Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, il viaggio in Italia

di Romano Maria Levante

Si conclude   la nostra vista alla  mostra “Konrad Magi  (1878-1825)”,  che dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018,  espone circa 50 dipinti e 15 disegni alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. E’ stata  realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner .che ha curato anche il Catalogo dell’“Essti Kunstuumusem” di Tallin, per celebrare   la presidenza dell’Estonia al Consiglio dell’Unione Europea e il  100° anniversario della Repubblica d’Estonia. In Europa finora nessuna esposizione di questa ampiezza, al Vittoriano furono presentate 10. sue opere, con quelle di molti altri artisti estoni, nella mostra del 2015 di presentazione del paese per l’Expo milanese, ripetuta a Firenze nel 2017.

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Abbiamo  rievocato, seguendo l’accurata ricostruzione biografica di Epner, la formazione di Magi attraverso i suoi soggiorni all’estero, in particolare a San Pietroburgo e a Helsinki, in Norvegia  e nelel isole Aland, e soprattutto due volte a Parigi, e  commentato i suoi dipinti di queste fasi, con i paesaggi della Norvegia, dell’isola di  Saaremaa, e dei laghi estoni. Di queste opere abbiamo cercato di evidenziare le peculiarità pittoriche e i contenuti riposti  riferendoci ai giudizi di attenti critici, in primis il curatore Epner. Ci siamo fermati al 1920, proseguiamo l’excursus con il 1921, l’anno del viaggio di Magi in Italia.

Parte l’11 ottobre 1921 in treno dalla stazione di Tartu, ormai è un personaggio, lo salutano una settantina di conterranei. Fa scalo a Riga,  poi arriva a Berlino dove si ferma un mese, quindi  a Dresda  per 15 giorni e infine a Monaco. Sono tappe intermedie, la destinazione finale è l’Italia, l’11 dicembre arriva a Roma e può subito constatare come l’inverno sia molto meno freddo di quello parigino che con l’umidità gli aveva creato seri problemi di salute. Ed esclama: “Nella mia natura c’è forse davvero molto di una persona del Sud. Tutta Roma appare ogni giorno più interessante. Ad ogni modo non ho intenzione di lasciare facilmente questo paese”.   

Sembra aver superato le tante delusioni dei precedenti viaggi e la visione pessimistica, tanto che si sente di scrivere: “Ho la sensazione di essere arrivato, dopo molti anni, a casa.  Anche se per ora la sistemazione è molto scomoda, il sentimento è eccezionale, ho voglia di vivere e di farlo ancora ancora. Qui la vita sembra avere un senso”.

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Non apprezza soltanto il clima, è venuto per l’interesse verso il Sud, ma a Roma fa una nuova esperienza di vita con tante scoperte. Ci si potrebbe sorprendere del suo entusiasmo, dato che Roma non ha quell’attrazione sugli artisti che aveva Parigi,  città delle avanguardie, del futuro dell’arte, mentre la “città eterna”  evocava piuttosto il passato, tanto che dirà:”Questo marmo consunto, i singoli dettagli così distrutti mettono un poco di tristezza”.  Ma lo colpiscono le persone, come avverrà del resto a Picasso,  per la loro vena popolare, come lo colpiscono gli edifici, in particolare le chiese che definirà “semplicemente divine”, i monumenti e le fontane.

Troviamo tutto questo nei suoi dipinti su Roma, mentre nei suoi quadri della Normandia e dell’Estonia nei paesaggi non c’erano presenze umane e anche le rare case coloniche  erano poco significative, appena abbozzate.  Addirittura in “Motivo romano”, 1921-22, è raffigurata una piazza con molte persone, mentre passeggiano o sono sedute, singole o a coppie, con abiti appena tratteggiati ma eleganti come mostrano i cappelli delle donne, nel fondo gli edifici imponenti sovrapposti, sul lato destro con denso fogliame, sul sinistro grandi piante floreali, il celo azzurro con  nuvole bianche.

E’ un’immagine quanto mai serena, alla quale associamo “Paesaggio italiano (Roma)”, 1922-23,una composizione più elaborata che riprende dall’alto la piazzetta con la stessa umanità romana elegante dinanzi a un tempio circolare con le colonne tutt’intorno, sembra il Tempio di Vesta, e sullo sfondo in alto diversi edifici isolati e un agglomerato, sotto un cielo blu-cobalto  con macchie di varia intensità, le nuvole non sono tempestose come nei cieli nordici.

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Seguiamolo nella sua permanenza in Italia, durata circa un anno. Dopo Roma nella primavera del 1922 va a Capri, si immerge nel clima mediterraneo dell’isola  che era meta di scrittori e artisti e veniva considerata, afferma Ebner, “il luogo in cui si fuggiva dall’avanzata della modernità”,

Ne ebbe una prova quando il suo arrivo coincise con una conferenza organizzata dal sindaco in difesa del  paesaggio caprese; si opponeva  alla costruzione di alberghi e condomini, .secondo il volere degli abitanti che intendevano mantenere la natura incontaminata. Definì l’isola “divina” e vi si fermò un mese e mezzo. “L’isola lo entusiasma fino alla fine, commenta il biografo, in quei 45 giorni non si stanca di Capri nemmeno per un momento, perché dipinge in maniera irrefrenabile”. 

Il modo con cui dipinge riflette un entusiasmo che va ben oltre le meraviglie ambientali. E’ come se si fosse liberato dei tanti pesi che lo opprimevano quando dipingeva in Norvegia e in Estonia e in più si fosse riconciliato con il mondo.  Epner lo afferma esplicitamente e commenta: “”I paesaggi di Capri sono felici  e proprio come tali vengono percepiti da chi li osserva… Questi quadri trasmettono a chi li guarda la gioia di vivere, ma sono anche esotici, belli, romantici”.

Ne sono esposti 5, .tutti del 1922-23, con lo stesso cielo blu-cobalto con nuvole appena delineate. In “Rovine a Capri” vediamo un cumulo di ruderi bianchi con sulla sommità una nicchia ben conservata, mentre in “Capri”  c’è una visione prospettica che converge su un portico  con in alto un edificio bianco, ai lati due alberi scheletriti.  Associamo a questo “Paesaggio caprese”,  anche se la costruzione è molto diversa ed inserita in una sorta di agglomerato indistinto. .

“Strada di Capri” e “Motivo caprese” danno un’idea più precisa dei luoghi, il primo con un agglomerato ben percepibile, una scalinata al centro e due donne che parlano quasi in primo piano, una delle quali rivolta verso l’osservatore; l’altro con una piazza su cui si affacciano dei caseggiati, in quelli frontali dei panni stesi a indicare la presenza umana. Ma sn questo dipinto si nota un elemento riscontrabile anche in altri quadri capresi e romani, le macchie nere delle finestre e delle porte che nascondono l’interno. Qualcosa di simile si percepisce anche nella “Città ideale” di Urbino, nella quale agli scuri chiusi o socchiusi si sono dati determinati significati, come l’invito a entrare per ridare vita. Sui “buchi neri” delle finestre di Capri  Ebner commenta così: “Quelle finestra nere non mi danno pace, sono misteriose e oscure. Non si tratta di una minaccia, ma piuttosto di un segno muto che qualcosa non si può vedere. La luce è spenta, dentro non c’è più nessuno, la casa è vuota e abbandonata”. E se nei due dipinti romani che abbiamo visto c’erano le persone nei momenti distensivi della passeggiata, qui non sono né per strada nè alle finestre, spiccano le fessure biie rispetto alla luminosità dell’insieme.

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Il critico che è anche biografo appassionato non si ferma a questa constatazione, cerca di comprendere cosa c’è dietro, e non solo ai “buchi neri” di finestre e porte, ma anche al blu che diventa dominante, oltre che  nel cielo come abbiamo sottolineato, anche in molti particolari dei dipinti capresi:  non c’è più il sole, è la luna che non si vede a rischiarare la scena anche se resta sempre umbratile del resto sembra che dipingesse volutamente visioni notturne.

L’analisi che viene fatta prende l’avvio dalla notizia, giunta a Magi mentre era a Capri, che la scuola “Pallas”  è stata riorganizzata con i corsi di disegno, ai quali si era opposto ritenendo che comprimessero la creatività e la libertà espressiva, il nuovo direttore Starkopf e il suo amico Triik non avevano potuto resistere alle pressioni ministeriali; la notizia lo fa infuriare e, secondo Ebner, può aver rotto il delicato equilibrio nervoso di Magi, già logorato dalle vicissitudini dei tanti spostamenti e dalle condizioni di salute sempre più precarie, perdendo così la serenità e la gioia di vivere trovate in Italia. 

“Tutto il suo nervosismo e la sua inquietudine fanno improvviso ritorno, e proprio in quel momento tutto il mondo diviene blu agli occhi di Magi. La natura non parla più con Magi la propria lingua psichedelica segreta, ma esprime i sentimenti di Magi stesso. Prima Magi esprimeva la lingua segreta della natura, ora la natura esprime i pensieri nascosti di Magi”.  E conclude: “Le finestre diventano nere, il Sole tramonta e nel mondo non c’è più nulla oltre al blu. La via di fuga comincia a chiudersi. Il Sud ha esaurito le proprie possibilità”.

E’ la fine di aprile 1922, ha deciso di tornare  in Estonia, intanto rientra a Roma sapendo che prima di lasciare l’Italia visiterà Venezia.  Non parte subito, le sue condizioni di salute sono peggiorate, fino al punto che teme di morire a Roma. “I suoi sentimenti sono lontani dalla felicità e dalla bellezza – nota Epner – non vede armonia, ma solo le sofferenze che lui provoca agli altri e quelle che il mondo provoca a lui”.

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Arriva a Venezia dopo essere passato per Bologna e Ravenna, siamo in estate, la dipinge con una precisione insolita, è la prima e unica città che ritrae così, quasi volesse sottolineare l’adesione ai valori che incarna. E sono quelli di un passato destinato ad essere travolto dalla modernità, secondo i futuristi  che nell’aprile del 1910 avevano ripudiato la “Venezia passatista” dei palazzi nobiliari e delle gondole per uno sfrenato modernismo iconoclasta. “Magi – osserva Epner – non desidera bruciare le gondole come i modernisti. Non solo le dipinge, ma le ripete all’infinito, come non ha fatto mai con nessun altro motivo. Magi è improvvisamente ciò contro cui i modernisti combattevano: il modernista è diventato antimodernista”.

Guardiamo i 5 dipinti intitolati  “Venezia”,  3 oli su tela e 2 su cartone, tutti del 1922-23, il blu non è solo dominante come nei dipinti su Capri, ugualmente del 1922-23, è addirittura totalitario, in 4 di loro l’acqua della laguna e il cielo si uniscono in un’unica tonalità cobalto, il quinto è molto scuro, quasi tetro, ma si distingue pur sempre il gondoliere che rema verso l’approdo con tre lampioni. Gli altri sono in un blu squillante su cui si stagliano le gondole e le altre imbarcazioni, mentre sul fondo spiccano le architetture dei palazzi con cupole e campanili. Nulla a che fare con la sua pittura violenta e “scolpita” dei dipinti norvegesi e successivi, qui il colore è steso in modo omogeneo senza puntinature e blocchi cromatici, ed è come se si limitasse a dipingere la superficie invece di calarsi nella sostanza materica come faceva in modo imperioso.

A metà agosto del 1922 inizia il viaggio di ritorno, si ferma ad Oberstdorf non si sa se per visitare degli amici che lo avevano invitato con una cartolina speditagli a Roma oppure per curarsi, nella città tedesca c’era anche un sanatorio, ma si ferma poco per una simile cura.  Nel  paragonare le nuove sensazioni con quelle provate in Italia osserva: “Che contrasto tra l’Italia e questo paese. Ricordo ancora gli ultimi giorni a Venezia come un sogno fantastico. Solo ora, a causa del contrasto, capisco cosa è l’Italia”.  A Berlino vede un suo amico, Artur Adson, che scrive: “Ho incontrato Magi che è qui di passaggio e con i suoi discorsi mi ha messo voglia di andare in Italia”. Tutto questo colpisce dato che le notizie dall’Estonia lo avevano irritato al punto di ricadere nel pessimismo e nella sfiducia,vuol dire che il clima tutto particolare della città lagunare gli ha fatto superare  ogni turbamento e rivalutare il soggiorno nel Bel Paese nonostante tutto.. 

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Resta legato ai bei ricordi per molti mesi, perché nel suo atelier di Tartu, dove torna nel settembre 1922, completa i numerosi abbozzi portati dall’Italia su Roma, Capri e Venezia e traduce in quadri gli  schizzi che aveva tracciato dal vivo;  lo fa anche per le montagne di Oberstdorf. Continua a insegnare nella scuola d’arte “Pallas”, ma non riprende il ruolo di direttore che resta a Starkopf, naturalmente non insegna l’aborrito disegno ma pittura di paesaggi e nature morte.

Mantiene la notorietà in Estonia, ma il clima è molto cambiato, con la normalizzazione dell’indipendenza nazionale sono cessati quei fermenti rivoluzionari che alimentavano la creatività, il panorama artistico non presenta aspetti stimolanti, a parte iniziative cubiste, si diffonde la noia.

Per Magi, però, i maggiori problemi vengono ancora una volta dalla salute sempre più precaria ed esposta ad ogni malanno per la caduta delle difese immunitarie. I reumatismi della poliartrite e la sifilide si accaniscono su di lui,  soffre sempre il freddo e l’umidità, i fanghi curativi dell’isola di Saaremaa che gli avevano dato del sollievo sono lontani, del resto non basterebbero più ad alleviargli i dolori.

Sul piano artistico l’assenza di un anno ha logicamente attenuato l’attenzione su di lui, tuttavia dopo un anno dal suo ritorno, nel settembre 1923, espone dei dipinti sul viaggio in Italia in una mostra, l’ultima alla quale ha partecipato, i suoi quadri vengono apprezzati.

Avviene un radicale mutamento del clima artistico e politico, con il predominio delle avanguardie, nascono i cubisti estoni, e si fa strada l’idea secondo cui l’arte doveva essere nazionale, questa linea lo trova all’opposizione ancora una volta, come in gioventù: condanna in modo sprezzante il cubismo e contrappone alla concezione nazionalista dell’arte quella individualista, imperniata sulla libera creatività dell’artista.

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Terminata la traduzione in dipinti dei bozzetti e schizzi italiani, nel mese di maggio del  1923  va a soggiornare nella residenza presa dalla sua scuola “Pallas”  per farvi lavorare i propri insegnanti e studenti d’estate, situata a venti chilometri da Tartu nel paese di Kukulinna sulle rive del lago Saadjarv.  La  casa è malmessa, si dorme anche per terra, ma crediamo che facessero così gli allievi in soprannumero, non gli insegnanti, e tanto meno Magi che soffriva di reumatismi.

Lui, comunque, dipinge, e due quadri sono esposti nella mostra, entrambi intitolati “Paesaggio del lago Saadjarv”, 1923.24. Dominante blu nel cielo e nelle acque del lago, nuvole leggere, gli appezzamenti dei campi coltivati ben squadrati, nel guardarli si ha la stessa impressione che danno quelli di Venezia: i colori e la composizione hanno un che di superficiale e di scontato,  rispetto al cromatismo violento e alle forme scolpite che abbiamo visto in precedenza con il relativo significato.  C’è sempre maestria compositiva e impatto cromatico ma manca la sua forte creatività.

Si reca in due estati successive sul lago ma nel 1924  solo per poco, la salute peggiora e deve tornare a Tartu.  Sul lago Stadjarv è stato anche con l’amico Triik, che attraversa una grave c crisi da quando, nel 1919, era stata stroncata la sua partecipazione alla mostra d’arte come “autore obsoleto”. Deluso dalla vita si era lasciato andare nel bere, pur mantenendo la propria gentilezza; aveva partecipato a una giro  sul lago al quale Magi aveva rinunciato, salvandosi dal rovesciamento della barca nella quale era rimasto ucciso un insegnante. Magi scrisse: “Domani sarebbero potuti essere anche i miei funerali, ma un certo presentimento e un’altra piccola ragione mi hanno salvato. Non si può dire che questo fatto mi renda felice”.

Non potrà essere più felice perché le condizioni di salute si aggravano, gli viene diagnosticata anche per errore la tubercolosi in aggiunta alle gravi malattie di cui soffre da tempo, per questo nell’autunno del 1924  va nel sanatorio di Schomberg-Neuenburg in Germania occidentale, con il permesso della scuola con la quale, comunque, erano sorti problemi per i suoi sospetti verso i colleghi probabilmente a causa della paranoia, che lo avevano portato a parlarne male. Torna a Tartu nell’inverno del 1925 e a febbraio viene curato in una clinica per le malattie interne. Si susseguono le allucinazioni dopo i segni di schizofrenia, la sifilide ha attaccato il suo cervello.

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Ma ancora resiste e, poiché nel mese di maggio aveva lasciato  Tartu per i suoi viaggi, pensa addirittura di andare ad Elva, località di villeggiatura dove era già stato in primavera, diceva che faceva bene ai suoi polmoni malati.  Le allucinazioni provocano atti inconsulti, lancia gli oggetti che gli capitano sottomano e getta anche i suoi quadri  dall’abbaino del tetto sulla strada sottostante. Sono diverse le azioni anomale che compie come effetto della malattia, tra l’altro fa cancellare con il detersivo i suoi dipinti per liberare la tela e dipingere ancora, cosa evidentemente insensata.

Finché il 28 maggio il padrone di casa, un magnate di Tartu,  chiede alla polizia che venga ricoverato  in un ospedale psichiatrico, chiamano l’amico Triik per testimoniare sulle sue condizioni mentali. Non esita a denunciare le stranezze anche pericolose, e chiede anche lui il ricovero in clinica per la sicurezza dell’artista  che potrebbe suicidarsi, e quella degli altri, si parla della possibilità che appicchi un incendio.  I suoi allievi e colleghi della scuola “Pallas”  vegono a prenderlo a prenderlo per portarlo nell’ospedale psichiatrico evitando un trasferimento più deprimente. Infatti Magi li accoglie gentilmente e va chiacchierando con loro senza  sospettare nulla, soltanto all’arrivo quando si accorge della destinazione cerca di fuggire, insulta medici e infermieri ma ormai non può più sottrarsi, l’ultima ribellione è conto i vestiti dell’ospedale.

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Lo andrà a trovare un fratello, pur con una certa indifferenza, del resto è molto difficile rintracciare i suoi parenti, è come se fosse venuto dal nulla, osserva Epner.  Alterna momenti di lucidità a momenti di alterazione, atti di violenza e di gentilezza verso i medici, getta i vestiti dalla finestra, rompe una sedia, compie altri atti inconsulti, vaneggia. Il 2 giugno scrivono sulla sua cartella clinica “Completamente folle”..

Peggiora rapidamente anche il suo stato di salute fisica, oltre a quello mentale, nel mese di agosto compaiono perfno le piaghe da decubito,. Sabato 15 agosto 1924, alle ore 13,20 cessa di vivere.

La stampa locale dà rilievo alla sua scomparsa, al funerale partecipano le istituzioni locali, viene definito da un critico che un anno prima lo aveva stroncato,  “l’argonauta dell’arte estone”, e nelle settimane successive già si comincia ad organizzare una mostra, che si tiene nel mese di dicembre dello stesso 1924  con 150 suoi quadri raccolti con annunci sulla stampa, cui se ne aggiungono 30. E’ una mostra-mercato, i suoi quadri vengono venduti a privati benestanti e istituzioni a quotazioni considerevoli. Nei due anni successivi gli allievi del “Pallas” organizzano un fiaccolata notturna nell’anniversario della morte, dopo 7 anni viene pubblicata una monografia di un suo allievo.

Quanti quadri ha dipinto Magi? Viene fatto il numero di 400,  ma si conoscono le riproduzioni di meno di 200 opere,  e anche di queste sono scomparsi parecchi originali. La sua influenza sull’arte estone è stata notevole negli anni ’20 e’30, poi ci fu l’ostracismo degli occupanti sia nazisti che sovietici; i primi consideravano “arte degenerata” tutto ciò che non rientrava nei canoni figurativi del nazismo, per i secondi era ammesso solo il “Realismo socialista”  per la propaganda di regime. Con degli stratagemmi venivano fatte vedere di nascosto agli studenti le sue opere”vietate”.

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Finito questo ostracismo, sono state organizzate mostre delle sue opere al Museo nazionale d’arte dell’Estonia e dal Museo di Tartu in patria e all’estero, nel 1978 per il centenario della nascita la sua totale riabilitazione, anzi più propriamente il rilancio che merita la sua arte indiscussa, un modernismo che ha fatto tesoro di tante correnti d’avanguardia senza adottarne nessuna ma creando uno stile personalissimo che ha innovato nella pittura del paesaggio, cosa difficile essendo il genere più “frequentato” in cui si sono espresse le diverse correnti e cimentati i maggiori artisti.

E lo ha rivoluzionato nella forma e nel colore, con una forza scultorea e un cromatismo intenso di straordinario impatto sull’osservatore. Ma soprattutto ha nobilitato la pittura del paesaggio, che nei suoi quadri da elemento decorativo è diventata espressione di una visione panteistica della natura permeata di religiosità e di spiritualità con la carica interiore della sua estrema sensibilità. “Se studiamo i paesaggi di Konrad Magi – ha scritto Arnaldo Colasanti – entriamo in un mondo naturale che celebra non l’idealità ma la purezza interiore dello spirito della Natura”. .  

Per questo abbiamo ricostruito con molta cura, seguendo la monumentale biografia di Epner, la vita di questo artista in parallelo con le sue opere, in modo da ripercorrere il faticoso processo attraverso il quale è maturata la sua arte, con una fase importante in Italia.

Ed è merito della Galleria Nazionale aver presentato una ricca selezione di dipinti che documentano le varie fasi del suo percorso artistico. “La mostra di Magi – scrive sempre Colasanti – è plurima, corale, confessa le tante vie del Novecento, attesta con forza la consapevolezza filosofica  poetica di quelle vie dentro la lacerazione dello spirito moderno”. Un riconoscimento che va oltre l’arte pittorica per penetrare nella crisi esistenziale di tanti artisti dell’epoca, e non solo di Magi. 

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”, Editore Enn Kunila Srl Sperare, Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e soprattutto dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le notizie e le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti il  3 e 13 novembre u. s.. Per le mostre, gli artisti e le correnti citate cfr. i nostri articoli: in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2013; in cultura.inabruzzo.it,  sul Futurismo, 30 aprile e  1° settembre 2009, sui Realismi socialisti  3 articoli 31 dicembre 2011.(questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono tutte opere del 1922-23. In apertura, “Motivo romano” ; seguono,  “Paesaggio italiano (Roma)” e “Rovine a Capri”; poi, “Capri” e “Paesaggio caprese”; quindi, “Strada di Capri” e Motivo di Capri”; inoltre 5 dipinti intitolati “Venezia”; in chiusura, “Canale a Venezia” matita su carta.

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Alessandra Cesselon, “Storia dell’arte per immagini”

di Romano Maria Levante

In questo sito non pubblichiamo semplici notizie di mostre o manifestazioni  culturali né  mere cronache sommarie ma  ampie recensioni  illustrate da  immagini in cui raccontiamo la nostra partecipazione  all’evento da visitatori appassionati, cercando di approfondirne per quanto possibile i contenuti.

Facciamo ora un’eccezione collegata a una figura, quella di Angelo Cesselon, perché lo abbiamo ricordato tra i maggiori autori, e per certe tipologie  il maggiore, di bozzetti per manifesti cinematografici, un’arte passata ormai alla storia  dato che le nuove tecnologie  hanno sostituito l’opera dei veri pittori i quali tanto hanno contribuito a imprimere negli occhi di tutti le immagini che riassumevano le vicende dei film.

 A questo  riguardo ricordiamo i nostri tre articoli sulla mostra permanente- museo del  “Cinema  a pennello”,  di Montecosaro vicino Macerata, dove  nelle antiche sale di Palazzo Marinozzi  si trovano esposti oltre 100 bozzetti originali raccolti con pazienza e amore di collezionista da Paolo Marinozzi che così ha definito l’arte di Cesselon, cui è dedicata una sala del museo: “Nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica è semplicemente insuperabile”;  per questo fu proclamato “maggiore artista dell’anno” nel 1955 e “maggiore ritrattista internazionale” nel 1957. I tre articoli sono usciti in questo sito il 15, 17 e 19 novembre 2012, intitolati “Cinema. 100 bozzetti originali a Montecosaro, Macerata”, “Cinema, i bozzetti di Cesselon e di altri artisti a Montecosaro”, “Cinema. Ciriello e i bozzetti di altri artisti a Montecosaro”.               

Ebbene, al grande artista entrato nella storia del cinema,  sarà dedicata una manifestazione domenica 26 novembre p. v. nel pomeriggio al Mitreo Iside di Roma, per opera della figlia Alessandra Cesselon, curatrice dell'”Archivio cinematografico Angelo Cesselon”, storica dell’arte, operatrice culturale ed artista, che attraverso “Rete Cultura” di cui è titolare e animatrice, organizza e svolge lezioni, visite guidate, incontri artistici con un impegno meritorio e appassionato. Sarà lei stessa a fornire le indicazioni su tale evento nell’incontro che si terrà  mercoledì 15 novembre p. v. alle ore 18, sempre a Roma,  a ingresso libero, nello storico Caffè letterario “Mangiaparole”  in via Manlio Capitolino 7/9 (Metro A fermata Furio Camillo)  sulla  “Storia dell’arte per immagini”, uno dei quattro a cadenza mensile, questa volta sull’Arte paleocristiana e sulle due grandi mostre, “Monet”  e “Picasso”, in corso al Vittoriano e alle Scuderie del Quirinale. 

Nella locandina che riportiamo vi sono le indicazioni per partecipare all’incontro, al di là del riferimento all’arte di Angelo Cesselon, date le qualità come storica dell’arte e artista di Alessandra Cesselon  e il vivo interesse della sua spettacolare formula  divulgativa per penetrare  nei contenuti dell’arte e della storia.

Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, l’isola di Saaremaa

di Romano Maria Levante

Prosegue  la nostra vista alla  mostra “Konrad Magi  (1878-1825)”,  aperta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018,  con circa 50 dipinti e 15 disegni, del Museo Nazionale d’Arte Estone e di Tartu e della collezione privata del grande collezionista d’arte e imprenditore dell’Estonia Enn Kunila.  La mostra  segue l’esposizione a Roma al Vittoriano di 10 sue opere insieme ad altri artisti estoni, in occasione dell’Expo milanese nel 2015, mostra ripetuta a Firenze nel 217 . Questa mostra, la maggiore sull’artista in Europa, è  stata realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner . che ha curato anche il Catalogo edito da Eesti Kunstmuuseum. Si celebra  la presidenza dell’Estonia del Consiglio dell’Unione Europea e il  100° anniversario della Repubblica d’Estonia con l’omaggio al maggiore artista estone. 

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Abbiamo in precedenza cercato di illustrare, seguendo l’accurata ricostruzione del biografo Epner,  il lungo periodo di formazione di Konrad Magi, che prima di iniziare a dipingere regolarmente lasciò l’Estonia per recarsi con soggiorni di diversa durata, ma sempre breve, s San Pietroburgo e alle isole Alland, a Parigi ed Helsinki fino all’approdo in Norvegia dove ruppe il ghiaccio con la pittura dopo aver immagazzinato tutto quanto gli veniva trasmesso dall’intensa temperie artistica dei primi del ‘900, ed era tanto, soprattutto a Parigi.

Della Norvegia abbiamo commentato le 12 opere esposte in mostra, diversi “Paesaggi” e un “Ritratto di ragazza” , cercando di interpretare il rapporto con la natura nella sua poetica artistica,  fino al senso di religiosità panica che pervade il suo animo inquieto.

Vediamo ora come si svolgeva la sua permanenza nel paese che gli aveva dato la spinta, con il suo forte richiamo naturale, per fare ciò che non gli era riuscito neppure nella mitica Parigi: dipingere. 

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Una sorpresa dopo l’altra, perché sono state sorprendenti le sue delusioni dopo breve tempo a San Pietroburgo e nella stessa Parigi, che pure era stata per lui un sogno infine raggiunto ma poi svanito. Ebbene, anche la Norvegia lo delude pur se ne ha sbloccato la vena artistica, e lo abbiamo visto:  “La vita qui in Norvegia mi offre molto poco, alla fine stufa… Certo, in tutta questa vita  c’è sicuramente qualcosa di buono, ma molto poco, o almeno io non lo vedo. Ho lavorato poco, molto poco ma per ragioni diverse”.

Tra queste ragioni c’è sempre la salute, sempre più cagionevole, e la solitudine, “la cosa peggiore è che sono completamente solo, che qui non c’è nessuno  dei nostri”.  Commenta Hepner: “In Norvegia, lo spleen di Parigi si trasforma in disperazione  e rabbia”. E aggiunge: “I due anni in Norvegia costruiscono Konrad Magi come artista, ma lo distruggono quasi completamente come persona. Scriverà:  “Tutta la vita non è altro che sofferenza. E se c’è qualcosa di più alto della vita, la gente non può raggiungerlo… è impossibile vivere qui, ma non posso andarmene”.

Intanto in Estonia comincia ad essere conosciuto  il Magi pittore, non sono vie misteriose, si inizia con la presentazione di un grande ritratto fattogli da Triik ed esposto il 20 agosto 1909 a Tallin in una mostra che segue di tre anni quella alla quale lui e i suoi amici radicali non avevano voluto partecipare per dissensi politici, tra l’altro con uno scultore detestato, ora invece assente; per arrivare alla visita nella sua casa notvegese di  Kristiania nella primavera del 1910  di Viergo e Linde, il secondo scriveva di arte sulla rivista “Giovane Estonia” che mirava a far conoscere l’arte in chiave modernista.  Parlano di lui nel suo paese attraverso la stampa, poi Virgo organizza una mostra a Tartu e vi espone un  gran numero di opere di Magi, 6-7 portate  in valigia dalla Norvegia, molte altre spedite per posta, in tutto 40 quadri esposti nella mostra inaugurata il 17 ottobre 1910.

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Commenta Epner: “Konrad Magi è ora immortale… il successo di Konrad Magi richiese un solo secondo, nel momento stesso in cui la terza mostra d’arte estone venne aperta, Konrad Magi divenne una star”.  E soprattutto piovono le vendite, nella prima settimana per 240 rubli “le sue quotazioni in quattro giorni sono passate dal nulla alle stelle” e  le vendite  raggiungono i 1000 rubli, pari alla retribuzione di un sindaco per un periodo di un anno e mezzo., più di ogni altro artista.

Questo avveniva in patria, non sfondò invece in Norvegia pur partecipando a una mostra nella rinomata galleria Blomquist di Oelo invitato da Krogh. Ma non se ne preoccupa, vuole tornare a Parigi e può farlo con i ricavi delle vendite alla mostra di Tartu. Vi arriva all’inizio di dicembre 1910, era giunto in Norvegia a metà luglio del 1908, ma aveva cominciato a pensarci fin dal gennaio allorché, come abbiamo visto, ne era tornato Triik entusiasta: sono passati quasi tre anni.

Il secondo soggiorno parigino inizia in condizioni molto diverse del primo,ora non ha soltanto il sogno di diventare artista, prima deluso; artista lo è diventato, in Norvegia ha dipinto un centinaio di quadri, molti sono stati venduti ad alte quotazioni nella mostra di Tartu, un’altra è seguita a Oslo. I risultati tuttavia sono gli stessi, partecipa alle manifestazioni, dalle mostre ai concerti agli spettacoli teatrali, ma non riesce a entrare nel mondo artistico, anche perché non vuole imparare il francese, e si accorge di non contare nulla lì, altro che la “star” che si sente di essere nel suo paese!. “Parigi era una passione ossessiva – nota Ebner – nata senza che ls città gli avesse sorriso una sola volta”.

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 E poi, sembrerà una nemesi, tornano tutti i problemi del soggiorno precedente,cominciando da quelli economici perché si esauriscono le risorse ricavate dalla vendita di quadri alla mostra di Tartu, tanto che proverà invano ad essere sostenuto dalla fondazione Bergamann che assisteva i giovani artisti; inoltre la sua salute è sempre più cagionevole nell’abitazione che ancora una volta è fredda ed umida, si ammala come molti suoi compatrioti sebbene abituati ai freddi del Nord.

Non ha più dipinto dopo l’exploit dei 100 quadri della Norvegia, né si sente di ricominciare.  Per Epner “a Parigi Magi non è in paradiso, ma in una trappola”. Un intermezzo in questa situazione nuovamente senza uscita è l’escursione con Ferdinand Kull in Normandia, a Dieppe, dove gli torna la voglia, e la forza, di dipingere, si conoscono una diecina di quadri, ma altre opere, forse molte, dovette venderle per mantenersi. Vediamo esposto un dipinto intitolato semplicemente “Normandia”, 2011, una sorta di striscia sabbiosa a sinistra con un vasto retroterra verde a picco sulla spiaggia, sulla destra quasi per l’intera estensione del quadro, un mare molto particolare,  la cui superficie  è resa da pennellate bianche  e celesti con un effetto che richiama le ninfee di Monet anche se qui le macchie chiare sull’acqua sono molto più piccole.  E’ un paesaggio aperto e luminoso molto diverso da quelli norvegesi, arcigni nella forma e sconvolgenti nel contenuto.

L’intermezzo della Normandia cessò presto, l’anno successivo, nel marzo 2012, a Parigi 3 sue opere “Ritratto”, “Paesaggio decorativo” e “Schizzo” sono esposte alla mostra del “Salon des Indépendants” , una sorta di spazio anarchico dove chiunque poteva portare le sue opere; c’è anche Marc Chagall, che era stato suo vicino in quella specie di squallida foresteria per artisti che era “La Ruche”, “condividevano lo stesso alveare ma entrambi avevano la propria cella”, Magi e Léger, e anche Chagall che ha esposto un proprio quadro con l’asino d’oro mentre fuma l’oppio.

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Un altro alveare sterminato quello della mostra, con 6000 opere esposte, ma la rivista “Chronique des Arts” citò proprio Magi tra gli 11 artisti stranieri ritenuti degni di menzione per seguire gli orientamenti dell’arte francese, in cui convergevano una serie di stili, nella mostra dominavano il neoimpressionismo e il cubismo. Nell’opera di Magi i critici hanno trovato fino ad 11 stili, il che significa che nessuna corrente vi ha impreso il suo sigillo, il suo stile resta molto personale pur alimentato dai tanti stimoli provenienti dall’ambiente artistico frequentato. Epner ricorda le parole del pittore amico di Magi Triik,  negli ultimi anni di vita: “Farsi strada nel vortice delle influenze per trovare se stesso è difficile e non sono sicuro di esserci riuscito”.  E conclude che, essendo giunto nella capitale francese  a 29 anni  per tornarci a 32, “per questo Parigi non influenzò Magi tanto con diverse dottrine artistiche, ma con il meglio che aveva da offrire: la libertà assoluta”.

Il pluralismo artistico era largamente diffuso, fino ai caffè dove si moltiplicavano le avanguardie perdendo quindi di peso e nel loro affastellarsi facendo risaltare l’identità individuale: “Magi non cominciò mai a copiare la metropoli, perché la metropoli stessa gli aveva insegnato  a non farlo: importante non è adeguarsi al canone esistente, ma creare il proprio canone”.  Per l’artista estone c’era una strada e la seguì con costanza: “Rimanendo fuori dai giochi, Magi potè essere più selvaggio, cambiare il proprio approccio e stile,  a volte fallire e scoprire a quel modo errori interessanti. Non fu mai coerente in nessun approccio artistico, l’unica cosa che contraddistinse la sua arte dall’inizio alla fine fu la centralità dei paesaggi e dei colori”.

Così, con le parole di Epner, abbiamo evocato la cifra artistica di Magi, sia pure descrivendola come indefinibile, per interpretare meglio le opere realizzate dal 1912 al 1925.

Magi torna in Estonia tra la fine di maggio e l’inizio di giugno  1912,  sebbene la situazione sembri migliorata, dopo le nuove delusioni parigine che gli hanno fatto scrivere  il 29 dicembre 2011 le parole: “Mi ha preso una tale apatia che tutto mi è indifferente. Se prima amavo così tanto Parigi e tutto ciò che è Parigi, ora vedo tutto nero”. E’ stato 9 anni all’estero, è diventato un artista.

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Giunti a questo punto continuiamo a seguire la biografia, ora è immerso nella produzione artistica dopo le lunghe e inquiete  fasi del suo tormentato  avvicinamento all’arte muovendosi alla ricerca di sé, per introdurre le altre opere esposte in mostra.

Tornato nella sua Tartu, sente negativamente il clima da cittadina di provincia che lo opprime per motivi opposti dell’insofferenza nelle grandi città. Tornano le difficoltà economiche e deve vivere in casa della sorella, l’unica con cui ha contatti non avendo nessun rapporto con i quattro fratelli maggiori, Questa inquietudine si riflette nei suoi dipinti.

Finché, nell’estate dl 1913, l’anno dopo il ritorno in patria, va a fare delle cure termali nell‘isola di Saaremaaa dove ci sono i fanghi terapeutici, ci tornerà nel 2014.  Lo scenario naturale è molto diverso da quello norvegese, “dall’apparenza ancestrale – così lo definisce Epner  – come se il mondo fosse ancora in procinto di essere creato”; è un ambiente nel quale si sente “il ritmo arcaico della natura o l’origine mistica di tutto quanto esiste”, in altri termini è un “qualcosa di metafisico, quasi irraggiungibile, che si stende sopra ai tempi come l’oceano si stende sopra il fondo del mare”.

Sono esposti 11 quadri del biennio 1013-14. Di questi, 3 con una dominante rossa nel cielo: così in “Paesaggio dell’isola Saaremaa” la composizione è in orizzontale quasi geometrica, con campagna e verde, case e acqua sotto un cielo in cui il rosso si avvita intorno al giallo del sole, mentre in “Paesaggio con nuvola rossa”, l’incendio del cielo illumina una terra scura con la macchia biancastra di un laghetto, e in “Paesaggio con sole”  l’esplosione cromatica si estende anche alla terra salvo una ristretta fascia centrale.

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Il rosso diffuso  si stempera nell’arancio nel cielo con nuvole bianche in “Motivo dell’isola di Vilsandi”,   a terra i colori impressi in modo puntiforme danno all’insieme un aspetto quanto mai tormentato, il faro sulla sinistra; mentre in “Paesaggio dell’isola di Vilsandi”  colpiscono i blocchi di rocce sul verde dell’acqua striato di bianco con il nero della scogliera e sullo sfondo il faro che fende il cielo corrusco. Blocchi di verde, invece,  al centro di “Isola di Saaremaa. Studio”, isolati nel biancore rispetto ad altre formazioni puntiformi sul rosso arancio, l’acqua una striscia sottile; analogia compositiva con “Motivo dell’isola di  Saaremaa”, stessi blocchi verdi sul biancore, sempre a sinistra il faro, l’acqua ben più estesa, di un blu molto intenso. I massi tornano in “Paesaggio con pietre”, sparsi sul verde sotto un cielo con nuvole rosa massicce come le pietre, sullo sfondo le guglie montagnose e il profilo di un ipotetico abitato, e in “Paesaggio con mulino”,  dove prevale il verde in una composizione serena senza asprezze cromatiche né concitazioni pittoriche. Lo stesso per i “Cavoli marini”,  bianco e verde chiaro si alternano in una visione quasi floreale con addensamenti puntiformi giustificati dal soggetto. Conclude questa piccola galleria “Paesaggio dell’isola di Saaremaa”, diverso dagli altri, con un cielo uniforme bianco e livelli alternati di addensamenti cromatici sul verde e bianco sempre con le pennellate puntiformi.

Non c’è  la distensione paesaggistica che le amene vedute dell’isola di Saaremaa e Vilsandi potrebbero ispirare, l’asprezza  primordiale è la caratteristica di queste composizioni. Angelo Colasanti, riferendosi  a “Paesaggio con pietre”, definisce tale caratteristica “una frontalità insistita, perentoria, come dire, accecante. La frontalità del paesaggio che arriva fino all’astrazione di quel paesaggio. Le nuvole cariche di rosa e di ametista vengono dipinte da un pennello che non tocca ma scava  dentro il cielo bianco, beige chiaro, acquamarina con bave di indaco pallido. E’ un pennello, in definitiva, che non spande la luce ma incide ed estrae, cioè tira letteralmente fuori la materia fossile, quella dura e glaciale della memoria”.  

Dopo aver sottolineato la “precipitazione di rocce, di cespugli, di chiazze di colore”,  Colasanti aggiunge: “Assistiamo ad un calpestio ritmico di cromatismi che si diffondono in colori e varianti di colore: diciamo blu, blu ceruleo e dunque cobalto,  a tratti indaco, poi rosa e giallo viola lungo gomiti di un cuoio rosso o almeno di una pelle sfregiata e incandescente. E’ questo essere colpiti sulla retina il punto magico del quadro: la splendida concretezza di un naturalismo  che è capace di arrivare alla massima astrazione, la vera forza della Natura, l’inquietante nudità del panorama che osserva”. Descrizione quanto mai efficace della violenta tempesta cromatica unita alla straordinaria forza compositiva,  il “punto magico” di cui parla Colasanti non è solo di “quel quadro”, è di tutti i suoi quadri con questa intensa ispirazione.

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Epner  ci dà una descrizione accurata,  penetrando all’interno  della tecnica pittorica: “Magi rappresenta l’arcaicità della natura con una straordinaria energia di colore, i suoi colpi di pennello sono forti, spesso unici, lasciando uno strato di colore molto fine. .La fattura della tela traspare sullo sfondo e conferisce alle strisce di colore un’impressione di spaziosità. La riva del mare esplode in decine di toni, la spiaggia è piena di pietre in tutte le gamme di arancione, azzurro, viola, giallo, verde e bianco. Il pennello imprime sulla tela singoli punti giustapposti, alcuni più spessi, altri più fini. Tra un punto  e l’altro parte della tela è rimasta intonsa e i suoi filamenti aggiungono toni bruni al dipinto. Nei quadri di Magi fa ora la comparsa anche un elemento visionario: le pietre sono dipinte in colori allucinati, sopra all’orizzonte sta appeso un sole che brucia”, e lo abbiamo visto soprattutto nei primi tre sopra descritti. Così conclude Epner: “Nei suoi quadri la natura diviene una forza mistica e l’artista stesso sembra aspirare a fondersi in qualcosa di più grande di lui. Era un fuoco interno ad alimentare queste ricerche, lo stesso fuoco che faceva bruciare i suoi paesaggi e che alla fine consumò Magi stesso”.  Dalla tecnica pittorica si passa alla intensa motivazione interiore che la anima, all’inquietudine esistenziale.

Ma andiamo avanti nella biografia cui si collega un nuovo ciclo pittorico. La vita dell’artista ora si svolge tra Tartu e Vilsandi dopo le due estati trascorse nell’sola di Saaremaa, è inquieto per la precarietà delle diverse residenze e per i problemi di salute  che si sono aggravati, inoltre soffre di solitudine anche se, osserva Epner, “non fu in realtà mai davvero solo, lo circondarono sempre colonie, compagnie, movimenti, ma si sentì sempre dimenticato e abbandonato, incapace di sviluppare relazioni con le altre persone. Era lo spleen a tormentare Magi, una generale noia per la vita combinata a misantropia, una diagnosi letale a livello sociale che si nutriva anche dello spirito del tempo”.

Tutto questo sebbene fosse ormai ben conosciuto e la sua arte fosse apprezzata, otteneva riconoscimenti ufficiali come l’artista di punta dell’Estonia, migliorò finalmente la sua situazione economica ma non mutò il suo atteggiamento anarchico e ribelle nei confronti delle istituzioni e dell’ideologia nazionale.  E questo in un periodo in cui l’Estonia divenne uno stato indipendente con il conseguente trionfo dei sentimenti nazionalistici, di cui appunto la mostra celebra il centenario.

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Sul piano artistico, nonostante la misantropia e l’incapacità di sviluppare relazioni di cui parla Epner, si impegnò nel rendere l’arte popolare pur non avendo fiducia nella capacità di comprendere il modernismo da parte del pubblico che invece si rivelava aperto e ricettivo. Si dedicò anche all’insegnamento dell’arte e nel 1919  fu tra i fondatori e primo direttore della scuola d’arte “Pallas”; e lo fece rifiutando ogni impostazione convenzionale con criteri prefissati, volle che la sua scuola fosse uno spazio creativo e lasciasse gli allievi assolutamente liberi nell’espressione artistica.

Così i giovani artisti estoni varcarono il Rubicone del modernismo dedicandosi anche ad opere in stile cubista e all’astrattismo, mentre Magi continuò a dipingere nel suo stile personalissimo che faceva tesoro dei tanti stili e delle avanguardie senza che fossero riconoscibili gli specifici influssi.

L’inquietudine, però,  non si attenua, mentre i problemi fisici si aggravano, e questa volta se ne colgono chiari riflessi nelle sue opere che perdono la brillantezza cromatica,  e si scuriscono quasi a voler esprimere l’incupirsi della sua visione pessimistica:  “Anche se i quadri di Magi continuano a riflettere le sue esperienze nella natura – osserva Epner –  si trasformano ora da specchi esistenziali in amplificazioni della vita interiore dell’artista. Seguendo il mutamento dei suoi paesaggi in panorami dall’orizzonte infinito, possiamo notare come l’attitudine dell’artista si facci pensierosa”. E più precisamente: “L’inquietudine che contraddistingue Magi si rispecchia innanzitutto nelle nuvole, ma un nuovo motivo ricorrente nei suoi dipinti sono ora i laghi. Quasi tutti i quadri contengono una superficie, la cui gamma si estende da una macchia di colore blu fino a uno specchio scuro che inghiotte la luce”.

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Possiamo riscontrarlo negli 11 dipinti esposti del periodo 1915-20.  In effetti, non vediamo il lago soltanto in “Andando da Vijandi a Tartu”, 1915-16, le due residenze di quegli anni, ma le nuvole si addensano tempestose, anche se sono di colore chiaro,  su un paesaggio con la casa nel verde e campi luminosi, un’eccezione rispetto alla generalità di visioni cupe che vedremo subito. Così il “Paesaggio della regione di Vorumaa”, 1916-17 e “Paesaggio di Otepaa“, 1918-20 sono scuri in modo impressionante perché pur se sono presenti colori caldi, la cupezza dei verdi e dei neri, senza l’apertura del cielo, li rende  quanto mai tenebrosi. Più aperto “Paesaggio di Kasaritsa”, 1916-17, e in minor misura,  “Paesaggio di Rouge”, 1918-20, in entrambi le nuvole sono tempestose, per non dire minacciose, il primo in una tonalità verde chiaro  sorprendentemente omogeneo, il secondo con contrasti cromatici tra il verde di varie tonalità e le tinte calde dei terreni intorno al lago  che occupa l’intero dipinto, attraversato da una sorta di istmo coperto di alberi fino a una radura.  

Gli altri dipinti di questo periodo esposti nella mostra sono direttamente intitolati ai  laghi che raffigurano: Il più grande e il più cupo è il “Lago di Kasaritsa”, 1916-17, con i filari di alberi i cui tronchi si riflettono nell’acqua, mentre il “Paesaggio del lago Puhajarv“, 1920,   è reso luminoso dai vasti campi giallo-arancio con evidenze arboree altrettanto luminose, ma è un’eccezione perché altri 3 dipinti  intitolati “Lago Puhajarv”, tutti del 1918-20,  sono quanto mai tormentati da un cielo tempestoso con formazioni arboree raggrumate in dense macchie cromatiche . .

Ma non finisce qui, l’anno successivo c’è la nuova svolta, Magi lascia ancora l’Estonia, dopo nove anni va verso il  Sud, in Italia, a Roma, Venezia e al sole di Capri. Con molti cambiamenti, nella sua visione della vita e nella sua arte. Ne parleremo prossimamente.  

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”,  Editore Enn Kunila, Srl Sperare, Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e soprattutto dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 novembre u. s., il terzo e ultimo uscirà il 17 novembre p. v.  Per le mostre, gli artisti e le correnti citate nel testo, cfr. i nostri articoli:  in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Chagall 30 maggio, 12 giugno 2016, Impressionisti téte a téte 5 febbraio 2016, Impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2013,  Astrattisti 5, 6 novembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it,  Da Corot a Monet, gli impressionisti, 27, 29 giugno 2010 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari deidiritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Paesaggio dell’isola di Vilsandi” 1913-14; seguono, del 1913-14, Cavoli marini”  e “Motivo dell’isola di Vilsandi”; poi, “Andando da Vislandi a Tartu” 1915-16, e “Lago Valjarv” 1916-17; quindi, “Paesaggio di Otepaa” 1918-20, e “Lago di Kasaritsa (Verijarv)” 1916-18; inoltre, “Paesaggio del lago Puhajarv” 1920, e“Lago Puhajarv” 1918-20; infine, altro “Lago Puhajarv” 1918-20, e “Paesaggio del lago Saadjarv I” 1923-24; in chiusura, altro “Paesaggio del lago Saadjarv II”, 1923-24, i due ultimi saranno commentati alla fine del terzo articolo..

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Mangasia, diffusione e influenza dei fumetti asiatici, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “Mangascia, wonderlands of Asian Comics” , al Palazzo Esposizioni di Roma dal 7 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018 sul “manga”, il fumetto asiatico, del quale viene presentata una vastissima selezione estesa alla vasta area che va dal Giappone al Pakistan e alla Mongolia, e comprende più di 20 paesi,  articolata in sezioni tematiche riferite ai contenuti. La mostra è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo,  e curata da Paul Gravett, come il monumentale catalogo di “Thames & Hudson”. molto ben documentato e illustrato.

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In precedenza, dopo aver ricordato le precedenti mostre del Palazzo Esposizioni su temi di attualità, dal “DNA”  ad “Astri e paricelle”, abbiamo inquadrato i “manga” nella tradizione giapponese e abbiamo accennato alla varietà di contenuti, ispirati non solo a temi quali le favole e la religione, gli esseri fantastici  e gli eroi, ma anche a temi storici nei quali vengono rievocate vicende cruciali nell’esistenza dei popoli dagli angoli di visuale propri di questa forma espressiva, in stretto collegamento con l’attualità. Abbiamo inoltre  accennato a come nascono i “manga”, e a qual è la condizione degli autori. Tutto questo in rapporto alle strisce e ai libri di fumetti esposti nelle prime sezioni della mostra.

Ora passiamo ai temi restanti, anche qui in collegamento con le ultime sezioni, in particolare sulla libertà di espressione e sulla diffusione per fasce di lettori dei contenuti per loro più adatti, fino alle trasposizioni dei personaggi resi famosi dai fumetti negli altri media, come il cinema e i “cartoons”, la televisione e  gli ultimi mezzi telematici

I “manga”  e la libertà di espressione

La forza dei fumetti è andata crescendo, anche in regimi  come quello cinese, al riguardo si citano i due gruppi, “Special Comics” a Nanchino e “Cult Youth” a Pechino, che pubblicano quasi clandestinamente antologie  di “manga” realizzati da autori indipendenti, di critica non solo al capitalismo ma anche al comunismo. In un paese che sul piano economico pratica il capitalismo di mercato e sul piano politico il comunismo autoritario, ciò vuol dire mettersi dichiaratamente contro il regime.

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Fumettisti “alternativi”  sono diffusi anche in altri paesi asiatici, dove soprattutto i giovani vengono incoraggiati a impegnarsi senza conformismo nella realizzazione dei “manga”, anche ricorrendo alla tradizione per recuperare i valori e l’identità.

Si possono evitare interferenze limitatrici della libertà di espressione se non si  dipende da un editore tradizionale e si  ricorre ad altri canali, e soprattutto se si ha successo di vendita nel qual caso anche opere innovative e “non ortodosse” passano senza problemi al vaglio della pubblicazione, vengono citati gli esempi di Jirò Taniguchi, con il suo inusuale  “camminatore solitario”  e Taiyò Matsumoto, con il suo “Sunny” fortemente autobiografico

Proprio per la loro destinazione a un  pubblico molto vasto, soprattutto giovanile, ma comunque diffuso, i fumetti si trovano sempre sottoposti all’osservazione attenta delle autorità e dei moralisti, come dell’industria editrice nel timore di alienarsi simpatie e benevolenze, perciò anche autori ed editori sono propensi ad autocensurarsi prima di subire eventuali censure.

Naturalmente gli atteggiamenti variano da paese a paese in funzione dei rispettivi regimi politici e dei leader, dei costumi e dei sistemi giuridici, dei poteri religiosi e degli stili di vita, comunque in generale si può dire che dal dopoguerra è stato sempre più difficile controllare i “manga”  nonostante i temi  scomodi affrontati sia nella politica sia nella morale come quelli sessuali, e i toni spesso violenti, secondo l’antica tradizione delle stampe giapponesi.

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Gli editori alla ricerca di nuovi talenti organizzano concorsi come il “Manga Open” dell’editore Kodansha per il settimanale “Morning”, che ha dato il successo al vincitore del 2011 Miki Yamamoto, creatore  di un’eroina determinata e indipendente;  oppure li assumono su segnalazione di un autore affermato come è stato per Ken Njimura, “raccomandato”  all’editore dall’affermato Taiyo Matsumoto; un altro giovane, Siu Hak, su “Touch Magazine”, dal 2004 al 2016 si è imposto con temi quali i grattacieli di Tokyo trasformati in robot, gli “Harbour Heroes”,  e la celebrazione del  leader studentesco Joshua Wong protagonista della “rivolta degli ombrelli” del 2014.

Sui rapporti con l’arte, possiamo dire che che la Pop Art si è molto avvicinata al fumetto,  tanto che l’americano Roy Lichtenstein ha preso il fumetto americano come modello per le sue celebri raffigurazioni. In Asia abbiamo lo stile postmoderno del  “superflat giapponese”, naturalmente contiguo del fumetto, in comune c’è sempre una narrazione.

Detto questo,  c’è stata nel tempo un’evoluzione che ne ha esteso sempre più la destinazione e aumentato quindi la diffusione.

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La diffusione dei “manga” per fasce di lettori e relativi contenuti

Per restare nell’epoca più recente si nota che mentre nel dopoguerra i “manga” erano rivolti soprattutto ai giovani, già con gli anni ’50 hanno cominciato ad interessare un pubblico più adulto, con immagini realistiche ispirate ai film “noir” e dell’orrore, noti come “gekiga” che sta per “immagini drammatiche”, tra i più noti autori Yoshiro Tatsumi e Tadeo Tsuga

Il genere  si è esteso sempre più negli anni ’70  con i fumetti definiti “seinen”, tra quelli di maggior successo la serie “Dokudami Tenement”, con un giovane disadattato rispetto alla vita che conduce, riflesso  delle frustrazioni dell’autore,      Takashi Fukutami.

Nel 1980 abbiamo il fumetto “underground” come quello di Takoshi Nemoto,  provocatorio, si definisce “ottimista-pessimista”,  il personaggio  ricorrente è un derelitto  in stile punk  definito “capace-incapace”. Trasgressivo il fumetto per adulti di  Gengoroh Tegane,  sul dramma familiare dei rapporti gay in una società omofobica come quella giapponese, in “My Brother’s Husband”,  titolo quanto mai eloquente. 

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 Come ci sono i fumetti “noir”, ci sono quelli  “rosé” e “lady comics”,  opera delle fumettiste, molto ricercate dagli editori  negli anni ’80 per  interessare di più il pubblico femminile, rispettivamente le adolescenti per i “rosè” e le adulte per i “lady comics”.  In questo ambito, Mariko Kusumoto dal 2009 è la più coraggiosa nello sfidare  molte convenzioni  tradizionali radicate nella società giapponese, in particolare sul sesso e sull’emancipazione femminile.

Ma ci sono anche i “boys’ love” creati “dalle donne per le donne”, si tratta del genere omoerotico detto dello “yagi” che si diffuse dalla fine degli anni ‘’80, definito “senza climax, senza conclusione, senza significato”, ad opera di epigone delle donne che all’inizio del decennio avevano introdotto nei fumetti l’amore tra ragazzi, lo “scenen”, come Keiko Takemya e Moto Hagio. Si tratta di opere, spesso autopubblicate nelle riviste commerciali, su amori omosessuali femminili, storie antiche  e moderne, dalla mitologia alla quotidianità,  in vari stile e generi, che hanno conquistato un mercato vastissimo (2,2 miliardi di yen nel 2010), e sono penetrate anche in paesi mussulmani, quindi di grande rigore su questi temi, come Indonesia e Malesia.   

Nell’apposita sezione della mostra c’è un “separè” per isolare i fumetti più “osè”, ma possiamo dire che non sono vistosi; molto più espliciti, pur nella loro raffinatezza,  certi dipinti di Hokusai ed Eisen del genere “shunga”, che vuol dire “pittura della primavera” ma anche atto sessuale.

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Erano xilografie per uso privato pubblicate in fogli singoli o libretti di 12 pagine,  diffuse prima del 1868 allorché con l’apertura verso l’esterno del Giappone, cui abbiamo già accennato, nei contatti con l’Occidente furono acquisite anche riserve morali e tabù, come quello sessuale, tanto che fu inserito nel codice il reato di “oscenità”, prima assente; poi, con la Costituzione del 1947 fu vietata espressamente la raffigurazione esplicita di tutto ciò che aveva diretta attinenza con l’atto sessuale. I “manga” per adulti succedono dunque ai più antichi “shunga”, xilografie senza veli per così dire.

Altre xilografie “estreme” sono  le “muzan-e”, “stampe insanguinate”, diffuse soprattutto dopo il 1860, con scene di omicidi ispirati alla vita reale oppure a storie narrate dalla letteratura; tra gli esponenti antichi del genere spicca Tsukioka Yoshitoshi, il cui stile violento lo ritroviamo, tra gli altri,  nei moderni Suahiro Maruo e Kazuichi Hanawa.  Tra la violenza e l’orrore la serie “Asura” di George Akiyama con scene di un cannibalismo materno ben più orripilante di quello del dantesco conte Ugolino, che portarono a proibire la rivista. Sono i “manga” amorali e traumatici , pubblicati dalla rivista Garo, viene commentato, “ci  mostrano gli aspetti più  oscuri dell’animo umano senza offrirci alcuna morale consolatoria né possibilità di redenzione”.

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I “manga” e i “mass media”, cartoni animati e cinema, radio-Tv e video giochi,

La mostra termina con un excursus spettacolare sui “mass media” collegati ai fumetti,  o che ne subiscono l’influenza, anche con una serie di  video che trasmettono in continuazioni immagini e altre visualizzazioni spettacolari, fino a una gigantesca bambola gonfiabile che arriva al soffitto.  

Viene documentato come i “manga” con i loro personaggi siano stati fonte di ispirazione per i cartoni animati e il cinema, la radio e la televisione, fino ai video giochi e gli smartphone; non solo, anche la musica e la moda ne sono state influenzate.

Sui cartoni animati viene ricordato che furono i fumettisti un secolo fa a compiere in Asia i primi esperimenti di animazione con cui diedero movimento, suono e colore ai “manga” statici, muti e per lo più in bianco e nero. I primi esperimenti risalgono  al 1916-17 quando la casa cinematografica Tanksatu fece realizzare cinque cartoni animati basati sui fumetti a Oten Shimokawa, il “cartoon” iniziale intitolato “Il Portinaio”, la striscia era uscita su “Tokyo Puck”.  Lo seguirono nel passaggio all’animazione altri noti “mangaka”, come Osamu Tezuka, Hayao Miyazaki e Katsuro Osaka.

Per le altre forme di spettacolo il passaggio dei fumetti alla “live action” avviene naturalmente nei film, nei programmi radiofonici e televisivi, e anche nelle rappresentazioni teatrali, basta che il personaggio sia diventato popolare perché si trasmetta dal media in cui si è affermato agli altri canali di diffusione.

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Sul cinema va sottolineata la frequenza con cui vi sono state trasposizioni dei fumetti, per storie dinamiche e movimentate; vengono citati i “manga” dello scrittore Kazuko Kasulka divenuti film solo tre mesi dopo la fine della serie su “Weekly Playboy”. Rapido anche il passaggio ai cartoni animati, come per le opere fantascientifiche di Laila Matismoto. L’autore di fumetti Jiro Taniguchi ha collaborato alla trasposizione in film delle due serie, disegnate con molta precisione,  “La vetta degli dei”, sulla scomparsa dello scalatore Mallory in una spedizione sull’Everest del 1934  e “Quartieri lontani”, dove compare anche in un “cammeo”.

Uno dei maggiori registi indiani vissuto fino al 1992, Satyajit Ray, il cui linguaggio cinematografico è coerente con quello  da illustratore, ha realizzato  il suo primo film “Il lamento sul sentiero” del 1955 basandosi su un blocco di schizzi di 58 pagine – vere “strisce di fumetti” ha detto lui stesso – che aveva utilizzato per le illustrazioni e poi ha usato di nuovo  per il film; è tornato ai fumetti nel 1970-71 con 4 copertine.

Non si tratta di iniziative sporadiche, e anche i tempi della trasposizione sono significativi. Viene citato il caso degli anni ’50 nelle Filippine, dove molte serie di fumetti divenute popolari venivano adattate a film di azione; ebbene, si giunse a tradurre le sceneggiature dei film in fumetti da pubblicare prima di ultimare il film in modo che alla sua uscita, al termine delle serie oppure appena aveva successo,  il film potesse contare su un pubblico fidelizzato alla storia o al personaggio,  Ciò è avvenuto anche con le “graphic novel” di Carlo Vergara,  in cui la protagonista gay si trasforma in un’eroina tutte curve: nel 2005 diviene un film, nel 2006 un musical.  

Un’ultima osservazione, con la tecnologia digitale i fumetti più avanzati non sono compresi nella pagina ma si muovono in verticale e cade così il vincolo dell’impaginazione, quindi si superano anche i problemi di compatibilità tra il fumetto asiatico che si legge da destra a sinistra e quello occidentale che va da sinistra a destra, con i conseguenti problemi in sede di traduzione. Fin dal 2003 i  sud coreani hanno realizzato serie digitali di fumetti impaginate come una striscia verticale. l “webcomics”  raggiungono altissime audience, come fu per i fumetti sul terremoto di Sicghuon del 2008.

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La sinfonia di civiltà

Al termine della visita alla mostra  resta negli occhi la spettacolare varietà e originalità delle rappresentazioni grafiche, lo scintillio dei colori, le immagini affascinanti di quegli occhioni spalancati come quelle tenebrose di abissi che si aprono, le gestualità brusche e movimentate come le pose delicate e graziose, l’intero campionario fumettistico nella visione orientale che ha tanto influenzato anche la vignettistica occidentale.

Le ricerche approfondite contenute nel catalogo consentono di inserire questo caleidoscopio di immagini nel contesto storico e culturale del mondo asiatico, così variegato nelle tante nazioni che lo compongono; uno spettacolo questo impresso nella mente dopo quello rimasto negli occhi.

Si pensa all’incontro di culture, lo abbiamo visto con altre mostre su diverse manifestazioni dell’arte giapponese, dai rotoli pittorici tradizionali e dalle sculture rituali sacre alle forme più moderne, spesso l’incontro diviene incrocio con le influenze e gli  apporti reciproci, dalla prospettiva occidentale all’arabesco orientale. I fumetti, con la loro diffusione così pervasiva,   fanno parte di quella che è stata chiamata “sinfonia di civiltà”, e la mostra ha saputo dimostrarlo.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude 1 ora prima. Ingresso,  intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Mangasia. Wonderlands of Asian Comics” , a cura di Paul Gravett,  Thames & Hudson Editore, pp. 320,  formato 21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 1° novembre u. s., con altre 11 immagini  Per la citazioni nel testo di precedenti mostre su temi di  attualità cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “DNA”  29 marzo 2017, “Caravaggio Experience”  27 maggio 2016,  “Numeri”  23, 26 aprile 2015,   “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014, il ; in cultura.inbruzzo,it su “Astri e particelle” 12 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).Inoltre cfr. i nostri articoli in questo sito sull’arte giapponese: per la scultura sacra antica 24 agosto 2016, la pittura contemporanea 27 maggio 2016, 70 anni pittura “nionga” 25 aprile2013, la pittura moderna “oltre la  tradizione”  15 aprile 2013; sull’arte cinese, le tombe di Awangui 17 gennaio 2015, la pittura di Visual China 17 settembre 2013,  lo scultore moderno  Weishan 24 novembre 2012, la “Via della Seta” 19, 21, 23 febbraio 2014; in www.antika.it, “L’Aquila e il Dragone” 4, 7 febbraio 2011, e in cultura.inabruzzo.it  la Settimana del Tibet 21 luglio 2011, l’anno culturale della Cina in Italia 26 ottobre 2010  (questi ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Forniscono soltanto un’idea quanto mai parziale e sommaria della sterminata esposizione della mostra, resa integralmente nel monumentale catalogo, e dato il loro carettere non cerchiamo di identificarle per corredarle del titolo, come eccezione motivata alla nostra regola.

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Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, i paesaggi norvegesi

di Romano Maria Levante

Tornano a Roma dopo tre anni le opere di “Konrad Magi  (1878-1825)”, così si intitola la mostra alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea,  dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018, che  espone circa 50 dipinti e 15 disegni  del Museo Nazionale d’Arte Estone e di Tartu e della colleione privata di Enn Kunila, grande imprenditore estone cultore dell’arte, presidente dell’Art Museum of Estonia Friends of Art Society e del Consiglio degli Sponsor dell’Arte. E’ la più vasta esposizione in Europa sull’artista – preceduta in Italia dalle due mostre del 2015 a Roma al Vittoriano e del 2017 a Firenze delle opere dei principali artisti estoni della collezione Kunila, con Magi in grande evidenza – realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner che ha curato anche il Catalogoedito da Eesti Kunstmuuseum. Con tale evento  viene celebrata la Presidenza Estone del Consiglio dell’Unione Europea insieme al  100° Anniversario della Repubblica d’Estonia.

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A Roma nel 1915 sono stati esposti 10 dipinti di Magi nella mostra al Vittoriano sopra citata, “I colori del Nord. L’arte estone tra il 1910 e il 1945 dalla collezione di Enn Kunila“, organizzata nell’ambito dell’iniziativa “Roma verso Expo” che presentava i singoli paesi in mostre successive in cui ciascuno esibiva i propri gioielli. Ebbene, l’Estonia  è stato l’unico a  esibire i dipinti dei propri artisti in una mostra d’arte con esposte quasi 50 opere di circa 20 artisti. Solo per Magi 10 dipinti, una piccola personale che ci  fece conoscere la sua straordinaria forza cromatica non solo nel rendere i”colori del Nord”, ma anche i colori  mediterranei con gli scorci di Capri, oltre a quelli di Venezia e Roma. Nel 2017 la mostra dei pittori estoni è passata a Firenze. 

Il curatore della mostra  è lo stesso di allora, Ero Epner, però questa volta oltre a curare anche il catalogo, lo ha accompagnato con la monumentale biografia romanzata di 550 pagine che ha scritto sull’artista, non da biografo esterno bensì da partecipe della sua vita  appassionata e coinvolgente, come se rivivesse con lui i tanti momenti  di una esistenza  movimentata, ripercorrendo le stesse strade, visitando gli stessi luoghi, perfino toccando gli stessi alberi per immedesimarsi fino ad identificarsi. E non è stato certo facile data l’inquietudine che Magi ha sfogato  spostandosi nell’Estonia verso il sud, poi a San Pietroburgo e a Parigi, a Helsinki, nelle isole finlandesi delle Alan e in Norvegia, fino all’Italia, tra Roma, Capri, e Venezia.

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Con questo copioso materiale possiamo approfondire, più di quanto abbiamo potuto fare nella mostra precedente, l’arte di Magi immedesimandoci anche nella sua vita alla ricerca degli stimoli che lo hanno portato ad acquisire gli influssi di diverse correnti artistiche europee nella sua purtroppo breve vita –  è morto a 47 anni – per tradurli in uno stile personalissimo con un cromatismo  straordinario scolpito letteralmente in una forma pittorica  altrettanto eccezionale che coinvolge l’osservatore suscitando l’ansia di conoscere, saperne di più.

E’ questa la  sensazione che proviamo dinanzi a una visione inconsueta che prende i sensi nel mare di colori intensi impressi con energia, quasi con  violenza, nei  soggetti,  per lo più paesaggi,  con grumi e macchie cromatiche che danno il senso del rilievo rude e impervio, lontani dalla distesa  pittorica che caratterizza di solito questo genere di composizioni.

Per scavare dentro un processo artistico così sconvolgente occorre ripercorrere le fasi della sua vita e collocarvi le opere presentate in modo da rivivere i rispettivi momenti creativi all’insegna del binomio arte-vita che in un artista inquieto e sensibile come Magi  diventa un sigillo inconfondibile.

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Basti pensare a queste sue parole: “L’arte è per noi l’unica possibilità di salvezza, poiché nei momenti in cui l’anima è piena dell’eterna sofferenza della vita, l’arte sa offrirci ciò che la vita ci nega. Nell’arte, nell’attività creativa si può trovare la pace”. Le ha scritte in una lettera agli amici di Helsinki nel dicembre  1907, aveva  29 anni essendo nato il 1° novembre 1878, si trovava a Parigi e ancora non dipingeva regolarmente.  L’arte consolatrice in una vita di sofferenza e di inquietudine, non è la formulazione di una visione teorica, ma il risultato di un’autoanalisi.

Un primo elemento che colpisce nella sua vita è l’isolamento dalla famiglia,  nonostante abbia avuto quattro  fratelli maggiori con cui ebbe pochi rapporti, piuttosto restò in contatto con la sorella,  più grande di lui di 15 anni.

Il padre è benestante, amministratore di una tenuta agricola stabilmente per 1undici anni,  poi negli undici anni seguenti cambia domicilio otto volte.svolgendo lavori diversi, fino alla riscossione dei debiti dei commercianti che lo isola del tutto.

Konrad  trascorre l’infanzia nell’abitazione della tenuta che era sottoposta a lavori di ristrutturazione con avancorpi e altro, c’erano anche le pitture decorative di alcune stanze, è il suo primo incontro con l’arte dato che nel paesino di Uderna non c’era nulla di artistico, per cui si può dire che nell’infanzia e nella prima giovinezza non aveva visto nessun dipinto o scultura. .

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Ma c’era la natura, la casa era circondata da boschi in un territorio cosparso di colline e di laghi. E’ l’Estonia meridionale considerata per queste caratteristiche ambientali “terra di lirici”, mentre l’Estonia settentrionale pianeggiante viene ritenuta  “terra di realisti”.  E’ nato così, sin dall’infanzia, un legame stretto con questo ambiente particolare nel quale la natura fa sentire la sua presenza fino a fargli dire, quando andrà a Parigi da grande: “In me non c’è altro che un pezzetto di tutto il nostro popolo e della nostra natura. Ovunque mi trovi, il Nord rimane la mia patria (in senso largo). Mi piace la natura triste e rigida del Nord, le macchie chiare di sole che si vedono spesso nei quadri degli artisti locali”.  Quando parla del Nord, anzi dice “sono un figlio dl Nord”,  lo fa in una visione europea, perché la sua patria, la terra che ama, è nel Sud dell’Estonia.

Nulla fa pensare che prenderà la via dell’arte, non va avanti negli studi e da adolescente comincia a lavorare come artigiano, la biografia ci dice che non ci saranno occasioni di incontri artistici neppure nella città di Tartu, dove si trasferisce da Uderna con la famiglia. Oltre a fare sport con gli amici, soprattutto atletica pesante in modo professionale, organizza con loro  spettacoli teatrali in cui recita da protagonista; e  coltiva con il suo gruppo idee anarchiche e sovversive, espressione di un’inquietudine che cresceva in lui, insofferente della vita di provincia, ma vedremo che sarà insofferente anche della vita delle città dove approdava nella sua inquieta ricerca di sé. Non lo soddisfa neppure il suo lavoro artigianale nella lavorazione del legno, anche se i corsi di formazione lo avevano appassionato al disegno  e aveva  fatto qualche piccolo tentativo di pittura. Fu sufficiente questa prima esperienza per tradurre la sua inquietudine in una spinta irresistibile verso l’arte. Dove viveva con la famiglia non c’erano scuole d’arte, la più vicina si trovava a San Pietroburgo, paraltro raggiungibile facilmente perché terminale della via della posta che passava per Tartu con la stazione intermedia di Uderna.  

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Siamo nel gennaio 1903, ha venticinque anni, passa il Rubicone e si trasferisce a San Pietroburgo per tre anni, studia disegno tecnico alla scuola d’arte Stieglitz con altri allievi estoni suoi amici, visita mostre e musei e conosce le opere di artisti e letterati, ne verrà influenzato ma senza aderire ad alcuna corrente artistica;  frequenta anche una scuola di scultura mentre fa lavori occasionali per mantenersi. E’ una città in cui a gennaio, il mese del suo arrivo, ci sono solo 40 minuti di sole al giorno, quindi gli appare subito buia e  umida, per di più l’abitazione dove si stabilisce è malsana per l’umidità che trasuda dai muri.

Non solo questi disagi si ripercuotono sulla sua salute, ma il suo sogno di diventare artista, per il quale è andato nella grande città,  sembra naufragare nelle agitazioni rivoluzionarie, partecipa a manifestazioni di massa contro il potere, fa la conoscenza del carcere per vandalismo con gli amici;  viene escluso dalla scuola perché “in qualche modo agitato.. Tipi così non sono adatti  alla nostra scuola”.

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E’ stanco della città, non lascia San Pietroburgo finché  non si pone una  nuova meta, Parigi, richiamo degli artisti di tutta Europa, però non ha i mezzi per raggiungerla. Né vuole restare nella città che lo ha deluso, pur avendogli dato la formazione culturale che gli mancava, non lo ha fatto divenire artista. Va nelle isole Aland, un arcipelago finlandese lontano dalle agitazioni politiche, ritrova l’abbraccio della natura, è l’ambiente ideale per lui, e lo scrive, al punto di fargli superare la soglia dell’espressione artistica vera e propria, cominciano le prime esperienze di pittura.. Epner descrive il primo quadro mentre ne sfiora la superficie ruvida come fosse dipinto su un  sacco con un colore molto spesso, mentre poi lo distribuirà in strati sottili.

Sorprendentemente viene invitato a partecipare a una mostra d’arte organizzata nell’agosto  1906 dalla Società Estone di Coltivatori Diretti per sensibilizzare il pubblico, l’invito viene da Tartu, potrebbe tornarvi da artista dopo aver cominciato a lavorare lì da operaio. Oppone un rifiuto alla grande occasione, e con lui i due amici allievi della stessa scuola d’arte, Triik e Kort, non condividendone i presupposti politici e non sopportando la presenza dello scultore che ne era il massimo portatore.  

Comincia la marcia di avvicinamento a Parigi, tappa intermedia è Helsinki dove si trasferivano i giovani artisti ribelli alle convenzioni oltre agli esiliati, attivi nelle pubblicazioni di satira politica e in contatto con i socialisti locali;  i rivoluzionari lettoni hanno perfino assalito una banca con dei morti. Magi vi si trasferisce con Triik e rischia di essere preso dalla polizia come complottista. Ma avviene un fatto sorprendente, si “depoliticizza” e come lui Triik che sceglie l’amore, e sposa la fidanzata. Frequenta la scuola di disegno dell’Atheneum e vende degli acquerelli,  ma ormai la sua mente è rivolta a Parigi.

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Il grande salto nella capitale  universalmente riconosciuta dell’arte avviene alla fine del 1907.  L’arrivo, come ricostruisce Epner nella sua appassionata rievocazione, è pieno di speranze, addirittura c’è anche il sole, ma poi le cose mutano, il tempo è inclemente e anche qui l’ambiente esterno e quello interno della sua abitazione sono umidi e  pregiudizievoli per la sua salute.  Attraversa serie difficoltà economiche, non può neppure acquistare il materiale per la pittura, non riesce a dipingere.

Conduce una vita da bohemien a “La Ruche” insieme a centinaia di artisti che vivevano in quel quartiere di Parigi, c’è una temperie artistica straordinaria con le maggiori avanguardie, fino a Picasso e Braque, in particolare Cézanne, si nutre di questi influssi ma continua a non aderire ad alcuna corrente. E’ molto critico rispetto alle mostre del “Salon des indipendents”  con migliaia di quadri di cui ne apprezza pochi che non contrastano la sua visione personale dell’arte.

La luna di miele con Parigi è brevissima, anche dalla capitale dell’arte tanto sognata fugge come aveva fatto da San Pietroburgo, resiste meno di un anno. Però ha immagazzinato una mole impressionante di stimoli e influssi e non aver potuto esprimere per motivi pratici la spinta che sentiva in modo prorompente ha accumulato in lui un potenziale artistico che attende solo l’occasione per esplodere con una forza pari alla lunga astinenza dalla pittura..

Manca poco perché questo avvenga, e l’occasione si crea con l’arrivo a Parigi nel gennaio 1908 di Triik con la moglie provenienti dalla Norvegia di cui sono entusiasti. Dopo due settimane – rivela Epner – Magi lamenta che a Parigi non riesce  a lavorare, e prende la decisione: “Se tutto va bene, in primavera vado in Norvegia con gli amici, lì si può lavorare seriamente su sé stessi”; anche Koort, che era arrivato nell’estate 1907, gliene aveva parlato bene, quando ancora le speranze riposte su Parigi erano intatte.

La Norvegia, in effetti, era diventata attrattiva per lo sviluppo delle comunicazioni, ma Magi voleva andarci per allontanarsi dalle grandi città che lo avevano deluso, prima San Pietroburgo, poi addirittura Parigi. Però pensava di trascorrervi soltanto l’estate, come intendevano fare i suoi amici trattenendosi  3-4 settimane,  e poi tornare nella capitale francese, e lo spiega: “Se rimango a Parigi, ho sprecato l’estate, perché qui è difficile vivere da solo in mezzo agli sconosciuti. In Norvegia potrei sopravvivere in qualche modo con gli amici,  lavorerei molto  e poi potrei vendere qualcosa o almeno partecipare a qualche mostra”.  Commenta Epner: “La Norvegia doveva essere il luogo in cui riposarsi per un po’ da Parigi e lavorare per Parigi”  E  stare a contatto con una natura aspra, di tipo arcaico.

Del resto, nella capitale dell’arte ha conosciuto le correnti d’avanguardia, dal fauvismo al puntinismo, dall’espressionismo al cubismo, non vi aderisce ma ne fa tesoro per uno stile molto personale, ha trent’anni e sostanzialmente non ha ancora cominciato a dipingere veramente. È stato conservato soltanto uno dei pochi quadri con i quali ha rotto il ghiaccio nell’isola di Aland, e a Parigi non è riuscito a dipingere; ha fatto ampia provvista di cultura, ora va alla ricerca della natura.

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Il problema è costituito ancora dalla mancanza del denaro necessario per il viaggio, insieme all’amico Tassa cerca invano un aiuto all’ambasciata russa, riescono ad arrivare a Copenaghen dove lui comincia a dipingere degli studi per venderli e procurarsi ciò che manca per finire il viaggio. Deve superare ancora mille difficoltà, da  quelle economiche ai seri problemi di una salute resa sempre più cagionevole dai disagi di abitazioni malsane, fino addirittura a un’irruzione della polizia nel loro alloggio con il fermo di  lui e  di Tassa come sospetti rivoluzionari. Finché finalmente, alla metà di luglio del 1908, sbarca in Norvegia a Kristiania, una località circondata da boschi, la natura che cercava di ritrovare.

 ‘L’inizio è duro, al punto che lui e Tassa si cibano di mirtilli raccolti nel bosco non avendo risorse sufficienti, non solo, ma per la mancanza di denaro sono bloccati nella città dove sono sbarcati, scrive infatti: “Me ne sto seduto qui a Kristiania e così non posso vedere la vera Norvegia, quella eccezionale, perché andarci costa molto”. Non può arrivare alle “grandi montagne”, pensa di  restare “ancora un paio di mesi”, alla fine di luglio comincia a sentire nostalgia di Parigi e riconosce che il soggiorno nella capitale francese gli è “servito molto”: “Ho imparato naturalmente molto da tutto quello che ho visto, ma purtroppo io stesso non sono riuscito a fare quasi niente”.

Si lancia nella pittura a 7 chilometri dall’abitato di Kristiania, anche se non ci sono i monti prediletti, il contatto con la natura scatena in lui la volontà di dipingere, intanto ha trovato un lavoro  in una fabbrica di smalti; Tassa è ripartito, lui è rimasto solo con la salute che peggiora, ma dipinge 25 studi nei dintorni di Kristiania, saranno 50-60 nell’intero periodo norvegese.

“In Norvegia inizia il periodo della vita di Konrad Magi in cui sappiamo più della sua opera che della sua vita” dato che essendo rimasto solo mancano le testimonianze che avevamo da San Pietroburgo alle isole Aland, da Helsinki a Parigi e Copenaghen, afferma Epner. “Ma più Magi dipinge, meno sappiamo della sua vita”. D’altra parte, finalmente tutto quanto ha immagazzinato trova lo sbocco nell’arte;  è terminata, per così dire,  la sua formazione movimentata e inquieta.

Abbiamo cercato di ricostruire questo lungo periodo preparatorio con il quale Konrad Magi è approdato alla sua arte personalissima che ha fatto tesoro degli influssi molteplici derivanti dalla straordinaria temperie artistica degli inizi del ‘900 per esprimere un vero e proprio culto panico della natura con un animo  mai piegato dalle ristrettezze e dalle sofferenze. E’ giunto il momento di parlare delle sue opere dipinte in Norvegia.

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Le opere norvegesi 

Possiamo dire che è stata una rivelazione l’intensità cromatica unita a una forma compositiva del tutto nuova, in un figurativo dalla conformazione sorprendente che non si ritrova in altri artisti, a parte qualche esplicita “citazione”. I suoi sono paesaggi estremamente tormentati, con le nuvole che si addensano minacciose, la terra si raggruma  in macchie cromatiche che sembrano scolpite, non c’è un orizzonte aperto e disteso come nelle visioni idilliache, l’accostamento a Van Gogh ci viene spontaneo e non ci sembra peregrino, vi troviamo un rapporto analogo con la natura che esprime

Sono 13  i dipinti esposti del periodo norvegese, realizzati tra il 1908 e il 1910:  12 paesaggi e un “Ritratto di ragazza norvegese”, l’unico della mostra, dipinto a olio su tela a differenza dei  paesaggi a olio su carta o cartone,  con la stessa intensità cromatica  e forza compositiva, i lunghi capelli rossi della giovane come due cascate impetuose sul viso assorto che guarda l’osservatore. Il rosso è il colore dell’intero quadro, non soltanto i capelli sono rossi ma lo sono anche il vestito e il tappeto alle spalle con un disegno astratto, Epner osserva che “la punta del pennello ha aggiunto dei puntini rossi persino sul suo colletto bianco; guardando da vicino si vede che le guance della ragazza arrossiscono”. La ragazza ritratta ha 14 anni, l’anno dopo interpreterà Ibsen al teatro nazionale, diventerà attrice di teatro e di cinema.

“Paesaggio norvegese”  o semplicemente “Paesaggio” è  il titolo di 10 opere, alcune con delle qualificazioni come “foresta” e “con pino”, “palude”  e “con casa”,  4 delle quali con delle abitazioni, per lo più poche in primo piano o disseminate: in 2 quadri le case sorgono su dei campi coltivati divisi in piccoli appezzamenti, mentre negli altri 2 non vi sono delimitazioni, anzi in uno di loro il figurativo si stempera verso forme tremolanti di concezione impressionistica.

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La natura è la sola protagonista, si anima in conformazioni  dense e imponenti, in qualche caso di foggia antropomorfa, quasi frutto di allucinazione, con un’identificazione quasi simbiotica, in una visione panteista  confermata dalle sue stesse parole: “Pensate: grandi montagne azzurre e nuvole rosse si muovono lassù, in alto.  Viene da credere che questo sia il luogo  dove abitano gli dei”. In realtà le nuvole rosse le troveremo nei dipinti del periodo successivo, in questi sono  chiare o mancano del tutto quando è la campagna a dominare la composizione, ma la concezione è la stessa, una visione religiosa della natura.

Ci  chiediamo quale fosse la sua posizione personale  in campo religioso,  Epner ci dà la risposta affermando che manifestava  propensione per le esperienze religiose, interessandosi alle più diverse fedi, dal buddismo al cristianesimo anche mediante pratiche esoteriche o spirituali, come lo yoga , la teosofia  e la filosofia indiana. Ma non aderiva a nessuna religione, seguendo l’impulso modernista a cercare di vivere una propria fede personale:  “Per Magi, sono parole del curatore, la religiosità più intensa si trovava nella natura. La natura era la sua chiesa”. 

Epner così spiega l’afflato mistico dell’artista: “Magi cercava qualcosa di sublime, eccezionale, soprannaturale, metafisico, irrazionale, inesprimibile, che precede o si trova al di fuori della cultura. Qualcosa di mistico, segreto, inclassificabile, Cercava un sentimento di partecipazione in qualcosa di più grande di lui e dell’umanità, qualcosa di cosmico ed etereo che compensasse la sensazione sempre più forte che nella sua anima si fosse aperto un abisso esistenziale”. E ricordiamo come  l’arte fosse per lui l’unica consolatrice “quando l’anima è in pena”, essendo un’arte legata alla natura e la natura lo portava verso il sublime e il soprannaturale. Il curatore ne è certo: “Nel periodo norvegese le ricerche di Magi si concentrarono così, a un certo punto, intorno al nome di Dio. E il suo Dio lo trovò nella natura”.

E’ solo l’inizio, lungamente atteso, Magi ha trent’anni,  ma che inizio! Verranno successivamente  le opere dipinte nell’isola di Saaremaa e quelle del viaggio in Italia tra Roma, Capri e Venezia, e le ultime della siabreve vita. Un percorso che faremo prossimamente.

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”, Editore Enn Kunila, SrL Sperare,Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le citazioni del testo. Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 12  e il 17 novembre  p. v. Per le mostre, gli artisti e le correnti citate nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2015; in cultura.inabruzzo.it, per Van Gogh 17, 18 febbraio 2011 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta, e in particolare Enn Kunila per aver accettato di farsi riprenedere da noi davanti a un’opera di Magi. in apertura, Enn Kunila con a lato “Isola di Saaremaa. Studio” 1913.14; seguono, del 1910, “Campo di fiori con una piccola casa”  e  “Paesaggio norvegese”;  poi, “Paesaggio con case” 1908-10,  e “Normandia” 1911; quindi, “Paesaggio norvegese” 1909,  e “Paesaggio norvegese (Palude)” 1908-10; inoltre,  “Paesaggio norvegese con pino” 1908-10 e “Ragazza norvegese” 1908; infine, del 1913-14, “Paesaggio con nuvola rossa”  e  “Paesaggio con mulino”, che saranno commentati nel secondo articolo; in chiusura, “Lago Saadjarv con chiesa”, matita su carta, 1923.24.

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Ebrei, 2. L’escalation repressiva dopo le leggi razziali, al Museo della Shoah

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra vista alla mostra “1938. La storia”, aperta dal 17 ottobre 2017 al 30 marzo 2018 a Roma, alla Casina dei Vailati nel Portico d’Ottavia dov’è il Museo della Shoah. La mostra, realizzata da “C.O.R”, “Creare, Organizzare, Realizzare”, presidente Alessandro Nicosia, ricostruisce il processo di emarginazione prima, di esclusione poi con le leggi razziali di cui ricorre l’80° anniversario, fino alla persecuzione e allo sterminio, mediante una ricca esposizione di fotografie e documenti. La mostra è a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti che hanno curato anche il Catalogo Gangemi Editore International.  

La presentazione di  Mario Venezia, Presidente dela Fondazione Museo della Shoah, e di Marcello Pezzetti, realizzatore e curatore della mostra  

Abbiamo già illustrato le prime 6 sezioni della mostra nelle quali è stata ripercorsa la storia degli ebrei in Italia conclusa tragicamente ma il cui inizio è stato quello di una comunità ben inserita e rispettosa delle istituzioni, anche nel regime fascista. Poi le leggi razziali hanno segnato un’escalation inarrestabile attraverso l’identificazione e schedatura prima, l’esclusione dal lavoro e dalla proprietà, dall’istruzione, dalla cultura e dalle professioni poi.  Ne abbiamo dato conto, con la guida competente e appassionata nella visita alla mostra del curatore Marcello Pezzetti.

Misure antiebraiche pervasive nei diversi campi della vita degli ebrei

La  7^ sezione, dedicata alle “Altre disposizioni”, documenta come oltre ai settori di cui abbiamo già parlato, di per sé fondamentali, come “lavoro e proprietà” e “istruzione e cultura”, furono investiti ì tutti gli aspetti della vita degli ebrei: “Non vi fu ambito della vita  sociale, perfino quello sportivo, che non venne intaccato dalla politica persecutoria del regime”, scrivono i curatori  della mostra. Agli ebrei stranieri fu revocata la cittadinanza se successiva al 1918 e inibita una dimora stabile, agli ebrei italiani fu inibito il servizio militare, misura di cui risentirono molto perché faceva venire meno le benemerenze acquisite combattendo le battaglie sanguinose nella prima Guerra mondiale in difesa dei confini della patria,  l’Italia. Fu vietata l’iscrizione al partito fascista, semmai qualcuno avesse voluto farlo pur in presenza di una simile persecuzione, magari in un disperato tentativo di “captatio benevolentiae”, ma abbiamo già visto  che neppure il servizio nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, i pretoriani del  Duce, salvava gli ebrei da Auschwitz!

Al divieto di “sposare cittadini italiani di razza ariana” si aggiunse quello di avere domestici “ariani”, e si dispose che gli ebrei che avevano cambiato nome riprendessero quello originario in modo da poter essere meglio identificati. Furono tolti anche i nomi ebraici da qualunque denominazione, fosse di strade o istituzioni, anche dagli elenchi telefonici;  e vietati perfino i necrologi di ebrei, neppure il ridicolo, in questo caso macabro, pose un freno all’ostracismo,   come non evitò  il divieto altrettanto paradossale di “allevare colombi viaggiatori”. 

Non fa ridere il divieto di soggiornare nelle principali località turistiche unito ad altre limitazioni alla libertà di movimento, cui nel 1941 si aggiunse il sequestro degli apparecchi radiofonici, una azione a tenaglia sulla comunità ebraica ridotta all’impotenza mentre si eliminavano tracce della sua presenza. Soltanto  coloro che, in base a “benemerenze” belliche, politiche o “eccezionali”, riuscivano ad ottenere lo status di “discriminati”  venivano esentati da alcune di queste misure, le loro domande venivano esaminate da un’apposita commissione, su 9000 richieste ne furono accolte circa 2500 per 6500 persone.  

Tutto questo viene rievocato nella mostra con documenti del Ministero dell’Interno, in particolare la Direzione generale Demografia e Razza e la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, delle Prefetture e  del Partito Nazionale Fascista, nonché dai fogli di Congedo per chi veniva escluso dal servizio militare. Particolarmente efficace la giustapposizione tra le disposizioni ai Prefetti e Questori di vietare l’accesso alle principali località turistiche agli ebrei limitando altresì  il numero dei giorni di permanenza in quelle ammesse, e le fotografie al mare di ragazze e ragazzi ebrei felici prima di esserne espulsi.

Anche l’umorismo macabro del divieto di avvisi mortuari è documentato con la lettera della Direzione Generale della Demografia e Razza alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza nell’ambito dello stesso Ministero dell’Interno, così come il divieto di avere domestici “ariani” alle dipendenza degli ebrei che, in una lettera della Prefettura di Varese, pur nella ripulsa che suscita, raggiunge effetti di irresistibile comicità per la burocratica analisi delle categorie che si intendono comprese nei “domestici” e di quelle invece escluse. Le lettere in cui viene chiesta la “discriminazione” vantando le proprie benemerenze suscitano rispetto e sincera comprensione.   

Meno conosciuta ma altamente significativa la documentazione sull’espulsione degli sportivi ebrei dalle organizzazioni dei vari sport, vediamo i titoli dei ritagli di giornale: “Nessun giudeo nelle società sportive”  e “Gli atleti di razza non ariana esclusi dalle competizioni”, “Gli ebrei radiati anche dalla ‘Canottieri Roma’” e “La F.P.I. non rilascerà licenze di pugile ai non ariani”, e così via anche per il calcio dove l’attuazione di queste misure è stata rapidissima, nel giro di un paio di mesi, Il CONI si impegnò direttamente,come documenta la Relazione al Consiglio Generale del suo presidente Achille Starace, segretario del P.N.F., esposta in mostra, che inizia con l’affermazione di aver “provveduto alla esclusione di ogni elemento ebraico dai suoi quadri.  

Tale epurazione razziale è oggi completa” e prosegue, tra l’altro, offrendo la sua collaborazione, attraverso la Federazione Medici degli Sportivi, all’ineffabile “Istituto di Bonifica Umana ed Ortogenesi della Razza”. Portano “in più spirabil aere” rispetto a questa delirante istituzione le fotografie dei campioni di pugilato in posa pugilistica Leone Efrati, uno dei 10 migliori pesi piuma al mondo e Settimio Terracina, campione regionale, ai campionati europei con la stella di Davide sui calzoncini,  entrambi espulsi, il primo morì ad Auschwitz, il secondo riuscì a riparare negli Stati uniti e partecipò con l’esercito americano allo sbarco in Sicilia e alla liberazione di Roma.

Escalation persecutoria, internamento e lavoro obbligatorio

La persecuzione degli ebrei, anche nel nostro paese, non si ferma alle misure fin qui riportate, pur molto pesanti, l’escalation continua con “L’internamento”, cui è dedicata l’8^ sezione della mostra.  Scatta dopo l’entrata  in guerra dell’Italia a fianco della Germania il 10 giugno 1940,  e aggrava le misure già prese contro gli stranieri nel 1938 con l’allontanamento di quelli trasferiti in Italia dopo il 1918.

Con il nuovo provvedimento tutti quelli provenienti da “Stati con legislazione antisemita” o da altri territori sotto il controllo italiano venivano rinchiusi in una trentina di campi, ubicati soprattutto nella parte centrale del nostro paese, ben 7 in provincia di Teramo: i o ricavati da strutture esistenti oppure costruiti appositamente come il più grande, Ferramonti in Calabria dove i liberatori inglesi nel settembre 1943 trovarono 1500 ebrei stranieri e 500  persone rinchiuse per altri motivi. Anche nelle colonie furono istituiti campi di internamento degli ebrei stranieri, in particolare  a Rodi, in Cirenaica nel campo di Giado dove molti morirono per un’epidemia di tifo,  in Libia,  in tre campi; da questa colonia vi furono anche espulsioni verso la Tunisia o verso l’Italia.

La documentazione anche in questo caso è molteplice, dalla lettera di Mussolini al capo della polizia del 26 maggio 1940 con la richiesta di preparare i “campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra” alla mappa dei campi in Italia alla planimetria del campo di Ferramonti con le numerose costruzioni allineate, le vediamo anche in due fotografie del 1040 e 1942. Sono esposte anche fotografie sulla vita nel campo, con i bambini a mensa, e alcuni loro disegni che, commentano i curatori, “rispecchiano il loro vissuto, tra sogni e realtà”.; ci sono anche  i programmi degli eventi culturali organizzati dagli internati E poi altre immagini, come la cinquantina di ebrei stranieri internati a Chieti provenienti da Trieste e il “percorso della persecuzione” di un ebreo russo licenziato dalla Magneti Marelli, internato a Corropoli (Teramo), poi ad Auschwitz, per fortuna sopravvissuto.

E gli ebrei italiani dopo l’inizio della guerra?   Anche per loro l’escalation dopo le leggi razziali che li avevano esclusi da scuole e incarichi pubblici e da molti impieghi privati e dall’esercito.  La loro forzata permanenza causata dall’ostracismo subito quando gli altri andavano al fronte diventava un “privilegio” da cancellare. La 9^ sezione della mostra lo spiega e lo documenta: con il “Lavoro obbligatorio”. La disposizione è del maggio 1942, il Ministero dell’Interno incarica i prefetti della precettazione degli ebrei tra i 18 e i 55 anni, affidata per l’esecuzione a questori e autorità comunali.La precettazione si basava su un’autodenuncia  obbligatoria, pena l’arresto e il deferimento al Tribunale militare come nell’ordinanza del Prefetto di Livorno esposta. Ma anche in questo caso alla tragedia si unisce la farsa, è grottesco il “dispaccio telegrafico cifrato” dove prescrive che, ai sensi delle leggi sulla “difesa della  razza, “gli ebrei devono lavorare separatamente dagli ariani e in nessun caso avere alle loro dipendenze lavoratori ariani”, l’ossessione assume aspetti  paranoici.   

Sono esposte le immagini degli ebrei al lavoro con pale  e picconi a Torino e Alessandria, Firenze e a Roma sulle rive del Tevere, una di esse con la mole di Cast Sant’Angelo, con ramazze a Milano.. A Casera la precettazione  durò un intero anno dal settembre 1942 al settembre 1943, vediamo la fotografia del alvoro nei campi con i picconi a torso nudo.

E’ patetica la storia  dell’ambulante che stappò l’assegno di 0,50 centesimi di lire per il lavoro obbligatorio svolto sul Tevere, offeso dall’umiliante elemosina, l’assegno fu recuperato dalla sorella ed è esposto in mostra, purtroppo l’eroico ambulante morirà nel lager di Dachau.

Propaganda antiebraica e reazione degli ebrei

La 10^  sezione della mostra  riguarda la “Propaganda antiebraica” alla quale è stata dedicata al precedente mostra al Museo della Shoah, considerandola come il prodromo dell’escalation successiva in quanto ha preparato l’opinione pubblica descrivendo l’ebreo oltre che come nemico pericoloso come biologicamente diverso anche nelle caratteristiche somatiche, naso adunco, ecc.  

Questa propaganda veniva declinata in tale mostra soprattutto nelle forme estreme e capillari assunte in Germania, ma anche per l’Italia si fornivano elementi significativi come il martellamento antisemita di “La Difesa della Razza”, il periodico razzista della casa editrice Tuminelli diretto dal famigerato Telesio Interlandi, uscito in occasione delle leggi razziali e pubblicato fino al 20 giugno 1943 che utilizzava forme grafiche molto suggestive e una serie di altre invenzioni antisemite.

Nella mostra sono esposte vignette antisemite apparse non solo su “la Difesa della Razza” ma anche sui quotidiani come “Il Popolo di Trieste”   con “l’idra giudaica che amputata dei suoi tentacoli, vomita l’ultimo veleno”. In “Razzismo Fascista” del novembre 1939 Roberto Farinacci, pur sostenendo al natura politica e non religiosa dell’antisemitismo, conclude: “Ma diciamo a conforto dell’anima nostra che se, come cattolici siamo diventati antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli”. L’evocazione del “deicidio” è  evidente.

Come reagirono gli ebrei a tutto questo? All’inizio del ‘900 erano 45.000, l’1,1% della popolazione italiana. in Italia, vanno aggiunti 35.000 tra le colonie e Rodi, quindi una massa d’urto consistente, però nessuna manifestazione né presa di posizione collettiva neppure contro le “Leggi per la Difesa della razza”.  Lo documenta l’11^ sezione della mostra, “La reazione degli ebrei”, che spiega come non si resero conto del piano inclinato senza ritorno su cui venivano sospinti e invece di reagire pensarono ad organizzarsi, in particolare nel creare un sistema scolastico alternativo a quello pubblico che veniva precluso loro sia come docenti che come discenti.   

Vediamo esposti l’articolo del settimanale ebraico “Israel” del 21 luglio del 1938 che avanzava la speranza, delusa due mesi dopo, che non venissero emanate leggi antisemite, e dopo la loro emanazione del mese di settembre, la lettera a Mussolini  dell'”Unione delle Comunità Israelitiche Italiane” del 30 ottobre 1938 con il tono della supplica, “absit iniuria verbis”  piuttosto che della protesta, chiedendo invece della revoca delle leggi emanate, di “prestare una modestissima collaborazione nell’applicazione di qualche postulato che li concerne collettivamente”.

E’ un atteggiamento che si definirebbe “fantozziano” se non vi fosse la consapevolezza di quanto fosse critica e isolata la loro posizione dopo tanta propaganda antisemita penetrata nella popolazione. E se non ci fosse stata l’orgogliosa reazione dell’editore Fortunato Formiggini che si tolse la vita a Modena per protesta contro le leggi razziali il 29 novembre 1938, poco dopo la loro emissione, la mostra gli rende onore con la fotografia sua e della sua casa editrice; come rende onore al soprano di Livorno Rita Misul che eluse l’esclusione dal mondo dello spettacolo esibendosi con uno pseudonimo, finì ad Auschwitz ma fu tra i sopravvissuti e nel 1946 raccontò la sua storia nel libro “Fra gli artigli del mostro nazista”. 

Altrettanto rispettosa, anzi ossequiente,  la circolare della stessa organizzazione che l’11 giugno 1940, riaffermava “al Governo i sentimenti di illimitata devozione degli israeliti italiani” pronti a “mettersi all’occorrenza a disposizione delle autorità partecipando con tutte le loro forze al conseguimento degli alti fini nazionali”, la risposta fu l’internamento degli ebrei stranieri e nel 1942 il lavoro obbligatorio per gli ebrei italiani rimasti esclusi dal servizio militare da loro richiesto.  L’impegno  fattivo delle associazioni ebraiche è evidenziato da fotografie in cui si vede all’opera il “Comitato  di Assistenza degli ebrei in Italia”  e sono riprodotte affollate “Mense dei bambini” nel 1941 e altrettanto affollate scuole ebraiche del 1939-42 a  Milano, Roma e Trieste, Firenze, Ferrara e Padova; c’è anche la fotografia della celebre Villa Emma a Nonantola, presso Modena, che diede assistenza a bambini e giovani ebrei stranieri. Gli ebrei confermano il loro ben noto spirito di iniziativa e l’impegno fattivo,  è assente ogni forma di vittimismo che pure sarebbe sacrosanto. 

L’opinione pubblica degli italiani non ebrei e l’epilogo

Se la reazione degli ebrei è stata questa, anche l’atteggiamento degli italiani non ebrei è  documentato dalla mostra nella 12^ sezione,,intitolata  “Opinione pubblica”. Ebbene, per quanto spiacevolepossa risultare, i curatori concludono che “la maggioranza della popolazione italiana non ebraica, ormai definita di ‘razza ariana’ approvò o si adeguò all’antisemitismo di stato mostrando un’opportunistica indifferenza nei confronti dei loro concittadini  ‘della porta accanto’ (i deputati ‘ariani’ approvarono le leggi all’unanimità, i senatori ‘ariani’ espressero 154 sì e 10 no”.     

Sia l’adesione al regine, se la martellante propaganda antisemita che lasciò il segno, sia il vantaggio derivante dall’esclusione dalle professioni dei temibili concorrenti  sono alla base di questo atteggiamento riprovevole. Immagini “simbolo” della mostra, il cartello “Negozio ariano” orgogliosamente levato  in alto dalla ragazza italiana a Milano e affisso a Roma, a Torino e a Trieste, scritte come “In questo locale gli ebrei non sono graditi” a Torino e a Trieste , o “E’ vietato l’ingresso agli ebrei” a Firenze, vediamo anche la dichiarazione di “arianità”  fatta pubblicare  a pagamento dal principale giornale di Trieste da Mameli Castiglioni, proprietario di 12 negozi.  Naturalmente chi semina vento provoca tempesta, partono le aggressioni a templi ebraici come la sinagoga di Trieste e il Tempio di rito spagnolo di Ferrara, come l’aggressione a singole persone nel loro quartiere  a Roma, al  Portico d’Ottavia del 1940 e 1843 descritte dai disegni del pittore Aldo Gay, esposti in mostra come tutta la documentazione sopra citata. 

Ed  ecco l’epilogo, “Il destino degli ebrei tra il 1943 e il 1945”,  rievocato  nella 13^ ed ultima sezione della mostra. I curatori dopo aver denunziato con la documentazione che abbiamo citato, la “persecuzione dei diritti” tra il 1938 e il 1943, non esitano a chiarire: “Il fascismo, tuttavia, fino ai giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943 non perseguitò le loro vite”. Ma ora erano i tedeschi a spadroneggiare e gli ebrei, senza alcuna protezione, furono rastrellati a Roma il 16 ottobre 1943, con destinazione Germania come documentato in una precedente mostra sull'”infamia tedesca”, e internati al Nord con disposizione del governo della RSI  del 30 novembre successivo in  campi provinciali in attesa dei definitivi. Dal 1943 al 1946 8.000 furono i deportati ad Auschwitz-Birkenau, a parte le stragi e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. 

Sulla responsabilità italiana si può aggiungere che il risultato delle leggi razziali, l’identificazione e la separazione degli ebrei favorì molto gli intenti liquidatori dei tedeschi perché potettero individuarli facilmente e prenderne molti nei campi di internamento o in carcere senza doverli ricercare. A ciò si aggiunga che si trovavano senza mezzi tra la popolazione resa ostile, a parte alcune lodevoli  eccezioni, il Vaticano sebbene non prendesse posizione,  e i parroci comunque ne aiutarono molti  a nascondersi.  Come sempre si organizzarono in forme di auto assistenza clandestine, 6.000  riuscirono a rifugiarsi in Svizzera.  Parteciparono anche alla resistenza contro i tedeschi,  c’è di tutto nella storia di quegli anni  tormentati.

Alcune immagini la documentano in modo toccante: quelle con le  suore  romane nel 1944 al centro di un folto gruppo di donne e bambini rifugiati presso di loro e con  gli scampati al Campo del Ghetto Nuovo di Venezia fino all’apoteosi delle donne ebree con un soldato della brigata ebraica il giorno della liberazione di Milano.

Dopo l’escalation della follia antisemita  il sollievo in quei volti sorridenti femminili. Questi volti pieni di speranza ci riportano alla conclusione di “La vita è bella”.  “Spes contra spem”, nonostante tutto.   

Aprile 1945, in alto,  a Milano nei giorni della Liberazione  giovani donne ebree festeggiano con un soldato della brigata ebraica; in basso, a Venezia nel Campo del Ghetto Nuovo un gruppo di ebrei scampati alle deportazioni naziste.  

Info 

Museo della Shoah, Casina dei Vailati, Roma, via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì 10-13, chiuso sabato e nelle festività ebraiche; ingresso gratuito.  Catalogo: “1938. La Storia”, a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti, Gangemi Editore International,ottobre 2017, pp. 190, formato 17 x 23; dal Catalogo sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito  in questo sito il 28 ottobre 2017.  Cfr. i nostri articoli: per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ infamia tedesca’”  24 novembre 2013, e “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni”   5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock  al Vittoriano”  27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis”  2 febbraio 2012; “Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″  21 gennaio 2012in “cultura.inabruzzo.it”  “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie”  8 agosto 2009.  (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, le immagini saranno trasterite su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo della Shoah alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione,  con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, la  presentazione di  Mario Venezia, Presidente dela Fondazione Museo della Shoah, e di Marcello Pezzetti, realizzatore e curatore della mostra: segue una selezione di immagini esposte nella mostra a documentazione delle sezioni commentate nel testo; la penultima immagine, in particolare, riporta due fotografie dell’aprile 1945,in alto a Milano nei giorni della Liberazione  giovani donne ebree festeggiano con un soldato della brigata ebraica; in basso a Venezia nel Campo del Ghetto Nuovo un gruppo di ebrei scampati alle deportazioni naziste. 

Mangasia, la meraviglia dei fumetti asiatici, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

 “Mangasia, wonderlands of Asian Comics” , al Palazzo Esposizioni di Roma  dal  7 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018,  è la prima mostra dedicata al fumetto asiatico, il “manga”, esteso a una vasta area che comprende più di 20 paesi, dal Giappone alla Cina, dall’India alla Corea, dalle Filippine  all’Indonesia, dal Nepal alla Thailandia, con l’esposizione di  una miriade di strisce organizzate in sezioni che consentono di analizzarne i diversi aspetti, componenti e destinazioni, il tutto il relazione alle diverse fasi storiche e al costume della vastissima area considerata. La mostra, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, è a cura di Paul Gravett, che ha curato anche il catalogo  edito da “Thames & Hudson”. con grande ricchezza iconografica, nel quale è approfondita in modo particolare una materia quanto mai vasta.

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Uma mostra insolita, quella del Palazzo Esposizioni, che conferma di essere,come dice il Commissario Cipolletta, “la casa dell’attualità”, citando le mostre sul “DNA”, “Caravaggio Experience” e W”orld Press Photo”, ma  si potrebbero  aggiungere quelle sul ” Cibo” e sui “Numeri”, sui “Meteoriti” e la meno recente su “Astri e particelle”, dedicate alla contemporaneità più  viva.

Quali sono i motivi di interesse di questa mostra sui “manga”, i fumetti  che nascono in Giappone per estendersi a macchia d’olio sull’intera Asia e poi nel mondo?  Almeno tre,  di natura storica, di costume e artistica. Il primo perché  fa passare in rassegna  le vicende movimentate di paesi  scossi da regimi e guerre,  il secondo per l’esotismo di sistemi di vita peculiari, il terzo per la maestria rappresentativa.

La varietà dei paesi considerati, i quali anche per il fumetto hanno radici che affondano nelle tradizioni, nelle storie e nei costumi di ciascuno, compone un affresco spettacolare e istruttivo.

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I manga nella tradizione giapponese

Per dare un’idea di come si manifesti questa forma di arte particolarmente comunicativa, diciamo che le storie in Giappone sono pubblicate ad episodi in serie rivolte alle diverse fasce di età e a un pubblico selezionato: si consideri che la rivista di maggiore successo vende tuttora quasi due  milioni di copie a settimana.  Poiché le riviste non vengono conservate, sin dagli anni ’20 si  pubblicano anche libretti per bambini e adulti diffusi nelle biblioteche circolanti. Stupefacente il dato sull’entità delle vendite di “Manga” in Giappone: 3,5 miliardi di  dollari.

Apposite sezioni della mostra consentono di analizzarne i singoli aspetti con esempi  spettacolari per l’evidenza grafica e cromatica delle riviste e  i libri di fumetti esposti in grande numero.

Le riviste per ragazzi (“shonen”) e ragazze (“shojo”) sono molto diffuse anche per il boom demografico del dopoguerra,  le storie sono volte ad esprimere sentimenti e suscitare simpatie: le vicende ricordano quelle di Mark Twain e degli altri scrittori che hanno raccontato il mondo del  lavoro infantile, duro e spietato, ma con l’itinerario educativo che porta al successo dopo aver affrontato e superato gli ostacoli. Il linguaggio simbolico per esprimere i sentimenti si avvale dei fiori e di una forma grafica con occhi grandi e scintillanti soprattutto nei fumetti per ragazze.

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Di particolare importanza  i fumetti legati alle xilografie dell’ “ukiyoe”, le stampe d’autore pubblicate in multipli, in cui al disegnatore artistico si affiancava l’intagliatore e lo stampatore che dava l’apporto del colore, tecnica che ha dato opere d’arte di grande valore con artisti quali Hiroshige, Hokusai ed Eisen  ai due ultimi viene dedicata una grande mostra all’Ara Pacis, del resto sono stati anche autori di “manga”di tipo particolare. E’ stato Hokusai a introdurre nel 1814 il termine “manga” di origine cinese per definire i suoi schizzi  estemporanei, come sfuggiti al suo controllo e prodotti dal “pennello impazzito”, e ad unire testi a disegni dai colori brillanti. Ne produsse migliaia, pubblicati in 15 volumi.

Nello stile “ukiyoe” eccelleva  Utagawa Kuniyoshi (1798-1861), i cui fumetti rappresentano leggendari guerrieri impegnati in lotte titaniche, resta un punto di riferimento tuttora. Ci sono immagini  a piena pagina per sottolineare momenti particolari, e la lettura di questi fumetti avviene da destra a sinistra, cosa che ne ha complicato la diffusione fuori dal Giappone per la difficoltà della trasposizione in aggiunta  a quella della traduzione.  

Il  grande sviluppo dei “manga” avvenne quando, apertosi nel 1868 il Giappone agli scambi commerciali con il resto del mondo  dopo due secoli di completo isolamento  imposto dal regime assolutista, i fumettisti  si ispirarono ai modelli occidentali nelle sequenze narrative e nel tono realistico o umoristico che portava anche a  deformazioni caricaturali. Quindi, con le influenze internazionali dovute anche allo studio all’estero di fumettisti giapponesi, innestate sulle tradizioni nazionali si è avuta  una fusione tra le due culture che naturalmente troviamo ancora oggi.

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Abbiamo accennato al tono umoristico, ebbene questo si accentuò nel ‘900 allorché la rivoluzione industriale segnò l’irruzione del lavoro in fabbrica nella vita dei giapponesi, con tutte le situazioni che si prestavano alla satira, come nelle riviste  satiriche “Punch” e “Puck” diffuse in Inghilterra e America.  Veniva preso lo spunto anche dai fumetti a colori delle tavole  a tutta pagina dei giornali americani della domenica e delle strisce in bianco e nero dei quotidiani, ma rivisitandoli in modo personale creando così personaggi che  diventavano beniamini del pubblico di lettori.

Dalle favole alla religione, dagli esseri fantastici agli eroi

In effetti, le tradizioni del  paese hanno dato luogo a storie tramandate per generazioni, che ritroviamo oggi non solo nei fumetti ma anche in forme d’arte come i rotoli dipinti con testi e immagini. Vi sono favole e racconti popolari, con figure di eroi leggendari, come nel  “Viaggio in Occidente” che ha dato luogo in passato al maggior numero di trasposizioni in fumetti e continua a farlo tuttora.  E’ basato sul viaggio in India  alla ricerca di testi sacri buddhisti di un monaco cinese  cui il proprio imperatore conferì  il titolo di Tripitaka, che evoca i tre canestri con i canoni della religione; ebbene, nei secoli il monaco diventa un eroe dei fumetti, con due animali dai poteri eccezionali, il maiale Zhu Bajie e lo Scimmiotto Sun Wukong, il Re scimmia, eterna leggenda,  che diventa  protagonista di un viaggio spirituale in cui l’impeto si può mitigare  padroneggiando  i poteri interiori fino alla sublimazione nella compassione del buddhismo.  

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Non solo, anche per la religione i fumetti sono stati un veicolo di  principi e figure  mistiche, su ispirazione dei due maggiori poemi epici dell’induismo imperniati su Krisha e Rama. Con l’apertura al mondo e l’influsso occidentale, pur perdendo attrattiva, questi temi sono rimasti acquisendo un valore identitario, come per gli spiriti “yokai”.  L’elemento soprannaturale resta una presenza importante nel fumetto moderno come parte della spiritualità asiatica.

Per darne un’idea citiamo i fumetti di Osamu Tezuka  imperniati su Buddha, sebbene non fosse buddhista, con Siddharta che viene illuminato, sono 1800 pagine in 9 volumi. E i fumetti ispirati al Ramayana e l’altro poema epico in sanscrito su Krishna e Rama, “aviatar” del dio celebrato per secoli dagli artisti indiani, storia resa più moderna da un artista formatosi in Europa  che ne fece un’immagine luminosa entrata nella  vita quotidiana degli indiani per adattamenti successivi, come quelli delle  “Storie immortali per immagini” divenuta la collana di fumetti più venduta nel paese.

Divinità e spiriti maligni, ai quali si rivolge una nuora angariata dalla suocera  in “Casa dei demoni”  di Ida Chikae fa pensare alle barzellette sul tema  in voga anche da noi. Ed esseri fantastici, draghi, tritoni e sirene emersi dalle profondità marine,  evocati da  tradizioni e leggende popolari.

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Gli esseri fantastici vengono immessi in un “bestiario”, diffuso anche in Filippine e Tailandia,  nato  in Giappone nel 1776 con l’inventario delle creature ultraterrene di Toriyama Sekien, ancora attuale perché tali leggende derivano dal timore dell’ignoto –  persino della gravidanza e dell’aborto –  dinanzi al quale non serve la razionalità ma si fa appello alla fede e al soprannaturale. I fumetti diventano così  uno strumento di diffusione di messaggi rassicuranti con sfondo mistico e morale.

Ma sono gli eroi le figure più celebrate dai fumetti,  personaggi di fantasia oppure esistiti veramente a capo di lotte  contro lo sfruttamento dei contadini o contro il colonialismo, i quali hanno ispirato narrazioni romanzate  che ne hanno reso attuale la vicenda trasformandoli in eroi nazionali di tutti i tempi- Nelle due Coree  spicca la figura di Hong Gil Dong, ispirato a un bandito benefattore realmente esistito, una sorta di Robin Hood  celebrato oltre che nei fumetti  in romanzi e nei film.

Il filone storico e l’attualità

Fin qui abbiamo citato le ispirazioni fiabesche e mitiche, religiose ed eroiche, ma c’è anche il filone di ispirazione più importante, quello storico.  I fumetti hanno rappresentato nei popoli asiatici un canale di comunicazione per raggiungere strati di popolazione che altrimenti non avrebbero potuto conoscere la visione degli eventi  del passato e dei mutamenti in atto nella società dei vari paesi. Per lo più sono tinte forzate, nei personaggi e nell’enfasi patriottica, e le visioni sono contrastanti da paese a paese anche per le medesime vicende storiche.

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Proprio per questo costituiscono una fonte preziosa per ripercorrere la storia tormentata dell’area asiatica in cui molti paesi hanno subito nelle alterne fasi storiche prima l’imperialismo nipponico, poi  il predominio occidentale con lunghe fasi di occupazione, e la conseguente compressione dello spirito di indipendenza e del senso di libertà dei popoli. Si pensi all’espansione giapponese della fine del XIX secolo con la sconfitta della Cina e alla sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale con il dominio americano sul paese. 

Anche quando trattano della storia passata, i fumetti  lo fanno con una narrazione che fa rivivere l’atmosfera di allora mediante immagini coinvolgenti di vita quotidiana.  Anche correndo dei rischi, come il coreano Park Kun-Woong che solo  nel 2002 è riuscito a pubblicare nella Corea del Sud 1000 pagine di fumetti nei quali denunciava le pesanti conseguenze della guerra di Corea degli anni  ’50,  impiegò 5 anni per realizzare l’opera intitolata “Flower”, dato che nei due anni di servizio militare iniziato nel 1997 gli era vietato disegnare e doveva nascondersi per farlo.  Si tratta di  una “graphic novel”, che più del fumetto in senso stretto si presta al racconto di lunghe storie. Va precisato che in Corea del  Nord nel 1991 le autorità avevano fatto un appello per lo “sviluppo del fumetto” ma sottoponendolo  a rigidi controlli per cui diventava uno strumento di regime. 

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Se si allarga l’orizzonte a tutta l’Asia si può constatare che i fumettisti sono stati critici del regime comunista cinese, come è avvenuto rispetto all’esilio del Dalai Lama e  all’eccidio della piazza di Tienammen, e così per i Khmer rossi in Cambogia.

L’attualità è di grande interesse per i fumetti asiatici, la vediamo descritta tra gli altri dal cinese Sean Chuang e dal sudcoreano Shin Dong Wu.   E questo anche sotto il profilo politico, dato che rompendo  il silenzio su vicende scomode ignorate  volutamente dalla stampa più autorevole,  gli autori  del “manga” agiscono da giornalisti spesso basandosi su storie inedite  che pescano nella vita reale delle persone. Si battono anche per i diritti civili e per le questioni sociali comprese quelle ambientali – come è avvenuto per Bhopal, la maggiore catastrofe industriale – contro i pregiudizi e la discriminazione, facendosi portatori dei timori e delle insoddisfazioni del pubblico di lettori.

Molte storie, per accrescerne l’efficacia, sono  narrate in modo sereno dal punto di vista di bambini, come l’occupazione ds parte del  Giappone  delle Filippine e di Singapore che fa da sfondo alle avventure infantili di una ragazza filippina e di un monello di Singapore.  In altre, le esperienze di vita o portano a una visione pessimistica, come perTadao Tsuge che nell’adolescenza subì il trauma del bombardamento di Osaka, oppure a una visione dura ma tesa ad esorcizzare il passato per aprirsi al futuro.

Gli autori dei “manga”

Se queste sono le storie narrate dai fumetti,  quali storie vivono i narratori del “manga”?  Sono vicende personali molto diverse, considerando che i “mangaka” detengono i diritti e quindi ottengono  cospicui guadagni anche milionari, mentre gli altri come “free lance” sono pagati male e non hanno i diritti  d’autore.  Li aiutano assistenti che devono farsi le ossa e operano in condizioni molto precarie. E’ un  lavoro a ritmi forsennati per il rispetto dei tempi di consegna, che può portare alla collaborazione tra  autori, come per Fujimoto e Abiko uniti per oltre trent’anni, dal 1954 al 1987, con lo pseudonimo di Fujiko Fujo  Altri, non reggendo più il ritmo, si sono spostati dalla grafica alla sceneggiatura.

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Il  fumetto viene realizzato su una sceneggiatura iniziale, costituita o da schizzi grafici o da un testo, e spesso il risultato si discosta molto dall’idea  originaria, anche perché solo con i disegni finali si trovano le espressioni più adatte ad esprimere i sentimenti con particolari posizioni, oltre all’inchiostratura che richiede a sua volta speciali accortezze per cercare le sfumature giuste.

A questo punto ci si deve chiedere se il fumetto si può considerare arte, o meglio quando diventa arte, e gli autori artisti. La risposta è che non c’è una frontiera netta. Viene ricordata la mostra del 2013 in cui sono stati esposti insieme i fumetti di una “graphic novel” di 120 pagine e i dipinti astratti a questi ispirati di un artista che da adolescente aveva pubblicato dei  fumetti ispirati ad altri scritti dello stesso autore della “graphic novel”.  Mentre anche il celebre scultore giapponese Eldo Yoshimizu è passato ai  “manga”  d’azione, che hanno avuto tale successo da essere  esposti all’uscita nella Galleria di Tokyo.

Ma c’è di più di questi fenomeni individuali. La carica innovativa mostrata dai fumetti “manga” nel rinnovarsi e nel trasformarsi ha contagiato alcuni artisti, pittori o scultori, come il cinese Xu Bing che ha ideato un linguaggio universale fatto di immagini, simboli e logo che sono l’equivalente contemporaneo  dell’elemento pittorico alla base dei caratteri cinesi.

La storia dei fumetti asiatici documentata dalla mostra è ancora molto lunga, giunge fino alle attuali trasposizioni con altri media, dal cinema alla TV,  continueremo a parlarne prossimamente.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso,  intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Mangasia. Wonderlands of Asian Comics” , a cura di Paul Gravett,  Thames & Hudson Editore, pp. 320,  formato 21 x 27, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. L’articolo conclusivo sulla mostra uscirà in questo sito il 6 novembre p. v., con altre 11 immagini. Per la citazioni nel testo di precedenti mostre su temi di  attualità cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “DNA”  29 marzo 2017, “Caravaggio Experience”  27 maggio 2016,  “Numeri”  23, 26 aprile 2015,   “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014, il ; in cultura.inbruzzo.it su “Astri e particelle” 12 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). Inoltre cfr. i nostri articoli in questo sito sull’arte giapponese: per l’antica scultura sacra 24 agosto 2016, la pittura contemporanea 27 maggio 2016, 70 anni pittura “nionga” 25 aprile2013, la pittura moderna “oltre la  tradizione”  15 aprile 2013; sull’arte cinese, le tombe di Awangui 17 gennaio 2015, la pittura di Visual China 17 settembre 2013,  lo scultore moderno  Weishan 24 novembre 2012, la “Via della Seta” 19, 21, 23 febbraio 2014; in www.antika.it, “L’Aquila e il Dragone” 4, 7 febbraio 2011, e in cultura.inabruzzo.it  la Settimana del Tibet 21 luglio 2011, l’anno culturale della Cina in Italia 26 ottobre 2010  (questi ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nella mostra nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Forniscono soltanto un’idea quanto mai parziale e sommaria della sterminata esposizione della mostra, resa integralmente nel monumentale catalogo, e dato il loro carettere non cerchiamo di identificarle per corredarle del titolo, come eccezione motivata alla nostra regola.

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Ebrei, 1. La persecuzione in Italia con le leggi razziali, al Museo della Shoah

di Romano Maria Levante

Ad ottant’anni dall’approvazione delle leggi razziali in Italia, la mostra “1938. La storia”, aperta dal 17 ottobre 2017 al 30 marzo 2018   a Roma, nella Casina dei Vailati al Portico d’Ottavia dov’è il Museo della Shoah,  ripercorre, mediante un gran numero di fotografie e documenti,  l’itinerario nel quale gli ebrei, comunità inserita nella società e in normali rapporti con le istituzioni, sono stati schedati, poi discriminati ed esclusi dalle professioni fino alla persecuzione e allo sterminio. La mostra  realizzata da C.O.R., “Creare Organizzare Realizzare, presidente Alessandro Nicosia, è  a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti come il Catalogo Gangemi Editore International.    

La Locandina della mostra  

Prosegue la  ricostruzione della tragedia dell’olocausto passando da mostre incentrate sull’orrore dei campi di sterminio, come “Auschwitz e Birkenau” e “I ghetti nazisti”,  a mostre che cercano di analizzarne i prodromi nella persecuzione antisemita come “La psichiatria tedesca” e “La propaganda”. 

Nelle  ultime due  mostre una sezione era dedicata alla situazione in Italia, ma di gran lunga prevalente lo spazio e il peso dedicato alla Germania ovviamente per essere la maggiore responsabile della folia antisemita. La nuova mostra  invece è totalmente dedicata alla situazione italiana e ne approfondisce l’evoluzione iniziando con la convivenza nel nostro paese delle diverse religioni,  e in particolare dei cittadini di fede ebraica con i rispetto ai cattolici, rapporti normali  prima che le cose cambiassero fino a precipitare.

Ci guida nella visita il curatore Marcello Pezzetti, forse il maggiore esperto della materia documentata con rigore e dovizia nella mostra,  che passa in rassegna con l’obiettività del ricercatore frenando la passione.   

Caratteristiche  e contenuto della mostra

L’allestimento è molto appropriato, si passa da una stanza all’altra nel Museo della Shoa posto nel “Portico d’Ottavia”, dove la comunità ebraica ostenta con legittimo orgoglio nei tanti negozi caratteristici i suoi costumi  nell’abbigliamento e le sue specialità nella gastronomia. 

Quando si arriva alla sede espositiva si è già entrati  in un mondo che  oggi suscita ammirazione pensando a come ha saputo creare uno stato, dalla popolazione non di molto superiore a quella di Roma,  simbolo di coraggio incommensurabile percome resiste vittoriosamente all’assedio di 100 milioni di arabi, che ha sconfitto militarmente più volte. Mentre viene un senso di angoscia profonda nel ricordare come 80 anni fa fu travolto da una furia criminale.

 Si celebrano, infatti, gli ottant’anni  dal prodromo della tragedia successiva che in Italia ha nome “leggi razziali” approvate nel 1938 nella colpevole acquiescenza all’alleato tedesco che portò il nostro paese in modo sconsiderato ad una guerra che ha provocato diecine di milioni di morti in Europa e nel mondo. 

In 13 sezioni la mostra racconta con una dovizia di  immagini e di documenti,  la storia di una comunità che, dopo aver  acquisito  con il proprio spirito d’iniziativa  e il proprio lavoro una posizione di rilievo nel corpo sociale del nostro paese, si è vista  prima schedata ed emarginata, poi perseguitata  fino alle criminali deportazioni nei campi di sterminio. Le leggi razziali vengono analizzate nei prodromi e nei contenuti, e soprattutto nell’applicazione nei diversi campi del lavoro, istruzione e cultura, fino all’internamento e al lavoro coatto; la reazione, oltre che degli ebrei,  della comunità nazionale dà uno spaccato del nostro paese che è bene conoscere senza infingimenti. Si conclude la mostra con le conseguenze di quello che da ostracismo riprovevole è divenuto genocidio criminale.

Mario Venezia,  presidente della Fondazione Museo della Shoah ci tiene a sottolineare che “l’esposizione  ribalta, tra l’altro, uno stereotipo che è stato affermato e sostenuto per anni da più parti: che la legislazione antiebraica fu una ‘legislazione all’acqua di rose’. Il materiale esposto dimostra che fu, al contrario, sistematica”. E afferma: “Il visitatore avrà gli strumenti necessari epr comprendere che l’azione persecutoria antiebraica del’Italia fascista è stata  infondo, un colossale tradimento, il tradimento di una parte fondamentale di sé, quella ebraica, che era e si sentiva profondamente italiana, ma che aveva una colpa biologica’, quella di avere origini ebraiche. Gli italiani ebrei vennero trasformati da cittadini in perseguitati, e anche abbandonati a se stessi”.    

Questa la definizione di Pizzetti: “Si tratta dell’esposizione di una delle pagine più vergognose della storia d’Italia, ovvero del momento in cui questo Paese,  autodefinitosi ‘ariano’, mise a disposizione tutte le sue risorse per escludere dal mondo del lavoro, dalla scuola, dalla vita pubblica una parte rigogliosa di sé, quella di ‘origini ebraiche’,in base a criteri razzistici-biologici, assolutamente pseudoscientifici”. E conclude: E’ la storia delle trasformazione, avvenuta durante il ventennio fascista, dell’Italia in uno Stato antisemita. E’ la storia di una ferita che, in parte, è rimasta ancora aperta”.

Cerchiamo di raccontare  la mostra per dare il senso di come questo sia potuto accadere, le fotografie, i documenti e i cartelli esposti sono come i fotogrammi di un film che inizia in modo pacifico e anche festose  per incupirsi progressivamente fino alla tragedia e l ‘orrore come “La vita è bella”  di  Roberto Benigni.  

Prima del diluvio, una comunità ben inserita anche con il regime

Festose le immagini della 1^ sezione, “Gli ebrei in Italia dall’emancipazione al fascismo”, da album di famiglia del ‘900 fino agli anni ’30. La prima è della famiglia “Tabet-Belinbau”   nella festa in giardino con alcuni dei componenti che suonano degli strumenti, è la più antica, del 1895, poi altre riprese nel lavoro in panetteria oppure davanti  a un grande negozio, scolaresche schierate,  famiglie riprese in posa casa e in gite in campagna, al mare o a passeggio. Una collettività di persone e di famiglie come tutte le altre, che vive in armonia  con l’intera comunità. In questi e nei casi successivi,  la didascalia  indica se e quando la loro vita si è conclusa con la deportazione. .In effetti , per i meriti acquisiti nel Risorgimento e nella prima Guerra mondiale, e per il loro spirito patriottico mostrato anche verso il fascismo, gli ebrei  facevano parte a pieno diritto della comunità nazionale  senza le discriminazioni  che in qualche caso erano state perpetrate nei secoli precedenti per i difficili rapporti  con i rappresentanti della religione dominante risalenti alle origini del Cristianesimo.      

Non solo, ma per la loro maggiore alfabetizzazione e lo spirito di intraprendenza avevano raggiunto elevate posizioni nella pubblica amministrazione e nelle libere professioni, nell’assicurazione  e nella finanza, nel commercio. Pochi lavoravano nell’agricoltura, molti nel commercio ambulante, tra cui tanti ebrei poveri.

Si potrebbe pensare che si  resero invisi al regime  per suscitare, sia pure a scoppio ritardato, la reazione antisemita, ma le 2^ sezione della mostra, “Gli ebrei di fronte al fascismo”, nega questa eventualità: “Con l’avvento del  fascismo il comportamento degli ebrei si caratterizzò come quello del resto della cittadinanza non ebraica, soprattutto attraverso il consenso e il patriottismo. Essi non smisero di sentirsi e di comportarsi da italiani. La progressiva fascistizzazione della nazione condizionò anche la vita quotidiana delle comunità ebraiche”. 

Alcuni ebbero anche incarichi politici, ci fu un ministro, come ci furono quelli che si opposero al regime e per questo furono esiliati, come gli altri italiani, i fratelli Rosselli , ebrei, furono assassinati, era il 1937, impressionante per partecipazione di popolo la fotografia del loro funerale.  Vediamo le immagini delle “piccole italiane” di una scuola ebraica,  una delle quali premiata dalla “Gioventù italiana del Littorio”, dei ragazzi ebrei in uniforme di “Figli della Lupa”, di ebrei membri della Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale,  uno dei quali, si legge, deportato e ucciso ad Auschwitz nel 1944.    

Le leggi razziali, identificazione e censimento degli ebrei

Dopo questa premessa sulla “normalità” preesistente nei rapporti con la comunità nazionale e il regime fascista, ecco la svolta cui è dedicata la 3^ sezione, “Le leggi antiebraiche”. Vengono emanate due anni dopo il 1936, per due eventi combinati,  la guerra d’Etiopia con la proclamazione dell’Impero che diffuse  in razzismo, anche se contro i neri, e l’Asse Roma-Berlino con i legami più stretti al paese antisemita, che diede il via a una campagna propagandistica antiebraica. 

Mussolini  ha scritto dell’ “antisemitismo inevitabile” in un articolo sul “Popolo d’Italia”  e ne ha parlato in un comizio a Trieste il 18 settembre del 1938  in cui definiva esplicitamente l’ebreo  “un nemico irreconciliabile del fascismo”, accusandolo di essere “il popolo più razzista dell’universo”;  una fotografia mostra la folla oceanica che applaudiva il comizio, su “la Stampa” il giorno dopo il ttiolo a 9 colonne “Il Duce ha parlato”.  

A  luglio era stato  pubblicato il “Manifesto fascista della razza”, in agosto era uscita la rivista “La Difesa della Razza” e soprattutto veniva fatto il censimento della popolazione ebraica e si istituivano  uffici appositi. Erano trascorsi 5 anni dalla legislazione tedesca, l’Italia era pronta a imitarla.    

Tra i mesi di settembre, dopo il discorso,  e dicembre,  escono i decreti antiebraici “per la difesa della razza”, con la fissazione dei  criteri per definire la “razza ebraica” e altre misure, controfirmati dal re e convertiti in legge  da Camera e Senato. Erano criteri razzistico-biologici e non religiosi, per cui colpivano anche i cattolici. Furono vietati i matrimoni “parzialmente misti”   e si concesse la possibilità di evitare la persecuzione  a chi aveva  benemerenze e poteva essergli concessa la cosiddetta “discriminazione”.  

E’ esposta non solo la documentazione sui provvedimenti, ma anche 13 vignette esplicative dei diversi settori della vita nazionale cui si applicavano le misure entrate in vigore. C’è anche la lettera in cui inaspettatamente Italo Balbo chiede al Ministero dell’Africa italiana di rinviarne l’applicazione alla Libia di cui era governatore,   viene  ascoltato, l’estensione alla colonia avverrà soltanto nell’ottobre 1942. 

Le leggi antisemite non ebbero conseguenze pesanti soltanto sul piano dei diritti civili ed economici degli ebrei colpiti, ma compromisero la crescita della comunità che si impoverì e diminuì notevolmente anche il numero dei matrimoni tra ebrei, non toccati dalle misure repressive, e quindi al natalità con rischio di estinzione, quello che in fondo era il desiderio inespresso del regime.   

Nella 4^ sezione, “Definizione e censimento”, viene documentato un momento importante, il censimento,  che ha la grave responsabilità di consentire di individuare  con precisione le persone “potenzialmente perseguitabili”,  e non solo con misure amministrative come in una prima fase.  Furono censiti oltre  58 mila individui con ascendenti ebrei, si dichiararono ebrei  quasi 47 mila, di cui più di 37 mila italiani, gli altri stranieri, l’1,1% della popolazione. Bastava un genitore di razza ebraica per essere censito come ebreo se aveva mantenuto tale religione.  Veniva richiesta in modo perentorio la “denuncia di appartenenza alla razza ebraica”, come vediamo in un manifesto del Podestà di Fiume,   pena l’arresto e l’ammenda per chi non ottemperasse spontaneamente.

Oltre a documenti, statistiche e fotografie, è esposta una serie di”tavole genealogiche”  con incroci di componenti  a palline rosse o blu poste a triangolo, per definire l’appartenenza alla “razza ebraica” o alla “razza ariana”. Sembra una farneticazione, ma sono state  emesse nel settembre 1938 dalla “Direzione Generale per la Demografia e la Razza”, chiamata “Demorazza”, istituita “ad ho”” insieme all’ “Ufficio studi del problema della razza” presso il Ministero della cultura popolare.. 

L’estromissione degli ebrei dal lavoro, le proprietà e l’istruzione

E siamo all’applicazione, la 5^ sezione riguarda  “Lavoro e proprietà”,  gli ebrei identificati con i criteri cui si è accennato furono espulsi dalle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, compreso il settore dei trasporti, e anche dall’amministrazione di imprese private e da banche  e assicurazioni, nel 1939 tocca alle libere professioni di tutte le categorie: come avvocati e notai, ingegneri e architetti, geometri  e ragionieri, medici e veterinari, chimici e farmacisti.

Tra il 1939  e il 1942 è il turno degli insegnanti privati e dei lavoratori in imprese “ausiliarie alla produzione bellica”, come i cantieri navali, la Fiat, la Montedison e la Magneti Marelli; nonché dei commercianti, anche del commercio ambulante in cui la comunità ebraica era molto attiva,  e degli addetti ai servizi di ogni tipo: affittacamere, venditori di preziosi e di oggetti sacri, perfino i gestori di scuole da ballo e i saltimbanchi, i venditori di stracci e gli allevatori di piccioni viaggiatori, nemmeno il senso del ridicolo frenò l’estromissione dal lavoro.

Ne seguì l’impoverimento delle famiglie, cui fu negato  qualunque sussidio.

L’ostracismo degli ebrei riguardava anche le proprietà, che non potevano essere detenute per quanto superava l’estimo di 50 mila lire per i terreni e di 20 mila lire, la parte eccedente andava a un ente apposito.

Tutto ciò è esemplificato in documenti  dei Ministeri e delle Questure nonché in lettere di licenziamento di banche, oltre  a perizie con distinta la quota ammessa da quella espropriata, oltre a fotografie dei negozi sbarrati  e ad elenchi sul ritiro delle tessere, come  per l’ingresso nella Borsa.   

L’applicazione al settore dell’“Istruzione e cultura”, cui è dedicata la 6^ sezione, fu radicale, gli ebrei furono esclusi da tutte le scuole pubbliche fino all’Università, salvo gli universitari che avevano già iniziato il ciclo di studi,  mentre altri paesi antisemiti si erano limitati al numero chiuso. Subirono la stessa sorte docenti e studenti ebrei, gli alunni espulsi potevano frequentare le scuole di associazioni ebraiche, a parte i casi di classi separate nelle scuole pubbliche, l’effetto sarebbe stata la drastica riduzione del loro numero nelle libere professioni, peraltro già precluse. Analoga esclusione della loro presenza dall’editoria, dall’arte, da ogni settore dello spettacolo.

Nelle scuole pubbliche furono eliminati non solo i libri di testo di autori ebrei, che da allora non furono più editi,  ma anche i libri di autori “ammessi” che però citavano ebrei morti dopo il 1850, la precisazione burocratica del discrimine temporale aggiunge sconcerto a sconcerto.    I giornali con i titoli a 9 colonne e una serie di documenti ufficiali, come lettere dei Ministeri,per quello dell’Interno da parte della “Direzione generale per la Demografia e la Razza”  fanno rivivere questa atmosfera terribilmente xenofobica con il paradosso che riguardava italiani veri e propri.

Fa effetto  l’elenco di “114 ebrei purosangue”  ma ancora di più il numero  degli esclusi dalle scuole: nelle elementari 100 e nelle medie e superiori 279,  all’università 96 più 200 liberi docenti e 133 aiuti e assistenti, oltre 800, e alcune migliaia di studenti. E i nomi lasciano senza fiato, alcuni di fama internazionale nella fisica e chimica, economia e diritto, medicina e letteratura, storia e storia dell’arte. Citiamo coloro che diventeranno premi Nobel, Emilio Segrè, escluso dall’insegnamento, Franco Modigliani e Rita Levi Montalcini esclusi dagli studi. Aggiungiamo solo alcuni nomi: Vito ed Edoardo Volterra e Federico Enriquez, Guido Castelnuovo ed Eugenio e Guido  Fubini, Giuseppe e Mario Giacomo Levi, Del Vecchio e Luzzatto,  D’Ancona e Momigliano.  Colpiscono le copertine di libri scritti o curati da  ebrei  tolti dalla circolazione, Si potrebbe pensare che sono testi politici ritenuti eretici rispetto alla mistica di regime, tutt’altro. Tra quelli vietati,  i testi letterari riguardano “La Divina Commedia esposta al popolo” di Eugenio Levi e “Sommario di storia delle civiltà antiche” di Arnaldo Momigliano,  “Le più belle novelle italiane” di Giuseppe Morpurgo e “Fiabe vecchie e nuove di Zia Mariù” di Paola Carrara Lombroso”. Possibili metafore nascoste?  Non è questo il motivo, perché sono vietati anche l”Algebra complementare. Teoria delle equazioni” di Salvatore Pincherle e il “Manuale di cultura musicale” di Arnaldo Bonaventura; perfino il  “Vocabolario delle lingue italiana  e tedesca” di Massimo Grunhut,

L’ossessione antiebraica, stimolata e portata al parossismo dal patto stretto con il potente alleato la prodotto questi accessi di stupidità che farebbero sorridere se non ci fossero state le misure ricordate nel settore cruciale dell’istruzione e della cultura.

Benedetto Croce, con un lettera del 21 settembre 1938 sul questionario trasmessogli in ritardo per il “censimento” degli ebrei nelle accademie e nelle istituzioni culturali,  ridicolizza  i richiedenti affermando: “In ogni caso io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo”; e concludendo:che sarebbe “arrossito” dinanzi “all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata”. Purtroppo fu una delle poche lodevoli eccezioni, lo vedremo prossimamente dando conto delle 7 restanti sezioni della mostra, tra cui quella sulla  posizione degli italiani non ebrei. 

Pierfranceschi, architetto dell’uomo nella natura, al Museo Bilotti

di Romano Maria Levante

La mostra “Maurizio Pierfranceschi. L’uomo e l’albero” espone al Museo Carlo Bilotti di Roma, dal 18 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018  una selezione di 50 opere dell’artista, pitture e sculture,  sul rapporto tra uomo e natura, architettura e paesaggio. La mostra, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla crescita culturale, si avvale dei servizi museali di Zétema, Progetto cultura, ed è a cura di Fabio Cafagna, catalogo delle edizioni Solfanelli.

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Una mostra con diverse facce, che compongono l’immagine di un artista poliedrico, legato alle sue radici, coerente con la sua formazione.

E’ un artista che in un colloquio del 2005 con Carlo Alberto Bucci si è definito “muratore”,  dando questa spiegazione: “A me interessa la costruzione architettonica del quadro, che cresce con un’orizzontale, una verticale, un pieno e poi un vuoto”. Come una muratura, dunque,  una  composizione le cui parti si sostengono tra loro.

Ma per noi è anche un architetto,  come emerge dalle sue parole successive secondo cui nel quadro “c’è una forza costruttiva che lo anima e una forza psichica che deve abitarlo”.  E lo paragona a “un chiostro che è aperto e riparato al tempo stesso, costruzione e natura”. :Solo un architetto può fare tale progettazione  che poi il muratore tradurrà in vani costruiti con l’accortezza spiegata all’inizio.

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La visione della natura, l’uomo e l’albero

Costruzione e natura sono abbinate non solo in modo simbolico, in alcuni suoi dipinti è la natura con i rami degli alberi a fornire l’architettura della costruzione compositiva.  Mentre non lo interessa il paesaggio con gli orizzonti lontani che può scoprire, “sa troppo di racconto, ed io voglio fare pittura, e non letteratura”. E per lui la pittura è costruzione:  “Dipingo rami e rovi perché sono strutture architettoniche”.  

Questa visione della natura ispiratrice dell’arte viene da lontano, dalla tesi di laurea che, come ricorda il curatore Fabio Cafagna, concepì come una lettera ad Alberto Burri, forse in omaggio ai suoi “sacchi” artistici che gli ricordavano il lavoro dei contadini nelle Marche, di cui descriveva la mappa agreste  paragonandola a un “intarsio di piccole tarsie dalle sottili variazioni cromatiche”.

E’ una natura legata all’uomo dal duro lavoro dei campi,  binomio riassunto  nella sua prima opera, “L’uomo e l’albero”, un piccolo dipinto che nel 1985 fu esposto alla galleria romana “Ferro di cavallo”, nel quale la figura umana ha un che di primordiale e insieme di primario, come del resto l’esile alberello.

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Questo quadro apre la mostra con  un “ouverture” altamente simbolico ed evocativo nella sua icastica essenzialità che riporta  a sculture classiche, pure  al centro della sua attenzione. “La schematicità della composizione – commenta Alberta Campitelli – ci comunica  l’essenzialità della vita, la vita che è natura in tutte le sue espressioni”.

Anche  nel recentissimo bassorilievo in terracotta bianca  “Et in Arcadia ego”, 2017, le figure umane sono  primordiali ed essenziali  e non manca neppure l’albero, altrettanto evocativo.

Nell’ anno precedente, il ritorno esplicito al motivo del suo primo dipinto sopra citato, in “L’uomo e l’albero nuovo”,  2016, un’opera spettacolare di quasi 2 metri e mezzo di altezza per oltre 3 metri di larghezza, costituita da otto pannelli in legno uniti percorsi da venature che compongono una trama  variegata, le “piccole tarsie”  dei campi arati della sua regione di origine, lo stesso ambiente contadino che il curatore trova nella fotografia dei genitori e dei nonni, con la natura scabra e arida della campagna marchigiana e la rigidità alla Rousseau delle persone.

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E aggiunge, citando la tesi di laurea dell’artista, che oltre al “Doganiere”, nel suo “albero genealogico” ci sono Sironi e Morandi, Campigli e Piero della Francesca, Wiligelmo, Klimt e “il maestro Burri”. “E’ un universo – per la Campitelli – il cui perno è sempre l’uomo e il suo rapporto con la natura”.  Non è la riproduzione della fotografia in cui le figure sono allineate la scultura in terracotta rossa “Gruppo di famiglia“, 2017, ma di certo il pensiero torna al gruppo di allora, come per “L’uomo e l’albero nuovo”.

Di questa grande dipinto vogliamo mettere in luce la straordinaria continuità artistica e compositiva con la prima opera di cui reitera il titolo attualizzandolo, anche se la scena è più animata, non si vede solo una figura umana e un albero spoglio, ma altre presenze e ombre  in  un’atmosfera velata. “C’è la forza della natura e quella di alcuni legami familiari evocati da figure animali  e umane – osserva Carlo Alberto Bucci – c’è una pittura fatta di molte, lente velature e c’è, all’opposto, ma lì accanto, colore spesso steso a corpo. La sintesi (forse volutamente non cercata) delle diverse  anime è ardita in questa grande metafora della vita”.  Il colore esplode al centro dove, collocata su un ramo da una sorta di elfo dei boschi, una arancia  gialla dà luce al dipinto. E’ lo stesso artista a farcela notare  durante la visita alla mostra, dicendo che l’approdo all’aranciera di Villa Borghese del suo quadro con l’arancia in bell’evidenza  è stata una fortuita quanto significativa combinazione.

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Il “Ninfeo” pittorico e l’autoritratto rivolto verso il ninfeo barocco dell’aranciera

Non è stata una combinazione la realizzazione dei 4 grandi pannelli del “Ninfeo”,  un trittico  con i due pannelli laterali a forma quadrata di 2 metri di lato, quello centrale largo 2 metri e mezzo come il fregio alto 1 metro, veramente monumentale.  Li ha dipinti nel 2016  per la sala dove sono esposti dirimpetto  al ninfeo barocco dell’aranciera,  da cui sono separati dalla grande vetrata che fa da parete:  “Il  ninfeo, come il chiostro – commenta Cafagna – opera dell’uomo ma perfettamente integrato nella natura, della quale imita e sviluppa le forme, diviene la metafora perfetta del modo di lavorare dell’artista, il “luogo assoluto”. E conclude: “L’incessante instabilità che si crea tra interno ed esterno, tra artificio e natura, è la chiave di volta della poetica di Pierfranceschi”.

Guardiamo il suo “Ninfeo”,  si sente una profondità ancestrale, arcaica nei tre ambienti oscuri che sembrano penetrare nell’essenza della materia,  quasi ci fosse Diogene con la lampada che si può intravedere nella forma sulla destra, nel fregio forme sfumate di pellicani che si muovono nel buio.  Ci voltiamo dalla parte opposta della sala per guardare il ninfeo barocco oltre la vetrata e abbiamo una sorpresa, non lo guardiamo soltanto noi ma anche il viso dell’artista in terracotta bianca, l'”Autoritratto con passero” rivolto all’esterno  in un muto collegamento, quasi a dimostrare “l’incessante stabilità” tra “artificio e natura” di cui parla Cafagna, è recentissimo, del 2017.    

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Ma c’è di più, i due occhi guardano ma non vedono  perché quello destro spalancato è svuotato, senza pupilla come nelle statue antiche, il sinistro è socchiuso:”E’ l’occhio del sognatore – ha detto l’artista – più pronto ad ascoltare i richiami e i suggerimenti della natura”, sussurratigli all’orecchio sinistro  dal passero con le piume colorate, che della natura è un simbolo, poggiato sulla sua spalla.

Il salone diventa così un set teatrale con la grande tavola “L’uomo e l’albero nuovo”  nella parete di fondo più corta, il trittico del “Ninfeo”  nella parete adiacente molto  più lunga, al centro l’autoritratto che guarda senza vedere verso il  ninfeo barocco all’esterno. Così Cafagna: “Nello scarto tra i due occhi della scultura sta il doppio registro estetico dell’arte di Pierfranceschi: romantica e ponderata, riflessiva ed estroversa, aperta verso orizzonti infiniti e racchiusa nei meandri della coscienza”.

Bucci parla di “doppio sguardo”, di “Giano bifronte che segna l’inizio e la fine, il passato e il futuro”;  e immagina che – a somiglianza di Rubin scultore e Arkin storico dell’arte,  personaggi descritti da Bernard Mahamud in “Il cappello di Rembrandt”, opposti di carattere ma uniti nell’insegnamento e non solo –  “nel lavoro (se non proprio nella persona) di Pierfranceschi vivano due anime in contrasto, anche violento, eppure complementari. L’una è mondana, colta, suadente cittadina. L’altra è silenziosa, rude, ‘ignorante’, contadina”.

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Per la prima anima vale una biografia ricca di mostre.. Dopo la prima mostra del 1985, negli anni ’80 e ’90 esposizioni a Roma e Milano, Mosca e Leningrado, nel 1992 è uno dei dieci artisti italiani selezionati per la mostra “Giappone Italia Giovani generazioni” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 1993 è a New York e nel 1996 alla XII Quadriennale d’Arte di Roma. Poi a Bologna e Treviso, Cagli e Rimini, Copparo (Ferrara), Virgilio (Mantova) e  San Gabriele (Teramo) alla “Nona Biennale di Arte Sacra”. Soprattutto a Roma le mostre sono  sempre più numerose, da Ciampino alla “Galleria Il Segno”, dalla “Temple Gallery” al Chiostro del Bramante.

Questa anima mondana e cittadina convive con l’anima silenziosa e contadina espressa dalla fotografia dei genitori con i nonni, una vera e propria carta d’identità del nostro artista specchio della sua terra di origine, la campagna marchigiana.

Gli altri dipinti, interno-esterno, i rami come strutture antropomorfe

Uno sguardo verso l’esterno anche nel “Dittico”, 2017, questa volta è un dipinto con una figura femminile appena abbozzata,  la testa da manichino metafisico rivolta verso un esterno oscuro con forme indistinguibili. Torna la famiglia,  sembra si tratti della figlia dell’artista, che dalla finestra della sua stanza guarda fuori; al chiarore dell’interno si contrappone l’oscurità all’esterno.. Pure in “Vista sui naufragi”, 2015, la contrapposizione interno-esterno è del tutto evidente.

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Torna l’albero  in un altro dipinto, “Agnus Dei”, 2016,  al centro  di una scena notturna ancora più indecifrabile con una dissolvenza  nella quale  si percepisce un oggetto dalla forma e l’aspetto di un televisore,  forse anche qui l’interno giustapposto all’esterno, e un albero stilizzato i cui rami sono dei filamenti che si aprono verso l’alto, è molto più esile del primo albero del 1985.

Sono passati oltre trent’anni, è come se  l’artista stesse sconfinando nell’astrazione, ma prima, nel 2012, ci sono state le “Metope”, dal richiamo classico nel nome quanto mai eloquente:  nei 6 dipinti esposti, numerati in ordine progressivo, dove i rami sono invece le strutture portanti della composizione progettata dall’architetto con una visione antropomorfa  in cui uomo e natura, e precisamente uomo e albero con i suoi rami, sono assimilati e uniti nella concezione  panica.

Alcuni rami prendono forme umane, altri costituiscono l’architettura del dipinto, in una evoluzione che, nelle opere esposte, parte dal “Paesaggio convulso” del 1990 e  si sviluppa nella “Deposizione”, la “Melanconia” e “Dopo la battaglia”, tutti e tre del 2009, in cui non si avverte ancora la compenetrazione antropomorfa ma i rami diventano  protagonisti che sembrano parlare.

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Andando indietro nel tempo, nel 1995 vediamo come per la solidità compositiva il “muratore” non ha bisogno neppure dei rami, basta il colore, ed ecco “Architettura in rosso” e “Architettura in giallo  e blu”.

Le metamorfosi scultoree delle “cose ultime”

Un “architetto” dell’arte come Pierfranceschi, oltre ad esprimersi in pittura non poteva non farlo anche nella scultura dove le forme e i volumi sono ancora più dominanti, quindi richiedono particolare attenzione alla solidità della struttura compositiva. Abbiamo visto finora 3 opere in terracotta, in due bianca, in una rossa, tutte con un grande equilibrio nei loro contenuti evocativi.

Ma c’è un altro filone nel lavoro scultoreo dell’artista, lo vediamo nell’angolo della mostra dove sono presentati molti oggetti di vari materiali, soprattutto legno e ferro, marmo e gesso, forse troppo affastellati  in uno spazio ridotto per avere il rilievo che meritano. Alla base di questa scelta espositiva alquanto riduttiva,  ci potrebbe essere l’idea che anima l’artista in questa serie di sculture: poiché si tratta di dare nuova vita a materiali ed oggetti di uso comune che sono stati abbandonati e destinati  a scomparire, il loro recupero per un uso diverso non deve enfatizzarne l’umile contenuto.

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L’utilizzazione di materiali recuperati in vario modo lo troviamo in molti artisti, ne citiamo tre presentati a Roma negli ultimi anni, l’americana Louise Nevelson, il libico Wak Wak, l’italiano Alessio Deli: la prima assembla in vario modo tavole e parti di mobili in legno traendone  pannelli spettacolari, il secondo recupera materiale bellico per sculture evocative, il terzo prende nelle discariche gli elementi soprattutto di ferro con cui compone sculture di piccole dimensioni,  come piante e altro, e grandi statue. Pierfranceschi, invece, non si serve del materiale recuperato come materia prima ma come oggetto della sua scultura con interventi minimali volti più che altro a innestare un materiale sull’altro per dargli un significato avendo perduto del tutto quello originario.

“Queste cose – precisa Enrico Castelli Gattinara – possono aprirsi ancora a un’utilizzabilità altra, del tutto estranea a quella che le aveva destinate alla fine, eppure intrinseca ad essa. L’artista le usa per quello che sono, per come sono, proprio in quanto non respinti e consumati, vale a dire come cose ultime”. Lo fa così: “Le usa come un materiale quasi grezzo, e le sceglie solo se possiedono questa qualità. Per questo esse non sono ‘qualsiasi cosa’, ogni tipo di rifiuto o di scarto, ma solo quel particolare materiale di scarto, pezzo, residuo o frammento che in qualche modo ancora parla, o colpisce nel segno”. Ecco come li trova: “Li scorge, li raccoglie e li osserva con attenzione, con cura  (la cura che si riserva alle cose fragili), per leggerne la virtualità ancora presente in essi prima di essere definitivamente distrutti”.

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Ma non è una fragilità materiale, essendo duri e resistenti, bensì la fragilità intrinseca di chi è stato abbandonato perché divenuto inutile, quasi in un’antropizzazione degli oggetti inanimati. In fondo ci sembra di ritrovare  Geppetto che dal tronco di legno ricava il burattino che si anima e vive.

Anche gli oggetti recuperati da Pierfranceschi prendono vita dopo il suo intervento alla Geppetto, e come sia altamente nobile, e non soltanto dignitosa questa vita lo vediamo soprattutto dal Catalogo, dove ognuno di loro, a piena pagina, può esprimere appieno una forza espressiva che non appare nella stessa evidenza nella mostra dove sono affastellati numerosi in uno spazio troppo piccolo per valorizzarli come meritano.

C’è un altro aspetto intrigante che può evocare altre situazioni e correlazioni inaspettate, lo sottolinea lo stesso Castelli Gattinara: “Prima delle cose ultime, c’è infatti la loro relazione ancora aperta, la promessa di rapporti insospettabili e inimmaginabili, mai progettati e mai stabiliti: una risonanza e un’assonanza con altre cose  per cui non erano fatte e a cui non erano destinate. Qualcosa di fragile e di potente al tempo stesso, di cui l’artista si fa sensore, interprete e artefice”.

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Tre aggettivi  che  ci fanno sentire le varie fasi interconnesse in cui si svolge la creazione artistica, l’individuazione dell’oggetto, la comprensione del significato che può assumere, l’intervento minimale di adattamento e connessione ad altri oggetti. L’artista, prosegue il critico,  “raccoglie facendosi raccogliere, lasciandosi chiamare da questi oggetti dispersi e ponendoli in relazioni che la loro forma, la loro materia  e la casualità degli interventi subiti richiamano e talvolta pretendono”.

Di qui la presenza di più materiali, negli innesti di residuati diversi che li fanno rivivere in una forma composita nuova e con una funzione rinnovata, anzi rilanciata nell’arte: “Nessuno di questi pezzi era destinato all’altro, eppure adesso sembrano fatti per restare così, insieme in un equilibrio delle differenze e delle possibilità. Tutto si gioca nei punti di appoggio e nel gioco delle forze reciproche, dei pesi e dei materiali”. .

E tutto  avviene – afferma ancora Castelli Gattinara – “senza che prima ci sia stato  un progetto, un’intenzione, una pianificazione strategicamente elaborata”.   La Campitelli aggiunge la sua definizione evocativa di “materiali assemblati sapientemente per comporre un immaginario inedito che permette a chi guarda di proiettarvi le proprie visioni e suggestioni”.

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Forse per questo la serie del 1916 si intitola “Prima delle cose ultime”  senza titoli per le 15 opere che la compongono, se non il numero d’ordine. Vediamo un gancio di ferro arrugginito conficcato in un cuneo di legno poggiato su una lastra di travertino (# 1) e un tubo lungo e contorto di rame innestato su una pietra rotonda (# 2);  un piccolo pezzo di tubo di piombo fissato con un sottile fil di ferro a una base di marmo (# 3), come per un pezzo di legno posto in orizzontale (# 10); una base simile regge un pezzo di legno di quercia in verticale sorretto da un grosso fil di ferro (# 4) e  tiene anche una sorta di nastro metallico che s’innalza a volute (# 5), il pezzo di legno in piedi con il fil di ferro lo troviamo anche su una base di legno (# 11)  e di nuovo di marmo (# 12);  un legno stretto e alto posto in verticale innestato sulla base si ritrova in diverse opere (# 6, 7, 8), ma c’è anche una sorta di lima metallica posta in verticale (# 9);  legno più massiccio in due opere, in una nel blocco ligneo c’è un’apertura (# 13), nell’altra i  pezzi sono uniti da un cerchio metallico su una grossa base lignea ( # 14);  l’ultima opera della serie è una complessa costruzione con colonne di gesso che reggono una ciotola ovale di ferro obliqua, l’artista-architetto è sempre presente  (# 15).

Ci sono altre 11 opere, sempre con assemblaggio di materiali tipo quelli citati, ma con un titolo che questa volta  rimanda al contenuto, quindi ci basta citarlo. Sono  del 2015 “San Sebastiano” e “Paesaggio di sculture”, del 2016 “Urna” e “In colonna”, “Trio”, “Legàmi”, e “Rosa di pietra”, del 2017 “Kronos” e un’altra “Urna”, “Dolmen” e “Albero tra due case”.

Ritroviamo, dunque, anche qui l’albero con cui nel 1985 Pierfranceschi ha iniziato il suo percorso artistico, tornando su questo motivo in modo continuo nella pittura e nel bassorilievo in terracotta.

“Cantore di metamorfosi” lo definisce la Campitelli, e conclude: “Alcuni decenni separano le prime opere dalle ultime realizzate, ma il filo conduttore che le unisce è sempre presente, ed è la ricerca di mettere in luce la capacità della natura, in tutte le sue manifestazioni, di trasformarsi, di dar vita a forme nuove in una incessante metamorfosi”. Ci sembra questo il miglior modo per concludere anche noi la nostra immersione in un’arte così personale ma insieme così coinvolgente.

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Info

Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese. Viale Fiorello La Guardia, Roma. Orario, da martedì a domenica ore 10,00-16,00, sabato e domenica ore 10,00-19,00, lunedì chiuso, ingresso fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel . 060608. www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it. Catalogo “Maurizio Pierfranceschi – L’uomo e l’albero”, Edizioni Solfanelli 2017, pp. 82, formato 24 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri, articoli in questo sito, per gli artisti citati,nel 2013: Nevelson 25 maggio, Deli 26 aprile, Wak Wak 27 gennaio.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al museo Carlo Bilotti alla presentazione della mostra, si ringrazia, per l’opportunità offerta, la direzione del Museo con i titolari dei diritti, in particolare l’artista anche  per avere accettato di farsi ritrarre davanti a una sua opera. In apertura,  “L’uomo e l’albero” 2015, a destra l’autore, l’artista Maurizio Pierfranceschi; seguono il Ninfeo monumentale dell’Aranciera  di fronte all’“Autoritratto con passero” visto dal retro, e “Autoritratto con passero” 2017 visto di fronte in primo piano con dietro “Ninfeo” 2016; poi, “L’uomo e l’albero” 1985 e “Dittico” 2017; quindi, “Vista sui naufragi” 2015 e “Agnus Dei” 2016; inoltre, del 2012,  “Metopa 1″ e “Metopa 4”; ancora, “Metopa 5” e “Metopa 6”; infine, del 2009, “Dopo la battaglia” e “Deposizione”; conclude  uno scorcio dell’esposizione di Sculture 2016-2017, con nella parete il dipinto “Paesaggio di sculture” 2015; in chiusura, “Compianto” 2008.

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Palma Bucarelli, la Collezione donata alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante   

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nella Sala Aldrovandi,  la mostra “Palma Bucarelli. La sua collezione” presenta poco meno di 50 opere da lei raccolte nei quasi 35 anni di soprintendenza alla Galleria cui le ha donate con il lascito testamentario del 1998, alla sua morte. Sono esposte anche circa 10 fotografie in una celebrazione del  ventennale della sua scomparsa che porta a ricostruirne la figura, personale e professionale, nel quadro dei sommovimenti a livello artistico nel dopoguerra, nei quali è stata al centro con il suo spirito combattivo. La mostra è a cura di Marcella Cossu. In significativo parallelo nella stessa sala la mostra, a cura di Barbara Tommasi, “Renato Guttuso. Un uomo innamorato”, ma non di lei, che  apprezzava poco il suo realismo sui temi più scottanti della società rispetto all’approccio disimpegnato dell’astrattismo.

“Palma e sangue freddo”  la definì Marino Mazzacurati, altri “Palma dell’eleganza”,Regina di quadri” è nel titolo della biografia di Rachele Ferrario, “La sua vita e le sue passioni”,  lei amava dire “La Galleria sono io”. Queste definizioni ne riassumono l’immagine e i comportamenti, nel privato e nel ruolo per così dire istituzionale di soprintendente  della Galleria Nazionale d’Arte Moderna per  quasi 35 anni, dal 1941 al 1975. Un periodo lunghissimo nel quale ha potuto mettere insieme le tante opere d’arte lasciate poi alla Galleria Nazionale, che vengono esposte in questa commemorazione del ventennale dalla morte, in una sorta di “summa” delle preferenze con le quali ha orientato la sua direzione con mano d’acciaio nel guanto di velluto della sua raffinata eleganza.

Ma cominciamo dalle due prime definizioni sulla sua personalità e sul suo modo di porsi, che ne riflettono i dati caratteriali. Pur nella sua irruenza nel dare corso alle decisioni senza guardare in faccia a nessuno era fredda e contenuta, come se avesse un temperamento nordico.  

I suoi grandi occhi le davano un innegabile fascino, il pittore Vittorio Bodini li definì “occhi di ghiaccio, simili a quelli di un animale sacro”, avevano quel tanto di algido che ne raffreddava la bellezza. Era questa la sua corazza; , le ha consentito di resistere agli attacchi che da tante parti le vennero per le sue scelte controcorrente, incomprensibili agli occhi di molti perché anticipatrici e ben comprese nella loro importanza decisiva per coloro che erano schierati dalla parte opposta. Il  grande giornalista Vittorio Gorresio evidenziava, della sua anima, “il lato oscuro, spietato, ai limiti della crideltà”.  

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Non si pensi però a una persona scostante, tutt’altro. E qui interviene la sua eleganza sia nell’abbigliamento sia nel portamento. Si impegnava senza risparmio,  non solo nello studio dell’arte fino ad acquisire una profonda competenza, ma anche nel perfezionare la sua presenza pubblica al punto di andare a lezioni di dizione da Andreina Pagnani. Usava il vogatore per la ginnastica casalinga e sapeva sciare e nuotare, per imparare a cavalcare prese lezioni da D’Inzeo, aveva capelli alla Greta Garbo, sulla sua auto scoperta richiamava l’immagine cult della “donna al volante” della De Lempicka.

D’altra parte, è stata direttrice della Galleria Nazionale quando le posizioni di vertice erano soprattutto maschili e doveva resistere in una posizione così esposta, per di più si è trovata nei tremendi anni della guerra a dover prendere delle decisioni gravi e impegnative.

Ma andiamo con ordine nel ripercorrerne la biografia per poi entrare nelle sue valutazioni e orientamenti artistici con i quali ha dato un’impronta ben precisa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che vediamo riflessa nella propria collezione di un sessantina di opere raccolte donate per testamento alla Galleria. Ha inoltre lasciato le carte che documentano i suoi rapporti con artisti, intellettuali, autorità, all’Archivio di Stato  e la propria Biblioteca all’Accademia di San Luca; il suo elegante guardaroba guardaroba con i gioielli al Museo delle Arti Decorative Boncompagni Ludovisi di Roma.

Il percorso professionale e le prime scelte

Fu nominata soprintendente unica alla Galleria Nazionale nel 1941, dopo esserne stata ispettrice dal dicembre 1939 allorché il direttore Roberto Papini fu trasferito a Firenze. Era stata ispettrice alla Soprintendenza del Lazio dall’agosto 1937 e nel 1936 alla Soprintendenza di Napoli dove era giunta dopo tre anni di lavoro alla Galleria Borghese nella quale era entrata a 23 anni come prima destinazione dopo aver vinto il concorso per la carriera direttiva degli storici dell’arte insieme a Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi; nel 1936  nella sua vita entra il giornalista Paolo Monelli, che sposerà molti anni dopo, nel 1963.

I suoi studi si sono svolti a Roma dove si è laureata in Storia dell’Arte con Pietro Toesca e ha frequentato un corso di perfezionamento con Giulio Carlo Argan con il quale ha mantenuto una stretta intesa. Nell’infanzia e adolescenza i  trasferimenti del padre, funzionario prefettizio, le hanno fatto cambiare più volte ambiente, è vissuta soprattutto nell’Italia settentrionale e in Libia a Tripoli.

Scoppiata la guerra dopo la nomina a soprintendente nel 1941,  ha dovuto affrontare la situazione di emergenza dovuta ai fondati timori di bombardamenti, mette in salvo le opere d’arte prima fuori Roma al Palazzo Farnese di Caprarola, poi quando i dintorni della capitale diventano sempre più insicuri le fa riportare a Castel Sant’Angelo sotto la protezione del Vaticano anche dalle mire predatorie dei tedeschi che furono frustrate per i tesori di Montecassino in cui l’evacuazione ad opera dei tedeschi fu scortata dai frati in contatto con il Vaticano.

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Il diario su un  anno cruciale come il 1944, “Cronache di sei mesi”,  è eloquente, anche perché la Galleria riaprì con 11 sale dedicate alle opere di giovani pittori italiani. Tra loro Morandi e Savinio, mancano invece de Chirico e Guttuso, che lei tenderà a trascurare per scelte sempre più orientate verso le avanguardie italiane e internazionali, era una fase in cui si faceva strada l’astrattismo.

Concepisce “il Museo come avanguardia”, per usare il titolo del saggio su di lei di Mariastella Mangozzi del 2009, in occasione di una mostra alla Galleria Nazionale, cioè come un’istituzione avanzata e non conservatrice com’era allora l’immagine museale.

Per essere tale, sostiene  che  il pubblico nel museo deve poter avvicinare e comprendere tutta l’arte, inclusa quella del presente. Ma perché non resti incompresa lei si adopera per svolgere una vera e propria politica culturale con una funzione educativa, tanto che già dal 1946 apre una scuola, con l’aiuto di Lionello Venturi.

Il suo impegno in questa direzione si manifesta soprattutto nelle mostre e nelle acquisizioni di opere d’arte, orientate verso le tendenze più avanzate come l’astrattismo, che mancavano totalmente nella collezione preesistente; l’esigenza di colmare la lacuna diviene presto una scelta definitiva che difese da tutti gli attacchi. Lo fa dando un respiro internazionale all’attività della Galleria Nazionale, stringe rapporti con i maggiori musei del mondo, europei, giapponesi e  americani.   

Organizza due mostre innovative in tre anni, nel 1948 “Arte astratta in Italia”, nel 1951 “Arte astratta e concreta in Italia”, alle quali partecipano Corpora e  Consagra, Dorazio e Scialoja,  Capogrossi e Turcato.

Tra gli artisti internazionali dà spazio a Klee e Picasso, Ernst e Moore.  I suoi  orientamenti  si manifestano anche negli acquisti della Galleria Nazionale, e questo provoca anche l’intervento dei politici che ne contestano gli indirizzi di spesa per opere di cui contestano il valore artistico.

L’escalation nel segno dell’anticonformismo

Si identifica sempre più con la Galleria Nazionale, al punto da trasferire la propria abitazione nel 1952 in un appartamento posto in un’ala dell’edificio della Galleria. Negli anni successivi si susseguono le mostre di artisti di arte contemporanea all’avanguardia per il loro stile astratto e informale, ma non trascura l’aspetto didattico accompagnandole con cicli di conferenze esplicative.

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Eloquenti  le mostre negli anni ’50, da quella sui  “Pittori astratti americani” nel 1950, a  Picasso nel 1953 e a Mondrian nel 1956, a  Pollock nel 1958 e a Burri nel 1959; negli anni ’60 quelle di Moore nel 1961 e Rothko nel 1962, Pascali nel 1969, seguita da quella di Manzoni nel 1971 .

Al centro delle nette contrapposizioni tra astrattismo, realismo e figurativo, ne fu contestata anche la gestione, fino all’accusa di una spesa folle per acquistare il “Sacco grande” di Burri, peraltro avuto gratuitamente.  Giulio Carlo Argan e Lionello Venturi sono dalla sua parte. Entrò in aspri contrasti per l’aperto dissidio con de Chirico e la sottovalutazione di Guttuso.

Negli anni  si fa sempre più evidente la sua dimensione e notorietà internazionale: la vediamo nel 1961 negli Stati Uniti, invitata per un ciclo di conferenze; poi in Canada, Brasile e Giappone. Il presidente della Repubblica Segni  la nomina commendatore.

Il suo anticonformismo nelle scelte artistiche la porta a spingersi sempre più avanti nel fare spazio alle novità anche quando sono contestate, citiamo per tutte che nella mostra del 1971 Piero Manzoni presentò “Merda d’artista”, opera non solo esposta ma anche acquistata dalla Galleria Nazionale.

Naturalmente reagisce da par suo alle accuse dimostrando la propria correttezza, la sua immagine non ne viene di certo appannata, nel 1972 viene  insignita della Legione d’Onore  francese e del titolo di Accademica di San Luca, nel 1975 dell’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica.

E’ stata una lunga vita nel segno dell’arte, è scomparsa a Roma a 88 anni nell’estate1998, le è stata intestata una strada nelle vicinanze della Galleria Nazionale ed è stata posta una targa tra le palme che piantò lei stessa; prima di quella attuale fu organizzata una mostra per lei nel 2009.

Il suo “modus operandi” è stato ricordato dalla direttrice della Galleria Nazionale che ha preceduto quella attuale, Maria Vittoria Clarelli, con queste parole: “Palma sosteneva che  ‘il museo deve esercitare giudizio e critica; non è un arbitro, ma un attore che prende posizione. Lei rivendicava quindi il diritto di scegliere quali artisti e quali movimenti sostenere e comprare». Difendeva le sue scelte in prima persona affrontando le forti polemiche che ne seguivano.

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Particolarmente aspra quella suscitata dalla valorizzazione del pittore e scultore Jean Fautrier, nella quale fu sostenuta da Ungaretti oltre che da Argan, sempre molto vicino a lei. L’artista parigino, autore del ciclo “Ostages” sulle vittime dei lager nazisti, non aveva ricevuto apprezzamenti in Francia, salvo un giudizio di Malraux, mentre lei lo presenta alla XXX Biennale di Venezia e ne acquista un quadro per la Galleria Nazionale.

Il fatto che Fautrier vinse il primo premio a pari merito con Hans Hartung,  indicava che lei aveva visto giusto, ma accese di più gli attacchi, in particolare dall’ “Espresso” con Manlio Cancogni – il giornalista dell’inchiesta dirompente “Capitale corrotta, nazione infetta” – perché fu considerata un’azione con finalità commerciali, in effetti le quotazioni dell’artista salirono notevolmente. Ma sia lei che Argan avevano sostenuto la sua importanza nell’arte informale, e lei lo aveva motivato in una biografia critica su di lui nel 1960. Da allora il suo orientamento in tale direzione si accentuò maggiormente.

Abbiamo citato questo episodio sia perché è stata una polemica particolarmente significativa tra le tante nelle quali è stata coinvolta; sia perché 3 opere di Fautrier e un’opera di Hartung, i due vincitori ex aequo della Biennale veneziana citata, fanno parte della Collezione donata alla Galleria Nazionale e sono esposte nella mostra attuale.

Passiamo dunque in rassegna le 46 opere esposte, di cui 28 astratte, 15 figurative e 3 particolarmente ardite, di quelle che lei accettava volentieri, come era stato per la “Merda d’artista”.

La sezione astratta della Collezione

L’orientamento da lei dato alla Galleria Nazionale negli anni ’50 e negli anni ’60 verso l’informale e l’arte astratta nazionale e internazionale  con le esposizioni  e i relativi acquisti si riscontra nella sua Collezione in una sezione astrattista di 28 opere.

Nello scorrerle tornano alla mente le contrapposizioni tra i  gruppi che si andavano formando e scomponendo, ricordiamo il “Fronte nuovo delle Arti” che cambiò orientamento verso l’informale sorprendendo al ritorno da un viaggio a  Parigi Renato Guttuso, tra i fondatori, il quale non poteva accettare la sconfessione del realismo, creando un rottura insanabile che portò allo scioglimento del gruppo dopo due anni di polemiche.

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Ne facevano parte Birolli e Corpora, Fazzini e Leoncillo, Morlotti e Pizzinato, Santomaso e Viani, Turcato e Vedova. Di Giulio Turcato vediamo esposte 3 opere, 2 degli anni ’40, il “Ritratto di Palma Bucarelli” 1944, e “Rivolta” 1948, e una di oltre un ventennio dopo, “Arcipelago” 1970. Il rapporto con Turcato si protrasse nel tempo come dimostra l’opera del 1970, era tra i giovani artisti delle prime mostre del 1948 e del 1951 dedicate all’arte astratta.

Altri artisti di quelle prime mostre di cui vediamo opere della Collezione esposte sono Toti Scialoja, “Senza titolo” 1954, e due artisti con 2 opere ciascuno: Pietro Consagra, “Plastico in lamiera di ferro” 1949, e “Autoritratto” 1951, Piero Dorazio, “Senza titolo” 1949, e “Nebula” 1962.  Enrico Prampolini è presente con “Dissonanze N. 1” 1955.  

I “Senza titolo” sono caratteristici dell’astrattismo, come possiamo vedere nella Collezione in una serie di opere  non intitolate. Sono le due sculture di Umberto Mastroianni, tra il 1965 e il 1973, e le opere di Vassilij Kandiskij 1939, di Fausto Pirandello 1955-60, e di Mimmo Rotella 1962.

Anche “Senza titolo” le 3 opere del 1957 di Jean Fautrier, la pietra dello scandalo della 30^ Biennale di Venezia, anche se una viene definita “Testa di partigiano” e l’altra “Frog pond”; e anche l’opera del vincitore con lui Hans Hartung 1958. Tra il 1958 e il 1965 l’opera di Antoni Tàpies, “Composizione in nero”.

Di Andrè Masson vediamo esposte 2 opere, “Senza titolo” 1956 e “Passage d’un Chasseur” 1957, così di Nino Franchina, “Senza titolo” 1953-58, e “Orfeo” 1950-60, e Carla Accardi, “Composizione” 1950 e “Frammenti” 1972, in un arco temporale di oltre vent’anni.

Due opere anche per Giuseppe Capogrossi,Superficie 76 bis” 1954-58, e “Superficie 523”,1963, le sue forme caratteristiche sono un sigillo inconfondibile.

L’ultimo autore che citiamo della sezione “astrattisti”  è Dario Cecchi, il suo “Ritratto di Palma Bucarelli” 1946-47 si unisce agli altri due ritratti della soprintendente esposti nella mostra, quello astratto di  Turcato, del 1944, già citato, e quello figurativo di Savinio che citeremo.

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La sezione figurativa

Cospicua anche la sezione figurativa, anche se con un numero di opere pari alla metà di quelle astratte o più avanzate, al contrario di ciò che si può pensare per la predilezione e la promozione degli astrattisti che le ha fatto sfidare i conservatori di un mondo ancora tradizionalista non disposto a fare largo alle avanguardie, e all’arte astratta che si andava affermando sempre più all’estero. Invece è scontata l’assenza nella sua Collezione di opere di De Chirico e di Guttuso, di cui abbiamo ricordato la sottovalutazione unica pecca, a nostro avviso, nella gestione della Galleria Nazionale. 

Due mostre ricompongono, in qualche modo, il rapporto tra questi due grandi artisti e la Galleria Nazionale: quella del 2009, “De Chirico e il museo” che fu parallela alla mostra dedicata allora alla Bucarelli, e l’attuale mostra anch’essa significativamente parallela a questa, “Renato Guttuso, Un uomo innamorato”. 

C’è inoltre un significativo parallelismo tra il lascito testamentario della Collezione da parte della Bucarelli nel 1998 e il lascito di 11 opere nel testamento di Guttuso, destinataria di entrambi naturalmente la Galleria Nazionale. Il lascito di Guttuso fu accolto alla fine degli anni ’80 dal soprintendente Eraldo Gaudioso con parole che sottolineavano la lacuna per la sottovalutazione protrattasi tanto a lungo: “La presenza di Guttuso in Galleria, finora limitata a dipinti di certo notevolissimi ms cronologicamente scalati in un ristretto numero di anni, si dilata a tutto l’arco dell’attività dell’artista e assume un peso pari al reale valore che Guttuso ha avuto nelle vicende dell’arte contemporanea italiana”.

“Reale valore”, dunque, che è stato ignorato per una scelta precisa, quasi di natura ideologica oltre che artistica. Ma la si può capire, tornando alla spaccatura di allora tra artisti e critici, alle polemiche su due fronti contrapposti, in cui entrò anche la politica,  che richiedevano di schierarsi, e una combattente come la Bucarelli non poteva mediare con la sua predilezione chiara come la sua determinazione.

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Comunque, a stare alla Collezione, non sembra esserci stato in lei un ostracismo verso il figurativo, come sembra vi fosse verso la pittura metafisica e il realismo; la sua apertura all’astrattismo non sarebbe dunque esclusivista, se delle 46 opere esposte 15 sono figurative, una compresenza rassicurante sulla rappresentatività di una simile raccolta, De Chirico e Guttuso a parte.

Del resto, il fatto che Picasso alternava nello stesso periodo e non in un processo evolutivo, opere cubiste ad opere neoclassiciste sta a significare che non c’è alcuna contraddizione tra i generi.

Vi sono anche due autori stranieri, mentre tra gli astrattisti ne abbiamo visto 5, Fautrier e Hartung, Tàpies, Masson e Kandinskij.qui  vediamo  Hans Richter,  “Bass + Cello” 1917.

Con un’opera abbiamo Scipione (Gino Bonicchi), “Bozzetto per la copertina di ‘Fronte'” 1931, e Afro (Afro Basaldella) “Ritratto di Leda Mastrocinque” 1941, Filippo De Pisis, “La vecchia alsaziana” 1948, e Mario Mafai, “Natura morta con peperoni” 1951.

Poi tre artisti con più opere, in progressione, Savinio, Mazzacurati e Morandi.

Di Alberto Savinio, “Ritratto di Palma Bucarelli” 1946, e “Ritratto di Paolo Monelli” 1951, la coppia ripresa separatamente ma i due quadri accostati la ricompongono idealmente, lui con l’inconfondibile monocolo, lei i capelli sciolti al vento, come sulla sua spider.

Anche Marino Mazzacurati presenta il suo “Ritratto di Palma Bucarelli”  1952, una testa in cera dall’espressione pensosa ben diversa da quella di Savinio di sei anni prima. Insieme a questo i precedenti “Ritratto di Marino Lazzari” 1944, e “Susanna al bagno” 1946-47.

Citiamo per ultimo, come avviene per l’apparizione della “star” chiamata sul palcoscenico, Giorgio Morandi, presente con ben 5 opere, un nucleo della Collezione che vale come una piccola personale. Due opere hanno il soggetto più noto di Morandi, “Natura morta con bottiglia e brocca” 1915, il più vicino agli inizi, segue “Bottiglie” 1957-59; tra loro “Natura morta” 1956. Poi 2 opere con un altro soggetto “Fiori”  1943-49 e “Vaso con fiori” 1946-48.

Le ultime opere e le immagini fotografiche

Di certo un finale in bellezza con il grande artista il cui figurativo lineare ha sedotto fin dall’inizio chi aveva predilezioni e orientamenti ben diversi; forse perché era avulso dalla realtà scottante che il realismo prendeva di petto, quindi una sorta di astrazione….

Sono esposte altre tre opere di artisti stranieri, ulteriore testimonianza dell’apertura alle innovazioni fino alle provocazioni. Due sono legate alla contestazione del ’68:  Pino Pascali, “Ruderi su prato” 1968, e Christo  (Christo Javacheff), “Ponte Sant’Angelo wrapped” 1969, il ben noto impacchettamento divenuto un’opera d’arte ricordato nella Collezione.   

L’ultima che resta da citare è di Henry Moore, “Mother with Child” 1917, la più antica tra tutte quelle esposte, e anche questa è una notizia.

In una mostra celebrativa del personaggio non potevano mancare delle immagini dirette. La vediamo in veste ufficiale fotografata all’inaugurazione delle mostre di Pablo Picasso nel 1953 con il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, di Piet Mondrian nel 1956 con Alver Aalto, di Jackson Pollock nel 1958 con Carlo Levi, di Alberto Burri nel 1976, quattro artisti che non esitò a promuovere quando non avevano raggiunto l’universale riconoscimento che poi è seguito. Inoltre in un ricevimento al Quirinale nel 1959 in onore dei Reali di Grecia. 

Ed eccola in due ritratti fotografici, uno di Ghitta Carell nel 1943, l’altro del 1957, e infine la vediamo fotografata con il bassotto Ariperto nel 1957, che chiamava Ari. Ha avuto anche il barboncino Donatello, che chiamava Don e lo scottish Michi.

Un video con l’intervista data da lei nel 1963 alla trasmissione della RAI “L’Approdo – settimanale di lettere ed arti”  conclude la ricostruzione a tutto tondo di un personaggio del quale sarà sempre ricordato lo spirito combattivo e innovatore, pronto a cogliere e valorizzare ciò che si muove nell’arte, al di fuori delle cautele e dei formalismi propri della conservazione.

Abbiamo citato quella che, a nostro avviso, è stata forse l’unica pecca motivata dal clima dell’epoca oltre che dalle sue predilezioni. Ma in fondo, nessuno è perfetto.

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 Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFreccia  di Trenitalia.  Il nostro articolo sulla mostra parallela “Guttuso. Un uomo innamorato”  è uscito in questo sito il 16 ottobre u. s.   Per gli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, Guttuso,  sulla mostra al Vittoriano 25 e 30 gennaio 2013, sulla mostra al Quirinale 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, Picasso 5, 26 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  Impressionisti e moderni 18, 27 gennaio 2016, cubisti 16 maggio 2013, Secessione 12, 21 gennaio 2015, Klee  1, 5 gennaio 2013, Mondrian 13, 16 novembre 2012,  Astrattisti  5, 6 novembre 2012, Pollock e altri del Guggenheim, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, De Chirico, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno, 1° luglio 2013; poi, 17, 21 dicembre 2016; sempre su De Chirico, in “cultura.abruzzoworld.com”, 8, 10,11 luglio 2010 De Chirico e la natura”, in precedenza, nel 2009, 27 agosto sui disegni e 22 dicembre sulla mostra alla Galleria Nazionale “Il lato nascosto dell’artista incompreso”, il 23 settembre con altri artisti del ‘900; a stampa in “Metafisica” n. 11-13 del 2013, pp.403-18, e nell’edizione in inglese “Metaphysical Art” 2013. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  direzione della Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura,  Alberto Savinio, “Ritratto di Palma Bucarelli”  1946;  segue, dello stesso Alberto Savinio, “Ritratto di Paolo Monelli”, 1951; poi alternati a 7 opere della collezione, i “Ritratti di Palma Bucarelli” di Giulio Turcato 1944, e Marino Mazzacurati, 1952, in cera, quindi un suo ritratto fotografico; in chiusura Christo (Christo Javacheff, “Ponte Sant’Angelo wrapped” 1969.

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