveva accettato due sue proposte chiedendogli di “stupirlo” con una proposta innovativa e fantasiosa.

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Il bozzetto di un ritratto in uniforme preparato da Picasso colpisce Djagilev che lo va a trovare di persona, nasce “Parade”, che doveva rappresentare, per il fondatore dei Balletti russi, il riscatto dopo il fallimento della “tournée” americana.  I Balletti russi da alcuni anni avevano conquistato il pubblico parigino reinterpretando i classici con allestimenti originali di scenografi e coreografi nonché artisti e musicisti d’avanguardia.  

Imperversa la prima Guerra Mondiale, Picasso si sente isolato perché i suoi  amici più cari, il pittore cubista Braque e il poeta Apollinaire, sono al fronte, il 25 febbraio 1916 c’è stata la sanguinosa battaglia di Verdun, Picasso è impegnato con le avanguardie dadaiste e nella presentazione del suo capolavoro “Les Demoiselles d’Avignon”.

Con l’inizio del 1917  l’incarico per “Parade” diviene effettivo, oltre a 5.000 franchi di compenso peri bozzetti, 1.000  per un viaggio a Roma dove si trova Djagilev con la sua compagnia che  terrà alcuni spettacoli anche a Napoli, Picasso deve stare con loro per creare costumi e scene.  Sarò un viaggio breve e intenso, visiterà anche Firenze e Milano e rientrerà a Parigi ad aprile.

Il 17 febbraio raggiunge la città eterna con Cocteau e si stabilisce in un albergo nel centro tra piazza di Spagna e Piazza del Popolo, vicino a via Margutta, la strada degli artisti, prende anche un atelier al numero 53 b di via Margutta all’interno degli Studi Patrizi di fronte alla sede dell’Associazione Artistica Internazionale. Si immerge nel mondo romano con Cocteau, e Stravinskji, l’autore delle musiche e Massime, il coreografo, lavora intensamente alle scenografie e ai costumi e  fa molti disegni, collabora con lui anche il futurista Fortunato Depero, a riprova del sincretismo artistico che prende piede dopo la fase cubista con la forte influenza classicista delle antichità romane.  Si invaghisce della bellissima ballerina russa Ol’ga Chochlova, la sposerà il 12 luglio 1918 nella chiesa ortodossa russa di parigi, testimoni Cocteau, Apollinaire e Jacob.

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A marzo sempre del 1917 l’intera “troupe”  di “Parade” fa due escursioni a Napoli, Picasso viene preso non solo dal fascino del parco archeologico di Pompei e di Ercolano, ma anche  dagli spettacoli napoletani della commedia dell’arte e dalla atmosfera pittoresca degli ambienti popolari.

In particolare a Forcella insieme a Stravinskji potè assistere a uno spettacolo all’aperto di marionette che improvvisavano per le strade del quartiere nei modi della commedia dell’arte: Tale forma d’arte popolare dalla lunga tradizione  colpì sia il musicista  che Picasso,  facendo capire come anche le più semplici espressioni artistiche potessero avere un fascino senza confini.

Collegando una simile sensazione a quella avuta a Roma dinanzi alla compresenza di ruderi antichi ed edifici storici  monumentali, si giunge alla conclusione del curatore della mostra Oliver Bergggruen: “Fonti di ispirazione disparate, che andavano dalle più basse alle più alte, potevano essere integrate nelle loro opere, proprio come il paesaggio romano offriva una visione in cui antichità, chiese rinascimentali e palazzi barocchi sembravano fondersi”.

Già dal 1914, osserva la Godefroy, “appaiono disegni puramente figurativi, tra cui una serie di ritratti e nature morte dal tratto preciso e illusionistico… La ripresa del figurativo, che durante e soprattutto dopo la guerra domina la vita artistica europea, per Picasso rappresenta anche una reazione dialettica alla propria opera”.  Ma non è una svolta senza ritorno, “lungi dal rinnegare il cubismo, confronta il suo linguaggio con forme al tempo stesso più vive e più atemporali, in una nuova riflessione attorno alle difficoltà della rappresentazione su cui, per tutti quegli anni, non ha mai cessato di interrogarsi”. 

A questo ripiegamento interiore il viaggio in Italia ha dato un contributo notevole in termini di ripresa del classicismo in una visione realistica che Roma gli offriva non soltanto per i ruderi dell’antichità ma anche per i valori tradizionali espressi nelle figure più popolari.

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Le opere legate al viaggio in Italia

Ne vediamo un riflesso in alcune opere del 2017, cominciando da due raffigurazioni di “Villa Medici a Roma”, 2017, una a matita su carta in chiave nettamente figurativa, l’altra ad acquerello su un foglio con la sagoma dell’edificio che si staglia su un cielo puntinista. Mentre  “Italienne a’ le fleur”  è un delicato acquerello su cartoncino  in cui la “donna italiana con fiore”  richiama con una rarefazione cromatica puntinista una cartolina del ‘900 sulla “fioraia di piazza di Spagna”, in costume tradizionale con il cestino sotto il braccio sinistro e il fiore nella mano destra protesa. Si tratta della contadina  in costume folcloristico proveniente dalla Ciociaria, divenuta in un certo senso identitaria per la popolazione romana, soggetto prediletto dagli artisti di via Margutta al punto che era frequente incontrarvi ragazze campagnole vestite per offrirsi come modelle..   

Altrettanto figurativi  i ritratti di piccolissime dimensioni, “Autoritratto” a matita, serio e dignitoso, e l’olio su tela “Téte de femme (Olga)”, in cui la testa di donna è impersonata dal viso della ballerina russa di cui, come abbiamo detto,  si era invaghito e che avrebbe sposato l’anno dopo.

Invece sono in stile “cubista sintetico”, a conferma della compresenza delle diverse espressioni pittoriche, due  opere a olio su tela dello stesso 1917 e una del 2018, considerate autentici capolavori.

“Arlequin et femme au collier”, di 2 m  per 2 m, del 1917,  è una composizione enigmatica, definita dall’artista  Gino Severini “una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione”, come ricorda Valentina Moncada la quale, dopo un’accurata ricerca su centinaia di rappresentazioni della ciociara, collega la trasposizione cubista di Picasso alla riproduzione in stile figurativo del “Costume tradizionale ciociaro” di Enrico Tarenghi – che aveva lo studio in via Margutta 48, quindi vicino a quello di Picasso – con la giovane donna di profilo, il copricapo, la collana e la cesta, particolari tanto stilizzati nella visione cubista da essere quasi irriconoscibili. Questa constatazione la fa concludere che non è Colombina vicino ad Arlecchino, ma una popolana, come le modelle in costume tradizionale che incontrava in via Margutta. Arlecchino è evocato con cappello, maschera e colletto appena percepibili, come la mano, tre  linee bianche.

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Ben diverso “Arlequin au violon”, 1918, la maschera è perfettamente riconoscibile, pur nella trasposizione cubista, addirittura lo spartito che ha in mano per il violino è figurativo, come gli scacchi dell’abito anche se monocromatici, il viso con gli occhi e lo strumento musicale, E’ un altro modo di declinare il cubismo, esperito con spirito di ricerca per un soggetto simile.  

Più trasposizione e meno astrazione anche in “L’Italienne”, di 1,5 m per 1 m, che a differenza del quadro appena commentato, quasi in bianco e nero,  ha forti contrasti cromatici, dal rosso al verde al giallo e alcune componenti figurative, come la cupola di San Pietro sullo sfondo e il cestino in primo piano. E’ un’immagine coinvolgente la cui forza espressiva supera  la mimesi cubista, la figura sembra protesa in avanti con le sue forme, l’effetto è veramente straordinario. In questo caso l’identificazione delle parti componenti la figura è evidente,  a differenza di “Arlecchino e la donna della collana”, ma ci sono particolari enigmatici che la Moncada riesce a decifrare riferendosi a una cartolina di “Italiana in costume tradizionale”,questa volta senza fiore in mano, appoggiata a una staccionata cui rimandano delle fasce bianche ondulate del dipinto, e a un manifesto pubblicitario  “Rome – Express”  con le arcate di ponte Sant’Angelo stilizzate nel dipinto.

Non si fermano al 1917 le opere esposte di diretta ispirazione “italiana”. Sono del 1919 i 3 disegni a matita e carboncino su carta di 50 cm per 65 circa. Paysans Italiens”  raffigura una coppia di ,  “contadini italiani in costume ciociaro” in atteggiamento composto, lo sguardo espressivo, stile calligrafico dai contorni ben definiti; “Femme italienne à la cruche”  presenta in costume tradizionale  una “donna con brocca”, ma si tratta di una “conca”, il recipiente tradizionale con cui le donne portavano a casa l’acqua attinta dalle fontane reggendolo in equilibrio sulla testa protetta dal “torcinello”; invece in”Femme à la cruche” .il recipiente tenuto sotto braccio dall’imponente figura femminile è ben diverso da quello precedente, forse qui è appropriato chiamarlo brocca.

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Questi disegni, come “Nu allongè au tourban” dello stesso anno, ancora più classicista, sono in stile chiaramente figurativo, dopo i due capolavori con le donne italiane del 1917, e l’Arlecchino del 1918 di stile prettamente cubista, una compresenza più che un’alternanza che sarà confermata negli anni successivi della straordinaria evoluzione artistica nel decennio considerato.

La Moncada, dopo le sue accurate ricerche, conclude “che via Margutta, con la sua lunga storia e con le sue forti tradizioni abbia rappresentato un filo conduttore nel viaggio di Picasso a Roma e un veicolo delle tematiche che lo hanno ispirato, così come è stato per secoli per gli artisti che hanno vissuto e lavorato in questa importante strada, dando vita a memorabili capolavori”.

Non vogliamo restringere l’ispirazione di Picasso soprattutto nel 1917  alla matrice italiana, anche se il suo viaggio in Italia ha lasciato un segno profondo anche negli anni successivi. Sono esposte anche due opere del 1917 di chiara matrice “pointellista”, “Compotier aver fruit“, in cui la composizione è una massa puntiforme  variopinta in cui si può intuire la presenza di un grappolo d’uva, e “Le retour du baptéme d’après le Nain”, con le figure meglio delineate in una pittura   puntiforme  più precisa e definita. E’ la sperimentazione continua, la compresenza di diversi stili che non consente di confinare Picasso in una determinata corrente, è stato pittore universale.

La documentazione fotografica

Non c’è soltanto la parte pittorica nella mostra, la documentazione fotografica presenta Picasso in 6  fotografie scattate da Cocteau, 5 lo ritraggono a Pompei da solo o con Massine e Djagilev; una a Roma con Massine e Cocteau davanti a uno specchio. Lo vediamo con Massine a Roma in una fotografia su una terrazza, con il viso dello scenografo quasi deformato dal primissimo piano mentre Picasso è più dietro in posizione eretta, in una singolare inquadratura obliqua alla Rodcenko.

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Particolarmente suggestive le immagini fotografiche di Ol’ga Chochlova, al centro dell’interesse di Picasso sotto l’aspetto sentimentale oltre che quello artistico, essendo la prima ballerina di cui si era invaghito. La vediamo a Roma in una foto con Picasso e Cocteau sulla terrazza dell’hotel Minerva, dove è fotografata anche da sola in tre pose diverse, in piedi o seduta davanti alla ringhiera, e al centro con i palazzi sullo sfondo, in uno spiritoso atteggiamento con il ventaglio in mano e lo scialle che la avvolge completamente fino a coprirle la testa in modo sbarazzino.

Una sequenza fotografica ben diversa la ritrae forse a Roma, su sfondo scuro, ,in 4 pose da “femme fatale”, come in effetti era,  sguardo penetrante, emana un fascino irresistibile, sono immagini che più di qualsiasi descrizione fanno capire come Picasso ne fosse perdutamente innamorato.

Tornato a Parigi nell’aprile dello stesso 1917, dipinge il Sipario e segue la realizzazione dei costumi e delle scene dai suoi bozzetti di “Parade”. Il 18 maggio la prima dello spettacolo che doveva segnare una rivoluzione teatrale all’insegna dello “Stupiscimi” richiesto da Djalev a Cocteau e dallo scrittore a Picasso. Ed effettivamente ci fu e c’è da stupirsi, nella mostra viene proiettato il video dello spettacolo e si vede che vanno in scena veri e propri disegni cubisti animati, imponenti gigantografie che camminano, saltano, danzano. Ci fu da stupirsi ma non mancò chi reagì a quella che sembrò una provocazione, tanto era innovativa.

Ne parleremo prossimamente commentando i costumi  e le scene disegnati da Picasso per questa e altre rappresentazioni teatrali nonché lo spettacolare “Sipario” lungo 17 metri e alto 11, esposto nel Palazzo Barberini perché  soltanto il suo vasto salone poteva contenerne le dimensioni oltre che consentire un contrappunto spettacolare con il grande affresco del soffitto di Pietro da Cortona.

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Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma.. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, forze dell’ordine, con invalidità, gratuito per under 18, disabili, guide, soci ICOM  e dipendenti MiBACT. Tel   06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Picasso tra cubismo e Classicismo 1915-1925” a cura di Olivier Berggruen con Annunciata von Liechtenstein,  edito  da Scuderie del Quirinale, Skira, Musée Picasso-Paris, 2016, pp. 256, formato 24 x 28,5,  dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli successivi sulla mostra usciranno, in questo sito, il  25 dicembre p. v. e il 6 gennaio 2018, con altre 10 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito,  per  il cubismo  16 maggio 2013;  in cultura.inabruzzo.it per la mostra su Picasso del 2008-09 il 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Deux femems courant sur la plage (La course)” [Due donne che corrono sulla spiaggia (La corsa] 1922; seguono, “Homme à la pipe” [Uomo con la pipa] 1914, e “Homme accoudé a une table” [Uomo seduto al tavolo] 1916; poi, “Arlequin” [Arlecchino] 1917 in mostra e non in Catalogo, e  “Arlequin au violon” [Arlecchino con il violino] 1918; quindi, “Le retour du baptéme, d’aprés Le Nain” [Il ritorno dal battesimo, da Le Nain] 1917, e  “Nature morte devant una fenètre” [Natura morta davanti alla finestra] 1919; inoltre, “Femme italienne aà la cruche” [Donna italiana con brocca] o, più precisamente, conca, e “Paysans italiens”  [Contadini italiani] entrambi 1919;  infine, “Portrait d’Igor Stravinsky” [Ritratto di Igor Stravinsky] 1920, e, in chiusura, “Autoportrait” [Autoritratto] 1917.  

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Hokusai, 1. Il maestro dell'”ukiyoe” giapponese, con Eisen, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Un evento la mostra aperta a Roma, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, con esposte  oltre 300 opere, tra quelle di Hukusai e di Eisen grande anch’egli,  sulle origini della moderna scuola di pittura giapponese fondata dal maestro sulla base di quella cinese nella prima metà dell’800.  La mostra celebra il  150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, è organizzata da MondoMostre Skira con Zétema, a cura di Rossella Menegazzo che ha curato pure il monumentale e raffinato catalogo edito da Skira.

La mostra fa entrare in un mondo molto diverso dal nostro, quello dell’esotismo orientale, nel quale l’espressione artistica su avvale di tecniche molto particolari ed è manifestazione di una società e di costumi altrettanto speciali. In questo contesto, che ne accresce l’interesse e il fascino, vanno inquadrate le opere  presentate.L’esposizione merita una speciale attenzione data la sua spettacolarità che rende la visita un vero evento: la penombra delle sale accresce l’emozione dinanzi all’elevatissimo numero di opere esposte, che spiccano per la luce che le colpisce come fosse un occhio di bue sulla star nel palcoscenico immerso nell’ombra, e le star sono le straordinarie immagini della natura di bellezza incomparabile soprattutto di Hokusai, e di  donne misteriose e intriganti avvolte nei loro sontuosi kimono soprattutto di Eisin.

L’ “ukiyoe” nell’arte e nella società giapponese

Cominciamo dalla tecnica, il primo elemento caratteristico dell’arte orientale e giapponese in particolare, si tratta della “ukiyoe”, sono stampe artistiche su carta  da matrici di legno incise da intagliatori provetti sulla base dei disegni dei maestri pittori, matrici sfruttate in multipli di centinaia di pezzi fino alla consunzione, con la possibilità di modificare i colori anche limitandoli per motivi economici. Anche in occidente alcuni tipi di opere d’arte sono state frutto di collaborazione tra l’artista e  coloro che traducevano materialmente la sua creazione utilizzando materiali come l’argento e altro, nell’ “ukiyoe” oltre all’artista, l’intagliatore e lo stampatore c’era l’editore che si occupava della parte economica e della vendita sul mercato, per questo aveva voce in capitolo anche in alcune scelte come la forma e la dimensione dell’opera. L’intagliatore aveva un ruolo importante in quanto la resa della creazione artistica dipendeva anche dalla sua abilità nel tradurla in incisioni sul legno della matrice; altrettanto lo stampatore che per ognuna passava i colori indicati dall’artista con l‘abilità di renderne le sfumature differenziando in modo appropriato la pressione della matrice a secco sul foglio. .

Il risultato era notevole, tanto da conquistare anche il pubblico europeo,  particolarmente francese,  dalla seconda metà dell’800, nell’ambito di una crescente predilezione per “giapponeserie” d’importazione di ogni tipo, compresi kimono e ceramiche, lacche e armature.  Ciò avvenne dopo l’apertura del mondo giapponese – chiuso per due secoli, dal 1641, ad ogni contatto con l’esterno per volere del despota Tokugawa -, apertura che avvenne nel 1854 su pressione della flotta americana; poi, nel 1867, il Giappone presentò un padiglione all’Expo di Parigi, e fu un successo strepitoso.

Nella seconda metà dell’800  il genovese Edoardo Chiossone, chiamato nell’antica Edo, l’odierna Tokyo, nel 1875,  come incisore di banconote, e vissutovi 23 anni fino alla morte nel 1898,  divenne ritrattista ufficiale e raccolse una vasta collezione della pittura “ukiyoe”, come rievoca il saggio di Donatella Failla.

Ma quello che ci interessa è vedere come questa produzione artistica si inserisse nella società giapponese dell’epoca Edo, che termina nel 1868, vent’anni dopo la morte di Hokusai e di Eisin.  .

Con l’emergere della classe mercantile borghese dopo il dominio aristocratico avvennero radicali mutamenti in campo sociale e urbanistico e negli stili di vita. Tale classe non era condizionata né dalla  rigorosa etica imposta a samurai e nobili, né dal gravoso lavoro dei contadini e pescatori, inoltre acquisiva crescenti disponibilità economiche. Era molto dinamica con i continui spostamenti nel paese,  la voglia di conoscere i  luoghi caratteristici, la ricerca di divertimenti nel tempo libero. Le maggiori città si svilupparono, ed Edo raggiunse un milione di abitanti.

Si moltiplicarono così i luoghi di intrattenimento  e di svago, dai teatri alle case di tè e di piacere, sempre più  frequentati e, in relazione a questa evoluzione del costume, nacque il desiderio di conservarne la memoria con ricordi visivi: piccole immagini che li facessero rivivere, fossero essi paesaggi e immagini ambientali o figure evocatrici della vita quotidiana Nella tradizione precedente  le immagini pittoriche erano invece riservate ad arredare castelli e residenze aristocratiche, con grandi pannelli scorrevoli e paraventi per riaffermare il potere della classe dominante. 

Inizialmente si riproducevano vedute cittadine e attività correnti, poi si passò all’evasione rappresentando i teatri e le case da tè. “Le prime grandi scuole dell”ukiyoe’ –  ricorda la curatrice Rossella Menegazzo nel suo saggio “Hokusai ed Eisen. Sulle orme del maestro” – erano specializzate nei ritratti di attori di teatro kabuki (“yakushae”) e di beltà femminili (“bijnga”), generi che continuarono  a rappresentare nel tempo una grossa fetta di mercato delle immagini del ‘Mondo Fluttuante’, dato che rappresentavano i volti e i nomi  più noti dell’epoca, i beniamini del popolo, gli ideali di bellezza cui tutti aspiravano anche se  irraggiungibili”.Il “Mondo fluttuante” era quello tutto particolare creato dall’isolamento del Giappone.

Soggetti, quindi, comuni in queste rappresentazioni pittoriche sulle stampe artistiche dell’ “ukiyoe”, nei quali divennero prevalenti, a parte i paesaggi, le cortigiane e le geishe di ristoranti e case da tè, nonché donne di alta classe. Soprattutto l’abbigliamento è particolarmente curato con kimono dai colori sgargianti, gonne sovrapposte e una serie di elementi ornamentali quasi codificati per le donne delle case di piacere. Anche la capigliatura in queste stampe era molto curata ed elaborata.

Le immagini ritraggono queste bellezze nelle più diverse situazioni, a figura intera, sedute e mentre leggono, quando camminano,  brillanti decorazioni con motivi geometrici o floreali  negli abiti e atteggiamenti spesso sensuali. Vi sono anche “‘immagini pericolose’ (“abunae”), che lasciano intuire la scelta amorosa senza esplicitarne l’aspetto sessuale, come è invece tipico delle stampe erotiche (“shunga”).

La vita del maestro Hokusai

Premesso il contesto in cui si colloca la sua arte, in particolare la formula particolare dell’ “ukiyoe”, possiamo cercare di delineare il profilo caratteristico di Hukusai che ne è stato il massimo esponente, precisando subito che cambiò il proprio nome più volte, in corrispondenza con le diverse fasi evolutive della propria vita artistica, quasi a volerne marcare le svolte.:

Il suo nome era Tokitarò, nacque a Edo nel 1860,  fu adottato e, dopo essere stato da adolescente fattorino in un biblioteca, entrò come apprendista in una bottega di intaglio xilografico, di qui nasce l'”ukiyoe”, Poi entra nello studio artistico di  Shunsho Kawamura, fondatore della scuola omonima, dal 1779 al 1794 firma le sue prime opere come Shunro la cui parte iniziale evoca il nome del maestro, raffigura soprattutto attori di teatro  e illustra libri di narrativa popolare nello stile della scuola Kawamura, con pose fisse e poca  attenzione ai dettagli. . .

Nel 1795 passa nella bottega di Sori Tawaraya, fondatore di un’altra scuola omonima, e firma con il nome Sori quando ne prende la guida fino al 1798, muore la prima moglie lasciandogli tre figli piccoli, si sposa di nuovo ed ha altri due figli. Il suo stile ora si avvicina a quello di un altro maestro particolarmente in voga, Utamaro, comincia a dedicarsi al paesaggio nel quale è destinato ad eccellere, inizia ispirandosi alla prospettiva occidentale sull’esempio di un altro maestro, Shiba Kokan, ma mantenendo i caratteri orientali della sua arte.

In tal modo, allontanatosi dallo stile della scuola Tawaraya e sentendosi in grado di operare in modo autonomo,  prima dell’inizio del 1800 cede il nome Sori  a un allievo e si mette in proprio con il nome di Hokusai, letteralmente “studio del nord”, riferito non più a un maestro ma a una divinità collegata con la stella polare. Può approfondire la conoscenza delle diverse correnti artistiche, come quella dominante di Kano che innestava elementi dell’arte cinese classica nella tradizione giapponese, divenendo  più libero nell’esprimersi, è il periodo di maggiore impegno artistico. Il suo stile diviene più penetrante nelle figure umane che tende ad inserire in  paesaggi e ambienti naturali.

Di questa fase si narrano episodi apparentemente sconcertanti, che mostrano come fosse creativo, eclettico, e anche d’avanguardia: si va dalla pittura su un granello di riso – un volo d’uccello – ai duecento metri quadri di carta dipinti a terra in pubblico con l’immagine del fondatore del buddismo, l’intero dipinto poi fissata su un supporto ligneo di pari dimensioni, sembra cronaca contemporanea. Come  appare d’avanguardia la sua inventiva in una gara pittorica allorché, dopo aver tracciato delle strisce blu sulla carta stesa a terra, vi fece passare un gallo al quale aveva  intinto le zampe di rosso.

Tutto ciò fa capire anche l’irrequietezza nei cambi di nome, nel 1810 lascia anche questo nome, con cui è divenuto celebre e che oggi viene citato  per l’intera sua opera, a un allievo, pur usandolo ancora saltuariamente, e prende il nome di Taito, l’abbreviazione di Taihokuto, una stella dell’Orsa minore. Si dedica alla didattica con un corso di disegno basato su forme geometriche, con i  “Manga”, che sarebbero i fumetti asiatici, ma li interpreta diversamente, 15 volumi  con un’infinità di immagini di persone  animali, divinità e architetture;  e una serie di altre opere educative, dalla danza alla pittura alla spiritualità. Non disdegna il genere erotico, con il libro “Spasimi d’amore” e l’immagine della donna rapita da un polipo.

Alla fine del 1819; al compimento dei sessant’anni, con cui i giapponesi concludono un ciclo astrologico, cambia di nuovo il nome con cui si firmava in Jitsu, “nuovamente uno”, in effetti sentiva l’ansia del rinnovamento, si dedica anche ai “surinomo” in contatto con gli ambienti letterari e a lavori di grande abilità tecnica e di notevole creatività.  I suoi animali sono sempre più il riflesso di caratteri umani mentre per la figura umana torna allo stile iniziale della scuola Katsukawa.

E’ la fase dei maggiori capolavori, come le “Trentasei vedute del monte Fuji”,del 1830,  tra cui il clou del cono rossastro del monte  e l’icona della “grande onda” – il cui successo fece estendere il programma a cento opere, ma  ne furono prodotte 46. In questo modo il paesaggio tornò ad essere dominante come era stato nel passato, e seguirono molte serie di grande importanza di vedute delle località più rinomate e degli ambienti naturali più spettacolari come le “Cascate”. Combinò le immagini paesaggistiche anche con le storie  e le immagini di poeti in scene di grande effetto.

L’irrequietezza non si placa, a 75 anni nel 1934 cambia di nuovo nome, da Jitsu passa a “Manji”, di origine buddhista, lo mantiene fino alla morte del 1849. Non si placa neppure la straordinaria vitalità artistica, tra il 1835 e il 1849 abbiamo le “Cento vedute del monte Fuji”, questa volta non sono stampe policrome, ma in nero e grigio ma con toni suggestivi.

Nonostante si impegnasse molto nel lavoro artistico e godesse di un’alta consideraazione, nell’ultimo quindicennio di vita finì nelle ristrettezze, anche per la crisi economica che colpì il Giappone; perciò  si trasferì nella penisola di Miura, a 50 chilometri da Edo, ma  vi tornò nel 1836, poco prima della grave carestia del 1837 che seminò miseria e fame. Non solo, ma l’incendio scoppiato in città nel 1939 distrusse la sua casa  con i dipinti che conteneva, una “summa” della sua lunga attività. 

Riuscì  tuttavia anche  a produrre le stampe di “Cento poesie per cento poeti”, poi negli ultimi anni si dedicò ad opere singole, spesso aventi per con soggetto degli animali cui attribuiva significati particolari. L’ultima sua opera fu il “Libro illustrato sull’uso del colore”, aveva 88 anni, tre volumi di cui due pubblicati nel 1848. Vi si raffigura con  pennelli tra le dita di mani e piedi e in bocca. Con questa immagine si piace passare dopo la sua vita alla sua arte.   

Hokusai, l’ispirazione dalla natura e dalla poesia

Cominciamo con  le parole di Henri Focillon, il critico francese che nel 1914 in una biografia rivelatrice ne sottolineò la popolarità assunta in Francia analizzandone personalità, motivazioni e stile pittorico, dicendo che  Hokusai riusciva a vedere nella natura “uno splendido scenario ricco di apparenze”.  Ciò perché fa parte di quegli artisti che, a differenza di coloro per i quali l’arte si circonda di mistero, “non li incalza il senso della vita, ma la vita stessa che passa. Cercano di captarla senza pietrificarla. Né si affaticano a sovraccaricarla di simboli o di pensieri”.

In termini positivi: “La vita inebria l’ispirazione di questi pittori senza ottunderne l’osservazione. Ciò che li attrae non è il fatto che la vita sia misteriosa e profonda, ma che sia istantanea e diversa.. Un’attività instancabile li spinge ad essere duttili e rapidi come la vita  che assumono a modello”.  Ed è stato proprio instancabile Hokusai con le 3000 silografie policrome, i 1000 dipinti e i 200 libri illustrati, migliaia di opere prodotte in 70 anni di attività, del resto nella mostra a lui dedicata nel 2014 a Parigi sono state presentate 540 sue opere, a cura del suo grande conoscitore Nagata Seiji che nel 20015 aveva presentato  a Tokyo 490 opere del maestro e anche la mostra attuale è molto ricca.

Focillon non colloca Hukusai tra i pittori realistici, bensì tra i “pittori dei fenomeni terrestri attuali. Infatti, proprio alla varietà dei fenomeni essi applicano tutte le risorse di un’arte che ha come principio la curiosità e come fine una sintesi espressiva”.

Una sintesi che la Menegazzo identifica nella serie di “Trentasei vedute del monte Fuji”, considerata il suo capolavoro, in cui anche se protagonista assoluta è la montagna sacra, “Hokusai incorpora come tema principale l’azione umana quotidiana, descritta in modo vivido e vivace, e una spazialità drammatica”. Ed ecco come ciò avviene: “In primissimo piano, ma decentrato rispetto al centro dell’immagine, c’è l’uomo, che lavora, si diverte, immerso nel paesaggio di una qualche provincia riconoscibile per un particolare luogo, ponte, scoglio, monte, fiume, per la presenza di una locanda, una casa da te, un tempio o santuario, o per uno scorcio da cui si può scorgere in lontananza la silouette del monte Fuji”.

 Il significato che assume è questo: “Una presenza costante, un punto di riferimento che segna il limite tra l’umano e il sacro ma che trasmette anche una prima consapevolezza di unità nazionale sotto il simbolo del Fuji”.

Sotto il profilo formale “Hokusai studia le sue composizioni secondo linee di forza precise, lasciando tra il soggetto in primissimo piano e il lontano monte Fuji  uno spazio decorativamente pieno, ma allo stesso tempo libero e vuoto (‘yohaku’) per lasciare libertà d’interpretazione all’osservatore”.

Koike Makiko ricorda l’emozione provata da bambina durante un’escursione sul monte Fuji in cui non solo riconobbe “i colori del celebre Fuji rosso’ di Hokusai”, ma percepì “la sacralità della montagna” e la suggestione del rito che “insegna a raggiungere la purezza attraverso la liberazione delle illusioni che riceviamo per mezzo di occhi, orecchie, naso, bocca, corpo e coscienza”. E commenta: “Credo che siano esperienze come queste ad alimentare in maniera spontanea la reverenza nei confronti della natura. La sapienza necessaria alla quotidiana convivenza con la natura ha edificato la cultura spirituale  degli uomini, ed è grazie a questo contesto culturale che riusciamo a percepire il sacro nella raffigurazione di un paesaggio quale quello del monte Fuji”.

Ci siamo soffermati su questo particolare soggetto della sua ispirazione per entrare nella spiritualità dell’artista prima di visitare la sterminata  galleria di opere di cui le vedute fanno parte insieme a tante altre. La visione dell’umano in un alone di spiritualità non è ispirata soltanto dalla maestosa montagna sacra, si alimenta anche di influssi poetici come nella serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati della balia” del 1935, peraltro rimasta incompleta perché non ebbe successo.

La Makiko osserva come in “Sangi Takamura” di tale serie,  sul poeta destinato all’esilio, “le splendide gradazioni di blu delle acque sembrano sottolineare la bellezza del paesaggio e la fecondità del mare; mentre la nostra attenzione indugia sulle quotidiane fatiche in cui sono impegnati uomini  e donne in questo scenario maestoso”. Sono compresenti  l’impegno delle pescatrici e la gioia dei pescatori per l’abbondante pesca, insieme al dramma del poeta, pur indomito, il che fa concludere: “Questa immagine non si limita a rappresentare il paesaggio cantato nella poesia: è un paesaggio dell’anima in cui si rispecchia la vicenda umana del poeta”.

Dal punto di vista stilistico, una particolarità dell’artista sottolineata da Kawai Masatomo, direttore del Chiba City Mueseum of Art, è  l’avere innestato in modo assolutamente originale sulle tecniche tradizionali elementi della cultura pittorica occidentale come la prospettiva e il chiaroscuro utilizzati in modo, però, del tutto personale,  in quanto vi “sovrappone elementi non presenti in occidente prima del XIX secolo come le forti modulazioni tipicamente orientali della linea, il contrasto tra le campiture di colori scelti all’interno di una limitata gamma cromatica, la rappresentazione deformata dei soggetti”.  La stesura del colore come la pennellata è leggera, in punta di pennello.

L’artista ha utilizzato il “Berlin blue” (“berorin ai”)  dal 1831 al 1834 insieme ad altri colori rendendo più brillanti acqua e cielo con la  tecnica del “bokashi”. A questo punto, nel 1835, Hukusai  a 75 anni lascia le silografie policrome prodotte in ampie tirature e si dedica alla pittura prediletta più intima e personale in esemplari unici.

Sono tanti i soggetti rappresentati da Hokusai, anche se abbiamo voluto sottolineare in modo particolare le due serie che ci sembrano rappresentare motivi particolarmente intensi e profondi. Lui stesso dice che a 73 anni “ha cominciato  a intuire la struttura di animali e uccelli, insetti e pesci e la natura di erbe e piante”, infatti  non mancano nella mostra queste raffigurazioni.  Come non mancano immagini femminili, anzi “le cortigiane di Hokusai” erano rinomate, ben prima che il suo epigono, Eisen, di cui parleremo al termine, divenisse specialista nella rappresentazione della beltà femminile nel “bjinga”.

Inoltre l’artista si è dedicato a un altro tipo di lavori per la gente comune, come le silografie policrome del gioco del “sugoroku” con disegnate località a lui  note in una sorta di gioco dell’oca in cui si va avanti e si torna indietro con il lancio dei dadi, sembra incredibile dopo quanto abbiamo detto sui motivi ispiratori di fonte spirituale  e poetica. Ma tale era la sua  curiosità e la sua ricerca instancabile volta ad approfondire “il senso recondito delle cose”  penetrandone l’essenza, fino ad affermare: “A cento anni avrò forse veramente compreso la dimensione del divino. Quando ne avrò centodieci anche un punto o una linea saranno dotati di vita propria”. Per concludere: “Spero che quelli che godranno di lunga vita potranno verificare se quanto affermo sarà vero”. 

Toccò quasi i 90 anni, e non possiamo dire se riuscì ugualmente a realizzare questi desideri. Ma tutti hanno potuto constatare la sublime capacità di sintesi del suo capolavoro, l’icona della sua arte, “”La [grande] onda presso la costa di Kanagawa” rappresenta la titanica lotta dei marinai su fragili barchette per non essere travolti dai giganteschi marosi, sintesi raggiunta dopo una serie di opere sul tema, anche di trent’anni prima.  “In questa immagine .- commenta la Makiko – Hokusai fissa tutta la bellezza e la tensione di un singolo istante”.

E’ un’immagine ben diversa da quelle della montagna sacra, anche se fa parte del ciclo “Trentasei vedute del monte Fuji”. Il monte che, lo diciamo in conclusione, è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità come “luogo sacro e di ispirazione artistica”, per aver alimentato la religiosità popolare da un lato, la creatività di scrittori, poeti, pittori dall’altro. E di certo, gli “ukiyoe” di Hokusai hanno avuto un ruolo significativo per come ne hanno fatto sentire l’intensa spiritualità anche in occidente. Ne parleremo prossimamente nel raccontare la visita alla mostra.

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questo sito l’8 e 27 dicembre p. v., con altre 12 immagini ciascuno.  Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Le prime 8 sono opere di Katsushika Hokusai della serie “Trentasei vedute del monte Fuji”, 1830-31: in apertura, “La [grande] onda presso la costa di Kanawaka” , seguono,”Ushibori nella provincia di Hitachi” , e “Ruota idraulica a Onden”; poi, “Il pino a cuscino nel parco di Aoyama”, ed “Ejiri nella provincia di Suruga”; quindi, “Il Fuji da Gotenyama presso Shinagawa”, e “Il passo Mishima nella provincia di Kai”; noltre, “Temporale sotto la cima”. Le ultime 4 sono opere di Keisai Eisen: la prima, “Mode delle donne delle quattro classi sociali: samurai, contadini, artigiani, mercanti”, 1828.30, seguono “Atayoyama. Donna dall’aspetto annoiato” 1822-23, e “Beltà sotto le luci serali ad Akiba”, 1818-30; in chiusura, “Monakanotsuki del negozio di dolci Takemura” 1818-30. 

Annalia Amedeo, porcellane artistiche nelle “Sinestesie” alla “Casina delle Civette”

di Romano Maria Levante

Nella mostra “Annalia Amedeo. Sinestesie. Natura. Storia. Arte”, alla “Casina delle Civette” nella Villa Torlonia, a Roma,  sono esposte, dal 21 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018, circa 30 opere di porcellana  realizzate dall’artista negli ultimi cinque anni, e raccolte nel segno delle “sinestesie”, percezioni sensoriali in sequenza misteriosa. Promossa dall’Assessorato alla crescita culturale di Roma Capitale e presentata dal Centro Studi per la Storia della Ceramica Meridionale diretto da Guido Donatone, è a cura di Elena Paloscia la quale ha curato anche il Catalogo che contiene saggi suoi,  di Donatone e  della Massafra, responsabile del Museo.

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E’ la terza mostra che seguiamo alla “Casina delle Civette”, all’interno del  parco di Villa Torlonia, e siamo sempre presi dallo stupore di come le opere esposte si inseriscano in un ambiente così particolare al punto che sembrano far parte dell’arredamento. Eppure si è trattato di opere molto diverse, dalle civette in tutte le varianti possibili ai “putti” scultorei di Wal ed ora alle porcellane di Annalia Amedeo. Il clima liberty della palazzina si presta alla vera e propria incorporazione delle opere presentate, per cui sembra difficile poterle rimuovere al termine della mostra, quasi come se si asportasse un qualcosa entrato a far parte intimamente di un contesto così particolare. C’è anche maestria nella scelta degli artisti espositori, e di questo va dato atto alla direzione del Museo.

La responsabile Maria Grazia Massafra, per la mostra attuale, ne parla espressamente, riferendosi alle porcellane della Amedeo: “La forza onirica e visionaria delle sue creazioni è la stessa che anima il decorativismo naturalistico della Casina delle Civette e il linguaggio simbolico dello stile floreale”. E lo spiega così: “La linea serpentina e filiforme della decorazione Liberty vivifica, con il ritmo della danza e della musica, le forme che l’artista aggrega secondo schemi di natura organica”. Con questo effetto: “Le sue opere creano suggestioni fantastiche, il cui significato simbolico viene accresciuto dall’assenza del colore che lascia liberi di immaginare senza l’illusione della mimesi”.

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La porcellana nel processo creativo dell’artista

Prima di penetrare nei contenuti delle opere con i relativi significati simbolici, una premessa sul materiale in cui sono realizzate, con le parole di Guido Donatone, Direttore del Centro studi per la storia della porcellana meridionale, che rievoca come dal composto di quarzo e feldspato dell’antica Cina, nel ‘700 si sia giunti alla porcellana aggiungendo il bianco caolino: “Il composto si trasformò in magma duro, compatto marmo pario; non si scalfiva neanche con la punta di diamante. Il segreto passò, poi, a Capodimonte”.

L’artista, nata a Napoli, evidentemente è stata colpita anche dai reperti di porcellana che vi sono stati rinvenuti, “forse  archetipi inconsci delle avvolgenti sculture” da lei realizzate con un processo creativo prima, produttivo poi, così descritto:  “Le dita della scultrice trasmettono leggere vibrazioni sensoriali. Animano un arcano impasto  materico: è il mezzo espressivo da lei privilegiato, destinato col fuoco ad alta temperatura a divenire porcellana dopo aver assunto nelle sue mani forme intricate, tormentate, plastico-cromatiche”.

In tal modo, prosegue Donatone, “la ceramista Amedeo ha interiorizzato la porcellana. Si è avvalsa della precedente  esperienza di restauratrice per  impadronirsi magistralmente  delle tecniche di fabbricazione: ha impiegato il gres, le terre refrattarie, ma il medium privilegiato è la porcellana lavorata in strati sottilissimi”. Il risultato, sotto il profilo materico, è  suggestivo: A volte le opere restano prive di cristallina: in niveo bisquit. Oppure candide, perfette porcellane invetriate, spesso solo screziate con verde ossido di rame, e impreziosite all’esterno con venature di fili di rame e ottone: leggere, fluttuanti, librate installazioni. Per alcune sculture, invece, impiega in seconda cottura sali metallici di ferro e cobalto con esiti cromatici di delicato, serico, vellutato tessuto”.

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Queste parole, nelle quali  si sente l’amore per un materiale così particolare come la porcellana che accomuna l’artista e lo studioso, rivelano il ricamo materico ideale per esprimere contenuti così delicati come quelli che animano la produzione della Amedeo. Si va dalla Natura,  alla Storia all’Arte –  titoli delle 3 parti della mostra – senza soluzione di continuità, come approfondimento di un’introspezione sempre più intima e raccolta, che cerca all’esterno le forme per esprimersi.

Le “sinestesie” sensoriali nel processo creativo,

L’introspezione è definita “sinestesie” perché se ne possa percepire l’iter movimentato: si tratta, infatti, di una sequenza sensoriale tra percezioni successive, anche molto ravvicinate fino ad essere contemporanee, che possono risultare in contrasto tra loro, come lo sono le diverse sensazioni che dà la porcellana, di delicatezza e morbidezza da un lato, di durezza e asprezza dall’altro.

La curatrice Elena Paloscia spiega così il percorso, pur istintivo, della nascita delle creazioni dell’artista: “E’ il flusso di un discorso dalla sequenza non necessariamente univoca perché nei processi interiori che sottendono il suo lavoro spesso alcune intuizioni hanno bisogno di tempo per palesarsi, altre invece si manifestano repentinamente, mentre su altre ancora è necessario riflettere, talvolta tornare”.  Uno “slittamento percettivo” che si esprime anche nei temi prescelti e nei contenuti.  Essi, infatti, “sono classici, talvolta ancestrali, fino a sfiorare la dimensione astratta, ma ci appaiono contemporanei nella struttura sintattica con cui l’artista articola il racconto”.  

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 Tutto chiaro e semplice, dunque? Non è così, se la Massafra osserva: “Tutte le sue opere hanno una densità simbolica ambivalente: nella luce primaverile si percepisce un’ombra minacciosa, nel volto solare della divinità rigeneratrice si intuisce la presenza minacciosa e notturna dell’oscurità”. E se “le misteriose presenze femminili hanno capigliature sinuose” non è soltanto un fatto estetico ma “rinviano all’archetipo mitico della medusa” dove la chioma evoca “apparizione, visione, mistero”.Mentre la stessa  Paloscia avverte: “E’ un fare arte personale e fuori dagli schemi, con uno sviluppo che può essere raccontato e spiegato, ma i cui esiti non saranno mai compresi fino in fondo”.  

Ed è con questa consapevolezza che ci accingiamo a passare in rassegna le opere esposte, nelle tre parti, Natura, Storia e Arte,   in cui – sono sempre parole della curatrice – “diventano protagonisti la foglia, il fiore, la coppa, il fossile e la maschera, declinati secondo un sentire intimo, espressione di un percorso lento, di trasformazione, che ricalca i tempi dell’esistenza stessa”.

In effetti, le immagini evocano memorie remote e insieme presenti, dalle foglie ai fiori declinati in modo suggestivo, alle conformazioni fossili molto particolari fino alla classicità anch’essa rivista in modo sorprendente. Ambivalenza anche qui, le opere vengono presentate come qualcosa di nuovo, anzi d’antico, e viceversa. Lo vedremo citandole tutte ad una ad una.

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 La natura e la storia: viluppi, strati e cavità con richiami ancestrali 

Si nota una  perfezione stilistica e una grazia espressiva che vanno oltre la pura forma per investire il contenuto che l’artista vuol dare alle sue creazioni. E’ la ricerca di qualcosa di più profondo oltre l’apparenza esteriore, dalle foglie alle coppe la cui cavità viene esplorata aprendola a un’osservazione ansiosa di rivelarne gli intimi recessi. Forse per questo viene citata la massima di Baudelaire: “La Natura è un tempio dove incerte parole  mormorano pilastri che sono vivi, una foresta di simboli che l’uomo attraversa nei raggi dei suoi sguardi familiari”.

C’è tutto in queste parole, la sacralità che incute rispetto e i pilastri vivi nella candida porcellana, la foresta di simboli che riporta alle origini di tutto,  gli sguardi familiari che cercano di penetrare.

In apertura della parte dedicata alla “Natura”, “Leaves installation”, 2013-15 presenta  le foglie nelle loro larghe volute non appesantite dalla solidità della porcellana, mentre l’installazione del 2014 dallo stesso titolo le mostra distese su un supporto marrone di tipo arboreo, in uno dei contrasti cromatici che rompono la sostanziale monocromia dell’insieme.

Con “Root kinesis“, 2015, si cerca di penetrare nelle radici, è un viluppo di strati leggerissimi che nell’anno successivo ritroviamo con un’indoratura marroncina di sali metallici in “Tracce sensibili”. Sono viluppi che si elevano verso l’alto, mentre in precedenza erano stati creati più in orizzontale in “Bind”, 2014 e “Oblations”, entrambi a coppie.

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L’installazione “Verso”, 2017, va oltre la naturale espressione vegetale, è costituita da una molteplicità di elementi diversi tra loro per minime varianti, in una sequenza creativa in cui la foglia subisce un processo di mutazione che la fa diventare corolla e fiore in un crescendo che coinvolge l’osservatore nella visione d’insieme e nel contempo nell’osservazione di dettaglio.

Finora si è trattato di porcellana candida,  a parte l’indoratura marroncina delle “Tracce sensibili” e della “Leaves installation” del 2014 e qualche leggera striatura in altre. Ma con “Blue-seed”, 2016,  sul candore della coppa sottostante si calano delicate conformazioni in celeste tenue,  più invasive delle piccole presenze celesti nelle bianche cavità di “Le foglie dentro # 1 e 2”, 2015. “Forme organiche”, 2015, mostra l’analoga cavità senza altre aggiunte.

Cavità candide  anche nelle prime opere che citiamo della parte dedicata alla “Storia”, al contrario di “Blue.seed”  sono le piccole coppe cave ad essere appoggiate su un supporto che evoca la sezione degli alberi  da cui si ricava l’età secondo il numero dei cerchi, forse per questo è marroncino. E’ come un richiamo alle origini della vita,  immagini ancestrali  che danno il titolo alla serie.

In  “Memoria fossile # 3” e “# 4”  il supporto richiama proprio la sezione dell’albero, mentre  in “Memoria fossile # 2”, tutte del 2017, il supporto è ancora un disco marrone ma non vi sono poggiate le due cavità, perché sono al centro di una sorta di irradiazione progressiva, riteniamo del senso della vita. Richiamo ancora più evidente in “Memoria fossile # 1”, 2016, dove al centro dell’irradiazione c’è qualcosa di diverso e di più allusivo che solo “uova dischiuse”.  in “Memoria fossile # 5“,  2017 le “uova dischiuse” si sono moltiplicate, il supporto  resta un sottile disco marrone.   

E’ il processo vitale della trasformazione legata all’esistenza che in “Madreforma # 1” e “# 2”, 2017,  assume aspetti diversi, ancora cavità ma ora percorse dai “cerchi della vita” oppure forme chiuse segnate nello stesso modo.

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L’arte, la Venere classica in trasmutazioni simboliche

Fin qui la genialità dell’artista ha  innestato il senso della vita nelle conformazioni floreali unite a memorie arboree e riferimenti ancestrali, lo abbiamo visto declinato in “natura” e “storia”. Nessuno shock né spiazzamento per l’osservatore, ma stimolo a penetrare i significati reconditi.

Questo stimolo è ancora più pressante dinanzi alle opere della serie dedicata all’“Arte” perché vi si aggiunge lo shock e lo spiazzamento. Né altro potrebbe esserci dinanzi alla perfezione del volto della classica Venere capitolina deturpato, sfregiato e  quasi aggredito, la sua bellezza brutalmente violata. E usare tale  avverbio avendo parlato finora di perfezione e delicatezza stilistica è tutto dire.Non ci basta ricordare l’avvertimento della curatrice che siamo “fuori dagli schemi”, per cui pur trovando le spiegazioni dell’itinerario artistico i suoi “esiti non saranno mai compresi fino in fondo”, a prima vista non comprendiamo nulla di tale profanazione. Ma basta approfondire la materia per entrare, sia pure con maggiore difficoltà che per le altre opere, nell’ambivalenza e nel simbolismo, qui particolarmente complesso.  All’evidente riferimento classico a Venere, dea della bellezza, si aggiungono rinvii anche ad Euridice  e  a Dafne; in più a un racconto di Primo Levi che ha  ispirato un ciclo di 4 immagini di Venere molto particolari. Perché tutte le opere della serie dedicata all'”Arte”  presentano il la testa scultorea di Venere dal bellissimo viso variamente “aggredito” soprattutto da foglie che arrivano a tappare la bocca e gli occhi, o a posarsi sul viso.

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Il rinvio ad Euridice è motivato dalla leggenda secondo cui lasciava una scia di foglie perché la trovassero salvandola dall’Ade; quello a Dafne perché, per sottrarsi alle insidie di Apollo mutando i sui capelli in figlie ondulate chiamava a soccorso le divinità fluviali che la proteggevano. Ecco perché le foglie sul viso di Venere, che non è vuol essere un reperto museale nè un’immagine meramente estetica, ma un qualcosa di vivo dal carattere fortemente simbolico! Il ciclo “Come tu mi vuoi”, 2015,  presenta 5 immagini del viso scultoreo di Venere, su cui si posano delle foglie, in bocca o negli occhi, o sulle guance; in “Come tu mi vuoi # 4”  è coperta interamente la parte superiore del volto come da una maschera.

Un racconto di Primo Levi ha ispirato l’artista nell’opera “Angelica farfalla”, 2017, altre 4 immagini del viso di Venere in parte coperto da foglie;  il racconto ha lo stesso titolo e si è ispirato a sua volta al Purgatorio allorché Dante parla della trasformazione in creatura superiore, da larva a farfalla od angelo; però la mutazione nel racconto di Levi è mostruosa  nascendo dalla mente criminale nazista e si conclude  con una catarsi liberatoria della popolazione tedesca. “Allo stesso modo – commenta la Paloscia –  Annalia Amedeo  su quella maschera universale proietta emblematicamente la possibilità per l’essere umano di giungere ad un nuovo stato di coscienza  attraverso  una temporanea morte simbolica cui segue la rinascita”. 

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La farfalla era simbolo dell’anima, nasce dal bruco e  dopo un breve vita può rinascere. “Di questo straziante e bellissimo percorso l’artista lascia traccia  e lo fa con il suo lessico consueto che muta però nelle scelte cromatiche e nella finitura della superficie, che  a tratti perde la sua preziosità diventando scabra proprio come un percorso verso una nuova carnalità”.

Guardiamo i 4 volti, soprattutto nell’ “Angelica farfalla # 2”, come osserva Donatone, “sul divino, candido viso della dea germogliano tracce impure, foglie accecanti, invasive, taglienti. Segni proclamati dell’immagine della donna violata’, privata della sua integrità”; nel “#1” e “# 4″, il viso è integro ma sono tappati da foglie e altro rispettivamente l’occhio destro e il sinistro; nella “#  3”  il viso invece è libero da ogni intrusione, un fiore è nei capelli con le labbra e le gote leggermente arrossate come per un ritorno al calore della vita.La trasformazione così si perfeziona,  il contenuto di spiritualità e il senso della vita, che nelle cavità rimanda addirittura all’origine genitale, approda alla liberazione e alla rinascita, la statua prende colore, si libera anche delle foglie e delle farfalle, Venere diventa Eva la progenitrice. In questa visione si supera lo shock per il bellissimo viso deturpato che nella quarta opera del ciclo torna a risplendere nella sua perfezione  pur con una certa mestizia nel capo leggermente reclinato.

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“Qualche volta il nostro angelo migliore depone le uova”, sono le parole di Ada Merini richiamate per la parte dedicata alla “Storia”. Le “uova dischiuse” le abbiamo viste rappresentate, ora troviamo le parole di Dante per la  parte dedicata all’ “Arte”: “Non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a  formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia senza schermi?”  Abbiamo visto anche l’angelica farfalla, Venere-Eva che l’artista ha fatto uscire dai Musei capitolini per darle vita; e anche se qualche foglia si è fissata sui suoi occhi e ne ha offuscato il viso, è stato momentaneo, dal bruco alla farfalla , dalle cavità genitali e dalle “uova dischiuse” la vita è entrata nelle gote di Venere-Eva.

E’ il miracolo dell’arte, dell’arte di Annalia Amedeo,  l’ambiente  particolare ed evocativo della “Casina delle Civette”  fa pensare alle sue opere  come a gioielli finemente incastonati.

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Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211. www.annalia-amedeo.it. Catalogo  “Annalia Amedeo. Sinestesie. Natura, storia, arte”  a cura di Elena Paloscia,  Editore Guida, Napoli, ottobre 2017, pp. 92,  formato 22 x 22. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per la precedente mostra collettiva alla Casina delle Civette, cfr. il nostro articolo, in questo sito,  “Civette, un’intrigante ‘civetteria’ alla ‘Casina’ di Villa Torlonia”,  15 marzo 2017.

Info 

Le immagini sono tratte dal Catalogo essendo risultate di cattiva qualità  le fotografie scattate alla presentazione della mostra, si  ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta.  In apertura, Angeliche farfalle # 1″, 2017;  seguono, Tracce sensibili”, 2015, e “Verso”. 2017; poi,  “Oblations”, 2015, e “Forme organiche”, 2015; quindi, “Le foglie dentro# 1!, 2015, e “Blu -seed”, 2016; inoltre,“Memoria fossile # 1”, 2016, e “Memoria fossile 2”, 2017; infine, “Memoria fossile # 5”, 2017, e “Angeliche farfalle # 4”, 2017; in chiusura, “Come tu mi vuoi”, 2015.

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Rigenerazione dell’arte, contro il degrado delle periferie, al Mitreo Iside

di Romano Maria Levante

Al Mitreo Iside di  Roma si è svolto il 26 novembre 2017 l’evento “La RigenerAzione dell’arte” che abbiamo preannunciato nei giorni scorsi:  un incontro-dibattito, una performance artistica  e la mostra d’arte con oltre 50 opere  di altrettanti artisti accorsi al bando dell’organizzazione, mostra aperta fino al 3 dicembre p. v,. Al di là del pur rilevante aspetto artistico sono emersi elementi strettamente connessi, forse prevalenti, di notevole importanza  per una mobilitazione  corale nel riscatto dal degrado urbano all’insegna della potenza rigeneratrice dell’arte dimostrata  in una realtà come Corviale che ha saputo voltare pagina con questo impulso divenuto salvifico.

Siamo andati alla manifestazione soprattutto  per il ricordo di Angelo Cesselon, cui è stata dedicata un’apposita performance. L’abbiamo fatto  in omaggio all’ “uomo dei sogni” cinematografici della nostra infanzia e prima giovinezza con la sua pittura per il cinema che imprimeva nella nostra fantasia  i volti dei grandi divi dei film in modo da farci sognare già prima di entrare al cinema; e anche con la curiosità di vedere le numerose opere d’arte esposte nel felice concorso  di tanti artisti.

Ebbene,  l’interesse perla performance su  Cesselon  e per l’esposizione artistica era ben riposto, anzi la nostra soddisfazione ha superato le aspettative. Ma c’è stato qualcosa che a nostro avviso va oltre la memoria personale e il fatto artistico e può incidere, al di là di quanto si possa immaginare, sulla vita stessa della nostra città, se non viene lasciato cadere per indifferenza o insensibilità.

La rigenerazione delle periferie con la forza salvifica dell’arte  

Ci ha fatto pensare a tutto questo l’intervento di Gianluca Martone –  presidente del gruppo del Movimento 5 stelle del Municipio XI e membro della Commisisone cultura – il quale ha inquadrato la manifestazione  nella prospettiva dell’intera città, partendo dalla metafora con cui  James Joyce all’inizio del  ‘900 sottolineava criticamente la “situazione di profondo abbandono” in cui  versava Roma,  che si cercava di mascherare esibendo gli antichi ruderi, le “bellezze del passato”.  Martone ha sostenuto che occorre una “RigenerAzione”,  ponendo l’accento sulla A di azione, “e l’arte è uno degli strumenti per attuarla”. Resterebbero termini generici e non le “parole concrete” che ha dichiarato di voler dire se non avesse aggiunto che “il più grande nemico della RigenerAzione urbana può essere solo la politica”; ma lui, politico consigliere del Movimento 5 stelle nel Municipio XI, non sostiene il primato della politica come ci si sarebbe potuto attendere, bensì afferma che “l’arte è molto più potente della politica ed è per questo che da sempre è temuta dal potere”.  Queste parole hanno acuito il nostro interesse, che non è stato deluso.

Perché ha parlato di “rigenerazione  in senso sociale e morale, la parola indica rinascita, rinnovamento radicale, redenzione che si attua in una collettività”; in termini ancora più precisi è “un’azione che implica la volontà collettiva di rinnovamento al fine di trovare soluzioni innovative ma soprattutto migliorative”. Iniziative concrete, dunque,  non prospettive astratte, alle quali l’arte può dare l’impulso decisivo: “In questo contesto l’arte diviene un esercizio culturale potentissimo in quanto compie l’Azione di presa di coscienza e di conoscenza di quello che è stato il passato, dei percorsi rigenerativi precedenti, divulgando consapevolezza condivisa”, attraverso un’operazione creativa “che dà vita alla RigenerAzione”.

Ed è proprio la “RigenerAzione”  al centro dell’evento al Mitreo Iside, i cui organizzatori hanno il merito di aver innescato questo percorso virtuoso  concretamente, in una manifestazione in cui varie arti si sono  mescolate con i suoni e i colori, le parole  e le musiche, le forme e la sostanza di un impegno corale.

Ma non è ancora la scintilla che può far scattare la RigenerAzione, la innesca lo stesso Martone: “Nel Municipio XI l’Arte è Azione riprendendosi quello che da sempre è il ruolo che le spetta: interpretare il presente e decodificarlo per lasciarne traccia in futuro, nel nostro territorio imponendo in maniera fisica la rigenerazione delle periferie”. Parole  forti di un giovane politico laureato al Dams, il quale quindi conosce la potenza dell’arte dall’interno, che assumono una portata generale con il riferimento alle periferie.

Il tema della periferie  è  stato tra quelli al centro degli  “Stati generali del paesaggio”,  voluti dal ministro per i Beni, le attività culturali e il turismo Dario Franceschini, che ha concluso le due giornate del  25 e 26 ottobre u. s. al Palazzo Altemps ribadendo l’impegno del Ministero su questo fronte.  E’  intervenuto il Direttore generale competente sulle periferie, Federica Galloni, che ha parlato di una ricerca su 10 aree metropolitane in merito a servizi, beni culturali e creatività per avere orientamenti utili alla “rigenerazione urbana” nelle periferie in cui i “ben comuni siano i motori” della partecipazione diretta di cittadini e comunità.  Ebbene, ci sembra che a questa riflessione, premessa dell’azione concreta, potrebbe dare un valido contributo la  positiva esperienza del Mitreo. Perché può risultare pionieristica e diffondersi negli altri Municipi della Capitale in modo da creare quella spinta irresistibile alla rigenerazione urbana di cui si ha tanto bisogno nelle condizioni di profondo degrado della città, ben più gravi del “profondo abbandono” denunciato da Joyce nel 1906. “L’arte, ha concluso Martone, responsabilizza la cittadinanza da un senso d’appartenenza e nelle zone più degradate innesca un senso di riscatto sociale. La bellezza diviene quindi un’alternativa possibile”.

Di sorpresa in sorpresa, questo messaggio di superamento del degrado con una rigenerazione volitiva dettata dall’arte viene dal Mitreo Iside, struttura  a servizio di quello che una volta era disprezzato al punto di  farne ipotizzare l’abbattimento,  l’allora famigerato Corviale, “il palazzo lungo 1 km”, anzi due palazzi paralleli, un “sepentone” di 980 m. Che da simbolo del degrado diviene così emblema del riscatto; una sorta di “spem contra spem”, tale da far sperare che nella capitale possa tornare la “grande bellezza” altrimenti destinata a restare nella memoria della “Roma sparita”. Una grande bellezza da recuperare con l’esplodere della creazione artistica nei municipi e la sua esibizione, come al Mitreo Iside, al punto che l’indifferenza e la rassegnazione al degrado e all’abbandono diventino inconcepibili: si creerebbe l’alternativa visibile dell’impegno volitivo nell’arte e questa sarebbe una comparazione troppo stridente per non suscitare la doverosa assunzione di responsabilità da parte di tutti. E ben venga che l’arte abbia per queste alte finalità il primato sulla politica.

La pratica rigeneratrice dell’arte nell’archetipo di Corviale

“La pratica rigeneratrice dell’arte” è stata approfondita da Monica Melani, curatrice dell’evento e direttrice dal 2007 del “Mitreo Arte contemporanea” di Corviale. Tale struttura, di cui è ideatrice e fondatrice, è stata concepita fin dall’inizio integrata nella “rete di beni relazionali e buone pratiche chiamata ‘Corviale Domani’, oggi APS”, di cui è vicepresidente,  con la finalità di strappare dal degrado una periferia dall’assetto anomalo, quindi più attaccabile dalle spinte degenerative se non si iniettano, come si è fatto, potenti anticorpi.

E’ un chiaro orientamento che riflette la sua formazione nell’Accademia delle Belle Arti e nell’Istituto di psicosomatica, alla base del suo impegno nell’esplorare “le  dinamiche fisiche e metafisiche del processo creativo”, alla ricerca, sono sue parole, “dell’invisibile filo che tutto unisce e di un’arte al servizio dell’essere umano”. Ricerca durata venti anni, sui rapporti tra arte  e psiche, culminata nella “pittura energetica”  e non solo.

Con una simile qualificazione assume particolare valore un’impostazione che supera l’evento contingente per divenire un archetipo, un modello cui fare riferimento su un piano più generale. Prende l’avvio dalla constatazione che all’arte non va riferito soltanto ciò che si sublima nel capolavoro: “Una cosa ‘fatta ad arte’ può non piacere a tutti, ma oggettivo è il suo distinguersi. Il suo andare diretto verso un bisogno, un richiamo che attira, per risonanza, chi può comprenderlo o avene necessità”. E questo perché si tratta di “una pratica naturale insita in ogni essere vivente e nella natura stessa che ‘realizza ad Arte’ tutto ciò che è funzionale alla Vita ed alla sua sopravvivenza, con una armonia e perfezione alle volte difficile da comprendere e da accettare”.  Ma che è impossibile ignorare essendo innata, anche se si deve risvegliare.

E’ il contesto culturale nel quale prende vita il “Progetto Mitreo” sin dal 2004, con l’intento, così espresso, di “rimettere al centro di un territorio, disagiato e separato dal resto della città, il ruolo salvifico dell’arte  e degli artisti, per educare a quella Energia Creativa che in tutto e per tutti gli esseri umani è espressione di unicità, da taluni chiamata ‘diversità'”. Con  delle potenzialità straordinarie, perché è un’energia radicata in ognuno e deve solo essere liberata: “Una ricchezza da accogliere, includere, comprendere, condividere, scambiare, espandere, trasformare… insieme all’unicità e diversità degli altri, riconosciuta e rispettata”. 

Non è astrazione teorica, è “una pratica che metta al centro la funzione Rigenerativa dell’Arte in quanto espressione del potenziale di ogni singolo individuo, a favore di un’intera comunità”.  Dà corpo al kennediano “non chiederti cosa lo Stato può fare per te ma ciò che tu puoi fare per lo Stato” perché fornisce alcuni strumenti per operare singolarmente ma nell’interesse generale, trovando l’equilibrio “fra il nostro essere, porci, progettare, ‘fare ad arte’ e quello degli altri  che, presenti in uno stesso spazio ci invitano al rispetto dell’altro, delle proprie produzioni e proposte, ma anche a metterci insieme per generare crescita personale  e prodotti culturali nati dall’incontro e dalla frequentazione”.

E se dalla crescita personale vengono “prodotti culturali”,  a maggior ragione si può sperare in comportamenti  quotidiani rispettosi degli altri: il pensiero va a quella parte del degrado come la pulizia urbana così carente che dipende da tutti e da ciascuno, oltre che dalle gravi deficienze dei servizi municipali a ciò deputati. La formula vincente per le periferie può nascere anche da qui, se viene raccolta la sfida e le autorità capitoline sono disposte a stimolare gli altri Municipi  a fare ciò che si è realizzato in modo così positivo nel  Municipio XI.

Nei giorni scorsi è stata diffusa la classifica sulla qualità della vita nelle città italiane, Belluno in testa senza neppure una cartaccia o una cicca di sigarette nelle strade, Caserta in coda,  mentre Roma, la capitale, la “città eterna” dalla storia gloriosa ha perduto in un anno 11 posizioni scendendo dal 13° al 24° posto nella graduatoria nazionale, e non ha più il primato che aveva nella “cultura  e tempo libero” sorpassata da Firenze, pur se anch’essa in discesa, mentre per l’ “ordine pubblico” si colloca addirittura al penultimo posto. E’ un’emergenza che fa tornare il pensiero allo storico “sacco di Roma”  non per un’impossibile analogia ma per sottolineare che allora seguì la rigenerazione proprio nel segno dell’arte.

Questo ci porta ad affermare che è giunto il momento di ripetere quella reazione vincente perché si è toccato il fondo, nell’inefficienza dei servizi ma anche nel decoro o meglio disdoro urbano, invasi dalla sporcizia e tormentati dalle buche; la via della rinascita è la stessa anche se questa volta non potrà intraprenderla il papa, ma dovrà farsene carico la cittadinanza con le proprie istituzioni.

 La forza dell’arte come atto creativo e come coinvolgimento virtuoso

Torniamo all’arte in senso stretto con l’intervento di Angelo Nardi, anch’egli  la collega ad altre discipline come la filosofia, in particolare quella del linguaggio in cui è laureato impegnandosi attivamente come operatore culturale: è l’estensore del “manifesto  per l’arte vivente a Roma” e in quanto tale sente in modo particolare l’esigenza di una rigenerazione che trovi nell’arte la molla per far scattare la reazione popolare. Da studioso di estetica organizza mostre d’arte e le divulga da giornalista, e così ha fatto per la mostra degli oltre 50 artisti espositori al Mitreo Iside, accorsi così numerosi al bando emesso per l’occasione.

Nella sua visione identifica la forza generatrice dell’arte non solo nell’atto creativo, ma anche nella sua capacità di “coinvolgere chi non ha alcuna relazionalità con il creatore. Le dimensioni evocate nella costruzione raffigurativa evidentemente toccano corde che non si sapeva di avere”. Ed ecco l’effetto più evidente: “Si stabilisce un contatto tra creatore e percipiente che senza l’espressione creativa non sarebbe avvenuto”, perché la visione utilitaristica della vita copre nella quotidianità “dinamiche sconosciute ma esistenti”.  In tal modo  può emergere “la generatività scoperta dall’arte come presenza nascosta, come capacità di evocare quel che altrimenti non avrebbe voce”.

L’introspezione va oltre: “L’artista ha il merito di generare, mettere al mondo, collocare tra l’infinità delle presenze ordinarie quel qualcosa  che nasce come uscente dall’ordinario, senza mai diventare straordinario, proprio perché scaturito, generato, da una naturalità espressiva che sarebbe delittuoso nascondere. Ed è qualcosa che ha sempre albergato  nell’umanità ed a vari titoli e funzioni l’accompagna nella sua storia”.

Un qualcosa di liberatorio dalle “clausole di salvaguardia della persona nella società”, quindi di rivoluzionario,  ma non di eversivo,  di condiviso e non di elitario. Questa rigenerazione vuole “semplicemente riportare la persona alla sua verità e trovare con altri, piani di complicità, comunanza e vicinanza altrimenti non immaginabili”. E non può essere questa la nuova spinta rigeneratrice delle periferie e non solo, tanto il centro di Roma è degradato, una spinta che può partire dall’arte per coinvolgere l’intera comunità?

Il messaggio è “prendere l’arte come metodica per comprendere sé stessi e cercare gli altri. Adottare un’opera per fare di sé la migliore opera realizzata in vita”.  Fino a giungere al paradosso che fa dire a Nardi “forse l’arte non esiste” per spiegare subito dopo “non esiste perché non è una eccezione. Fa parte integrante della vita di noi tutti e ciascuno ne è creatore e godente assimilatore (non fruitore)”.

E’ stata questa la premessa alla presentazione degli artisti da parte dello stesso Nardi che ha tracciato i tratti distintivi di ognuno con acutezza e capacità  interpretativa. Ne parleremo prossimamente, e daremo conto della performance “Donna – Cesselon & Cesselon”, una rievocazione suggestiva di tipo teatrale – con parole e immagini, nell’accompagnamento musicale di un pianista – di alcuni momenti fondamentali dell’itinerario di vita del grande pittore di cinema Angelo Cesselon che con i suoi volti dei divi e le sintesi magistrali dei film  ha fatto sognare intere generazioni alla vista dei manifesti ottenuti dai suoi bozzetti, prima ancora di assistere agli spettacoli nella magica suggestione della sala cinematografica.  

 Info

Mitreo Iside, via Marino Mazzacurati 61, Roma (Buon Pastore), Mostra Evento “La Rigenerazione dell’arte”. Dal lunedì al giovedì ore 14,30-20,00, venerdì 17,00-19,30; martedì e giovedì ore 8-12, sabato e domenica secondo eventi; ingresso gratuito. Catalogo “La RigenerAzione dell’arte”, Associazione culturale Mitreo Iside, pp. 70, formato 22 x 22, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il 1° dicembre p.v. Cfr., in questo sito, i nostri due articoli di presentazione dell’evento il 14 e 21 novembre u.s.  

Foto

Le immagini, tranne quelle di apertura e chiusura, che sono di repertorio, sono state riprese nel Mitreo Iside all’inaugurazione della mostra che sarà descritta nel prossimo articolo, si ringrazia l’Associazione culturale organizzatrice, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, il logo del Mitreo Iside; seguono, Emanuela Bellu, “La luna grossa”, e Alder, “Casa storta”; poi, Ernestina Zavarella, “Paesaggi”, e Paolo Residori, “Cabine”; quindi, Claudia Manelli, “Capriccioli al mattino“, e Roberto Pinetta, “La pallina gialla”; inoltre,  Adamo Modesto, “677sc – 11a – 016” (sopra), e Maurizio Bruziches, “Senza titolo”, ancora, Mario La Carrubba, “Cromaticamente Semiramide”, e Alessandro Piccinini, “Spazio ed ombre”;  prosegue, Inna Yanyeva, “Emozione”, e Francesca Boirsetti, “Fecondazione delle tenebre”;  più oltre, Adamo Modesto, “677 sc – 11a-016” (sopra), e Massimo Giovanni Di Carlo, “I sette vizi capitali”; infine, Monica Melani, “Aprirsi alla Realtà dell’Anima” e, in chiusura, un lato della vasta galleria espositiva del Mitreo Iside.. 

Marchi, tra futurismo, classicismo e razionalismo, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La mostra “Virgilio Marchi ‘Futur-classico-razionale. Opere dal 1910 al 1950”, espone  alla Galleria Russo di Roma dal 15 novembre al  7 dicembre 1917, un’ampia selezione di progetti architettonici, teatrali e non solo, con valore artistico per la qualità dell’autore, impegnato anche nel dare veste teorica alle proprie realizzazioni pratiche inserendosi attivamente nel dibattito tra le varie correnti: il futurismo che cercava il movimento, il classicismo la sobrietà, il razionalismo l’ordine. La mostra è a cura di Elena Pontiggia che ha  curato anche il catalogo di “Manfredi Editore”.

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La Galleria Russo prosegue nella  meritoria iniziativa di valorizzare gli artisti che hanno dato vita alla grande stagione del futurismo, la corrente artistica del ‘900 tipicamente italiana. Dopo Marinetti e Depero, Erba e Tato ecco Virgilio Macchi, una novità  trattandosi di architettura e scenografia, quindi attiene alle costruzioni e al teatro, dopo la pittura, la scultura e il design.

E’ un scoperta  interessante, che non è limitata al futurismo, e già sarebbe molto, ma si estende al classicismo e al razionalismo, i tre stili con i quali si è misurata  la sua attività progettuale, insieme al simbolismo e,  nella  fase giovanile, all’interesse per la secessione contro gli accademismi.

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Architettura e arte, il futurismo nell’architettura

Un artista precoce,  nato nel 1905, che già nel 1913, a 18 anni,  tenne a Livorno una mostra dei suoi progetti di edifici, in uno dei quali si riscontrano influssi secessionisti. A 21 anni conosce Balla e aderisce al movimento futurista  diventando, dopo la scomparsa di D’Elia,  uno dei maggiori esponenti  dell’architettura futurista , a 23 anni nella conferenza “L’arte è una vibrazione”  espone in modo organico la sua impostazione di architetto-pittore che cura l’espressività dei progetti insieme al cromatismo.

“Rivendichiamo l’architettura all’arte – scrisse nel 1919– accostiamola ai lirici,pittori, musicisti, poeti scultori… tutto  è architettura, poesia, musica danza, quando la materia si dimentichi in virtù di una lirica pura”, Pertanto, “è dunque l’architetto l’uomo versatile in tutti gli infiniti rami  dell’attività estetica”, per concludere: “Chi si cristallizza nella sola attività muraria  è incompleto, non basta all’architettura”, naturalmente si tratta dell’architettura futurusta.

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“Per Marchi non è l’architettura a essere arte, ma l’arte a essere architettura”, osserva la curatrice Elena Pontiggia nell’ambito di un’accurata ricostruzione del percorso dell’artista. E lo spiega così: “Non esiste architettura che non possa essere anche quadro e statua,  e che non possa avere valori espressivi prima che funzionali. Anche la costruzione, dunque, può e deve essere lirica cioè rappresentare gli stati d’animo dell’uomo. Oltre che lirica deve essere drammatica nel senso etimologico del termine: cioè dinamica, perché dramma significa azione e non c’è azione senza movimento”.

Il “movimento”, parola d’ordine del futurismo,  diventa anche requisito delle costruzioni,  per loro natura assolutamente statiche, anzi immobili, quindi nell’impossibilità di qualunque espressione.  Sembrerebbe un ossimoro di impossibile traduzione pratica, ma Marchi  individua la lacuna nel fatto che, mentre  nelle costruzioni  ci sono “tutte le possibili combinazioni di verticalità e orizzontalità, l’architettura non ha ancora sfruttato del tutto l’obliquità, l’eccentricità, la policentricità e l’infinità delle curve messe in valore dalle meccaniche”,  altra parola evocativa del futurismo. 

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Il rimedio si trova proprio in questi elementi geometrici non sfruttati  nei quali risiedono le forze che spingono “all’agitazione nello spazio”, quindi al movimento, il requisito mancante che nella concezione futurista è l’elemento vitale. E in materiali non appesantiti dalla “volgarità della materia”, ma nobili, come il vetro, per utopistiche e irrealizzabili cattedrali di cristallo. Le  strutture trasparente e soprattutto curve di Marchi nella “Città futurista” si contrappongono non solo a quelle opache e rigide della tradizione, ma anche al panorama di case e fabbriche bocconiano  

Il dipinto del pittore-architetto “Motivo plastico. Generatore”, 1919, esemplifica “le infinite direzioni, dinamismi e movimenti che le moderne strutture abitative possono intraprendere”.  Viene ricordato che si interesò anche dell’arte astratta, pur senza praticarla, consederandola “esteriorizzazione dello stato d’animo, dell’emozione sincera che ci viene trasmessa  dalla potenza delel cose e dei fenomeni”.

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Ma si devono a lui anche progetti avveniristici  ideati senza possibilità realizzative  con strutture oblique e aggettanti,  con piramidi e pinnacoli, come “Ricerca di volumi”, 1919, inseriti in città altrettanto irreali che come ottovolanti ruotano mentre sono percorse da vortici di volte ovoidali  e attraversate da mezzi di trasporto come proiettili. Esprimono “una vitalità febbrile”, la gioia di vivere dinamicamente in un perenne  movimento creativo .

Un’architettura non imprigionata da strutture immobili, ma espansiva ed elastica, provvista della “libera sensibilità meccanica”  di cui, secondo Marchi, è precursore il poeta Walt Whitman – quello dell'”Attimo fuggente”, sia detto per inciso –  fautore della poesia liberata dalla rima e dell’energia universale del cosmo.

Il  concetto della costruzione come stato d’animo è sviscerato nel suo libro“Architettura futurista”, 1924, che è stato preceduto da “Classicità futurista”, 1923,.secondo la quale “lo stile è disciplina”, quindi occorre la forza centripeta della classicità, mentre l’ortodossia futurista  postula lo “stile del movimento” per il quale occorre la forza centrifuga della libera creatività. La classicità e la disciplina non vanno bene a Marinetti e Prampolini, il disordine anarchico non va bene a Marchi, così concordano di usare un “linguaggio stilato”.

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Nel “Convegno sul paesaggio” organizzato da Marinetti nel 1922, fece un intervenne anche Marchi, e lo pubblicò nel 1924 in “Architettura futurista” insieme a dei disegni su Capri e sulla villa che  aveva progettato per Marinetti e la moglie, come vedremo, in stile mediterraneo,  non futurista.  Mentre lo stile futurista dominava nel disegno del 1924 “Terrazza della città superiore” con una Roma avveniristica in cui sulle terrazze atterrano piccoli aerei a servizio della città, la verticalità squadrata dei grattacieli è bilanciata dalla rotondità delle cupole e da strutture d’avanguardia. 

Antonella Greco pone l’interrogativo “se sia ancora futurista il di/segno di Marchi  in quella prospettiva di Roma con le terrazze aeroporto”, e dà questa risposta: ” Sicuramente lo è nel senso di una solida utopia modernista ancorata alla città reale, ma non più espressa nel linguaggio e nella gioiosa e ironica provocazione delle visioni precedenti”,come nella “Ricerca di volumi” del 1919.

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E questo perché “nell’aporia dell’architettura futurista continua a pesare la visione lirica, la libertà irresponsabile, lo scollamento tra la visionarietà del progetto e la possibilità di realizzarlo”. Tutto ciò ne segna il superamento, come avviene per le utopie rispetto alla realtà, nel segno di un razionalismo, oltre che di un classicismo, fino a un certo punto sempre respinto a parole. Però quella di Marchi resterà comunque “un’architettura dinamica, emotiva e non neutrale, in una parola ‘scenografica’”, conclude la Grco, e la scenografia teatrale e cinematografica sarà l’altro grande filone del suo impegno di architetto-artista.   

Dal  futurismo al classicismo e razionalismo

E’ evidente come Marchi si stia allontanando dalle impostazioni utopistiche  incentrate sulle linee oblique e sul movimento dinamico di concezione futurista che propugnavano l’abbandono della  verticalità e orizzontalità tradizionali. delle costruzioni.  Non è, tuttavia, per un “ritorno all’ordine” e all’immobilità architettonica;,conserva gli elementi dinamici dati da torrioni e corpi ellissoidali, diagonali e cilindrici, lo vediamo nel Progetto per il Palazzo del Littorio”, 1934,con dei corpi tondeggianti  insieme a pareti rettangolari, e nel “Progetto del cinema Fenaroli  a Lanciano“, 1936, con le larghe volute architettoniche.

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Si accosta al versante classicista nella sobrietà, non torna alle colonne classiche, anche se  il “Fondale del  Palazzo di Giustizia”  è impostato come il Partenone su colonne divaricate. E’ un’eccezione,  il passato è  solo un riferimento, nella facciata del” Teatro lirico comunale di Siena, con una cuspide a trabeazione come nei templi, nel “Progetto di chiesa” con dei corpi  a raggiera e nel “Teatro all’aperto”  con forme palladiane.

Non è più futurista ortodosso, dunque,  e neppure neoclassico, è diventato razionalista?   La risposta è negativa  sebbene abbia mostrato interesse per la  Mostra dell’Architettura Razionale tenutasi nel 1928 a Roma, nel  Palazzo delle Esposizioni e consideri questa tendenza una filiazione del futurismo. Ma per lui nel razionalismo “sono lontane le fonti dell’ispirazione e della fantasia” , com’è implicito nel termine, “tutto è così fermo e rigido”, e le costruzioni in quello stile hanno un nudo “aspetto di scatola”.  Però  c’è un’ampia serie di suoi  progetti vicini al razionalismo, ma anche in questo caso con temperamenti e attenuazioni dello stile.

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La presenza nei  diversi progetti di  elementi dei tre diversi stili senza l’adesione alla rigorosa ortodossia di nessuno dei tre,  si riscontra non solo perle costruzioni, cui abbiamo accennato, ma anche per le scenografie teatrali.  Per il “Moro di Venezia”, 1930, a elementi classici si uniscono quelli futuristi  quali  poliedri, piramide, sfera, come nel “Boris Godunov”  in un clima espressionista di intrigo e mistero.

“In realtà, precisa la Pontiggia, la definizione che più si attaglia a tutto il suo lavoro e alla sua personalità di artista , al di là dei singoli esiti, è quella una  e trina che lui stesso conia: ‘futur-classico-razionale”. E conclude: “Un super ossimoro, verrebbe da dire, una contraddizione in termini” citando poi le parole di Gentilucci  “In arte non esistono contraddizioni. Quello che i logici chiamano contraddizione, per un artista è ricchezza di senso e di forme. E’, insomma , libertà”.

Quella libertà che Marchi chiedeva anche per il  poeta, il quale deve uscire dalla gabbia della rima e procedere  liberamente fuori da ogni schema, e rivendicava per l’ architetto liberato dalla  gabbia delle strutture verticali e orizzontali  per dare viva espressione a  progetti dinamici.

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Le scenografie per teatro e cinema

Marchi oltre che architetto è stato pittore, e scenografo teatrale e cinematografico,  la mostra espone oltre alle opere già citate, delle sue incisioni, come “Cattedrale”,  1920, con il senso del dinamismo plastico, e “Donna fra i flutti”, 1921, illustrazione per il poema “L’immortalità di Francesco Flora”, il celebre critico letterario,  di ispirazione secessionista, un’incisione  espressionista con lo stato d’animo bocconiano.

A mezza strada tra la figurazione e il progetto architettonico le scenografie per gli spettacoli a  teatro nelle quali è stato impegnato soprattutto per il sodalizio con Gian Antonio Bragaglia, iniziato nel 1922, quando aveva 17 anni, con le illustrazioni del  Bollettino quindicinale della Fondazione della casa d’Arte Bragaglia e del Teatro sperimentale alle Terme Romane di via degli Avignonesi,  che diventerà il Teatro degli indipendenti, come per altri teatri romani ai quali fornisce i disegni per scenografie, costumi e architetture.

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Cominciamo con le “Scenografie teatrali” per la loro importanza nel percorso dell’artista, che ha lavorato quasi l’intera vita per il teatro. E ha dato ai costumi, come facevano le avanguardie, una funzione ben più ampia di quella della mera vestizione legata alla trama, suscitando attraverso la loro foggia spesso deformata, effetti speciali anche in chiave psicologica.

In quegli stessi anni, precisamente il decennio 1915-25,  anche Picasso era impegnato intensamente nella scenografie e nei costumi teatrali, nei quali trasferiva la forza stilistica cubista, lo abbiamo visto nella recente mostra a Roma. 

Vediamo innanzitutto una scena marina  per “L’Oceano” di Andreyeff, 1929, segue una  serie  del 1930, 3 di “Boris Godunov”  per l”Arena  di Verona,    due interni rustici e il terzo con delle volte,  e 2 di “Otello”; uno scorcio monumentale di Venezia e l’ingresso della nave a Cipro;  nell’anno precedente, 1929,  2 costumi  dell’“Italiana in Algeri” per la tourné a Parigi. Nel 1932,  la scenografia per “Valoria” di Massimo Bontempelli al Teatro Valle, 3 disegni con architetture classiche pencolanti, e poi negli anni ‘30, la “Camera Maria”  con il letto, un’ampia vetrata e il tetto spiovente. Nel 1940,  il prospetto esterno della porta di Troia per “Elena” di Euripide, e un interno  monumentale cupo, mentre negli anni ’40 la scena del trono per “Amleto”di Shakespeare,  aulica e solenne, ben diversa da quella di avanguardia che aveva realizzato per la stessa tragedia con il teatro sperimentale di Bragaglia. Seguono disegni scenografici per “Amore materno” di Strindberg al Teatro Valle e  “All’uscita” di Luigi Pirandello per il Teatro d’Arte di Roma con il quale ebbe la più lunga collaborazione tra artista e teatro. 

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Sono esposte anche 4 “Scenografie cinematografiche”, una in esterno del 1930, 2 del 1940 e una del 1950 tutte in interno, l’ultima per “Francesco Giullare di Dio” di Roberto Rossellini , che comprovano la longevità dell’attività scenografica anche per il cinema. Sono piccoli scampoli di un’attività che lo ha visto impegnati in 70 film, con registi famosi.

Architetture teatrali e religiose

Torniamo al teatro per citare le “Architetture teatrali” progettate da Marchi:  vediamo esposto il progetto del “Teatro Lirico Comunale di Siena” , 1931, in 3 prospettive frontali e laterali che mostrano una serie di corpi sovrapposti dietro una facciata con trabeazione classica ma senza colonne,  e il progetto dell'”Istituto del Teatro Drammatico Nazionale di Roma”,  1933, quello del “Teatro all’aperto (Teatro Puccini, Viareggio)” , 1941, in  5 diverse visioni prospettiche e del “Teatro Odeon” , 1946, in prospettiva frontale e laterale, dalla caratteristica facciata rotonda.

Un’altra architettura per adunate di pubblico è “L’architettura religiosa”, abbiamo già citato il “Progetto per chiesa”, 1930, particolarmente significativo per i corpi  a raggiera,  sono esposte  3 prospettive, frontale, dal  viale e dal giardino, dello stesso anno il disegno di una “Cappella“, 1930, quasi un tempio classico; vediamo anche  il progetto di una “Chiesa a Borgo Pasubio”, 1934,  in stile littorio come l’architettura degli edifici pubblici negli insediamenti creati all’epoca delle bonifiche delle locali paludi pontine.  Molto particolare l’ “Ipotetico mausoleo per la famiglia dei marchesi Paulucci di Caboli, Forlì”, 1931, in stile razionalista.

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Le architetture istituzionali e per edifici pubblici

Dell'”Architettura di Stato e razionalista”  fa parte il “Progetto per il mausoleo a Costanzo Ciano”, 1939, in 3 visioni prospettiche, ispirato alla sagoma del Mas  con i gradini che richiamano la scia dell’imbarcazione. Poi vediamo il già citato progetto presentato al “Concorso per il Palazzo del Littorio a Roma”, 1934, in 4 prospetti, la struttura cuneiforme con 5 torri cilindriche per armonizzarsi con le imponenti vestigia circostanti, la Basilica di Massenzio e nientemeno che il Colosseo.  Invece il progetto per l’ “Esposizione Universale di Roma”, 1938, in 3  disegni prospettici,  presenta forme lineari e squadrate, quasi metafisiche. Con il progetto del “Laboratorio razionalista per Ufficiali di Collaudo al Polverificio di Segni”, 1932, in 10 prospetti che lo presentano da ogni angolazione, l’architetto si cimenta con lo stile razionalista, mirando alla funzionalità e di valorizzando i materiali in una struttura “priva di banalità nella ripetizione dei corpi rigidi e speculari”..  

I  progetti esposti  per “Edifici di pubblica utilità”,  oltre allo “Studio per edificio pubblico”, anni ’30,  e allo “Studio per restauro edificio a Roma”, 1926, quanto mai spettacolari, riguardano le tipologie più diverse: si va dallo “Stand per Fiera del libro di Firenze”, 1934, al “Progetto per la sede di ‘Grandi vini italiani’“, 1935-39; dal “Progetto per un negozio di abbigliamento” al “Parco divertimenti Lido”, il primo della serie, del 1920, con 4 prospetti.. In tutti la sua inventiva  nella varietà delle soluzioni, senza nessuna ripetizione, si può apprezzare l’evoluzione nel tempo. 

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I  progetti per villini

Anche i progetti dei “Villini” mostrano l’evoluzione,  si passa dalle reminiscenze medievali della “Villa castello Baldoni a Formia”, 1910-20 con la torre asimmetrica, e  del “Belvedere d’Arcinazzo”, anni ’10, un torrione anche qui, alla trabeazione della “Villa De Voronowska”a Roma, anni ’20 , e ai diversissimi “Studi di edificio per proprietà Parodi-Delfino” con l’andamento sinuoso di stile “Caprese. Vediamo anche  progetti per la “Villa Parodi-Delfino ad Arcinazzo” 1925, e per la “Villa Parodi-Delfino a Roma (dei tre orologi)”, 1927, in vari prospetti, come per la “Villa Piccirilli” che spicca per lo schizzo panoramico d’insieme e per lo spettacolare “Ingresso sulla via Tiburtina”  tra cipressi, pini e il moro di cinta sagomato.

Vogliamo concludere con il progetto per il “Villino Cappa-Marinetti”, 1927, in 3 prospetti,  è ispirato allo stile dei vecchi caseggiati meridionali che riflette la sua ricerca di classicità , prima dell’irruzione del razionalismo.

Che questo stile composto venga applicato per l’abitazione del promotore del Futurismo, invece delle architetture oblique e delle altre trovate rivoluzionarie per dare movimento e  rompere l’immobilità delle strutture verticali e orizzontali, è particolarmente significativo.

Si tratta del ripiegamento visto in generale per l’architettura futurista rispetto alla realtà, che però nulla toglie all’entusiasmo e alla forza con cui l’utopia avveniristica è stata coltivata. Anche questa verifica, possibile in pratica  guardando i tanti progetti esposti delle diverse tipologie e pensando alle enunciazioni teoriche, è un prezioso risultato della mostra, che apre a riflessioni più generali sul sogno nell’arte e sul risveglio nella vita seguendo l’appassionante evoluzione di Virgilio Marchi.

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Info

Galleria Russo, via Alibert 20. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica  chiuso. Ingresso gratuito. http://www.galleriarusso.com, tel. 06.6789949 – 06.69920692. Catalogo“Virgilio Marchi, Futur-classico-razionale” Opere dal 1910 al 1950″ , Manfredi Edizioni, novembre 2017, pp. 210, formato  23 x 23,a cura di Elena Pontiggia, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i  nostri articoli per mostre precedenti sui futuristi: in questo sito, per mostre nella Galleria Russo, “Dottori”  2 marzo 2014, e “Chez Marinetti”   2 marzo 2013,  in “cultura.inabruzzo.it” nel 2009 su “La mostra del Futurismo a Roma”  il 30 aprile, “A Giulianova un ferragosto futurista”  il 1° settembre, “Futurismo presente” il 2 dicembre..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella Galleria Russo, si ringrazia la direzione della galleria con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Esposizione Universale di Roma Soluzione B” 1938; seguono, “Laboratorio razionalista per Ufficiali di Collaudo al Polverificio di Segni. Prospetto B” 1932, e “Studio per restauro edificio a Roma” 192;6; poi, “Teatro Lirico Comunale di Siena”1931, e “Istituto del Teatro Drammatico Nazionale di Roma” 1933; quindi, due visioni del “Progetto per chiesa” 1930, la.” Prospettiva dal viale”  e la “Prospettiva della cappella dal 2° giardino”; inoltre, due visioni del  “Teatro Lirico Comunale di Siena” 1931, “laterale” e “frontale”; ancora, “Belvedere d’Arcinazzo” anni ’10, e “Villa Piccirilli. Schizzo d’insieme” 1940; prosegue, altre due visioni di “Villa Piccirilli, l'”Ingresso sulla via Tiberina”  e lo “”Schizzo ingresso posteriore” 1940; infine, “Progetto per negozio di abbigliamento ‘Massimi & Di Rienzo Mode’” 1940, e “Scenografia per ‘Boris Godunov. Stagione teatrale 1930. Arena di Verona, Atto I, scena 3^” 1930;; in conclusione, “Scenografia teatro. Camera Maria” anni ’30; in chiusura, “Scenografia per ‘Amleto’. Scena del trono” anni ’40..

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Rigenerazione dell’Arte, 60 artisti, “La donna – Cesselon & Cesselon” , al Mitreo Iside”

Romano Maria Levante

Completiamo la notizia – anticipata in via del tutto eccezionale in questo sito il 15 novembre u.s. –  sulla  mostra-evento “La Rigenerazione dell’arte”, che si terrà domenica 26 novembre 2017. al Mitreo Iside  di Roma con l’esposizione, fino al 3 dicembre 2017 delle opere di oltre 60 artisti.  Una parte della manifestazione “Rigenerarte: La donna – Cesselon & Cesselon” è  legata alla figura del pittore grande  cartellonista cinematografico Angelo Cesselon, la cui opera è stata da noi ricordata in questo sito nel novembre 2012 nel secondo dei tre articoli sul museo-mostra permanente di Montecosaro,  Macerata, “Cinema a pennello”. In tale museo, che ha sede nel Palazzo Marinozzi, inaugurato con Claudia Cardinale madrina,  sono  esposti in mostra permanente oltre 100 bozzetti  per manifesti cinematografici, di cui Cesselon è un maestro universalmente riconosciuto.

Angelo Cesselon, il grande pittore di cinema, maestro insuperabile nei volti

Abbiamo già citato il giudizio del titolare del museo Paolo Marinozzi, secondo cui “nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica dell’effetto incarnato è semplicemente insuperabile”; e due dei tanti riconoscimenti avuti,  “maggiore artista dell’anno” nel 1955 e “maggiore ritrattista internazionale” nel 1957.  Ora aggiungiamo qualche breve notizia sull’artista per preparare all’evento culturale di cui sono stati precisati i contenuti  nell’incontro del 15 novembre, “Arte per immagini” tenuto dalla storica dell’arte, operatrice culturale  e artista Alessandra Cesselon,  figlia di Angelo, curatrice dell’ “Archivio cinematografico Angelo Cesselon”.

Siamo a cinque anni dal centenario della nascita di Angelo Cesselon, avvenuta nel 1922 a Cinto Caomaggiore (Ve), dove rimase fino a quindici anni allorché la sua famiglia si trasferì a Roma. Era stato avviato all’arte del disegno da un pittore decoratore di chiese, amico di famiglia, Toni Paissan, e a Roma frequentò gli studi pubblicitari di pittura cinematografica. Inizialmente fece parte dello studio Brini, ma ben prestò la sua opera in modo autonomo alle grandi case cinematografiche, italiane e straniere, e a produttori come Goffredo Lombardo e tanti altri.

Innumerevoli i film per i quali ha realizzato i bozzetti pittorici su cui sono stati prodotti i manifesti, ne citiamo soltanto alcuni tra i più evocativi esposti nel museo citato. Tra i film stranieri  “Il ritratto di Jennie”  e “Il grande campione, “I marciapiedi di New York”  e “L’uomo di Laramie”, “Zarak Khan”  e “Il gigante”, tra i film italiani “Ladri di biciclette” e  “Umberto D”,Don Camillo” e “L’Armata Brancaleone”,  e soprattutto “La donna più bella del mondo” con Gina Lollobrigida la diva archetipo di bellezza muliebre nella performance “La donna” di Alessandra Cesselon.

La Rigenerazione dell’arte. Mostra, incontro-dibattito e performance-lettura recitata

Saranno esposte fino al 3 dicembre 2017 le opere di oltre 60 artisti, partecipanti a un bando aperto,  con la finalità di “testimoniare che l’arte non ha confini e che ogni luogo può risultare ‘rigenerato’ e nobilitato dalla presenza e operatività degli artisti”. Viene sottolineato “un valore sociale, quello dell’Arte e della CREAttività contemporanea, mission del Mitreo fin dalla sua nascita”.

Gli  artisti espositori saranno presentati all’inizio della manifestazione in un incontro-dibattito sul valore dell’arte per la rigenerazione del territorio, alla presenza del critico Angelo Nardi, della curatrice Monica Melani e di altri personaggi. Ci sarà la “dimostrazione di Book Art, come un vecchio libro diventa oggetto artistico che stimola a guardare ‘gli scarti’ in un’ottica di ‘Rinascita creativa’”, a cura di Anna Maria Scocozza, che figura tra gli artisti espositori.  

Sono molto precise le anticipazioni che abbiamo avuto da Alessandra Cesselon, autrice  e interprete  della “performance”  con lettura recitata legata al nome di Angelo Cesselon che si svolgerà, insieme alla mostra, nell’ambito della manifestazione.

La rigenerazione attraverso l’arte riguarda la realtà e getta un ponte tra passato e futuro. Nello specifico con l’opera e la performance “Rigenerarte: La donna – Cesselon &  Cesselon” verranno utilizzate diverse tecniche, da quella pittorica alla tecnica fotografica  fino alla tecnica performativa, e sarà rivisitato con la fotografia il poster cinematografico. Una lettura recitata rievocherà l’artista. 

In pratica, Alessandra Cesselon, anch’essa tra gli artisti espositori, attraverso la rielaborazione fotografica dell’opera pittorica del padre Angelo per il film “Anna di Brooklin”, si propone di “condurre lo spettatore in una realtà virtuale nella quale il presente si coniuga con il passato, mediante immagini scaturite da quello che è considerato un maestro della pittura pop del primo dopoguerra”. Vengono definite “moderne nel prodotto e creative nella sostanza, immagini creative della memoria che si trasfigura sempre nel ricordo di ciascuno di noi e di chi ci ha preceduto”. Le immagini, e la lettura di testi serviranno a raccontare “storie sempre attuali, di ieri e di oggi”, partendo dal manifesto cinematografico in uno spettacolo di forme, colori e suoni.

La performance si intitola alla donna come “archetipo universale di bellezza che supera il tempo”  impersonato dalle icone del cinema, come Gina Lollobrigida la cui bellezza esuberante fu resa in modo magistrale da Angelo Cesselon con il bozzetto per il manifesto del film “La donna più bella del mondo”, esposto nel museo di Montecosaro nella sala dedicata al pittore.

Ma non sarà una generica evocazione di temi e di valori, bensì una testimonianza visiva di come la creatività si fa strada nell’animo di un giovane, legata indissolubilmente alla “volontà di rigenerazione rispetto al contesto di provenienza”: il giovane è Angelo Cesselon, la cui preziosa testimonianza portata dalla figlia con immagini audiovisive e una lettura recitata, ce ne fa seguire l’escalation dal piccolo paese veneto di origine, Cinto Caomaggiore,  al “contatto full immersion, inquietante ed esaltante  a un tempo con il dorato mondo del cinema per il quale realizzerà migliaia di manifesti”.  I colori dell’arte veneta saranno sempre una  peculiarità della sua arte.   

I video sono a cura di Alessandra Cesselon che nella voce recitante interpreterà  la moglie di Angelo,  Lina Forte Cesselon, mentre Angelo Cesselon sarà interpretato da Silvano Iadanza. L’accompagnamento musicale del pianista Matteo Siscaro  renderà particolarmente suggestiva l’atmosfera durante la visione del video rievocativo dell’artista.

Ci sembra di poter concludere che nella manifestazione si trovano  gli elementi alla base di una autentica rigenerazione dell’arte: le opere di oltre 60 artisti spontaneamente accorsi, un dibattito culturale, una “performance” spettacolare,  nella cornice prestigiosa del Mitreo Iside.  Perciò ci sentiamo di esprimere un sincero apprezzamento per gli organizzatori e i protagonisti dell’evento.   

Info

Al Mitreo Iside, via Marino Mazzacurati 61, Roma (Buon Pastore), Mostra Evento “La Rigenerazione dell’arte”. Domenica 26 novembre ore 17,00-20,00  presentazione  degli oltre 60 artisti espositori, incontro-dibattito, dimostrazione di Book Art e performance-lettura recitata  “Rigenerarte: La donna – Cesselon & Cesselon”; dal 27 novembre al 7 dicembre 2017 ingresso alla mostra dal lunedì al giovedì ore 14,30-20,00, venerdì 17,00-19,30; martedì e giovedì ore 8-12, sabato e domenica secondo eventi. Tutti gli eventi sono a ingresso libero e gratuito. Per la performance “La donna”  contatti e info cell. 3393966432; alexandrella@yahoo.it,  www.archiviocinemacesselon.oneminutesite.it  retecultura@gmail.com. Cfr. in questo sito, la precedente nota informativa, con notizie sugli incontri “Storia dell’arte per immagini” di Alessandra Cesselon, il 14  novembre u.s., e i nostri tre articoli sul museo-mostra permanente “Cinema a pennello” di Montecosaro il 14, 16, 18 novembre 2012.

Foto    

In apertura la locandina della mostra-evento “La rigenerazione dell’Arte”; in chiusura il bozzetto di Angelo Cesselon per il film  “La donna più bella del mondo”,  1955, con Gina Lollobrigida, regia Leonard e Pierotti, immagine tratta dal Catalogo del museo “Cinema a pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, Centro del Collezionismo, Montecosaro,” giugno 2011, pp.302 in carta patinata a colori, formato 24 x 30 (su Cesselon le pagine 75-88), si ringrazia Paolo Marinozzi per l’opportunità offerta.  

Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, il viaggio in Italia

di Romano Maria Levante

Si conclude   la nostra vista alla  mostra “Konrad Magi  (1878-1825)”,  che dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018,  espone circa 50 dipinti e 15 disegni alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. E’ stata  realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner .che ha curato anche il Catalogo dell’“Essti Kunstuumusem” di Tallin, per celebrare   la presidenza dell’Estonia al Consiglio dell’Unione Europea e il  100° anniversario della Repubblica d’Estonia. In Europa finora nessuna esposizione di questa ampiezza, al Vittoriano furono presentate 10. sue opere, con quelle di molti altri artisti estoni, nella mostra del 2015 di presentazione del paese per l’Expo milanese, ripetuta a Firenze nel 2017.

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Abbiamo  rievocato, seguendo l’accurata ricostruzione biografica di Epner, la formazione di Magi attraverso i suoi soggiorni all’estero, in particolare a San Pietroburgo e a Helsinki, in Norvegia  e nelel isole Aland, e soprattutto due volte a Parigi, e  commentato i suoi dipinti di queste fasi, con i paesaggi della Norvegia, dell’isola di  Saaremaa, e dei laghi estoni. Di queste opere abbiamo cercato di evidenziare le peculiarità pittoriche e i contenuti riposti  riferendoci ai giudizi di attenti critici, in primis il curatore Epner. Ci siamo fermati al 1920, proseguiamo l’excursus con il 1921, l’anno del viaggio di Magi in Italia.

Parte l’11 ottobre 1921 in treno dalla stazione di Tartu, ormai è un personaggio, lo salutano una settantina di conterranei. Fa scalo a Riga,  poi arriva a Berlino dove si ferma un mese, quindi  a Dresda  per 15 giorni e infine a Monaco. Sono tappe intermedie, la destinazione finale è l’Italia, l’11 dicembre arriva a Roma e può subito constatare come l’inverno sia molto meno freddo di quello parigino che con l’umidità gli aveva creato seri problemi di salute. Ed esclama: “Nella mia natura c’è forse davvero molto di una persona del Sud. Tutta Roma appare ogni giorno più interessante. Ad ogni modo non ho intenzione di lasciare facilmente questo paese”.   

Sembra aver superato le tante delusioni dei precedenti viaggi e la visione pessimistica, tanto che si sente di scrivere: “Ho la sensazione di essere arrivato, dopo molti anni, a casa.  Anche se per ora la sistemazione è molto scomoda, il sentimento è eccezionale, ho voglia di vivere e di farlo ancora ancora. Qui la vita sembra avere un senso”.

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Non apprezza soltanto il clima, è venuto per l’interesse verso il Sud, ma a Roma fa una nuova esperienza di vita con tante scoperte. Ci si potrebbe sorprendere del suo entusiasmo, dato che Roma non ha quell’attrazione sugli artisti che aveva Parigi,  città delle avanguardie, del futuro dell’arte, mentre la “città eterna”  evocava piuttosto il passato, tanto che dirà:”Questo marmo consunto, i singoli dettagli così distrutti mettono un poco di tristezza”.  Ma lo colpiscono le persone, come avverrà del resto a Picasso,  per la loro vena popolare, come lo colpiscono gli edifici, in particolare le chiese che definirà “semplicemente divine”, i monumenti e le fontane.

Troviamo tutto questo nei suoi dipinti su Roma, mentre nei suoi quadri della Normandia e dell’Estonia nei paesaggi non c’erano presenze umane e anche le rare case coloniche  erano poco significative, appena abbozzate.  Addirittura in “Motivo romano”, 1921-22, è raffigurata una piazza con molte persone, mentre passeggiano o sono sedute, singole o a coppie, con abiti appena tratteggiati ma eleganti come mostrano i cappelli delle donne, nel fondo gli edifici imponenti sovrapposti, sul lato destro con denso fogliame, sul sinistro grandi piante floreali, il celo azzurro con  nuvole bianche.

E’ un’immagine quanto mai serena, alla quale associamo “Paesaggio italiano (Roma)”, 1922-23,una composizione più elaborata che riprende dall’alto la piazzetta con la stessa umanità romana elegante dinanzi a un tempio circolare con le colonne tutt’intorno, sembra il Tempio di Vesta, e sullo sfondo in alto diversi edifici isolati e un agglomerato, sotto un cielo blu-cobalto  con macchie di varia intensità, le nuvole non sono tempestose come nei cieli nordici.

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Seguiamolo nella sua permanenza in Italia, durata circa un anno. Dopo Roma nella primavera del 1922 va a Capri, si immerge nel clima mediterraneo dell’isola  che era meta di scrittori e artisti e veniva considerata, afferma Ebner, “il luogo in cui si fuggiva dall’avanzata della modernità”,

Ne ebbe una prova quando il suo arrivo coincise con una conferenza organizzata dal sindaco in difesa del  paesaggio caprese; si opponeva  alla costruzione di alberghi e condomini, .secondo il volere degli abitanti che intendevano mantenere la natura incontaminata. Definì l’isola “divina” e vi si fermò un mese e mezzo. “L’isola lo entusiasma fino alla fine, commenta il biografo, in quei 45 giorni non si stanca di Capri nemmeno per un momento, perché dipinge in maniera irrefrenabile”. 

Il modo con cui dipinge riflette un entusiasmo che va ben oltre le meraviglie ambientali. E’ come se si fosse liberato dei tanti pesi che lo opprimevano quando dipingeva in Norvegia e in Estonia e in più si fosse riconciliato con il mondo.  Epner lo afferma esplicitamente e commenta: “”I paesaggi di Capri sono felici  e proprio come tali vengono percepiti da chi li osserva… Questi quadri trasmettono a chi li guarda la gioia di vivere, ma sono anche esotici, belli, romantici”.

Ne sono esposti 5, .tutti del 1922-23, con lo stesso cielo blu-cobalto con nuvole appena delineate. In “Rovine a Capri” vediamo un cumulo di ruderi bianchi con sulla sommità una nicchia ben conservata, mentre in “Capri”  c’è una visione prospettica che converge su un portico  con in alto un edificio bianco, ai lati due alberi scheletriti.  Associamo a questo “Paesaggio caprese”,  anche se la costruzione è molto diversa ed inserita in una sorta di agglomerato indistinto. .

“Strada di Capri” e “Motivo caprese” danno un’idea più precisa dei luoghi, il primo con un agglomerato ben percepibile, una scalinata al centro e due donne che parlano quasi in primo piano, una delle quali rivolta verso l’osservatore; l’altro con una piazza su cui si affacciano dei caseggiati, in quelli frontali dei panni stesi a indicare la presenza umana. Ma sn questo dipinto si nota un elemento riscontrabile anche in altri quadri capresi e romani, le macchie nere delle finestre e delle porte che nascondono l’interno. Qualcosa di simile si percepisce anche nella “Città ideale” di Urbino, nella quale agli scuri chiusi o socchiusi si sono dati determinati significati, come l’invito a entrare per ridare vita. Sui “buchi neri” delle finestre di Capri  Ebner commenta così: “Quelle finestra nere non mi danno pace, sono misteriose e oscure. Non si tratta di una minaccia, ma piuttosto di un segno muto che qualcosa non si può vedere. La luce è spenta, dentro non c’è più nessuno, la casa è vuota e abbandonata”. E se nei due dipinti romani che abbiamo visto c’erano le persone nei momenti distensivi della passeggiata, qui non sono né per strada nè alle finestre, spiccano le fessure biie rispetto alla luminosità dell’insieme.

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Il critico che è anche biografo appassionato non si ferma a questa constatazione, cerca di comprendere cosa c’è dietro, e non solo ai “buchi neri” di finestre e porte, ma anche al blu che diventa dominante, oltre che  nel cielo come abbiamo sottolineato, anche in molti particolari dei dipinti capresi:  non c’è più il sole, è la luna che non si vede a rischiarare la scena anche se resta sempre umbratile del resto sembra che dipingesse volutamente visioni notturne.

L’analisi che viene fatta prende l’avvio dalla notizia, giunta a Magi mentre era a Capri, che la scuola “Pallas”  è stata riorganizzata con i corsi di disegno, ai quali si era opposto ritenendo che comprimessero la creatività e la libertà espressiva, il nuovo direttore Starkopf e il suo amico Triik non avevano potuto resistere alle pressioni ministeriali; la notizia lo fa infuriare e, secondo Ebner, può aver rotto il delicato equilibrio nervoso di Magi, già logorato dalle vicissitudini dei tanti spostamenti e dalle condizioni di salute sempre più precarie, perdendo così la serenità e la gioia di vivere trovate in Italia. 

“Tutto il suo nervosismo e la sua inquietudine fanno improvviso ritorno, e proprio in quel momento tutto il mondo diviene blu agli occhi di Magi. La natura non parla più con Magi la propria lingua psichedelica segreta, ma esprime i sentimenti di Magi stesso. Prima Magi esprimeva la lingua segreta della natura, ora la natura esprime i pensieri nascosti di Magi”.  E conclude: “Le finestre diventano nere, il Sole tramonta e nel mondo non c’è più nulla oltre al blu. La via di fuga comincia a chiudersi. Il Sud ha esaurito le proprie possibilità”.

E’ la fine di aprile 1922, ha deciso di tornare  in Estonia, intanto rientra a Roma sapendo che prima di lasciare l’Italia visiterà Venezia.  Non parte subito, le sue condizioni di salute sono peggiorate, fino al punto che teme di morire a Roma. “I suoi sentimenti sono lontani dalla felicità e dalla bellezza – nota Epner – non vede armonia, ma solo le sofferenze che lui provoca agli altri e quelle che il mondo provoca a lui”.

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Arriva a Venezia dopo essere passato per Bologna e Ravenna, siamo in estate, la dipinge con una precisione insolita, è la prima e unica città che ritrae così, quasi volesse sottolineare l’adesione ai valori che incarna. E sono quelli di un passato destinato ad essere travolto dalla modernità, secondo i futuristi  che nell’aprile del 1910 avevano ripudiato la “Venezia passatista” dei palazzi nobiliari e delle gondole per uno sfrenato modernismo iconoclasta. “Magi – osserva Epner – non desidera bruciare le gondole come i modernisti. Non solo le dipinge, ma le ripete all’infinito, come non ha fatto mai con nessun altro motivo. Magi è improvvisamente ciò contro cui i modernisti combattevano: il modernista è diventato antimodernista”.

Guardiamo i 5 dipinti intitolati  “Venezia”,  3 oli su tela e 2 su cartone, tutti del 1922-23, il blu non è solo dominante come nei dipinti su Capri, ugualmente del 1922-23, è addirittura totalitario, in 4 di loro l’acqua della laguna e il cielo si uniscono in un’unica tonalità cobalto, il quinto è molto scuro, quasi tetro, ma si distingue pur sempre il gondoliere che rema verso l’approdo con tre lampioni. Gli altri sono in un blu squillante su cui si stagliano le gondole e le altre imbarcazioni, mentre sul fondo spiccano le architetture dei palazzi con cupole e campanili. Nulla a che fare con la sua pittura violenta e “scolpita” dei dipinti norvegesi e successivi, qui il colore è steso in modo omogeneo senza puntinature e blocchi cromatici, ed è come se si limitasse a dipingere la superficie invece di calarsi nella sostanza materica come faceva in modo imperioso.

A metà agosto del 1922 inizia il viaggio di ritorno, si ferma ad Oberstdorf non si sa se per visitare degli amici che lo avevano invitato con una cartolina speditagli a Roma oppure per curarsi, nella città tedesca c’era anche un sanatorio, ma si ferma poco per una simile cura.  Nel  paragonare le nuove sensazioni con quelle provate in Italia osserva: “Che contrasto tra l’Italia e questo paese. Ricordo ancora gli ultimi giorni a Venezia come un sogno fantastico. Solo ora, a causa del contrasto, capisco cosa è l’Italia”.  A Berlino vede un suo amico, Artur Adson, che scrive: “Ho incontrato Magi che è qui di passaggio e con i suoi discorsi mi ha messo voglia di andare in Italia”. Tutto questo colpisce dato che le notizie dall’Estonia lo avevano irritato al punto di ricadere nel pessimismo e nella sfiducia,vuol dire che il clima tutto particolare della città lagunare gli ha fatto superare  ogni turbamento e rivalutare il soggiorno nel Bel Paese nonostante tutto.. 

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Resta legato ai bei ricordi per molti mesi, perché nel suo atelier di Tartu, dove torna nel settembre 1922, completa i numerosi abbozzi portati dall’Italia su Roma, Capri e Venezia e traduce in quadri gli  schizzi che aveva tracciato dal vivo;  lo fa anche per le montagne di Oberstdorf. Continua a insegnare nella scuola d’arte “Pallas”, ma non riprende il ruolo di direttore che resta a Starkopf, naturalmente non insegna l’aborrito disegno ma pittura di paesaggi e nature morte.

Mantiene la notorietà in Estonia, ma il clima è molto cambiato, con la normalizzazione dell’indipendenza nazionale sono cessati quei fermenti rivoluzionari che alimentavano la creatività, il panorama artistico non presenta aspetti stimolanti, a parte iniziative cubiste, si diffonde la noia.

Per Magi, però, i maggiori problemi vengono ancora una volta dalla salute sempre più precaria ed esposta ad ogni malanno per la caduta delle difese immunitarie. I reumatismi della poliartrite e la sifilide si accaniscono su di lui,  soffre sempre il freddo e l’umidità, i fanghi curativi dell’isola di Saaremaa che gli avevano dato del sollievo sono lontani, del resto non basterebbero più ad alleviargli i dolori.

Sul piano artistico l’assenza di un anno ha logicamente attenuato l’attenzione su di lui, tuttavia dopo un anno dal suo ritorno, nel settembre 1923, espone dei dipinti sul viaggio in Italia in una mostra, l’ultima alla quale ha partecipato, i suoi quadri vengono apprezzati.

Avviene un radicale mutamento del clima artistico e politico, con il predominio delle avanguardie, nascono i cubisti estoni, e si fa strada l’idea secondo cui l’arte doveva essere nazionale, questa linea lo trova all’opposizione ancora una volta, come in gioventù: condanna in modo sprezzante il cubismo e contrappone alla concezione nazionalista dell’arte quella individualista, imperniata sulla libera creatività dell’artista.

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Terminata la traduzione in dipinti dei bozzetti e schizzi italiani, nel mese di maggio del  1923  va a soggiornare nella residenza presa dalla sua scuola “Pallas”  per farvi lavorare i propri insegnanti e studenti d’estate, situata a venti chilometri da Tartu nel paese di Kukulinna sulle rive del lago Saadjarv.  La  casa è malmessa, si dorme anche per terra, ma crediamo che facessero così gli allievi in soprannumero, non gli insegnanti, e tanto meno Magi che soffriva di reumatismi.

Lui, comunque, dipinge, e due quadri sono esposti nella mostra, entrambi intitolati “Paesaggio del lago Saadjarv”, 1923.24. Dominante blu nel cielo e nelle acque del lago, nuvole leggere, gli appezzamenti dei campi coltivati ben squadrati, nel guardarli si ha la stessa impressione che danno quelli di Venezia: i colori e la composizione hanno un che di superficiale e di scontato,  rispetto al cromatismo violento e alle forme scolpite che abbiamo visto in precedenza con il relativo significato.  C’è sempre maestria compositiva e impatto cromatico ma manca la sua forte creatività.

Si reca in due estati successive sul lago ma nel 1924  solo per poco, la salute peggiora e deve tornare a Tartu.  Sul lago Stadjarv è stato anche con l’amico Triik, che attraversa una grave c crisi da quando, nel 1919, era stata stroncata la sua partecipazione alla mostra d’arte come “autore obsoleto”. Deluso dalla vita si era lasciato andare nel bere, pur mantenendo la propria gentilezza; aveva partecipato a una giro  sul lago al quale Magi aveva rinunciato, salvandosi dal rovesciamento della barca nella quale era rimasto ucciso un insegnante. Magi scrisse: “Domani sarebbero potuti essere anche i miei funerali, ma un certo presentimento e un’altra piccola ragione mi hanno salvato. Non si può dire che questo fatto mi renda felice”.

Non potrà essere più felice perché le condizioni di salute si aggravano, gli viene diagnosticata anche per errore la tubercolosi in aggiunta alle gravi malattie di cui soffre da tempo, per questo nell’autunno del 1924  va nel sanatorio di Schomberg-Neuenburg in Germania occidentale, con il permesso della scuola con la quale, comunque, erano sorti problemi per i suoi sospetti verso i colleghi probabilmente a causa della paranoia, che lo avevano portato a parlarne male. Torna a Tartu nell’inverno del 1925 e a febbraio viene curato in una clinica per le malattie interne. Si susseguono le allucinazioni dopo i segni di schizofrenia, la sifilide ha attaccato il suo cervello.

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Ma ancora resiste e, poiché nel mese di maggio aveva lasciato  Tartu per i suoi viaggi, pensa addirittura di andare ad Elva, località di villeggiatura dove era già stato in primavera, diceva che faceva bene ai suoi polmoni malati.  Le allucinazioni provocano atti inconsulti, lancia gli oggetti che gli capitano sottomano e getta anche i suoi quadri  dall’abbaino del tetto sulla strada sottostante. Sono diverse le azioni anomale che compie come effetto della malattia, tra l’altro fa cancellare con il detersivo i suoi dipinti per liberare la tela e dipingere ancora, cosa evidentemente insensata.

Finché il 28 maggio il padrone di casa, un magnate di Tartu,  chiede alla polizia che venga ricoverato  in un ospedale psichiatrico, chiamano l’amico Triik per testimoniare sulle sue condizioni mentali. Non esita a denunciare le stranezze anche pericolose, e chiede anche lui il ricovero in clinica per la sicurezza dell’artista  che potrebbe suicidarsi, e quella degli altri, si parla della possibilità che appicchi un incendio.  I suoi allievi e colleghi della scuola “Pallas”  vegono a prenderlo a prenderlo per portarlo nell’ospedale psichiatrico evitando un trasferimento più deprimente. Infatti Magi li accoglie gentilmente e va chiacchierando con loro senza  sospettare nulla, soltanto all’arrivo quando si accorge della destinazione cerca di fuggire, insulta medici e infermieri ma ormai non può più sottrarsi, l’ultima ribellione è conto i vestiti dell’ospedale.

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Lo andrà a trovare un fratello, pur con una certa indifferenza, del resto è molto difficile rintracciare i suoi parenti, è come se fosse venuto dal nulla, osserva Epner.  Alterna momenti di lucidità a momenti di alterazione, atti di violenza e di gentilezza verso i medici, getta i vestiti dalla finestra, rompe una sedia, compie altri atti inconsulti, vaneggia. Il 2 giugno scrivono sulla sua cartella clinica “Completamente folle”..

Peggiora rapidamente anche il suo stato di salute fisica, oltre a quello mentale, nel mese di agosto compaiono perfno le piaghe da decubito,. Sabato 15 agosto 1924, alle ore 13,20 cessa di vivere.

La stampa locale dà rilievo alla sua scomparsa, al funerale partecipano le istituzioni locali, viene definito da un critico che un anno prima lo aveva stroncato,  “l’argonauta dell’arte estone”, e nelle settimane successive già si comincia ad organizzare una mostra, che si tiene nel mese di dicembre dello stesso 1924  con 150 suoi quadri raccolti con annunci sulla stampa, cui se ne aggiungono 30. E’ una mostra-mercato, i suoi quadri vengono venduti a privati benestanti e istituzioni a quotazioni considerevoli. Nei due anni successivi gli allievi del “Pallas” organizzano un fiaccolata notturna nell’anniversario della morte, dopo 7 anni viene pubblicata una monografia di un suo allievo.

Quanti quadri ha dipinto Magi? Viene fatto il numero di 400,  ma si conoscono le riproduzioni di meno di 200 opere,  e anche di queste sono scomparsi parecchi originali. La sua influenza sull’arte estone è stata notevole negli anni ’20 e’30, poi ci fu l’ostracismo degli occupanti sia nazisti che sovietici; i primi consideravano “arte degenerata” tutto ciò che non rientrava nei canoni figurativi del nazismo, per i secondi era ammesso solo il “Realismo socialista”  per la propaganda di regime. Con degli stratagemmi venivano fatte vedere di nascosto agli studenti le sue opere”vietate”.

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Finito questo ostracismo, sono state organizzate mostre delle sue opere al Museo nazionale d’arte dell’Estonia e dal Museo di Tartu in patria e all’estero, nel 1978 per il centenario della nascita la sua totale riabilitazione, anzi più propriamente il rilancio che merita la sua arte indiscussa, un modernismo che ha fatto tesoro di tante correnti d’avanguardia senza adottarne nessuna ma creando uno stile personalissimo che ha innovato nella pittura del paesaggio, cosa difficile essendo il genere più “frequentato” in cui si sono espresse le diverse correnti e cimentati i maggiori artisti.

E lo ha rivoluzionato nella forma e nel colore, con una forza scultorea e un cromatismo intenso di straordinario impatto sull’osservatore. Ma soprattutto ha nobilitato la pittura del paesaggio, che nei suoi quadri da elemento decorativo è diventata espressione di una visione panteistica della natura permeata di religiosità e di spiritualità con la carica interiore della sua estrema sensibilità. “Se studiamo i paesaggi di Konrad Magi – ha scritto Arnaldo Colasanti – entriamo in un mondo naturale che celebra non l’idealità ma la purezza interiore dello spirito della Natura”. .  

Per questo abbiamo ricostruito con molta cura, seguendo la monumentale biografia di Epner, la vita di questo artista in parallelo con le sue opere, in modo da ripercorrere il faticoso processo attraverso il quale è maturata la sua arte, con una fase importante in Italia.

Ed è merito della Galleria Nazionale aver presentato una ricca selezione di dipinti che documentano le varie fasi del suo percorso artistico. “La mostra di Magi – scrive sempre Colasanti – è plurima, corale, confessa le tante vie del Novecento, attesta con forza la consapevolezza filosofica  poetica di quelle vie dentro la lacerazione dello spirito moderno”. Un riconoscimento che va oltre l’arte pittorica per penetrare nella crisi esistenziale di tanti artisti dell’epoca, e non solo di Magi. 

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Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”, Editore Enn Kunila Srl Sperare, Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e soprattutto dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le notizie e le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti il  3 e 13 novembre u. s.. Per le mostre, gli artisti e le correnti citate cfr. i nostri articoli: in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2013; in cultura.inabruzzo.it,  sul Futurismo, 30 aprile e  1° settembre 2009, sui Realismi socialisti  3 articoli 31 dicembre 2011.(questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono tutte opere del 1922-23. In apertura, “Motivo romano” ; seguono,  “Paesaggio italiano (Roma)” e “Rovine a Capri”; poi, “Capri” e “Paesaggio caprese”; quindi, “Strada di Capri” e Motivo di Capri”; inoltre 5 dipinti intitolati “Venezia”; in chiusura, “Canale a Venezia” matita su carta.

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Alessandra Cesselon, “Storia dell’arte per immagini”

di Romano Maria Levante

In questo sito non pubblichiamo semplici notizie di mostre o manifestazioni  culturali né  mere cronache sommarie ma  ampie recensioni  illustrate da  immagini in cui raccontiamo la nostra partecipazione  all’evento da visitatori appassionati, cercando di approfondirne per quanto possibile i contenuti.

Facciamo ora un’eccezione collegata a una figura, quella di Angelo Cesselon, perché lo abbiamo ricordato tra i maggiori autori, e per certe tipologie  il maggiore, di bozzetti per manifesti cinematografici, un’arte passata ormai alla storia  dato che le nuove tecnologie  hanno sostituito l’opera dei veri pittori i quali tanto hanno contribuito a imprimere negli occhi di tutti le immagini che riassumevano le vicende dei film.

 A questo  riguardo ricordiamo i nostri tre articoli sulla mostra permanente- museo del  “Cinema  a pennello”,  di Montecosaro vicino Macerata, dove  nelle antiche sale di Palazzo Marinozzi  si trovano esposti oltre 100 bozzetti originali raccolti con pazienza e amore di collezionista da Paolo Marinozzi che così ha definito l’arte di Cesselon, cui è dedicata una sala del museo: “Nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica è semplicemente insuperabile”;  per questo fu proclamato “maggiore artista dell’anno” nel 1955 e “maggiore ritrattista internazionale” nel 1957. I tre articoli sono usciti in questo sito il 15, 17 e 19 novembre 2012, intitolati “Cinema. 100 bozzetti originali a Montecosaro, Macerata”, “Cinema, i bozzetti di Cesselon e di altri artisti a Montecosaro”, “Cinema. Ciriello e i bozzetti di altri artisti a Montecosaro”.               

Ebbene, al grande artista entrato nella storia del cinema,  sarà dedicata una manifestazione domenica 26 novembre p. v. nel pomeriggio al Mitreo Iside di Roma, per opera della figlia Alessandra Cesselon, curatrice dell'”Archivio cinematografico Angelo Cesselon”, storica dell’arte, operatrice culturale ed artista, che attraverso “Rete Cultura” di cui è titolare e animatrice, organizza e svolge lezioni, visite guidate, incontri artistici con un impegno meritorio e appassionato. Sarà lei stessa a fornire le indicazioni su tale evento nell’incontro che si terrà  mercoledì 15 novembre p. v. alle ore 18, sempre a Roma,  a ingresso libero, nello storico Caffè letterario “Mangiaparole”  in via Manlio Capitolino 7/9 (Metro A fermata Furio Camillo)  sulla  “Storia dell’arte per immagini”, uno dei quattro a cadenza mensile, questa volta sull’Arte paleocristiana e sulle due grandi mostre, “Monet”  e “Picasso”, in corso al Vittoriano e alle Scuderie del Quirinale. 

Nella locandina che riportiamo vi sono le indicazioni per partecipare all’incontro, al di là del riferimento all’arte di Angelo Cesselon, date le qualità come storica dell’arte e artista di Alessandra Cesselon  e il vivo interesse della sua spettacolare formula  divulgativa per penetrare  nei contenuti dell’arte e della storia.