Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, l’isola di Saaremaa

di Romano Maria Levante

Prosegue  la nostra vista alla  mostra “Konrad Magi  (1878-1825)”,  aperta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018,  con circa 50 dipinti e 15 disegni, del Museo Nazionale d’Arte Estone e di Tartu e della collezione privata del grande collezionista d’arte e imprenditore dell’Estonia Enn Kunila.  La mostra  segue l’esposizione a Roma al Vittoriano di 10 sue opere insieme ad altri artisti estoni, in occasione dell’Expo milanese nel 2015, mostra ripetuta a Firenze nel 217 . Questa mostra, la maggiore sull’artista in Europa, è  stata realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner . che ha curato anche il Catalogo edito da Eesti Kunstmuuseum. Si celebra  la presidenza dell’Estonia del Consiglio dell’Unione Europea e il  100° anniversario della Repubblica d’Estonia con l’omaggio al maggiore artista estone. 

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Abbiamo in precedenza cercato di illustrare, seguendo l’accurata ricostruzione del biografo Epner,  il lungo periodo di formazione di Konrad Magi, che prima di iniziare a dipingere regolarmente lasciò l’Estonia per recarsi con soggiorni di diversa durata, ma sempre breve, s San Pietroburgo e alle isole Alland, a Parigi ed Helsinki fino all’approdo in Norvegia dove ruppe il ghiaccio con la pittura dopo aver immagazzinato tutto quanto gli veniva trasmesso dall’intensa temperie artistica dei primi del ‘900, ed era tanto, soprattutto a Parigi.

Della Norvegia abbiamo commentato le 12 opere esposte in mostra, diversi “Paesaggi” e un “Ritratto di ragazza” , cercando di interpretare il rapporto con la natura nella sua poetica artistica,  fino al senso di religiosità panica che pervade il suo animo inquieto.

Vediamo ora come si svolgeva la sua permanenza nel paese che gli aveva dato la spinta, con il suo forte richiamo naturale, per fare ciò che non gli era riuscito neppure nella mitica Parigi: dipingere. 

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Una sorpresa dopo l’altra, perché sono state sorprendenti le sue delusioni dopo breve tempo a San Pietroburgo e nella stessa Parigi, che pure era stata per lui un sogno infine raggiunto ma poi svanito. Ebbene, anche la Norvegia lo delude pur se ne ha sbloccato la vena artistica, e lo abbiamo visto:  “La vita qui in Norvegia mi offre molto poco, alla fine stufa… Certo, in tutta questa vita  c’è sicuramente qualcosa di buono, ma molto poco, o almeno io non lo vedo. Ho lavorato poco, molto poco ma per ragioni diverse”.

Tra queste ragioni c’è sempre la salute, sempre più cagionevole, e la solitudine, “la cosa peggiore è che sono completamente solo, che qui non c’è nessuno  dei nostri”.  Commenta Hepner: “In Norvegia, lo spleen di Parigi si trasforma in disperazione  e rabbia”. E aggiunge: “I due anni in Norvegia costruiscono Konrad Magi come artista, ma lo distruggono quasi completamente come persona. Scriverà:  “Tutta la vita non è altro che sofferenza. E se c’è qualcosa di più alto della vita, la gente non può raggiungerlo… è impossibile vivere qui, ma non posso andarmene”.

Intanto in Estonia comincia ad essere conosciuto  il Magi pittore, non sono vie misteriose, si inizia con la presentazione di un grande ritratto fattogli da Triik ed esposto il 20 agosto 1909 a Tallin in una mostra che segue di tre anni quella alla quale lui e i suoi amici radicali non avevano voluto partecipare per dissensi politici, tra l’altro con uno scultore detestato, ora invece assente; per arrivare alla visita nella sua casa notvegese di  Kristiania nella primavera del 1910  di Viergo e Linde, il secondo scriveva di arte sulla rivista “Giovane Estonia” che mirava a far conoscere l’arte in chiave modernista.  Parlano di lui nel suo paese attraverso la stampa, poi Virgo organizza una mostra a Tartu e vi espone un  gran numero di opere di Magi, 6-7 portate  in valigia dalla Norvegia, molte altre spedite per posta, in tutto 40 quadri esposti nella mostra inaugurata il 17 ottobre 1910.

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Commenta Epner: “Konrad Magi è ora immortale… il successo di Konrad Magi richiese un solo secondo, nel momento stesso in cui la terza mostra d’arte estone venne aperta, Konrad Magi divenne una star”.  E soprattutto piovono le vendite, nella prima settimana per 240 rubli “le sue quotazioni in quattro giorni sono passate dal nulla alle stelle” e  le vendite  raggiungono i 1000 rubli, pari alla retribuzione di un sindaco per un periodo di un anno e mezzo., più di ogni altro artista.

Questo avveniva in patria, non sfondò invece in Norvegia pur partecipando a una mostra nella rinomata galleria Blomquist di Oelo invitato da Krogh. Ma non se ne preoccupa, vuole tornare a Parigi e può farlo con i ricavi delle vendite alla mostra di Tartu. Vi arriva all’inizio di dicembre 1910, era giunto in Norvegia a metà luglio del 1908, ma aveva cominciato a pensarci fin dal gennaio allorché, come abbiamo visto, ne era tornato Triik entusiasta: sono passati quasi tre anni.

Il secondo soggiorno parigino inizia in condizioni molto diverse del primo,ora non ha soltanto il sogno di diventare artista, prima deluso; artista lo è diventato, in Norvegia ha dipinto un centinaio di quadri, molti sono stati venduti ad alte quotazioni nella mostra di Tartu, un’altra è seguita a Oslo. I risultati tuttavia sono gli stessi, partecipa alle manifestazioni, dalle mostre ai concerti agli spettacoli teatrali, ma non riesce a entrare nel mondo artistico, anche perché non vuole imparare il francese, e si accorge di non contare nulla lì, altro che la “star” che si sente di essere nel suo paese!. “Parigi era una passione ossessiva – nota Ebner – nata senza che ls città gli avesse sorriso una sola volta”.

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 E poi, sembrerà una nemesi, tornano tutti i problemi del soggiorno precedente,cominciando da quelli economici perché si esauriscono le risorse ricavate dalla vendita di quadri alla mostra di Tartu, tanto che proverà invano ad essere sostenuto dalla fondazione Bergamann che assisteva i giovani artisti; inoltre la sua salute è sempre più cagionevole nell’abitazione che ancora una volta è fredda ed umida, si ammala come molti suoi compatrioti sebbene abituati ai freddi del Nord.

Non ha più dipinto dopo l’exploit dei 100 quadri della Norvegia, né si sente di ricominciare.  Per Epner “a Parigi Magi non è in paradiso, ma in una trappola”. Un intermezzo in questa situazione nuovamente senza uscita è l’escursione con Ferdinand Kull in Normandia, a Dieppe, dove gli torna la voglia, e la forza, di dipingere, si conoscono una diecina di quadri, ma altre opere, forse molte, dovette venderle per mantenersi. Vediamo esposto un dipinto intitolato semplicemente “Normandia”, 2011, una sorta di striscia sabbiosa a sinistra con un vasto retroterra verde a picco sulla spiaggia, sulla destra quasi per l’intera estensione del quadro, un mare molto particolare,  la cui superficie  è resa da pennellate bianche  e celesti con un effetto che richiama le ninfee di Monet anche se qui le macchie chiare sull’acqua sono molto più piccole.  E’ un paesaggio aperto e luminoso molto diverso da quelli norvegesi, arcigni nella forma e sconvolgenti nel contenuto.

L’intermezzo della Normandia cessò presto, l’anno successivo, nel marzo 2012, a Parigi 3 sue opere “Ritratto”, “Paesaggio decorativo” e “Schizzo” sono esposte alla mostra del “Salon des Indépendants” , una sorta di spazio anarchico dove chiunque poteva portare le sue opere; c’è anche Marc Chagall, che era stato suo vicino in quella specie di squallida foresteria per artisti che era “La Ruche”, “condividevano lo stesso alveare ma entrambi avevano la propria cella”, Magi e Léger, e anche Chagall che ha esposto un proprio quadro con l’asino d’oro mentre fuma l’oppio.

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Un altro alveare sterminato quello della mostra, con 6000 opere esposte, ma la rivista “Chronique des Arts” citò proprio Magi tra gli 11 artisti stranieri ritenuti degni di menzione per seguire gli orientamenti dell’arte francese, in cui convergevano una serie di stili, nella mostra dominavano il neoimpressionismo e il cubismo. Nell’opera di Magi i critici hanno trovato fino ad 11 stili, il che significa che nessuna corrente vi ha impreso il suo sigillo, il suo stile resta molto personale pur alimentato dai tanti stimoli provenienti dall’ambiente artistico frequentato. Epner ricorda le parole del pittore amico di Magi Triik,  negli ultimi anni di vita: “Farsi strada nel vortice delle influenze per trovare se stesso è difficile e non sono sicuro di esserci riuscito”.  E conclude che, essendo giunto nella capitale francese  a 29 anni  per tornarci a 32, “per questo Parigi non influenzò Magi tanto con diverse dottrine artistiche, ma con il meglio che aveva da offrire: la libertà assoluta”.

Il pluralismo artistico era largamente diffuso, fino ai caffè dove si moltiplicavano le avanguardie perdendo quindi di peso e nel loro affastellarsi facendo risaltare l’identità individuale: “Magi non cominciò mai a copiare la metropoli, perché la metropoli stessa gli aveva insegnato  a non farlo: importante non è adeguarsi al canone esistente, ma creare il proprio canone”.  Per l’artista estone c’era una strada e la seguì con costanza: “Rimanendo fuori dai giochi, Magi potè essere più selvaggio, cambiare il proprio approccio e stile,  a volte fallire e scoprire a quel modo errori interessanti. Non fu mai coerente in nessun approccio artistico, l’unica cosa che contraddistinse la sua arte dall’inizio alla fine fu la centralità dei paesaggi e dei colori”.

Così, con le parole di Epner, abbiamo evocato la cifra artistica di Magi, sia pure descrivendola come indefinibile, per interpretare meglio le opere realizzate dal 1912 al 1925.

Magi torna in Estonia tra la fine di maggio e l’inizio di giugno  1912,  sebbene la situazione sembri migliorata, dopo le nuove delusioni parigine che gli hanno fatto scrivere  il 29 dicembre 2011 le parole: “Mi ha preso una tale apatia che tutto mi è indifferente. Se prima amavo così tanto Parigi e tutto ciò che è Parigi, ora vedo tutto nero”. E’ stato 9 anni all’estero, è diventato un artista.

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Giunti a questo punto continuiamo a seguire la biografia, ora è immerso nella produzione artistica dopo le lunghe e inquiete  fasi del suo tormentato  avvicinamento all’arte muovendosi alla ricerca di sé, per introdurre le altre opere esposte in mostra.

Tornato nella sua Tartu, sente negativamente il clima da cittadina di provincia che lo opprime per motivi opposti dell’insofferenza nelle grandi città. Tornano le difficoltà economiche e deve vivere in casa della sorella, l’unica con cui ha contatti non avendo nessun rapporto con i quattro fratelli maggiori, Questa inquietudine si riflette nei suoi dipinti.

Finché, nell’estate dl 1913, l’anno dopo il ritorno in patria, va a fare delle cure termali nell‘isola di Saaremaaa dove ci sono i fanghi terapeutici, ci tornerà nel 2014.  Lo scenario naturale è molto diverso da quello norvegese, “dall’apparenza ancestrale – così lo definisce Epner  – come se il mondo fosse ancora in procinto di essere creato”; è un ambiente nel quale si sente “il ritmo arcaico della natura o l’origine mistica di tutto quanto esiste”, in altri termini è un “qualcosa di metafisico, quasi irraggiungibile, che si stende sopra ai tempi come l’oceano si stende sopra il fondo del mare”.

Sono esposti 11 quadri del biennio 1013-14. Di questi, 3 con una dominante rossa nel cielo: così in “Paesaggio dell’isola Saaremaa” la composizione è in orizzontale quasi geometrica, con campagna e verde, case e acqua sotto un cielo in cui il rosso si avvita intorno al giallo del sole, mentre in “Paesaggio con nuvola rossa”, l’incendio del cielo illumina una terra scura con la macchia biancastra di un laghetto, e in “Paesaggio con sole”  l’esplosione cromatica si estende anche alla terra salvo una ristretta fascia centrale.

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Il rosso diffuso  si stempera nell’arancio nel cielo con nuvole bianche in “Motivo dell’isola di Vilsandi”,   a terra i colori impressi in modo puntiforme danno all’insieme un aspetto quanto mai tormentato, il faro sulla sinistra; mentre in “Paesaggio dell’isola di Vilsandi”  colpiscono i blocchi di rocce sul verde dell’acqua striato di bianco con il nero della scogliera e sullo sfondo il faro che fende il cielo corrusco. Blocchi di verde, invece,  al centro di “Isola di Saaremaa. Studio”, isolati nel biancore rispetto ad altre formazioni puntiformi sul rosso arancio, l’acqua una striscia sottile; analogia compositiva con “Motivo dell’isola di  Saaremaa”, stessi blocchi verdi sul biancore, sempre a sinistra il faro, l’acqua ben più estesa, di un blu molto intenso. I massi tornano in “Paesaggio con pietre”, sparsi sul verde sotto un cielo con nuvole rosa massicce come le pietre, sullo sfondo le guglie montagnose e il profilo di un ipotetico abitato, e in “Paesaggio con mulino”,  dove prevale il verde in una composizione serena senza asprezze cromatiche né concitazioni pittoriche. Lo stesso per i “Cavoli marini”,  bianco e verde chiaro si alternano in una visione quasi floreale con addensamenti puntiformi giustificati dal soggetto. Conclude questa piccola galleria “Paesaggio dell’isola di Saaremaa”, diverso dagli altri, con un cielo uniforme bianco e livelli alternati di addensamenti cromatici sul verde e bianco sempre con le pennellate puntiformi.

Non c’è  la distensione paesaggistica che le amene vedute dell’isola di Saaremaa e Vilsandi potrebbero ispirare, l’asprezza  primordiale è la caratteristica di queste composizioni. Angelo Colasanti, riferendosi  a “Paesaggio con pietre”, definisce tale caratteristica “una frontalità insistita, perentoria, come dire, accecante. La frontalità del paesaggio che arriva fino all’astrazione di quel paesaggio. Le nuvole cariche di rosa e di ametista vengono dipinte da un pennello che non tocca ma scava  dentro il cielo bianco, beige chiaro, acquamarina con bave di indaco pallido. E’ un pennello, in definitiva, che non spande la luce ma incide ed estrae, cioè tira letteralmente fuori la materia fossile, quella dura e glaciale della memoria”.  

Dopo aver sottolineato la “precipitazione di rocce, di cespugli, di chiazze di colore”,  Colasanti aggiunge: “Assistiamo ad un calpestio ritmico di cromatismi che si diffondono in colori e varianti di colore: diciamo blu, blu ceruleo e dunque cobalto,  a tratti indaco, poi rosa e giallo viola lungo gomiti di un cuoio rosso o almeno di una pelle sfregiata e incandescente. E’ questo essere colpiti sulla retina il punto magico del quadro: la splendida concretezza di un naturalismo  che è capace di arrivare alla massima astrazione, la vera forza della Natura, l’inquietante nudità del panorama che osserva”. Descrizione quanto mai efficace della violenta tempesta cromatica unita alla straordinaria forza compositiva,  il “punto magico” di cui parla Colasanti non è solo di “quel quadro”, è di tutti i suoi quadri con questa intensa ispirazione.

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Epner  ci dà una descrizione accurata,  penetrando all’interno  della tecnica pittorica: “Magi rappresenta l’arcaicità della natura con una straordinaria energia di colore, i suoi colpi di pennello sono forti, spesso unici, lasciando uno strato di colore molto fine. .La fattura della tela traspare sullo sfondo e conferisce alle strisce di colore un’impressione di spaziosità. La riva del mare esplode in decine di toni, la spiaggia è piena di pietre in tutte le gamme di arancione, azzurro, viola, giallo, verde e bianco. Il pennello imprime sulla tela singoli punti giustapposti, alcuni più spessi, altri più fini. Tra un punto  e l’altro parte della tela è rimasta intonsa e i suoi filamenti aggiungono toni bruni al dipinto. Nei quadri di Magi fa ora la comparsa anche un elemento visionario: le pietre sono dipinte in colori allucinati, sopra all’orizzonte sta appeso un sole che brucia”, e lo abbiamo visto soprattutto nei primi tre sopra descritti. Così conclude Epner: “Nei suoi quadri la natura diviene una forza mistica e l’artista stesso sembra aspirare a fondersi in qualcosa di più grande di lui. Era un fuoco interno ad alimentare queste ricerche, lo stesso fuoco che faceva bruciare i suoi paesaggi e che alla fine consumò Magi stesso”.  Dalla tecnica pittorica si passa alla intensa motivazione interiore che la anima, all’inquietudine esistenziale.

Ma andiamo avanti nella biografia cui si collega un nuovo ciclo pittorico. La vita dell’artista ora si svolge tra Tartu e Vilsandi dopo le due estati trascorse nell’sola di Saaremaa, è inquieto per la precarietà delle diverse residenze e per i problemi di salute  che si sono aggravati, inoltre soffre di solitudine anche se, osserva Epner, “non fu in realtà mai davvero solo, lo circondarono sempre colonie, compagnie, movimenti, ma si sentì sempre dimenticato e abbandonato, incapace di sviluppare relazioni con le altre persone. Era lo spleen a tormentare Magi, una generale noia per la vita combinata a misantropia, una diagnosi letale a livello sociale che si nutriva anche dello spirito del tempo”.

Tutto questo sebbene fosse ormai ben conosciuto e la sua arte fosse apprezzata, otteneva riconoscimenti ufficiali come l’artista di punta dell’Estonia, migliorò finalmente la sua situazione economica ma non mutò il suo atteggiamento anarchico e ribelle nei confronti delle istituzioni e dell’ideologia nazionale.  E questo in un periodo in cui l’Estonia divenne uno stato indipendente con il conseguente trionfo dei sentimenti nazionalistici, di cui appunto la mostra celebra il centenario.

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Sul piano artistico, nonostante la misantropia e l’incapacità di sviluppare relazioni di cui parla Epner, si impegnò nel rendere l’arte popolare pur non avendo fiducia nella capacità di comprendere il modernismo da parte del pubblico che invece si rivelava aperto e ricettivo. Si dedicò anche all’insegnamento dell’arte e nel 1919  fu tra i fondatori e primo direttore della scuola d’arte “Pallas”; e lo fece rifiutando ogni impostazione convenzionale con criteri prefissati, volle che la sua scuola fosse uno spazio creativo e lasciasse gli allievi assolutamente liberi nell’espressione artistica.

Così i giovani artisti estoni varcarono il Rubicone del modernismo dedicandosi anche ad opere in stile cubista e all’astrattismo, mentre Magi continuò a dipingere nel suo stile personalissimo che faceva tesoro dei tanti stili e delle avanguardie senza che fossero riconoscibili gli specifici influssi.

L’inquietudine, però,  non si attenua, mentre i problemi fisici si aggravano, e questa volta se ne colgono chiari riflessi nelle sue opere che perdono la brillantezza cromatica,  e si scuriscono quasi a voler esprimere l’incupirsi della sua visione pessimistica:  “Anche se i quadri di Magi continuano a riflettere le sue esperienze nella natura – osserva Epner –  si trasformano ora da specchi esistenziali in amplificazioni della vita interiore dell’artista. Seguendo il mutamento dei suoi paesaggi in panorami dall’orizzonte infinito, possiamo notare come l’attitudine dell’artista si facci pensierosa”. E più precisamente: “L’inquietudine che contraddistingue Magi si rispecchia innanzitutto nelle nuvole, ma un nuovo motivo ricorrente nei suoi dipinti sono ora i laghi. Quasi tutti i quadri contengono una superficie, la cui gamma si estende da una macchia di colore blu fino a uno specchio scuro che inghiotte la luce”.

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Possiamo riscontrarlo negli 11 dipinti esposti del periodo 1915-20.  In effetti, non vediamo il lago soltanto in “Andando da Vijandi a Tartu”, 1915-16, le due residenze di quegli anni, ma le nuvole si addensano tempestose, anche se sono di colore chiaro,  su un paesaggio con la casa nel verde e campi luminosi, un’eccezione rispetto alla generalità di visioni cupe che vedremo subito. Così il “Paesaggio della regione di Vorumaa”, 1916-17 e “Paesaggio di Otepaa“, 1918-20 sono scuri in modo impressionante perché pur se sono presenti colori caldi, la cupezza dei verdi e dei neri, senza l’apertura del cielo, li rende  quanto mai tenebrosi. Più aperto “Paesaggio di Kasaritsa”, 1916-17, e in minor misura,  “Paesaggio di Rouge”, 1918-20, in entrambi le nuvole sono tempestose, per non dire minacciose, il primo in una tonalità verde chiaro  sorprendentemente omogeneo, il secondo con contrasti cromatici tra il verde di varie tonalità e le tinte calde dei terreni intorno al lago  che occupa l’intero dipinto, attraversato da una sorta di istmo coperto di alberi fino a una radura.  

Gli altri dipinti di questo periodo esposti nella mostra sono direttamente intitolati ai  laghi che raffigurano: Il più grande e il più cupo è il “Lago di Kasaritsa”, 1916-17, con i filari di alberi i cui tronchi si riflettono nell’acqua, mentre il “Paesaggio del lago Puhajarv“, 1920,   è reso luminoso dai vasti campi giallo-arancio con evidenze arboree altrettanto luminose, ma è un’eccezione perché altri 3 dipinti  intitolati “Lago Puhajarv”, tutti del 1918-20,  sono quanto mai tormentati da un cielo tempestoso con formazioni arboree raggrumate in dense macchie cromatiche . .

Ma non finisce qui, l’anno successivo c’è la nuova svolta, Magi lascia ancora l’Estonia, dopo nove anni va verso il  Sud, in Italia, a Roma, Venezia e al sole di Capri. Con molti cambiamenti, nella sua visione della vita e nella sua arte. Ne parleremo prossimamente.  

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”,  Editore Enn Kunila, Srl Sperare, Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e soprattutto dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 novembre u. s., il terzo e ultimo uscirà il 17 novembre p. v.  Per le mostre, gli artisti e le correnti citate nel testo, cfr. i nostri articoli:  in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Chagall 30 maggio, 12 giugno 2016, Impressionisti téte a téte 5 febbraio 2016, Impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2013,  Astrattisti 5, 6 novembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it,  Da Corot a Monet, gli impressionisti, 27, 29 giugno 2010 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari deidiritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Paesaggio dell’isola di Vilsandi” 1913-14; seguono, del 1913-14, Cavoli marini”  e “Motivo dell’isola di Vilsandi”; poi, “Andando da Vislandi a Tartu” 1915-16, e “Lago Valjarv” 1916-17; quindi, “Paesaggio di Otepaa” 1918-20, e “Lago di Kasaritsa (Verijarv)” 1916-18; inoltre, “Paesaggio del lago Puhajarv” 1920, e“Lago Puhajarv” 1918-20; infine, altro “Lago Puhajarv” 1918-20, e “Paesaggio del lago Saadjarv I” 1923-24; in chiusura, altro “Paesaggio del lago Saadjarv II”, 1923-24, i due ultimi saranno commentati alla fine del terzo articolo..

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Mangasia, diffusione e influenza dei fumetti asiatici, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “Mangascia, wonderlands of Asian Comics” , al Palazzo Esposizioni di Roma dal 7 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018 sul “manga”, il fumetto asiatico, del quale viene presentata una vastissima selezione estesa alla vasta area che va dal Giappone al Pakistan e alla Mongolia, e comprende più di 20 paesi,  articolata in sezioni tematiche riferite ai contenuti. La mostra è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo,  e curata da Paul Gravett, come il monumentale catalogo di “Thames & Hudson”. molto ben documentato e illustrato.

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In precedenza, dopo aver ricordato le precedenti mostre del Palazzo Esposizioni su temi di attualità, dal “DNA”  ad “Astri e paricelle”, abbiamo inquadrato i “manga” nella tradizione giapponese e abbiamo accennato alla varietà di contenuti, ispirati non solo a temi quali le favole e la religione, gli esseri fantastici  e gli eroi, ma anche a temi storici nei quali vengono rievocate vicende cruciali nell’esistenza dei popoli dagli angoli di visuale propri di questa forma espressiva, in stretto collegamento con l’attualità. Abbiamo inoltre  accennato a come nascono i “manga”, e a qual è la condizione degli autori. Tutto questo in rapporto alle strisce e ai libri di fumetti esposti nelle prime sezioni della mostra.

Ora passiamo ai temi restanti, anche qui in collegamento con le ultime sezioni, in particolare sulla libertà di espressione e sulla diffusione per fasce di lettori dei contenuti per loro più adatti, fino alle trasposizioni dei personaggi resi famosi dai fumetti negli altri media, come il cinema e i “cartoons”, la televisione e  gli ultimi mezzi telematici

I “manga”  e la libertà di espressione

La forza dei fumetti è andata crescendo, anche in regimi  come quello cinese, al riguardo si citano i due gruppi, “Special Comics” a Nanchino e “Cult Youth” a Pechino, che pubblicano quasi clandestinamente antologie  di “manga” realizzati da autori indipendenti, di critica non solo al capitalismo ma anche al comunismo. In un paese che sul piano economico pratica il capitalismo di mercato e sul piano politico il comunismo autoritario, ciò vuol dire mettersi dichiaratamente contro il regime.

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Fumettisti “alternativi”  sono diffusi anche in altri paesi asiatici, dove soprattutto i giovani vengono incoraggiati a impegnarsi senza conformismo nella realizzazione dei “manga”, anche ricorrendo alla tradizione per recuperare i valori e l’identità.

Si possono evitare interferenze limitatrici della libertà di espressione se non si  dipende da un editore tradizionale e si  ricorre ad altri canali, e soprattutto se si ha successo di vendita nel qual caso anche opere innovative e “non ortodosse” passano senza problemi al vaglio della pubblicazione, vengono citati gli esempi di Jirò Taniguchi, con il suo inusuale  “camminatore solitario”  e Taiyò Matsumoto, con il suo “Sunny” fortemente autobiografico

Proprio per la loro destinazione a un  pubblico molto vasto, soprattutto giovanile, ma comunque diffuso, i fumetti si trovano sempre sottoposti all’osservazione attenta delle autorità e dei moralisti, come dell’industria editrice nel timore di alienarsi simpatie e benevolenze, perciò anche autori ed editori sono propensi ad autocensurarsi prima di subire eventuali censure.

Naturalmente gli atteggiamenti variano da paese a paese in funzione dei rispettivi regimi politici e dei leader, dei costumi e dei sistemi giuridici, dei poteri religiosi e degli stili di vita, comunque in generale si può dire che dal dopoguerra è stato sempre più difficile controllare i “manga”  nonostante i temi  scomodi affrontati sia nella politica sia nella morale come quelli sessuali, e i toni spesso violenti, secondo l’antica tradizione delle stampe giapponesi.

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Gli editori alla ricerca di nuovi talenti organizzano concorsi come il “Manga Open” dell’editore Kodansha per il settimanale “Morning”, che ha dato il successo al vincitore del 2011 Miki Yamamoto, creatore  di un’eroina determinata e indipendente;  oppure li assumono su segnalazione di un autore affermato come è stato per Ken Njimura, “raccomandato”  all’editore dall’affermato Taiyo Matsumoto; un altro giovane, Siu Hak, su “Touch Magazine”, dal 2004 al 2016 si è imposto con temi quali i grattacieli di Tokyo trasformati in robot, gli “Harbour Heroes”,  e la celebrazione del  leader studentesco Joshua Wong protagonista della “rivolta degli ombrelli” del 2014.

Sui rapporti con l’arte, possiamo dire che che la Pop Art si è molto avvicinata al fumetto,  tanto che l’americano Roy Lichtenstein ha preso il fumetto americano come modello per le sue celebri raffigurazioni. In Asia abbiamo lo stile postmoderno del  “superflat giapponese”, naturalmente contiguo del fumetto, in comune c’è sempre una narrazione.

Detto questo,  c’è stata nel tempo un’evoluzione che ne ha esteso sempre più la destinazione e aumentato quindi la diffusione.

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La diffusione dei “manga” per fasce di lettori e relativi contenuti

Per restare nell’epoca più recente si nota che mentre nel dopoguerra i “manga” erano rivolti soprattutto ai giovani, già con gli anni ’50 hanno cominciato ad interessare un pubblico più adulto, con immagini realistiche ispirate ai film “noir” e dell’orrore, noti come “gekiga” che sta per “immagini drammatiche”, tra i più noti autori Yoshiro Tatsumi e Tadeo Tsuga

Il genere  si è esteso sempre più negli anni ’70  con i fumetti definiti “seinen”, tra quelli di maggior successo la serie “Dokudami Tenement”, con un giovane disadattato rispetto alla vita che conduce, riflesso  delle frustrazioni dell’autore,      Takashi Fukutami.

Nel 1980 abbiamo il fumetto “underground” come quello di Takoshi Nemoto,  provocatorio, si definisce “ottimista-pessimista”,  il personaggio  ricorrente è un derelitto  in stile punk  definito “capace-incapace”. Trasgressivo il fumetto per adulti di  Gengoroh Tegane,  sul dramma familiare dei rapporti gay in una società omofobica come quella giapponese, in “My Brother’s Husband”,  titolo quanto mai eloquente. 

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 Come ci sono i fumetti “noir”, ci sono quelli  “rosé” e “lady comics”,  opera delle fumettiste, molto ricercate dagli editori  negli anni ’80 per  interessare di più il pubblico femminile, rispettivamente le adolescenti per i “rosè” e le adulte per i “lady comics”.  In questo ambito, Mariko Kusumoto dal 2009 è la più coraggiosa nello sfidare  molte convenzioni  tradizionali radicate nella società giapponese, in particolare sul sesso e sull’emancipazione femminile.

Ma ci sono anche i “boys’ love” creati “dalle donne per le donne”, si tratta del genere omoerotico detto dello “yagi” che si diffuse dalla fine degli anni ‘’80, definito “senza climax, senza conclusione, senza significato”, ad opera di epigone delle donne che all’inizio del decennio avevano introdotto nei fumetti l’amore tra ragazzi, lo “scenen”, come Keiko Takemya e Moto Hagio. Si tratta di opere, spesso autopubblicate nelle riviste commerciali, su amori omosessuali femminili, storie antiche  e moderne, dalla mitologia alla quotidianità,  in vari stile e generi, che hanno conquistato un mercato vastissimo (2,2 miliardi di yen nel 2010), e sono penetrate anche in paesi mussulmani, quindi di grande rigore su questi temi, come Indonesia e Malesia.   

Nell’apposita sezione della mostra c’è un “separè” per isolare i fumetti più “osè”, ma possiamo dire che non sono vistosi; molto più espliciti, pur nella loro raffinatezza,  certi dipinti di Hokusai ed Eisen del genere “shunga”, che vuol dire “pittura della primavera” ma anche atto sessuale.

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Erano xilografie per uso privato pubblicate in fogli singoli o libretti di 12 pagine,  diffuse prima del 1868 allorché con l’apertura verso l’esterno del Giappone, cui abbiamo già accennato, nei contatti con l’Occidente furono acquisite anche riserve morali e tabù, come quello sessuale, tanto che fu inserito nel codice il reato di “oscenità”, prima assente; poi, con la Costituzione del 1947 fu vietata espressamente la raffigurazione esplicita di tutto ciò che aveva diretta attinenza con l’atto sessuale. I “manga” per adulti succedono dunque ai più antichi “shunga”, xilografie senza veli per così dire.

Altre xilografie “estreme” sono  le “muzan-e”, “stampe insanguinate”, diffuse soprattutto dopo il 1860, con scene di omicidi ispirati alla vita reale oppure a storie narrate dalla letteratura; tra gli esponenti antichi del genere spicca Tsukioka Yoshitoshi, il cui stile violento lo ritroviamo, tra gli altri,  nei moderni Suahiro Maruo e Kazuichi Hanawa.  Tra la violenza e l’orrore la serie “Asura” di George Akiyama con scene di un cannibalismo materno ben più orripilante di quello del dantesco conte Ugolino, che portarono a proibire la rivista. Sono i “manga” amorali e traumatici , pubblicati dalla rivista Garo, viene commentato, “ci  mostrano gli aspetti più  oscuri dell’animo umano senza offrirci alcuna morale consolatoria né possibilità di redenzione”.

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I “manga” e i “mass media”, cartoni animati e cinema, radio-Tv e video giochi,

La mostra termina con un excursus spettacolare sui “mass media” collegati ai fumetti,  o che ne subiscono l’influenza, anche con una serie di  video che trasmettono in continuazioni immagini e altre visualizzazioni spettacolari, fino a una gigantesca bambola gonfiabile che arriva al soffitto.  

Viene documentato come i “manga” con i loro personaggi siano stati fonte di ispirazione per i cartoni animati e il cinema, la radio e la televisione, fino ai video giochi e gli smartphone; non solo, anche la musica e la moda ne sono state influenzate.

Sui cartoni animati viene ricordato che furono i fumettisti un secolo fa a compiere in Asia i primi esperimenti di animazione con cui diedero movimento, suono e colore ai “manga” statici, muti e per lo più in bianco e nero. I primi esperimenti risalgono  al 1916-17 quando la casa cinematografica Tanksatu fece realizzare cinque cartoni animati basati sui fumetti a Oten Shimokawa, il “cartoon” iniziale intitolato “Il Portinaio”, la striscia era uscita su “Tokyo Puck”.  Lo seguirono nel passaggio all’animazione altri noti “mangaka”, come Osamu Tezuka, Hayao Miyazaki e Katsuro Osaka.

Per le altre forme di spettacolo il passaggio dei fumetti alla “live action” avviene naturalmente nei film, nei programmi radiofonici e televisivi, e anche nelle rappresentazioni teatrali, basta che il personaggio sia diventato popolare perché si trasmetta dal media in cui si è affermato agli altri canali di diffusione.

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Sul cinema va sottolineata la frequenza con cui vi sono state trasposizioni dei fumetti, per storie dinamiche e movimentate; vengono citati i “manga” dello scrittore Kazuko Kasulka divenuti film solo tre mesi dopo la fine della serie su “Weekly Playboy”. Rapido anche il passaggio ai cartoni animati, come per le opere fantascientifiche di Laila Matismoto. L’autore di fumetti Jiro Taniguchi ha collaborato alla trasposizione in film delle due serie, disegnate con molta precisione,  “La vetta degli dei”, sulla scomparsa dello scalatore Mallory in una spedizione sull’Everest del 1934  e “Quartieri lontani”, dove compare anche in un “cammeo”.

Uno dei maggiori registi indiani vissuto fino al 1992, Satyajit Ray, il cui linguaggio cinematografico è coerente con quello  da illustratore, ha realizzato  il suo primo film “Il lamento sul sentiero” del 1955 basandosi su un blocco di schizzi di 58 pagine – vere “strisce di fumetti” ha detto lui stesso – che aveva utilizzato per le illustrazioni e poi ha usato di nuovo  per il film; è tornato ai fumetti nel 1970-71 con 4 copertine.

Non si tratta di iniziative sporadiche, e anche i tempi della trasposizione sono significativi. Viene citato il caso degli anni ’50 nelle Filippine, dove molte serie di fumetti divenute popolari venivano adattate a film di azione; ebbene, si giunse a tradurre le sceneggiature dei film in fumetti da pubblicare prima di ultimare il film in modo che alla sua uscita, al termine delle serie oppure appena aveva successo,  il film potesse contare su un pubblico fidelizzato alla storia o al personaggio,  Ciò è avvenuto anche con le “graphic novel” di Carlo Vergara,  in cui la protagonista gay si trasforma in un’eroina tutte curve: nel 2005 diviene un film, nel 2006 un musical.  

Un’ultima osservazione, con la tecnologia digitale i fumetti più avanzati non sono compresi nella pagina ma si muovono in verticale e cade così il vincolo dell’impaginazione, quindi si superano anche i problemi di compatibilità tra il fumetto asiatico che si legge da destra a sinistra e quello occidentale che va da sinistra a destra, con i conseguenti problemi in sede di traduzione. Fin dal 2003 i  sud coreani hanno realizzato serie digitali di fumetti impaginate come una striscia verticale. l “webcomics”  raggiungono altissime audience, come fu per i fumetti sul terremoto di Sicghuon del 2008.

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La sinfonia di civiltà

Al termine della visita alla mostra  resta negli occhi la spettacolare varietà e originalità delle rappresentazioni grafiche, lo scintillio dei colori, le immagini affascinanti di quegli occhioni spalancati come quelle tenebrose di abissi che si aprono, le gestualità brusche e movimentate come le pose delicate e graziose, l’intero campionario fumettistico nella visione orientale che ha tanto influenzato anche la vignettistica occidentale.

Le ricerche approfondite contenute nel catalogo consentono di inserire questo caleidoscopio di immagini nel contesto storico e culturale del mondo asiatico, così variegato nelle tante nazioni che lo compongono; uno spettacolo questo impresso nella mente dopo quello rimasto negli occhi.

Si pensa all’incontro di culture, lo abbiamo visto con altre mostre su diverse manifestazioni dell’arte giapponese, dai rotoli pittorici tradizionali e dalle sculture rituali sacre alle forme più moderne, spesso l’incontro diviene incrocio con le influenze e gli  apporti reciproci, dalla prospettiva occidentale all’arabesco orientale. I fumetti, con la loro diffusione così pervasiva,   fanno parte di quella che è stata chiamata “sinfonia di civiltà”, e la mostra ha saputo dimostrarlo.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude 1 ora prima. Ingresso,  intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Mangasia. Wonderlands of Asian Comics” , a cura di Paul Gravett,  Thames & Hudson Editore, pp. 320,  formato 21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 1° novembre u. s., con altre 11 immagini  Per la citazioni nel testo di precedenti mostre su temi di  attualità cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “DNA”  29 marzo 2017, “Caravaggio Experience”  27 maggio 2016,  “Numeri”  23, 26 aprile 2015,   “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014, il ; in cultura.inbruzzo,it su “Astri e particelle” 12 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).Inoltre cfr. i nostri articoli in questo sito sull’arte giapponese: per la scultura sacra antica 24 agosto 2016, la pittura contemporanea 27 maggio 2016, 70 anni pittura “nionga” 25 aprile2013, la pittura moderna “oltre la  tradizione”  15 aprile 2013; sull’arte cinese, le tombe di Awangui 17 gennaio 2015, la pittura di Visual China 17 settembre 2013,  lo scultore moderno  Weishan 24 novembre 2012, la “Via della Seta” 19, 21, 23 febbraio 2014; in www.antika.it, “L’Aquila e il Dragone” 4, 7 febbraio 2011, e in cultura.inabruzzo.it  la Settimana del Tibet 21 luglio 2011, l’anno culturale della Cina in Italia 26 ottobre 2010  (questi ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Forniscono soltanto un’idea quanto mai parziale e sommaria della sterminata esposizione della mostra, resa integralmente nel monumentale catalogo, e dato il loro carettere non cerchiamo di identificarle per corredarle del titolo, come eccezione motivata alla nostra regola.

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Konrad Magi, i colori del Nord alla Galleria Nazionale, i paesaggi norvegesi

di Romano Maria Levante

Tornano a Roma dopo tre anni le opere di “Konrad Magi  (1878-1825)”, così si intitola la mostra alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea,  dal 10 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018, che  espone circa 50 dipinti e 15 disegni  del Museo Nazionale d’Arte Estone e di Tartu e della colleione privata di Enn Kunila, grande imprenditore estone cultore dell’arte, presidente dell’Art Museum of Estonia Friends of Art Society e del Consiglio degli Sponsor dell’Arte. E’ la più vasta esposizione in Europa sull’artista – preceduta in Italia dalle due mostre del 2015 a Roma al Vittoriano e del 2017 a Firenze delle opere dei principali artisti estoni della collezione Kunila, con Magi in grande evidenza – realizzata dal Museo Nazionale d’Arte di Estonia, a cura di  Eero Epner che ha curato anche il Catalogoedito da Eesti Kunstmuuseum. Con tale evento  viene celebrata la Presidenza Estone del Consiglio dell’Unione Europea insieme al  100° Anniversario della Repubblica d’Estonia.

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A Roma nel 1915 sono stati esposti 10 dipinti di Magi nella mostra al Vittoriano sopra citata, “I colori del Nord. L’arte estone tra il 1910 e il 1945 dalla collezione di Enn Kunila“, organizzata nell’ambito dell’iniziativa “Roma verso Expo” che presentava i singoli paesi in mostre successive in cui ciascuno esibiva i propri gioielli. Ebbene, l’Estonia  è stato l’unico a  esibire i dipinti dei propri artisti in una mostra d’arte con esposte quasi 50 opere di circa 20 artisti. Solo per Magi 10 dipinti, una piccola personale che ci  fece conoscere la sua straordinaria forza cromatica non solo nel rendere i”colori del Nord”, ma anche i colori  mediterranei con gli scorci di Capri, oltre a quelli di Venezia e Roma. Nel 2017 la mostra dei pittori estoni è passata a Firenze. 

Il curatore della mostra  è lo stesso di allora, Ero Epner, però questa volta oltre a curare anche il catalogo, lo ha accompagnato con la monumentale biografia romanzata di 550 pagine che ha scritto sull’artista, non da biografo esterno bensì da partecipe della sua vita  appassionata e coinvolgente, come se rivivesse con lui i tanti momenti  di una esistenza  movimentata, ripercorrendo le stesse strade, visitando gli stessi luoghi, perfino toccando gli stessi alberi per immedesimarsi fino ad identificarsi. E non è stato certo facile data l’inquietudine che Magi ha sfogato  spostandosi nell’Estonia verso il sud, poi a San Pietroburgo e a Parigi, a Helsinki, nelle isole finlandesi delle Alan e in Norvegia, fino all’Italia, tra Roma, Capri, e Venezia.

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Con questo copioso materiale possiamo approfondire, più di quanto abbiamo potuto fare nella mostra precedente, l’arte di Magi immedesimandoci anche nella sua vita alla ricerca degli stimoli che lo hanno portato ad acquisire gli influssi di diverse correnti artistiche europee nella sua purtroppo breve vita –  è morto a 47 anni – per tradurli in uno stile personalissimo con un cromatismo  straordinario scolpito letteralmente in una forma pittorica  altrettanto eccezionale che coinvolge l’osservatore suscitando l’ansia di conoscere, saperne di più.

E’ questa la  sensazione che proviamo dinanzi a una visione inconsueta che prende i sensi nel mare di colori intensi impressi con energia, quasi con  violenza, nei  soggetti,  per lo più paesaggi,  con grumi e macchie cromatiche che danno il senso del rilievo rude e impervio, lontani dalla distesa  pittorica che caratterizza di solito questo genere di composizioni.

Per scavare dentro un processo artistico così sconvolgente occorre ripercorrere le fasi della sua vita e collocarvi le opere presentate in modo da rivivere i rispettivi momenti creativi all’insegna del binomio arte-vita che in un artista inquieto e sensibile come Magi  diventa un sigillo inconfondibile.

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Basti pensare a queste sue parole: “L’arte è per noi l’unica possibilità di salvezza, poiché nei momenti in cui l’anima è piena dell’eterna sofferenza della vita, l’arte sa offrirci ciò che la vita ci nega. Nell’arte, nell’attività creativa si può trovare la pace”. Le ha scritte in una lettera agli amici di Helsinki nel dicembre  1907, aveva  29 anni essendo nato il 1° novembre 1878, si trovava a Parigi e ancora non dipingeva regolarmente.  L’arte consolatrice in una vita di sofferenza e di inquietudine, non è la formulazione di una visione teorica, ma il risultato di un’autoanalisi.

Un primo elemento che colpisce nella sua vita è l’isolamento dalla famiglia,  nonostante abbia avuto quattro  fratelli maggiori con cui ebbe pochi rapporti, piuttosto restò in contatto con la sorella,  più grande di lui di 15 anni.

Il padre è benestante, amministratore di una tenuta agricola stabilmente per 1undici anni,  poi negli undici anni seguenti cambia domicilio otto volte.svolgendo lavori diversi, fino alla riscossione dei debiti dei commercianti che lo isola del tutto.

Konrad  trascorre l’infanzia nell’abitazione della tenuta che era sottoposta a lavori di ristrutturazione con avancorpi e altro, c’erano anche le pitture decorative di alcune stanze, è il suo primo incontro con l’arte dato che nel paesino di Uderna non c’era nulla di artistico, per cui si può dire che nell’infanzia e nella prima giovinezza non aveva visto nessun dipinto o scultura. .

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Ma c’era la natura, la casa era circondata da boschi in un territorio cosparso di colline e di laghi. E’ l’Estonia meridionale considerata per queste caratteristiche ambientali “terra di lirici”, mentre l’Estonia settentrionale pianeggiante viene ritenuta  “terra di realisti”.  E’ nato così, sin dall’infanzia, un legame stretto con questo ambiente particolare nel quale la natura fa sentire la sua presenza fino a fargli dire, quando andrà a Parigi da grande: “In me non c’è altro che un pezzetto di tutto il nostro popolo e della nostra natura. Ovunque mi trovi, il Nord rimane la mia patria (in senso largo). Mi piace la natura triste e rigida del Nord, le macchie chiare di sole che si vedono spesso nei quadri degli artisti locali”.  Quando parla del Nord, anzi dice “sono un figlio dl Nord”,  lo fa in una visione europea, perché la sua patria, la terra che ama, è nel Sud dell’Estonia.

Nulla fa pensare che prenderà la via dell’arte, non va avanti negli studi e da adolescente comincia a lavorare come artigiano, la biografia ci dice che non ci saranno occasioni di incontri artistici neppure nella città di Tartu, dove si trasferisce da Uderna con la famiglia. Oltre a fare sport con gli amici, soprattutto atletica pesante in modo professionale, organizza con loro  spettacoli teatrali in cui recita da protagonista; e  coltiva con il suo gruppo idee anarchiche e sovversive, espressione di un’inquietudine che cresceva in lui, insofferente della vita di provincia, ma vedremo che sarà insofferente anche della vita delle città dove approdava nella sua inquieta ricerca di sé. Non lo soddisfa neppure il suo lavoro artigianale nella lavorazione del legno, anche se i corsi di formazione lo avevano appassionato al disegno  e aveva  fatto qualche piccolo tentativo di pittura. Fu sufficiente questa prima esperienza per tradurre la sua inquietudine in una spinta irresistibile verso l’arte. Dove viveva con la famiglia non c’erano scuole d’arte, la più vicina si trovava a San Pietroburgo, paraltro raggiungibile facilmente perché terminale della via della posta che passava per Tartu con la stazione intermedia di Uderna.  

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Siamo nel gennaio 1903, ha venticinque anni, passa il Rubicone e si trasferisce a San Pietroburgo per tre anni, studia disegno tecnico alla scuola d’arte Stieglitz con altri allievi estoni suoi amici, visita mostre e musei e conosce le opere di artisti e letterati, ne verrà influenzato ma senza aderire ad alcuna corrente artistica;  frequenta anche una scuola di scultura mentre fa lavori occasionali per mantenersi. E’ una città in cui a gennaio, il mese del suo arrivo, ci sono solo 40 minuti di sole al giorno, quindi gli appare subito buia e  umida, per di più l’abitazione dove si stabilisce è malsana per l’umidità che trasuda dai muri.

Non solo questi disagi si ripercuotono sulla sua salute, ma il suo sogno di diventare artista, per il quale è andato nella grande città,  sembra naufragare nelle agitazioni rivoluzionarie, partecipa a manifestazioni di massa contro il potere, fa la conoscenza del carcere per vandalismo con gli amici;  viene escluso dalla scuola perché “in qualche modo agitato.. Tipi così non sono adatti  alla nostra scuola”.

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E’ stanco della città, non lascia San Pietroburgo finché  non si pone una  nuova meta, Parigi, richiamo degli artisti di tutta Europa, però non ha i mezzi per raggiungerla. Né vuole restare nella città che lo ha deluso, pur avendogli dato la formazione culturale che gli mancava, non lo ha fatto divenire artista. Va nelle isole Aland, un arcipelago finlandese lontano dalle agitazioni politiche, ritrova l’abbraccio della natura, è l’ambiente ideale per lui, e lo scrive, al punto di fargli superare la soglia dell’espressione artistica vera e propria, cominciano le prime esperienze di pittura.. Epner descrive il primo quadro mentre ne sfiora la superficie ruvida come fosse dipinto su un  sacco con un colore molto spesso, mentre poi lo distribuirà in strati sottili.

Sorprendentemente viene invitato a partecipare a una mostra d’arte organizzata nell’agosto  1906 dalla Società Estone di Coltivatori Diretti per sensibilizzare il pubblico, l’invito viene da Tartu, potrebbe tornarvi da artista dopo aver cominciato a lavorare lì da operaio. Oppone un rifiuto alla grande occasione, e con lui i due amici allievi della stessa scuola d’arte, Triik e Kort, non condividendone i presupposti politici e non sopportando la presenza dello scultore che ne era il massimo portatore.  

Comincia la marcia di avvicinamento a Parigi, tappa intermedia è Helsinki dove si trasferivano i giovani artisti ribelli alle convenzioni oltre agli esiliati, attivi nelle pubblicazioni di satira politica e in contatto con i socialisti locali;  i rivoluzionari lettoni hanno perfino assalito una banca con dei morti. Magi vi si trasferisce con Triik e rischia di essere preso dalla polizia come complottista. Ma avviene un fatto sorprendente, si “depoliticizza” e come lui Triik che sceglie l’amore, e sposa la fidanzata. Frequenta la scuola di disegno dell’Atheneum e vende degli acquerelli,  ma ormai la sua mente è rivolta a Parigi.

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Il grande salto nella capitale  universalmente riconosciuta dell’arte avviene alla fine del 1907.  L’arrivo, come ricostruisce Epner nella sua appassionata rievocazione, è pieno di speranze, addirittura c’è anche il sole, ma poi le cose mutano, il tempo è inclemente e anche qui l’ambiente esterno e quello interno della sua abitazione sono umidi e  pregiudizievoli per la sua salute.  Attraversa serie difficoltà economiche, non può neppure acquistare il materiale per la pittura, non riesce a dipingere.

Conduce una vita da bohemien a “La Ruche” insieme a centinaia di artisti che vivevano in quel quartiere di Parigi, c’è una temperie artistica straordinaria con le maggiori avanguardie, fino a Picasso e Braque, in particolare Cézanne, si nutre di questi influssi ma continua a non aderire ad alcuna corrente. E’ molto critico rispetto alle mostre del “Salon des indipendents”  con migliaia di quadri di cui ne apprezza pochi che non contrastano la sua visione personale dell’arte.

La luna di miele con Parigi è brevissima, anche dalla capitale dell’arte tanto sognata fugge come aveva fatto da San Pietroburgo, resiste meno di un anno. Però ha immagazzinato una mole impressionante di stimoli e influssi e non aver potuto esprimere per motivi pratici la spinta che sentiva in modo prorompente ha accumulato in lui un potenziale artistico che attende solo l’occasione per esplodere con una forza pari alla lunga astinenza dalla pittura..

Manca poco perché questo avvenga, e l’occasione si crea con l’arrivo a Parigi nel gennaio 1908 di Triik con la moglie provenienti dalla Norvegia di cui sono entusiasti. Dopo due settimane – rivela Epner – Magi lamenta che a Parigi non riesce  a lavorare, e prende la decisione: “Se tutto va bene, in primavera vado in Norvegia con gli amici, lì si può lavorare seriamente su sé stessi”; anche Koort, che era arrivato nell’estate 1907, gliene aveva parlato bene, quando ancora le speranze riposte su Parigi erano intatte.

La Norvegia, in effetti, era diventata attrattiva per lo sviluppo delle comunicazioni, ma Magi voleva andarci per allontanarsi dalle grandi città che lo avevano deluso, prima San Pietroburgo, poi addirittura Parigi. Però pensava di trascorrervi soltanto l’estate, come intendevano fare i suoi amici trattenendosi  3-4 settimane,  e poi tornare nella capitale francese, e lo spiega: “Se rimango a Parigi, ho sprecato l’estate, perché qui è difficile vivere da solo in mezzo agli sconosciuti. In Norvegia potrei sopravvivere in qualche modo con gli amici,  lavorerei molto  e poi potrei vendere qualcosa o almeno partecipare a qualche mostra”.  Commenta Epner: “La Norvegia doveva essere il luogo in cui riposarsi per un po’ da Parigi e lavorare per Parigi”  E  stare a contatto con una natura aspra, di tipo arcaico.

Del resto, nella capitale dell’arte ha conosciuto le correnti d’avanguardia, dal fauvismo al puntinismo, dall’espressionismo al cubismo, non vi aderisce ma ne fa tesoro per uno stile molto personale, ha trent’anni e sostanzialmente non ha ancora cominciato a dipingere veramente. È stato conservato soltanto uno dei pochi quadri con i quali ha rotto il ghiaccio nell’isola di Aland, e a Parigi non è riuscito a dipingere; ha fatto ampia provvista di cultura, ora va alla ricerca della natura.

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Il problema è costituito ancora dalla mancanza del denaro necessario per il viaggio, insieme all’amico Tassa cerca invano un aiuto all’ambasciata russa, riescono ad arrivare a Copenaghen dove lui comincia a dipingere degli studi per venderli e procurarsi ciò che manca per finire il viaggio. Deve superare ancora mille difficoltà, da  quelle economiche ai seri problemi di una salute resa sempre più cagionevole dai disagi di abitazioni malsane, fino addirittura a un’irruzione della polizia nel loro alloggio con il fermo di  lui e  di Tassa come sospetti rivoluzionari. Finché finalmente, alla metà di luglio del 1908, sbarca in Norvegia a Kristiania, una località circondata da boschi, la natura che cercava di ritrovare.

 ‘L’inizio è duro, al punto che lui e Tassa si cibano di mirtilli raccolti nel bosco non avendo risorse sufficienti, non solo, ma per la mancanza di denaro sono bloccati nella città dove sono sbarcati, scrive infatti: “Me ne sto seduto qui a Kristiania e così non posso vedere la vera Norvegia, quella eccezionale, perché andarci costa molto”. Non può arrivare alle “grandi montagne”, pensa di  restare “ancora un paio di mesi”, alla fine di luglio comincia a sentire nostalgia di Parigi e riconosce che il soggiorno nella capitale francese gli è “servito molto”: “Ho imparato naturalmente molto da tutto quello che ho visto, ma purtroppo io stesso non sono riuscito a fare quasi niente”.

Si lancia nella pittura a 7 chilometri dall’abitato di Kristiania, anche se non ci sono i monti prediletti, il contatto con la natura scatena in lui la volontà di dipingere, intanto ha trovato un lavoro  in una fabbrica di smalti; Tassa è ripartito, lui è rimasto solo con la salute che peggiora, ma dipinge 25 studi nei dintorni di Kristiania, saranno 50-60 nell’intero periodo norvegese.

“In Norvegia inizia il periodo della vita di Konrad Magi in cui sappiamo più della sua opera che della sua vita” dato che essendo rimasto solo mancano le testimonianze che avevamo da San Pietroburgo alle isole Aland, da Helsinki a Parigi e Copenaghen, afferma Epner. “Ma più Magi dipinge, meno sappiamo della sua vita”. D’altra parte, finalmente tutto quanto ha immagazzinato trova lo sbocco nell’arte;  è terminata, per così dire,  la sua formazione movimentata e inquieta.

Abbiamo cercato di ricostruire questo lungo periodo preparatorio con il quale Konrad Magi è approdato alla sua arte personalissima che ha fatto tesoro degli influssi molteplici derivanti dalla straordinaria temperie artistica degli inizi del ‘900 per esprimere un vero e proprio culto panico della natura con un animo  mai piegato dalle ristrettezze e dalle sofferenze. E’ giunto il momento di parlare delle sue opere dipinte in Norvegia.

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Le opere norvegesi 

Possiamo dire che è stata una rivelazione l’intensità cromatica unita a una forma compositiva del tutto nuova, in un figurativo dalla conformazione sorprendente che non si ritrova in altri artisti, a parte qualche esplicita “citazione”. I suoi sono paesaggi estremamente tormentati, con le nuvole che si addensano minacciose, la terra si raggruma  in macchie cromatiche che sembrano scolpite, non c’è un orizzonte aperto e disteso come nelle visioni idilliache, l’accostamento a Van Gogh ci viene spontaneo e non ci sembra peregrino, vi troviamo un rapporto analogo con la natura che esprime

Sono 13  i dipinti esposti del periodo norvegese, realizzati tra il 1908 e il 1910:  12 paesaggi e un “Ritratto di ragazza norvegese”, l’unico della mostra, dipinto a olio su tela a differenza dei  paesaggi a olio su carta o cartone,  con la stessa intensità cromatica  e forza compositiva, i lunghi capelli rossi della giovane come due cascate impetuose sul viso assorto che guarda l’osservatore. Il rosso è il colore dell’intero quadro, non soltanto i capelli sono rossi ma lo sono anche il vestito e il tappeto alle spalle con un disegno astratto, Epner osserva che “la punta del pennello ha aggiunto dei puntini rossi persino sul suo colletto bianco; guardando da vicino si vede che le guance della ragazza arrossiscono”. La ragazza ritratta ha 14 anni, l’anno dopo interpreterà Ibsen al teatro nazionale, diventerà attrice di teatro e di cinema.

“Paesaggio norvegese”  o semplicemente “Paesaggio” è  il titolo di 10 opere, alcune con delle qualificazioni come “foresta” e “con pino”, “palude”  e “con casa”,  4 delle quali con delle abitazioni, per lo più poche in primo piano o disseminate: in 2 quadri le case sorgono su dei campi coltivati divisi in piccoli appezzamenti, mentre negli altri 2 non vi sono delimitazioni, anzi in uno di loro il figurativo si stempera verso forme tremolanti di concezione impressionistica.

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La natura è la sola protagonista, si anima in conformazioni  dense e imponenti, in qualche caso di foggia antropomorfa, quasi frutto di allucinazione, con un’identificazione quasi simbiotica, in una visione panteista  confermata dalle sue stesse parole: “Pensate: grandi montagne azzurre e nuvole rosse si muovono lassù, in alto.  Viene da credere che questo sia il luogo  dove abitano gli dei”. In realtà le nuvole rosse le troveremo nei dipinti del periodo successivo, in questi sono  chiare o mancano del tutto quando è la campagna a dominare la composizione, ma la concezione è la stessa, una visione religiosa della natura.

Ci  chiediamo quale fosse la sua posizione personale  in campo religioso,  Epner ci dà la risposta affermando che manifestava  propensione per le esperienze religiose, interessandosi alle più diverse fedi, dal buddismo al cristianesimo anche mediante pratiche esoteriche o spirituali, come lo yoga , la teosofia  e la filosofia indiana. Ma non aderiva a nessuna religione, seguendo l’impulso modernista a cercare di vivere una propria fede personale:  “Per Magi, sono parole del curatore, la religiosità più intensa si trovava nella natura. La natura era la sua chiesa”. 

Epner così spiega l’afflato mistico dell’artista: “Magi cercava qualcosa di sublime, eccezionale, soprannaturale, metafisico, irrazionale, inesprimibile, che precede o si trova al di fuori della cultura. Qualcosa di mistico, segreto, inclassificabile, Cercava un sentimento di partecipazione in qualcosa di più grande di lui e dell’umanità, qualcosa di cosmico ed etereo che compensasse la sensazione sempre più forte che nella sua anima si fosse aperto un abisso esistenziale”. E ricordiamo come  l’arte fosse per lui l’unica consolatrice “quando l’anima è in pena”, essendo un’arte legata alla natura e la natura lo portava verso il sublime e il soprannaturale. Il curatore ne è certo: “Nel periodo norvegese le ricerche di Magi si concentrarono così, a un certo punto, intorno al nome di Dio. E il suo Dio lo trovò nella natura”.

E’ solo l’inizio, lungamente atteso, Magi ha trent’anni,  ma che inizio! Verranno successivamente  le opere dipinte nell’isola di Saaremaa e quelle del viaggio in Italia tra Roma, Capri e Venezia, e le ultime della siabreve vita. Un percorso che faremo prossimamente.

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia.  Catalogo “Konrad Magi 1878-1925” , Eesti Kunstimuuseum, 2017, pp. 136, formato 21,5 x 28.  Biografia romanzata: Eero Epner, “Konrad Magi”, Editore Enn Kunila, SrL Sperare,Tallin 2017, pp. 568. Dal Catalogo e dalla biografia romanzata, entrambi a cura di Epner, sono tratte le citazioni del testo. Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 12  e il 17 novembre  p. v. Per le mostre, gli artisti e le correnti citate nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, per la precedente mostra al Vittoriano su Magi e gli artisti estoni della collezione Kunila 7 febbraio 2015, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Picasso, Braque e i cubisti  16 maggio 2013, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, le correnti della “Secessione”  12, 21 gennaio 2015; in cultura.inabruzzo.it, per Van Gogh 17, 18 febbraio 2011 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta, e in particolare Enn Kunila per aver accettato di farsi riprenedere da noi davanti a un’opera di Magi. in apertura, Enn Kunila con a lato “Isola di Saaremaa. Studio” 1913.14; seguono, del 1910, “Campo di fiori con una piccola casa”  e  “Paesaggio norvegese”;  poi, “Paesaggio con case” 1908-10,  e “Normandia” 1911; quindi, “Paesaggio norvegese” 1909,  e “Paesaggio norvegese (Palude)” 1908-10; inoltre,  “Paesaggio norvegese con pino” 1908-10 e “Ragazza norvegese” 1908; infine, del 1913-14, “Paesaggio con nuvola rossa”  e  “Paesaggio con mulino”, che saranno commentati nel secondo articolo; in chiusura, “Lago Saadjarv con chiesa”, matita su carta, 1923.24.

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Ebrei, 2. L’escalation repressiva dopo le leggi razziali, al Museo della Shoah

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra vista alla mostra “1938. La storia”, aperta dal 17 ottobre 2017 al 30 marzo 2018 a Roma, alla Casina dei Vailati nel Portico d’Ottavia dov’è il Museo della Shoah. La mostra, realizzata da “C.O.R”, “Creare, Organizzare, Realizzare”, presidente Alessandro Nicosia, ricostruisce il processo di emarginazione prima, di esclusione poi con le leggi razziali di cui ricorre l’80° anniversario, fino alla persecuzione e allo sterminio, mediante una ricca esposizione di fotografie e documenti. La mostra è a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti che hanno curato anche il Catalogo Gangemi Editore International.  

La presentazione di  Mario Venezia, Presidente dela Fondazione Museo della Shoah, e di Marcello Pezzetti, realizzatore e curatore della mostra  

Abbiamo già illustrato le prime 6 sezioni della mostra nelle quali è stata ripercorsa la storia degli ebrei in Italia conclusa tragicamente ma il cui inizio è stato quello di una comunità ben inserita e rispettosa delle istituzioni, anche nel regime fascista. Poi le leggi razziali hanno segnato un’escalation inarrestabile attraverso l’identificazione e schedatura prima, l’esclusione dal lavoro e dalla proprietà, dall’istruzione, dalla cultura e dalle professioni poi.  Ne abbiamo dato conto, con la guida competente e appassionata nella visita alla mostra del curatore Marcello Pezzetti.

Misure antiebraiche pervasive nei diversi campi della vita degli ebrei

La  7^ sezione, dedicata alle “Altre disposizioni”, documenta come oltre ai settori di cui abbiamo già parlato, di per sé fondamentali, come “lavoro e proprietà” e “istruzione e cultura”, furono investiti ì tutti gli aspetti della vita degli ebrei: “Non vi fu ambito della vita  sociale, perfino quello sportivo, che non venne intaccato dalla politica persecutoria del regime”, scrivono i curatori  della mostra. Agli ebrei stranieri fu revocata la cittadinanza se successiva al 1918 e inibita una dimora stabile, agli ebrei italiani fu inibito il servizio militare, misura di cui risentirono molto perché faceva venire meno le benemerenze acquisite combattendo le battaglie sanguinose nella prima Guerra mondiale in difesa dei confini della patria,  l’Italia. Fu vietata l’iscrizione al partito fascista, semmai qualcuno avesse voluto farlo pur in presenza di una simile persecuzione, magari in un disperato tentativo di “captatio benevolentiae”, ma abbiamo già visto  che neppure il servizio nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, i pretoriani del  Duce, salvava gli ebrei da Auschwitz!

Al divieto di “sposare cittadini italiani di razza ariana” si aggiunse quello di avere domestici “ariani”, e si dispose che gli ebrei che avevano cambiato nome riprendessero quello originario in modo da poter essere meglio identificati. Furono tolti anche i nomi ebraici da qualunque denominazione, fosse di strade o istituzioni, anche dagli elenchi telefonici;  e vietati perfino i necrologi di ebrei, neppure il ridicolo, in questo caso macabro, pose un freno all’ostracismo,   come non evitò  il divieto altrettanto paradossale di “allevare colombi viaggiatori”. 

Non fa ridere il divieto di soggiornare nelle principali località turistiche unito ad altre limitazioni alla libertà di movimento, cui nel 1941 si aggiunse il sequestro degli apparecchi radiofonici, una azione a tenaglia sulla comunità ebraica ridotta all’impotenza mentre si eliminavano tracce della sua presenza. Soltanto  coloro che, in base a “benemerenze” belliche, politiche o “eccezionali”, riuscivano ad ottenere lo status di “discriminati”  venivano esentati da alcune di queste misure, le loro domande venivano esaminate da un’apposita commissione, su 9000 richieste ne furono accolte circa 2500 per 6500 persone.  

Tutto questo viene rievocato nella mostra con documenti del Ministero dell’Interno, in particolare la Direzione generale Demografia e Razza e la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, delle Prefetture e  del Partito Nazionale Fascista, nonché dai fogli di Congedo per chi veniva escluso dal servizio militare. Particolarmente efficace la giustapposizione tra le disposizioni ai Prefetti e Questori di vietare l’accesso alle principali località turistiche agli ebrei limitando altresì  il numero dei giorni di permanenza in quelle ammesse, e le fotografie al mare di ragazze e ragazzi ebrei felici prima di esserne espulsi.

Anche l’umorismo macabro del divieto di avvisi mortuari è documentato con la lettera della Direzione Generale della Demografia e Razza alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza nell’ambito dello stesso Ministero dell’Interno, così come il divieto di avere domestici “ariani” alle dipendenza degli ebrei che, in una lettera della Prefettura di Varese, pur nella ripulsa che suscita, raggiunge effetti di irresistibile comicità per la burocratica analisi delle categorie che si intendono comprese nei “domestici” e di quelle invece escluse. Le lettere in cui viene chiesta la “discriminazione” vantando le proprie benemerenze suscitano rispetto e sincera comprensione.   

Meno conosciuta ma altamente significativa la documentazione sull’espulsione degli sportivi ebrei dalle organizzazioni dei vari sport, vediamo i titoli dei ritagli di giornale: “Nessun giudeo nelle società sportive”  e “Gli atleti di razza non ariana esclusi dalle competizioni”, “Gli ebrei radiati anche dalla ‘Canottieri Roma’” e “La F.P.I. non rilascerà licenze di pugile ai non ariani”, e così via anche per il calcio dove l’attuazione di queste misure è stata rapidissima, nel giro di un paio di mesi, Il CONI si impegnò direttamente,come documenta la Relazione al Consiglio Generale del suo presidente Achille Starace, segretario del P.N.F., esposta in mostra, che inizia con l’affermazione di aver “provveduto alla esclusione di ogni elemento ebraico dai suoi quadri.  

Tale epurazione razziale è oggi completa” e prosegue, tra l’altro, offrendo la sua collaborazione, attraverso la Federazione Medici degli Sportivi, all’ineffabile “Istituto di Bonifica Umana ed Ortogenesi della Razza”. Portano “in più spirabil aere” rispetto a questa delirante istituzione le fotografie dei campioni di pugilato in posa pugilistica Leone Efrati, uno dei 10 migliori pesi piuma al mondo e Settimio Terracina, campione regionale, ai campionati europei con la stella di Davide sui calzoncini,  entrambi espulsi, il primo morì ad Auschwitz, il secondo riuscì a riparare negli Stati uniti e partecipò con l’esercito americano allo sbarco in Sicilia e alla liberazione di Roma.

Escalation persecutoria, internamento e lavoro obbligatorio

La persecuzione degli ebrei, anche nel nostro paese, non si ferma alle misure fin qui riportate, pur molto pesanti, l’escalation continua con “L’internamento”, cui è dedicata l’8^ sezione della mostra.  Scatta dopo l’entrata  in guerra dell’Italia a fianco della Germania il 10 giugno 1940,  e aggrava le misure già prese contro gli stranieri nel 1938 con l’allontanamento di quelli trasferiti in Italia dopo il 1918.

Con il nuovo provvedimento tutti quelli provenienti da “Stati con legislazione antisemita” o da altri territori sotto il controllo italiano venivano rinchiusi in una trentina di campi, ubicati soprattutto nella parte centrale del nostro paese, ben 7 in provincia di Teramo: i o ricavati da strutture esistenti oppure costruiti appositamente come il più grande, Ferramonti in Calabria dove i liberatori inglesi nel settembre 1943 trovarono 1500 ebrei stranieri e 500  persone rinchiuse per altri motivi. Anche nelle colonie furono istituiti campi di internamento degli ebrei stranieri, in particolare  a Rodi, in Cirenaica nel campo di Giado dove molti morirono per un’epidemia di tifo,  in Libia,  in tre campi; da questa colonia vi furono anche espulsioni verso la Tunisia o verso l’Italia.

La documentazione anche in questo caso è molteplice, dalla lettera di Mussolini al capo della polizia del 26 maggio 1940 con la richiesta di preparare i “campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra” alla mappa dei campi in Italia alla planimetria del campo di Ferramonti con le numerose costruzioni allineate, le vediamo anche in due fotografie del 1040 e 1942. Sono esposte anche fotografie sulla vita nel campo, con i bambini a mensa, e alcuni loro disegni che, commentano i curatori, “rispecchiano il loro vissuto, tra sogni e realtà”.; ci sono anche  i programmi degli eventi culturali organizzati dagli internati E poi altre immagini, come la cinquantina di ebrei stranieri internati a Chieti provenienti da Trieste e il “percorso della persecuzione” di un ebreo russo licenziato dalla Magneti Marelli, internato a Corropoli (Teramo), poi ad Auschwitz, per fortuna sopravvissuto.

E gli ebrei italiani dopo l’inizio della guerra?   Anche per loro l’escalation dopo le leggi razziali che li avevano esclusi da scuole e incarichi pubblici e da molti impieghi privati e dall’esercito.  La loro forzata permanenza causata dall’ostracismo subito quando gli altri andavano al fronte diventava un “privilegio” da cancellare. La 9^ sezione della mostra lo spiega e lo documenta: con il “Lavoro obbligatorio”. La disposizione è del maggio 1942, il Ministero dell’Interno incarica i prefetti della precettazione degli ebrei tra i 18 e i 55 anni, affidata per l’esecuzione a questori e autorità comunali.La precettazione si basava su un’autodenuncia  obbligatoria, pena l’arresto e il deferimento al Tribunale militare come nell’ordinanza del Prefetto di Livorno esposta. Ma anche in questo caso alla tragedia si unisce la farsa, è grottesco il “dispaccio telegrafico cifrato” dove prescrive che, ai sensi delle leggi sulla “difesa della  razza, “gli ebrei devono lavorare separatamente dagli ariani e in nessun caso avere alle loro dipendenze lavoratori ariani”, l’ossessione assume aspetti  paranoici.   

Sono esposte le immagini degli ebrei al lavoro con pale  e picconi a Torino e Alessandria, Firenze e a Roma sulle rive del Tevere, una di esse con la mole di Cast Sant’Angelo, con ramazze a Milano.. A Casera la precettazione  durò un intero anno dal settembre 1942 al settembre 1943, vediamo la fotografia del alvoro nei campi con i picconi a torso nudo.

E’ patetica la storia  dell’ambulante che stappò l’assegno di 0,50 centesimi di lire per il lavoro obbligatorio svolto sul Tevere, offeso dall’umiliante elemosina, l’assegno fu recuperato dalla sorella ed è esposto in mostra, purtroppo l’eroico ambulante morirà nel lager di Dachau.

Propaganda antiebraica e reazione degli ebrei

La 10^  sezione della mostra  riguarda la “Propaganda antiebraica” alla quale è stata dedicata al precedente mostra al Museo della Shoah, considerandola come il prodromo dell’escalation successiva in quanto ha preparato l’opinione pubblica descrivendo l’ebreo oltre che come nemico pericoloso come biologicamente diverso anche nelle caratteristiche somatiche, naso adunco, ecc.  

Questa propaganda veniva declinata in tale mostra soprattutto nelle forme estreme e capillari assunte in Germania, ma anche per l’Italia si fornivano elementi significativi come il martellamento antisemita di “La Difesa della Razza”, il periodico razzista della casa editrice Tuminelli diretto dal famigerato Telesio Interlandi, uscito in occasione delle leggi razziali e pubblicato fino al 20 giugno 1943 che utilizzava forme grafiche molto suggestive e una serie di altre invenzioni antisemite.

Nella mostra sono esposte vignette antisemite apparse non solo su “la Difesa della Razza” ma anche sui quotidiani come “Il Popolo di Trieste”   con “l’idra giudaica che amputata dei suoi tentacoli, vomita l’ultimo veleno”. In “Razzismo Fascista” del novembre 1939 Roberto Farinacci, pur sostenendo al natura politica e non religiosa dell’antisemitismo, conclude: “Ma diciamo a conforto dell’anima nostra che se, come cattolici siamo diventati antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli”. L’evocazione del “deicidio” è  evidente.

Come reagirono gli ebrei a tutto questo? All’inizio del ‘900 erano 45.000, l’1,1% della popolazione italiana. in Italia, vanno aggiunti 35.000 tra le colonie e Rodi, quindi una massa d’urto consistente, però nessuna manifestazione né presa di posizione collettiva neppure contro le “Leggi per la Difesa della razza”.  Lo documenta l’11^ sezione della mostra, “La reazione degli ebrei”, che spiega come non si resero conto del piano inclinato senza ritorno su cui venivano sospinti e invece di reagire pensarono ad organizzarsi, in particolare nel creare un sistema scolastico alternativo a quello pubblico che veniva precluso loro sia come docenti che come discenti.   

Vediamo esposti l’articolo del settimanale ebraico “Israel” del 21 luglio del 1938 che avanzava la speranza, delusa due mesi dopo, che non venissero emanate leggi antisemite, e dopo la loro emanazione del mese di settembre, la lettera a Mussolini  dell'”Unione delle Comunità Israelitiche Italiane” del 30 ottobre 1938 con il tono della supplica, “absit iniuria verbis”  piuttosto che della protesta, chiedendo invece della revoca delle leggi emanate, di “prestare una modestissima collaborazione nell’applicazione di qualche postulato che li concerne collettivamente”.

E’ un atteggiamento che si definirebbe “fantozziano” se non vi fosse la consapevolezza di quanto fosse critica e isolata la loro posizione dopo tanta propaganda antisemita penetrata nella popolazione. E se non ci fosse stata l’orgogliosa reazione dell’editore Fortunato Formiggini che si tolse la vita a Modena per protesta contro le leggi razziali il 29 novembre 1938, poco dopo la loro emissione, la mostra gli rende onore con la fotografia sua e della sua casa editrice; come rende onore al soprano di Livorno Rita Misul che eluse l’esclusione dal mondo dello spettacolo esibendosi con uno pseudonimo, finì ad Auschwitz ma fu tra i sopravvissuti e nel 1946 raccontò la sua storia nel libro “Fra gli artigli del mostro nazista”. 

Altrettanto rispettosa, anzi ossequiente,  la circolare della stessa organizzazione che l’11 giugno 1940, riaffermava “al Governo i sentimenti di illimitata devozione degli israeliti italiani” pronti a “mettersi all’occorrenza a disposizione delle autorità partecipando con tutte le loro forze al conseguimento degli alti fini nazionali”, la risposta fu l’internamento degli ebrei stranieri e nel 1942 il lavoro obbligatorio per gli ebrei italiani rimasti esclusi dal servizio militare da loro richiesto.  L’impegno  fattivo delle associazioni ebraiche è evidenziato da fotografie in cui si vede all’opera il “Comitato  di Assistenza degli ebrei in Italia”  e sono riprodotte affollate “Mense dei bambini” nel 1941 e altrettanto affollate scuole ebraiche del 1939-42 a  Milano, Roma e Trieste, Firenze, Ferrara e Padova; c’è anche la fotografia della celebre Villa Emma a Nonantola, presso Modena, che diede assistenza a bambini e giovani ebrei stranieri. Gli ebrei confermano il loro ben noto spirito di iniziativa e l’impegno fattivo,  è assente ogni forma di vittimismo che pure sarebbe sacrosanto. 

L’opinione pubblica degli italiani non ebrei e l’epilogo

Se la reazione degli ebrei è stata questa, anche l’atteggiamento degli italiani non ebrei è  documentato dalla mostra nella 12^ sezione,,intitolata  “Opinione pubblica”. Ebbene, per quanto spiacevolepossa risultare, i curatori concludono che “la maggioranza della popolazione italiana non ebraica, ormai definita di ‘razza ariana’ approvò o si adeguò all’antisemitismo di stato mostrando un’opportunistica indifferenza nei confronti dei loro concittadini  ‘della porta accanto’ (i deputati ‘ariani’ approvarono le leggi all’unanimità, i senatori ‘ariani’ espressero 154 sì e 10 no”.     

Sia l’adesione al regine, se la martellante propaganda antisemita che lasciò il segno, sia il vantaggio derivante dall’esclusione dalle professioni dei temibili concorrenti  sono alla base di questo atteggiamento riprovevole. Immagini “simbolo” della mostra, il cartello “Negozio ariano” orgogliosamente levato  in alto dalla ragazza italiana a Milano e affisso a Roma, a Torino e a Trieste, scritte come “In questo locale gli ebrei non sono graditi” a Torino e a Trieste , o “E’ vietato l’ingresso agli ebrei” a Firenze, vediamo anche la dichiarazione di “arianità”  fatta pubblicare  a pagamento dal principale giornale di Trieste da Mameli Castiglioni, proprietario di 12 negozi.  Naturalmente chi semina vento provoca tempesta, partono le aggressioni a templi ebraici come la sinagoga di Trieste e il Tempio di rito spagnolo di Ferrara, come l’aggressione a singole persone nel loro quartiere  a Roma, al  Portico d’Ottavia del 1940 e 1843 descritte dai disegni del pittore Aldo Gay, esposti in mostra come tutta la documentazione sopra citata. 

Ed  ecco l’epilogo, “Il destino degli ebrei tra il 1943 e il 1945”,  rievocato  nella 13^ ed ultima sezione della mostra. I curatori dopo aver denunziato con la documentazione che abbiamo citato, la “persecuzione dei diritti” tra il 1938 e il 1943, non esitano a chiarire: “Il fascismo, tuttavia, fino ai giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943 non perseguitò le loro vite”. Ma ora erano i tedeschi a spadroneggiare e gli ebrei, senza alcuna protezione, furono rastrellati a Roma il 16 ottobre 1943, con destinazione Germania come documentato in una precedente mostra sull'”infamia tedesca”, e internati al Nord con disposizione del governo della RSI  del 30 novembre successivo in  campi provinciali in attesa dei definitivi. Dal 1943 al 1946 8.000 furono i deportati ad Auschwitz-Birkenau, a parte le stragi e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. 

Sulla responsabilità italiana si può aggiungere che il risultato delle leggi razziali, l’identificazione e la separazione degli ebrei favorì molto gli intenti liquidatori dei tedeschi perché potettero individuarli facilmente e prenderne molti nei campi di internamento o in carcere senza doverli ricercare. A ciò si aggiunga che si trovavano senza mezzi tra la popolazione resa ostile, a parte alcune lodevoli  eccezioni, il Vaticano sebbene non prendesse posizione,  e i parroci comunque ne aiutarono molti  a nascondersi.  Come sempre si organizzarono in forme di auto assistenza clandestine, 6.000  riuscirono a rifugiarsi in Svizzera.  Parteciparono anche alla resistenza contro i tedeschi,  c’è di tutto nella storia di quegli anni  tormentati.

Alcune immagini la documentano in modo toccante: quelle con le  suore  romane nel 1944 al centro di un folto gruppo di donne e bambini rifugiati presso di loro e con  gli scampati al Campo del Ghetto Nuovo di Venezia fino all’apoteosi delle donne ebree con un soldato della brigata ebraica il giorno della liberazione di Milano.

Dopo l’escalation della follia antisemita  il sollievo in quei volti sorridenti femminili. Questi volti pieni di speranza ci riportano alla conclusione di “La vita è bella”.  “Spes contra spem”, nonostante tutto.   

Aprile 1945, in alto,  a Milano nei giorni della Liberazione  giovani donne ebree festeggiano con un soldato della brigata ebraica; in basso, a Venezia nel Campo del Ghetto Nuovo un gruppo di ebrei scampati alle deportazioni naziste.  

Info 

Museo della Shoah, Casina dei Vailati, Roma, via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì 10-13, chiuso sabato e nelle festività ebraiche; ingresso gratuito.  Catalogo: “1938. La Storia”, a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti, Gangemi Editore International,ottobre 2017, pp. 190, formato 17 x 23; dal Catalogo sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito  in questo sito il 28 ottobre 2017.  Cfr. i nostri articoli: per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ infamia tedesca’”  24 novembre 2013, e “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni”   5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock  al Vittoriano”  27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis”  2 febbraio 2012; “Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″  21 gennaio 2012in “cultura.inabruzzo.it”  “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie”  8 agosto 2009.  (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, le immagini saranno trasterite su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo della Shoah alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione,  con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, la  presentazione di  Mario Venezia, Presidente dela Fondazione Museo della Shoah, e di Marcello Pezzetti, realizzatore e curatore della mostra: segue una selezione di immagini esposte nella mostra a documentazione delle sezioni commentate nel testo; la penultima immagine, in particolare, riporta due fotografie dell’aprile 1945,in alto a Milano nei giorni della Liberazione  giovani donne ebree festeggiano con un soldato della brigata ebraica; in basso a Venezia nel Campo del Ghetto Nuovo un gruppo di ebrei scampati alle deportazioni naziste. 

Mangasia, la meraviglia dei fumetti asiatici, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

 “Mangasia, wonderlands of Asian Comics” , al Palazzo Esposizioni di Roma  dal  7 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018,  è la prima mostra dedicata al fumetto asiatico, il “manga”, esteso a una vasta area che comprende più di 20 paesi, dal Giappone alla Cina, dall’India alla Corea, dalle Filippine  all’Indonesia, dal Nepal alla Thailandia, con l’esposizione di  una miriade di strisce organizzate in sezioni che consentono di analizzarne i diversi aspetti, componenti e destinazioni, il tutto il relazione alle diverse fasi storiche e al costume della vastissima area considerata. La mostra, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, è a cura di Paul Gravett, che ha curato anche il catalogo  edito da “Thames & Hudson”. con grande ricchezza iconografica, nel quale è approfondita in modo particolare una materia quanto mai vasta.

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Uma mostra insolita, quella del Palazzo Esposizioni, che conferma di essere,come dice il Commissario Cipolletta, “la casa dell’attualità”, citando le mostre sul “DNA”, “Caravaggio Experience” e W”orld Press Photo”, ma  si potrebbero  aggiungere quelle sul ” Cibo” e sui “Numeri”, sui “Meteoriti” e la meno recente su “Astri e particelle”, dedicate alla contemporaneità più  viva.

Quali sono i motivi di interesse di questa mostra sui “manga”, i fumetti  che nascono in Giappone per estendersi a macchia d’olio sull’intera Asia e poi nel mondo?  Almeno tre,  di natura storica, di costume e artistica. Il primo perché  fa passare in rassegna  le vicende movimentate di paesi  scossi da regimi e guerre,  il secondo per l’esotismo di sistemi di vita peculiari, il terzo per la maestria rappresentativa.

La varietà dei paesi considerati, i quali anche per il fumetto hanno radici che affondano nelle tradizioni, nelle storie e nei costumi di ciascuno, compone un affresco spettacolare e istruttivo.

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I manga nella tradizione giapponese

Per dare un’idea di come si manifesti questa forma di arte particolarmente comunicativa, diciamo che le storie in Giappone sono pubblicate ad episodi in serie rivolte alle diverse fasce di età e a un pubblico selezionato: si consideri che la rivista di maggiore successo vende tuttora quasi due  milioni di copie a settimana.  Poiché le riviste non vengono conservate, sin dagli anni ’20 si  pubblicano anche libretti per bambini e adulti diffusi nelle biblioteche circolanti. Stupefacente il dato sull’entità delle vendite di “Manga” in Giappone: 3,5 miliardi di  dollari.

Apposite sezioni della mostra consentono di analizzarne i singoli aspetti con esempi  spettacolari per l’evidenza grafica e cromatica delle riviste e  i libri di fumetti esposti in grande numero.

Le riviste per ragazzi (“shonen”) e ragazze (“shojo”) sono molto diffuse anche per il boom demografico del dopoguerra,  le storie sono volte ad esprimere sentimenti e suscitare simpatie: le vicende ricordano quelle di Mark Twain e degli altri scrittori che hanno raccontato il mondo del  lavoro infantile, duro e spietato, ma con l’itinerario educativo che porta al successo dopo aver affrontato e superato gli ostacoli. Il linguaggio simbolico per esprimere i sentimenti si avvale dei fiori e di una forma grafica con occhi grandi e scintillanti soprattutto nei fumetti per ragazze.

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Di particolare importanza  i fumetti legati alle xilografie dell’ “ukiyoe”, le stampe d’autore pubblicate in multipli, in cui al disegnatore artistico si affiancava l’intagliatore e lo stampatore che dava l’apporto del colore, tecnica che ha dato opere d’arte di grande valore con artisti quali Hiroshige, Hokusai ed Eisen  ai due ultimi viene dedicata una grande mostra all’Ara Pacis, del resto sono stati anche autori di “manga”di tipo particolare. E’ stato Hokusai a introdurre nel 1814 il termine “manga” di origine cinese per definire i suoi schizzi  estemporanei, come sfuggiti al suo controllo e prodotti dal “pennello impazzito”, e ad unire testi a disegni dai colori brillanti. Ne produsse migliaia, pubblicati in 15 volumi.

Nello stile “ukiyoe” eccelleva  Utagawa Kuniyoshi (1798-1861), i cui fumetti rappresentano leggendari guerrieri impegnati in lotte titaniche, resta un punto di riferimento tuttora. Ci sono immagini  a piena pagina per sottolineare momenti particolari, e la lettura di questi fumetti avviene da destra a sinistra, cosa che ne ha complicato la diffusione fuori dal Giappone per la difficoltà della trasposizione in aggiunta  a quella della traduzione.  

Il  grande sviluppo dei “manga” avvenne quando, apertosi nel 1868 il Giappone agli scambi commerciali con il resto del mondo  dopo due secoli di completo isolamento  imposto dal regime assolutista, i fumettisti  si ispirarono ai modelli occidentali nelle sequenze narrative e nel tono realistico o umoristico che portava anche a  deformazioni caricaturali. Quindi, con le influenze internazionali dovute anche allo studio all’estero di fumettisti giapponesi, innestate sulle tradizioni nazionali si è avuta  una fusione tra le due culture che naturalmente troviamo ancora oggi.

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Abbiamo accennato al tono umoristico, ebbene questo si accentuò nel ‘900 allorché la rivoluzione industriale segnò l’irruzione del lavoro in fabbrica nella vita dei giapponesi, con tutte le situazioni che si prestavano alla satira, come nelle riviste  satiriche “Punch” e “Puck” diffuse in Inghilterra e America.  Veniva preso lo spunto anche dai fumetti a colori delle tavole  a tutta pagina dei giornali americani della domenica e delle strisce in bianco e nero dei quotidiani, ma rivisitandoli in modo personale creando così personaggi che  diventavano beniamini del pubblico di lettori.

Dalle favole alla religione, dagli esseri fantastici agli eroi

In effetti, le tradizioni del  paese hanno dato luogo a storie tramandate per generazioni, che ritroviamo oggi non solo nei fumetti ma anche in forme d’arte come i rotoli dipinti con testi e immagini. Vi sono favole e racconti popolari, con figure di eroi leggendari, come nel  “Viaggio in Occidente” che ha dato luogo in passato al maggior numero di trasposizioni in fumetti e continua a farlo tuttora.  E’ basato sul viaggio in India  alla ricerca di testi sacri buddhisti di un monaco cinese  cui il proprio imperatore conferì  il titolo di Tripitaka, che evoca i tre canestri con i canoni della religione; ebbene, nei secoli il monaco diventa un eroe dei fumetti, con due animali dai poteri eccezionali, il maiale Zhu Bajie e lo Scimmiotto Sun Wukong, il Re scimmia, eterna leggenda,  che diventa  protagonista di un viaggio spirituale in cui l’impeto si può mitigare  padroneggiando  i poteri interiori fino alla sublimazione nella compassione del buddhismo.  

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Non solo, anche per la religione i fumetti sono stati un veicolo di  principi e figure  mistiche, su ispirazione dei due maggiori poemi epici dell’induismo imperniati su Krisha e Rama. Con l’apertura al mondo e l’influsso occidentale, pur perdendo attrattiva, questi temi sono rimasti acquisendo un valore identitario, come per gli spiriti “yokai”.  L’elemento soprannaturale resta una presenza importante nel fumetto moderno come parte della spiritualità asiatica.

Per darne un’idea citiamo i fumetti di Osamu Tezuka  imperniati su Buddha, sebbene non fosse buddhista, con Siddharta che viene illuminato, sono 1800 pagine in 9 volumi. E i fumetti ispirati al Ramayana e l’altro poema epico in sanscrito su Krishna e Rama, “aviatar” del dio celebrato per secoli dagli artisti indiani, storia resa più moderna da un artista formatosi in Europa  che ne fece un’immagine luminosa entrata nella  vita quotidiana degli indiani per adattamenti successivi, come quelli delle  “Storie immortali per immagini” divenuta la collana di fumetti più venduta nel paese.

Divinità e spiriti maligni, ai quali si rivolge una nuora angariata dalla suocera  in “Casa dei demoni”  di Ida Chikae fa pensare alle barzellette sul tema  in voga anche da noi. Ed esseri fantastici, draghi, tritoni e sirene emersi dalle profondità marine,  evocati da  tradizioni e leggende popolari.

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Gli esseri fantastici vengono immessi in un “bestiario”, diffuso anche in Filippine e Tailandia,  nato  in Giappone nel 1776 con l’inventario delle creature ultraterrene di Toriyama Sekien, ancora attuale perché tali leggende derivano dal timore dell’ignoto –  persino della gravidanza e dell’aborto –  dinanzi al quale non serve la razionalità ma si fa appello alla fede e al soprannaturale. I fumetti diventano così  uno strumento di diffusione di messaggi rassicuranti con sfondo mistico e morale.

Ma sono gli eroi le figure più celebrate dai fumetti,  personaggi di fantasia oppure esistiti veramente a capo di lotte  contro lo sfruttamento dei contadini o contro il colonialismo, i quali hanno ispirato narrazioni romanzate  che ne hanno reso attuale la vicenda trasformandoli in eroi nazionali di tutti i tempi- Nelle due Coree  spicca la figura di Hong Gil Dong, ispirato a un bandito benefattore realmente esistito, una sorta di Robin Hood  celebrato oltre che nei fumetti  in romanzi e nei film.

Il filone storico e l’attualità

Fin qui abbiamo citato le ispirazioni fiabesche e mitiche, religiose ed eroiche, ma c’è anche il filone di ispirazione più importante, quello storico.  I fumetti hanno rappresentato nei popoli asiatici un canale di comunicazione per raggiungere strati di popolazione che altrimenti non avrebbero potuto conoscere la visione degli eventi  del passato e dei mutamenti in atto nella società dei vari paesi. Per lo più sono tinte forzate, nei personaggi e nell’enfasi patriottica, e le visioni sono contrastanti da paese a paese anche per le medesime vicende storiche.

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Proprio per questo costituiscono una fonte preziosa per ripercorrere la storia tormentata dell’area asiatica in cui molti paesi hanno subito nelle alterne fasi storiche prima l’imperialismo nipponico, poi  il predominio occidentale con lunghe fasi di occupazione, e la conseguente compressione dello spirito di indipendenza e del senso di libertà dei popoli. Si pensi all’espansione giapponese della fine del XIX secolo con la sconfitta della Cina e alla sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale con il dominio americano sul paese. 

Anche quando trattano della storia passata, i fumetti  lo fanno con una narrazione che fa rivivere l’atmosfera di allora mediante immagini coinvolgenti di vita quotidiana.  Anche correndo dei rischi, come il coreano Park Kun-Woong che solo  nel 2002 è riuscito a pubblicare nella Corea del Sud 1000 pagine di fumetti nei quali denunciava le pesanti conseguenze della guerra di Corea degli anni  ’50,  impiegò 5 anni per realizzare l’opera intitolata “Flower”, dato che nei due anni di servizio militare iniziato nel 1997 gli era vietato disegnare e doveva nascondersi per farlo.  Si tratta di  una “graphic novel”, che più del fumetto in senso stretto si presta al racconto di lunghe storie. Va precisato che in Corea del  Nord nel 1991 le autorità avevano fatto un appello per lo “sviluppo del fumetto” ma sottoponendolo  a rigidi controlli per cui diventava uno strumento di regime. 

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Se si allarga l’orizzonte a tutta l’Asia si può constatare che i fumettisti sono stati critici del regime comunista cinese, come è avvenuto rispetto all’esilio del Dalai Lama e  all’eccidio della piazza di Tienammen, e così per i Khmer rossi in Cambogia.

L’attualità è di grande interesse per i fumetti asiatici, la vediamo descritta tra gli altri dal cinese Sean Chuang e dal sudcoreano Shin Dong Wu.   E questo anche sotto il profilo politico, dato che rompendo  il silenzio su vicende scomode ignorate  volutamente dalla stampa più autorevole,  gli autori  del “manga” agiscono da giornalisti spesso basandosi su storie inedite  che pescano nella vita reale delle persone. Si battono anche per i diritti civili e per le questioni sociali comprese quelle ambientali – come è avvenuto per Bhopal, la maggiore catastrofe industriale – contro i pregiudizi e la discriminazione, facendosi portatori dei timori e delle insoddisfazioni del pubblico di lettori.

Molte storie, per accrescerne l’efficacia, sono  narrate in modo sereno dal punto di vista di bambini, come l’occupazione ds parte del  Giappone  delle Filippine e di Singapore che fa da sfondo alle avventure infantili di una ragazza filippina e di un monello di Singapore.  In altre, le esperienze di vita o portano a una visione pessimistica, come perTadao Tsuge che nell’adolescenza subì il trauma del bombardamento di Osaka, oppure a una visione dura ma tesa ad esorcizzare il passato per aprirsi al futuro.

Gli autori dei “manga”

Se queste sono le storie narrate dai fumetti,  quali storie vivono i narratori del “manga”?  Sono vicende personali molto diverse, considerando che i “mangaka” detengono i diritti e quindi ottengono  cospicui guadagni anche milionari, mentre gli altri come “free lance” sono pagati male e non hanno i diritti  d’autore.  Li aiutano assistenti che devono farsi le ossa e operano in condizioni molto precarie. E’ un  lavoro a ritmi forsennati per il rispetto dei tempi di consegna, che può portare alla collaborazione tra  autori, come per Fujimoto e Abiko uniti per oltre trent’anni, dal 1954 al 1987, con lo pseudonimo di Fujiko Fujo  Altri, non reggendo più il ritmo, si sono spostati dalla grafica alla sceneggiatura.

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Il  fumetto viene realizzato su una sceneggiatura iniziale, costituita o da schizzi grafici o da un testo, e spesso il risultato si discosta molto dall’idea  originaria, anche perché solo con i disegni finali si trovano le espressioni più adatte ad esprimere i sentimenti con particolari posizioni, oltre all’inchiostratura che richiede a sua volta speciali accortezze per cercare le sfumature giuste.

A questo punto ci si deve chiedere se il fumetto si può considerare arte, o meglio quando diventa arte, e gli autori artisti. La risposta è che non c’è una frontiera netta. Viene ricordata la mostra del 2013 in cui sono stati esposti insieme i fumetti di una “graphic novel” di 120 pagine e i dipinti astratti a questi ispirati di un artista che da adolescente aveva pubblicato dei  fumetti ispirati ad altri scritti dello stesso autore della “graphic novel”.  Mentre anche il celebre scultore giapponese Eldo Yoshimizu è passato ai  “manga”  d’azione, che hanno avuto tale successo da essere  esposti all’uscita nella Galleria di Tokyo.

Ma c’è di più di questi fenomeni individuali. La carica innovativa mostrata dai fumetti “manga” nel rinnovarsi e nel trasformarsi ha contagiato alcuni artisti, pittori o scultori, come il cinese Xu Bing che ha ideato un linguaggio universale fatto di immagini, simboli e logo che sono l’equivalente contemporaneo  dell’elemento pittorico alla base dei caratteri cinesi.

La storia dei fumetti asiatici documentata dalla mostra è ancora molto lunga, giunge fino alle attuali trasposizioni con altri media, dal cinema alla TV,  continueremo a parlarne prossimamente.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso,  intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Mangasia. Wonderlands of Asian Comics” , a cura di Paul Gravett,  Thames & Hudson Editore, pp. 320,  formato 21 x 27, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. L’articolo conclusivo sulla mostra uscirà in questo sito il 6 novembre p. v., con altre 11 immagini. Per la citazioni nel testo di precedenti mostre su temi di  attualità cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “DNA”  29 marzo 2017, “Caravaggio Experience”  27 maggio 2016,  “Numeri”  23, 26 aprile 2015,   “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014, il ; in cultura.inbruzzo.it su “Astri e particelle” 12 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). Inoltre cfr. i nostri articoli in questo sito sull’arte giapponese: per l’antica scultura sacra 24 agosto 2016, la pittura contemporanea 27 maggio 2016, 70 anni pittura “nionga” 25 aprile2013, la pittura moderna “oltre la  tradizione”  15 aprile 2013; sull’arte cinese, le tombe di Awangui 17 gennaio 2015, la pittura di Visual China 17 settembre 2013,  lo scultore moderno  Weishan 24 novembre 2012, la “Via della Seta” 19, 21, 23 febbraio 2014; in www.antika.it, “L’Aquila e il Dragone” 4, 7 febbraio 2011, e in cultura.inabruzzo.it  la Settimana del Tibet 21 luglio 2011, l’anno culturale della Cina in Italia 26 ottobre 2010  (questi ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nella mostra nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Forniscono soltanto un’idea quanto mai parziale e sommaria della sterminata esposizione della mostra, resa integralmente nel monumentale catalogo, e dato il loro carettere non cerchiamo di identificarle per corredarle del titolo, come eccezione motivata alla nostra regola.

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Ebrei, 1. La persecuzione in Italia con le leggi razziali, al Museo della Shoah

di Romano Maria Levante

Ad ottant’anni dall’approvazione delle leggi razziali in Italia, la mostra “1938. La storia”, aperta dal 17 ottobre 2017 al 30 marzo 2018   a Roma, nella Casina dei Vailati al Portico d’Ottavia dov’è il Museo della Shoah,  ripercorre, mediante un gran numero di fotografie e documenti,  l’itinerario nel quale gli ebrei, comunità inserita nella società e in normali rapporti con le istituzioni, sono stati schedati, poi discriminati ed esclusi dalle professioni fino alla persecuzione e allo sterminio. La mostra  realizzata da C.O.R., “Creare Organizzare Realizzare, presidente Alessandro Nicosia, è  a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti come il Catalogo Gangemi Editore International.    

La Locandina della mostra  

Prosegue la  ricostruzione della tragedia dell’olocausto passando da mostre incentrate sull’orrore dei campi di sterminio, come “Auschwitz e Birkenau” e “I ghetti nazisti”,  a mostre che cercano di analizzarne i prodromi nella persecuzione antisemita come “La psichiatria tedesca” e “La propaganda”. 

Nelle  ultime due  mostre una sezione era dedicata alla situazione in Italia, ma di gran lunga prevalente lo spazio e il peso dedicato alla Germania ovviamente per essere la maggiore responsabile della folia antisemita. La nuova mostra  invece è totalmente dedicata alla situazione italiana e ne approfondisce l’evoluzione iniziando con la convivenza nel nostro paese delle diverse religioni,  e in particolare dei cittadini di fede ebraica con i rispetto ai cattolici, rapporti normali  prima che le cose cambiassero fino a precipitare.

Ci guida nella visita il curatore Marcello Pezzetti, forse il maggiore esperto della materia documentata con rigore e dovizia nella mostra,  che passa in rassegna con l’obiettività del ricercatore frenando la passione.   

Caratteristiche  e contenuto della mostra

L’allestimento è molto appropriato, si passa da una stanza all’altra nel Museo della Shoa posto nel “Portico d’Ottavia”, dove la comunità ebraica ostenta con legittimo orgoglio nei tanti negozi caratteristici i suoi costumi  nell’abbigliamento e le sue specialità nella gastronomia. 

Quando si arriva alla sede espositiva si è già entrati  in un mondo che  oggi suscita ammirazione pensando a come ha saputo creare uno stato, dalla popolazione non di molto superiore a quella di Roma,  simbolo di coraggio incommensurabile percome resiste vittoriosamente all’assedio di 100 milioni di arabi, che ha sconfitto militarmente più volte. Mentre viene un senso di angoscia profonda nel ricordare come 80 anni fa fu travolto da una furia criminale.

 Si celebrano, infatti, gli ottant’anni  dal prodromo della tragedia successiva che in Italia ha nome “leggi razziali” approvate nel 1938 nella colpevole acquiescenza all’alleato tedesco che portò il nostro paese in modo sconsiderato ad una guerra che ha provocato diecine di milioni di morti in Europa e nel mondo. 

In 13 sezioni la mostra racconta con una dovizia di  immagini e di documenti,  la storia di una comunità che, dopo aver  acquisito  con il proprio spirito d’iniziativa  e il proprio lavoro una posizione di rilievo nel corpo sociale del nostro paese, si è vista  prima schedata ed emarginata, poi perseguitata  fino alle criminali deportazioni nei campi di sterminio. Le leggi razziali vengono analizzate nei prodromi e nei contenuti, e soprattutto nell’applicazione nei diversi campi del lavoro, istruzione e cultura, fino all’internamento e al lavoro coatto; la reazione, oltre che degli ebrei,  della comunità nazionale dà uno spaccato del nostro paese che è bene conoscere senza infingimenti. Si conclude la mostra con le conseguenze di quello che da ostracismo riprovevole è divenuto genocidio criminale.

Mario Venezia,  presidente della Fondazione Museo della Shoah ci tiene a sottolineare che “l’esposizione  ribalta, tra l’altro, uno stereotipo che è stato affermato e sostenuto per anni da più parti: che la legislazione antiebraica fu una ‘legislazione all’acqua di rose’. Il materiale esposto dimostra che fu, al contrario, sistematica”. E afferma: “Il visitatore avrà gli strumenti necessari epr comprendere che l’azione persecutoria antiebraica del’Italia fascista è stata  infondo, un colossale tradimento, il tradimento di una parte fondamentale di sé, quella ebraica, che era e si sentiva profondamente italiana, ma che aveva una colpa biologica’, quella di avere origini ebraiche. Gli italiani ebrei vennero trasformati da cittadini in perseguitati, e anche abbandonati a se stessi”.    

Questa la definizione di Pizzetti: “Si tratta dell’esposizione di una delle pagine più vergognose della storia d’Italia, ovvero del momento in cui questo Paese,  autodefinitosi ‘ariano’, mise a disposizione tutte le sue risorse per escludere dal mondo del lavoro, dalla scuola, dalla vita pubblica una parte rigogliosa di sé, quella di ‘origini ebraiche’,in base a criteri razzistici-biologici, assolutamente pseudoscientifici”. E conclude: E’ la storia delle trasformazione, avvenuta durante il ventennio fascista, dell’Italia in uno Stato antisemita. E’ la storia di una ferita che, in parte, è rimasta ancora aperta”.

Cerchiamo di raccontare  la mostra per dare il senso di come questo sia potuto accadere, le fotografie, i documenti e i cartelli esposti sono come i fotogrammi di un film che inizia in modo pacifico e anche festose  per incupirsi progressivamente fino alla tragedia e l ‘orrore come “La vita è bella”  di  Roberto Benigni.  

Prima del diluvio, una comunità ben inserita anche con il regime

Festose le immagini della 1^ sezione, “Gli ebrei in Italia dall’emancipazione al fascismo”, da album di famiglia del ‘900 fino agli anni ’30. La prima è della famiglia “Tabet-Belinbau”   nella festa in giardino con alcuni dei componenti che suonano degli strumenti, è la più antica, del 1895, poi altre riprese nel lavoro in panetteria oppure davanti  a un grande negozio, scolaresche schierate,  famiglie riprese in posa casa e in gite in campagna, al mare o a passeggio. Una collettività di persone e di famiglie come tutte le altre, che vive in armonia  con l’intera comunità. In questi e nei casi successivi,  la didascalia  indica se e quando la loro vita si è conclusa con la deportazione. .In effetti , per i meriti acquisiti nel Risorgimento e nella prima Guerra mondiale, e per il loro spirito patriottico mostrato anche verso il fascismo, gli ebrei  facevano parte a pieno diritto della comunità nazionale  senza le discriminazioni  che in qualche caso erano state perpetrate nei secoli precedenti per i difficili rapporti  con i rappresentanti della religione dominante risalenti alle origini del Cristianesimo.      

Non solo, ma per la loro maggiore alfabetizzazione e lo spirito di intraprendenza avevano raggiunto elevate posizioni nella pubblica amministrazione e nelle libere professioni, nell’assicurazione  e nella finanza, nel commercio. Pochi lavoravano nell’agricoltura, molti nel commercio ambulante, tra cui tanti ebrei poveri.

Si potrebbe pensare che si  resero invisi al regime  per suscitare, sia pure a scoppio ritardato, la reazione antisemita, ma le 2^ sezione della mostra, “Gli ebrei di fronte al fascismo”, nega questa eventualità: “Con l’avvento del  fascismo il comportamento degli ebrei si caratterizzò come quello del resto della cittadinanza non ebraica, soprattutto attraverso il consenso e il patriottismo. Essi non smisero di sentirsi e di comportarsi da italiani. La progressiva fascistizzazione della nazione condizionò anche la vita quotidiana delle comunità ebraiche”. 

Alcuni ebbero anche incarichi politici, ci fu un ministro, come ci furono quelli che si opposero al regime e per questo furono esiliati, come gli altri italiani, i fratelli Rosselli , ebrei, furono assassinati, era il 1937, impressionante per partecipazione di popolo la fotografia del loro funerale.  Vediamo le immagini delle “piccole italiane” di una scuola ebraica,  una delle quali premiata dalla “Gioventù italiana del Littorio”, dei ragazzi ebrei in uniforme di “Figli della Lupa”, di ebrei membri della Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale,  uno dei quali, si legge, deportato e ucciso ad Auschwitz nel 1944.    

Le leggi razziali, identificazione e censimento degli ebrei

Dopo questa premessa sulla “normalità” preesistente nei rapporti con la comunità nazionale e il regime fascista, ecco la svolta cui è dedicata la 3^ sezione, “Le leggi antiebraiche”. Vengono emanate due anni dopo il 1936, per due eventi combinati,  la guerra d’Etiopia con la proclamazione dell’Impero che diffuse  in razzismo, anche se contro i neri, e l’Asse Roma-Berlino con i legami più stretti al paese antisemita, che diede il via a una campagna propagandistica antiebraica. 

Mussolini  ha scritto dell’ “antisemitismo inevitabile” in un articolo sul “Popolo d’Italia”  e ne ha parlato in un comizio a Trieste il 18 settembre del 1938  in cui definiva esplicitamente l’ebreo  “un nemico irreconciliabile del fascismo”, accusandolo di essere “il popolo più razzista dell’universo”;  una fotografia mostra la folla oceanica che applaudiva il comizio, su “la Stampa” il giorno dopo il ttiolo a 9 colonne “Il Duce ha parlato”.  

A  luglio era stato  pubblicato il “Manifesto fascista della razza”, in agosto era uscita la rivista “La Difesa della Razza” e soprattutto veniva fatto il censimento della popolazione ebraica e si istituivano  uffici appositi. Erano trascorsi 5 anni dalla legislazione tedesca, l’Italia era pronta a imitarla.    

Tra i mesi di settembre, dopo il discorso,  e dicembre,  escono i decreti antiebraici “per la difesa della razza”, con la fissazione dei  criteri per definire la “razza ebraica” e altre misure, controfirmati dal re e convertiti in legge  da Camera e Senato. Erano criteri razzistico-biologici e non religiosi, per cui colpivano anche i cattolici. Furono vietati i matrimoni “parzialmente misti”   e si concesse la possibilità di evitare la persecuzione  a chi aveva  benemerenze e poteva essergli concessa la cosiddetta “discriminazione”.  

E’ esposta non solo la documentazione sui provvedimenti, ma anche 13 vignette esplicative dei diversi settori della vita nazionale cui si applicavano le misure entrate in vigore. C’è anche la lettera in cui inaspettatamente Italo Balbo chiede al Ministero dell’Africa italiana di rinviarne l’applicazione alla Libia di cui era governatore,   viene  ascoltato, l’estensione alla colonia avverrà soltanto nell’ottobre 1942. 

Le leggi antisemite non ebbero conseguenze pesanti soltanto sul piano dei diritti civili ed economici degli ebrei colpiti, ma compromisero la crescita della comunità che si impoverì e diminuì notevolmente anche il numero dei matrimoni tra ebrei, non toccati dalle misure repressive, e quindi al natalità con rischio di estinzione, quello che in fondo era il desiderio inespresso del regime.   

Nella 4^ sezione, “Definizione e censimento”, viene documentato un momento importante, il censimento,  che ha la grave responsabilità di consentire di individuare  con precisione le persone “potenzialmente perseguitabili”,  e non solo con misure amministrative come in una prima fase.  Furono censiti oltre  58 mila individui con ascendenti ebrei, si dichiararono ebrei  quasi 47 mila, di cui più di 37 mila italiani, gli altri stranieri, l’1,1% della popolazione. Bastava un genitore di razza ebraica per essere censito come ebreo se aveva mantenuto tale religione.  Veniva richiesta in modo perentorio la “denuncia di appartenenza alla razza ebraica”, come vediamo in un manifesto del Podestà di Fiume,   pena l’arresto e l’ammenda per chi non ottemperasse spontaneamente.

Oltre a documenti, statistiche e fotografie, è esposta una serie di”tavole genealogiche”  con incroci di componenti  a palline rosse o blu poste a triangolo, per definire l’appartenenza alla “razza ebraica” o alla “razza ariana”. Sembra una farneticazione, ma sono state  emesse nel settembre 1938 dalla “Direzione Generale per la Demografia e la Razza”, chiamata “Demorazza”, istituita “ad ho”” insieme all’ “Ufficio studi del problema della razza” presso il Ministero della cultura popolare.. 

L’estromissione degli ebrei dal lavoro, le proprietà e l’istruzione

E siamo all’applicazione, la 5^ sezione riguarda  “Lavoro e proprietà”,  gli ebrei identificati con i criteri cui si è accennato furono espulsi dalle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche, compreso il settore dei trasporti, e anche dall’amministrazione di imprese private e da banche  e assicurazioni, nel 1939 tocca alle libere professioni di tutte le categorie: come avvocati e notai, ingegneri e architetti, geometri  e ragionieri, medici e veterinari, chimici e farmacisti.

Tra il 1939  e il 1942 è il turno degli insegnanti privati e dei lavoratori in imprese “ausiliarie alla produzione bellica”, come i cantieri navali, la Fiat, la Montedison e la Magneti Marelli; nonché dei commercianti, anche del commercio ambulante in cui la comunità ebraica era molto attiva,  e degli addetti ai servizi di ogni tipo: affittacamere, venditori di preziosi e di oggetti sacri, perfino i gestori di scuole da ballo e i saltimbanchi, i venditori di stracci e gli allevatori di piccioni viaggiatori, nemmeno il senso del ridicolo frenò l’estromissione dal lavoro.

Ne seguì l’impoverimento delle famiglie, cui fu negato  qualunque sussidio.

L’ostracismo degli ebrei riguardava anche le proprietà, che non potevano essere detenute per quanto superava l’estimo di 50 mila lire per i terreni e di 20 mila lire, la parte eccedente andava a un ente apposito.

Tutto ciò è esemplificato in documenti  dei Ministeri e delle Questure nonché in lettere di licenziamento di banche, oltre  a perizie con distinta la quota ammessa da quella espropriata, oltre a fotografie dei negozi sbarrati  e ad elenchi sul ritiro delle tessere, come  per l’ingresso nella Borsa.   

L’applicazione al settore dell’“Istruzione e cultura”, cui è dedicata la 6^ sezione, fu radicale, gli ebrei furono esclusi da tutte le scuole pubbliche fino all’Università, salvo gli universitari che avevano già iniziato il ciclo di studi,  mentre altri paesi antisemiti si erano limitati al numero chiuso. Subirono la stessa sorte docenti e studenti ebrei, gli alunni espulsi potevano frequentare le scuole di associazioni ebraiche, a parte i casi di classi separate nelle scuole pubbliche, l’effetto sarebbe stata la drastica riduzione del loro numero nelle libere professioni, peraltro già precluse. Analoga esclusione della loro presenza dall’editoria, dall’arte, da ogni settore dello spettacolo.

Nelle scuole pubbliche furono eliminati non solo i libri di testo di autori ebrei, che da allora non furono più editi,  ma anche i libri di autori “ammessi” che però citavano ebrei morti dopo il 1850, la precisazione burocratica del discrimine temporale aggiunge sconcerto a sconcerto.    I giornali con i titoli a 9 colonne e una serie di documenti ufficiali, come lettere dei Ministeri,per quello dell’Interno da parte della “Direzione generale per la Demografia e la Razza”  fanno rivivere questa atmosfera terribilmente xenofobica con il paradosso che riguardava italiani veri e propri.

Fa effetto  l’elenco di “114 ebrei purosangue”  ma ancora di più il numero  degli esclusi dalle scuole: nelle elementari 100 e nelle medie e superiori 279,  all’università 96 più 200 liberi docenti e 133 aiuti e assistenti, oltre 800, e alcune migliaia di studenti. E i nomi lasciano senza fiato, alcuni di fama internazionale nella fisica e chimica, economia e diritto, medicina e letteratura, storia e storia dell’arte. Citiamo coloro che diventeranno premi Nobel, Emilio Segrè, escluso dall’insegnamento, Franco Modigliani e Rita Levi Montalcini esclusi dagli studi. Aggiungiamo solo alcuni nomi: Vito ed Edoardo Volterra e Federico Enriquez, Guido Castelnuovo ed Eugenio e Guido  Fubini, Giuseppe e Mario Giacomo Levi, Del Vecchio e Luzzatto,  D’Ancona e Momigliano.  Colpiscono le copertine di libri scritti o curati da  ebrei  tolti dalla circolazione, Si potrebbe pensare che sono testi politici ritenuti eretici rispetto alla mistica di regime, tutt’altro. Tra quelli vietati,  i testi letterari riguardano “La Divina Commedia esposta al popolo” di Eugenio Levi e “Sommario di storia delle civiltà antiche” di Arnaldo Momigliano,  “Le più belle novelle italiane” di Giuseppe Morpurgo e “Fiabe vecchie e nuove di Zia Mariù” di Paola Carrara Lombroso”. Possibili metafore nascoste?  Non è questo il motivo, perché sono vietati anche l”Algebra complementare. Teoria delle equazioni” di Salvatore Pincherle e il “Manuale di cultura musicale” di Arnaldo Bonaventura; perfino il  “Vocabolario delle lingue italiana  e tedesca” di Massimo Grunhut,

L’ossessione antiebraica, stimolata e portata al parossismo dal patto stretto con il potente alleato la prodotto questi accessi di stupidità che farebbero sorridere se non ci fossero state le misure ricordate nel settore cruciale dell’istruzione e della cultura.

Benedetto Croce, con un lettera del 21 settembre 1938 sul questionario trasmessogli in ritardo per il “censimento” degli ebrei nelle accademie e nelle istituzioni culturali,  ridicolizza  i richiedenti affermando: “In ogni caso io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo”; e concludendo:che sarebbe “arrossito” dinanzi “all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata”. Purtroppo fu una delle poche lodevoli eccezioni, lo vedremo prossimamente dando conto delle 7 restanti sezioni della mostra, tra cui quella sulla  posizione degli italiani non ebrei. 

Pierfranceschi, architetto dell’uomo nella natura, al Museo Bilotti

di Romano Maria Levante

La mostra “Maurizio Pierfranceschi. L’uomo e l’albero” espone al Museo Carlo Bilotti di Roma, dal 18 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018  una selezione di 50 opere dell’artista, pitture e sculture,  sul rapporto tra uomo e natura, architettura e paesaggio. La mostra, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla crescita culturale, si avvale dei servizi museali di Zétema, Progetto cultura, ed è a cura di Fabio Cafagna, catalogo delle edizioni Solfanelli.

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Una mostra con diverse facce, che compongono l’immagine di un artista poliedrico, legato alle sue radici, coerente con la sua formazione.

E’ un artista che in un colloquio del 2005 con Carlo Alberto Bucci si è definito “muratore”,  dando questa spiegazione: “A me interessa la costruzione architettonica del quadro, che cresce con un’orizzontale, una verticale, un pieno e poi un vuoto”. Come una muratura, dunque,  una  composizione le cui parti si sostengono tra loro.

Ma per noi è anche un architetto,  come emerge dalle sue parole successive secondo cui nel quadro “c’è una forza costruttiva che lo anima e una forza psichica che deve abitarlo”.  E lo paragona a “un chiostro che è aperto e riparato al tempo stesso, costruzione e natura”. :Solo un architetto può fare tale progettazione  che poi il muratore tradurrà in vani costruiti con l’accortezza spiegata all’inizio.

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La visione della natura, l’uomo e l’albero

Costruzione e natura sono abbinate non solo in modo simbolico, in alcuni suoi dipinti è la natura con i rami degli alberi a fornire l’architettura della costruzione compositiva.  Mentre non lo interessa il paesaggio con gli orizzonti lontani che può scoprire, “sa troppo di racconto, ed io voglio fare pittura, e non letteratura”. E per lui la pittura è costruzione:  “Dipingo rami e rovi perché sono strutture architettoniche”.  

Questa visione della natura ispiratrice dell’arte viene da lontano, dalla tesi di laurea che, come ricorda il curatore Fabio Cafagna, concepì come una lettera ad Alberto Burri, forse in omaggio ai suoi “sacchi” artistici che gli ricordavano il lavoro dei contadini nelle Marche, di cui descriveva la mappa agreste  paragonandola a un “intarsio di piccole tarsie dalle sottili variazioni cromatiche”.

E’ una natura legata all’uomo dal duro lavoro dei campi,  binomio riassunto  nella sua prima opera, “L’uomo e l’albero”, un piccolo dipinto che nel 1985 fu esposto alla galleria romana “Ferro di cavallo”, nel quale la figura umana ha un che di primordiale e insieme di primario, come del resto l’esile alberello.

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Questo quadro apre la mostra con  un “ouverture” altamente simbolico ed evocativo nella sua icastica essenzialità che riporta  a sculture classiche, pure  al centro della sua attenzione. “La schematicità della composizione – commenta Alberta Campitelli – ci comunica  l’essenzialità della vita, la vita che è natura in tutte le sue espressioni”.

Anche  nel recentissimo bassorilievo in terracotta bianca  “Et in Arcadia ego”, 2017, le figure umane sono  primordiali ed essenziali  e non manca neppure l’albero, altrettanto evocativo.

Nell’ anno precedente, il ritorno esplicito al motivo del suo primo dipinto sopra citato, in “L’uomo e l’albero nuovo”,  2016, un’opera spettacolare di quasi 2 metri e mezzo di altezza per oltre 3 metri di larghezza, costituita da otto pannelli in legno uniti percorsi da venature che compongono una trama  variegata, le “piccole tarsie”  dei campi arati della sua regione di origine, lo stesso ambiente contadino che il curatore trova nella fotografia dei genitori e dei nonni, con la natura scabra e arida della campagna marchigiana e la rigidità alla Rousseau delle persone.

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E aggiunge, citando la tesi di laurea dell’artista, che oltre al “Doganiere”, nel suo “albero genealogico” ci sono Sironi e Morandi, Campigli e Piero della Francesca, Wiligelmo, Klimt e “il maestro Burri”. “E’ un universo – per la Campitelli – il cui perno è sempre l’uomo e il suo rapporto con la natura”.  Non è la riproduzione della fotografia in cui le figure sono allineate la scultura in terracotta rossa “Gruppo di famiglia“, 2017, ma di certo il pensiero torna al gruppo di allora, come per “L’uomo e l’albero nuovo”.

Di questa grande dipinto vogliamo mettere in luce la straordinaria continuità artistica e compositiva con la prima opera di cui reitera il titolo attualizzandolo, anche se la scena è più animata, non si vede solo una figura umana e un albero spoglio, ma altre presenze e ombre  in  un’atmosfera velata. “C’è la forza della natura e quella di alcuni legami familiari evocati da figure animali  e umane – osserva Carlo Alberto Bucci – c’è una pittura fatta di molte, lente velature e c’è, all’opposto, ma lì accanto, colore spesso steso a corpo. La sintesi (forse volutamente non cercata) delle diverse  anime è ardita in questa grande metafora della vita”.  Il colore esplode al centro dove, collocata su un ramo da una sorta di elfo dei boschi, una arancia  gialla dà luce al dipinto. E’ lo stesso artista a farcela notare  durante la visita alla mostra, dicendo che l’approdo all’aranciera di Villa Borghese del suo quadro con l’arancia in bell’evidenza  è stata una fortuita quanto significativa combinazione.

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Il “Ninfeo” pittorico e l’autoritratto rivolto verso il ninfeo barocco dell’aranciera

Non è stata una combinazione la realizzazione dei 4 grandi pannelli del “Ninfeo”,  un trittico  con i due pannelli laterali a forma quadrata di 2 metri di lato, quello centrale largo 2 metri e mezzo come il fregio alto 1 metro, veramente monumentale.  Li ha dipinti nel 2016  per la sala dove sono esposti dirimpetto  al ninfeo barocco dell’aranciera,  da cui sono separati dalla grande vetrata che fa da parete:  “Il  ninfeo, come il chiostro – commenta Cafagna – opera dell’uomo ma perfettamente integrato nella natura, della quale imita e sviluppa le forme, diviene la metafora perfetta del modo di lavorare dell’artista, il “luogo assoluto”. E conclude: “L’incessante instabilità che si crea tra interno ed esterno, tra artificio e natura, è la chiave di volta della poetica di Pierfranceschi”.

Guardiamo il suo “Ninfeo”,  si sente una profondità ancestrale, arcaica nei tre ambienti oscuri che sembrano penetrare nell’essenza della materia,  quasi ci fosse Diogene con la lampada che si può intravedere nella forma sulla destra, nel fregio forme sfumate di pellicani che si muovono nel buio.  Ci voltiamo dalla parte opposta della sala per guardare il ninfeo barocco oltre la vetrata e abbiamo una sorpresa, non lo guardiamo soltanto noi ma anche il viso dell’artista in terracotta bianca, l'”Autoritratto con passero” rivolto all’esterno  in un muto collegamento, quasi a dimostrare “l’incessante stabilità” tra “artificio e natura” di cui parla Cafagna, è recentissimo, del 2017.    

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Ma c’è di più, i due occhi guardano ma non vedono  perché quello destro spalancato è svuotato, senza pupilla come nelle statue antiche, il sinistro è socchiuso:”E’ l’occhio del sognatore – ha detto l’artista – più pronto ad ascoltare i richiami e i suggerimenti della natura”, sussurratigli all’orecchio sinistro  dal passero con le piume colorate, che della natura è un simbolo, poggiato sulla sua spalla.

Il salone diventa così un set teatrale con la grande tavola “L’uomo e l’albero nuovo”  nella parete di fondo più corta, il trittico del “Ninfeo”  nella parete adiacente molto  più lunga, al centro l’autoritratto che guarda senza vedere verso il  ninfeo barocco all’esterno. Così Cafagna: “Nello scarto tra i due occhi della scultura sta il doppio registro estetico dell’arte di Pierfranceschi: romantica e ponderata, riflessiva ed estroversa, aperta verso orizzonti infiniti e racchiusa nei meandri della coscienza”.

Bucci parla di “doppio sguardo”, di “Giano bifronte che segna l’inizio e la fine, il passato e il futuro”;  e immagina che – a somiglianza di Rubin scultore e Arkin storico dell’arte,  personaggi descritti da Bernard Mahamud in “Il cappello di Rembrandt”, opposti di carattere ma uniti nell’insegnamento e non solo –  “nel lavoro (se non proprio nella persona) di Pierfranceschi vivano due anime in contrasto, anche violento, eppure complementari. L’una è mondana, colta, suadente cittadina. L’altra è silenziosa, rude, ‘ignorante’, contadina”.

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Per la prima anima vale una biografia ricca di mostre.. Dopo la prima mostra del 1985, negli anni ’80 e ’90 esposizioni a Roma e Milano, Mosca e Leningrado, nel 1992 è uno dei dieci artisti italiani selezionati per la mostra “Giappone Italia Giovani generazioni” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 1993 è a New York e nel 1996 alla XII Quadriennale d’Arte di Roma. Poi a Bologna e Treviso, Cagli e Rimini, Copparo (Ferrara), Virgilio (Mantova) e  San Gabriele (Teramo) alla “Nona Biennale di Arte Sacra”. Soprattutto a Roma le mostre sono  sempre più numerose, da Ciampino alla “Galleria Il Segno”, dalla “Temple Gallery” al Chiostro del Bramante.

Questa anima mondana e cittadina convive con l’anima silenziosa e contadina espressa dalla fotografia dei genitori con i nonni, una vera e propria carta d’identità del nostro artista specchio della sua terra di origine, la campagna marchigiana.

Gli altri dipinti, interno-esterno, i rami come strutture antropomorfe

Uno sguardo verso l’esterno anche nel “Dittico”, 2017, questa volta è un dipinto con una figura femminile appena abbozzata,  la testa da manichino metafisico rivolta verso un esterno oscuro con forme indistinguibili. Torna la famiglia,  sembra si tratti della figlia dell’artista, che dalla finestra della sua stanza guarda fuori; al chiarore dell’interno si contrappone l’oscurità all’esterno.. Pure in “Vista sui naufragi”, 2015, la contrapposizione interno-esterno è del tutto evidente.

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Torna l’albero  in un altro dipinto, “Agnus Dei”, 2016,  al centro  di una scena notturna ancora più indecifrabile con una dissolvenza  nella quale  si percepisce un oggetto dalla forma e l’aspetto di un televisore,  forse anche qui l’interno giustapposto all’esterno, e un albero stilizzato i cui rami sono dei filamenti che si aprono verso l’alto, è molto più esile del primo albero del 1985.

Sono passati oltre trent’anni, è come se  l’artista stesse sconfinando nell’astrazione, ma prima, nel 2012, ci sono state le “Metope”, dal richiamo classico nel nome quanto mai eloquente:  nei 6 dipinti esposti, numerati in ordine progressivo, dove i rami sono invece le strutture portanti della composizione progettata dall’architetto con una visione antropomorfa  in cui uomo e natura, e precisamente uomo e albero con i suoi rami, sono assimilati e uniti nella concezione  panica.

Alcuni rami prendono forme umane, altri costituiscono l’architettura del dipinto, in una evoluzione che, nelle opere esposte, parte dal “Paesaggio convulso” del 1990 e  si sviluppa nella “Deposizione”, la “Melanconia” e “Dopo la battaglia”, tutti e tre del 2009, in cui non si avverte ancora la compenetrazione antropomorfa ma i rami diventano  protagonisti che sembrano parlare.

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Andando indietro nel tempo, nel 1995 vediamo come per la solidità compositiva il “muratore” non ha bisogno neppure dei rami, basta il colore, ed ecco “Architettura in rosso” e “Architettura in giallo  e blu”.

Le metamorfosi scultoree delle “cose ultime”

Un “architetto” dell’arte come Pierfranceschi, oltre ad esprimersi in pittura non poteva non farlo anche nella scultura dove le forme e i volumi sono ancora più dominanti, quindi richiedono particolare attenzione alla solidità della struttura compositiva. Abbiamo visto finora 3 opere in terracotta, in due bianca, in una rossa, tutte con un grande equilibrio nei loro contenuti evocativi.

Ma c’è un altro filone nel lavoro scultoreo dell’artista, lo vediamo nell’angolo della mostra dove sono presentati molti oggetti di vari materiali, soprattutto legno e ferro, marmo e gesso, forse troppo affastellati  in uno spazio ridotto per avere il rilievo che meritano. Alla base di questa scelta espositiva alquanto riduttiva,  ci potrebbe essere l’idea che anima l’artista in questa serie di sculture: poiché si tratta di dare nuova vita a materiali ed oggetti di uso comune che sono stati abbandonati e destinati  a scomparire, il loro recupero per un uso diverso non deve enfatizzarne l’umile contenuto.

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L’utilizzazione di materiali recuperati in vario modo lo troviamo in molti artisti, ne citiamo tre presentati a Roma negli ultimi anni, l’americana Louise Nevelson, il libico Wak Wak, l’italiano Alessio Deli: la prima assembla in vario modo tavole e parti di mobili in legno traendone  pannelli spettacolari, il secondo recupera materiale bellico per sculture evocative, il terzo prende nelle discariche gli elementi soprattutto di ferro con cui compone sculture di piccole dimensioni,  come piante e altro, e grandi statue. Pierfranceschi, invece, non si serve del materiale recuperato come materia prima ma come oggetto della sua scultura con interventi minimali volti più che altro a innestare un materiale sull’altro per dargli un significato avendo perduto del tutto quello originario.

“Queste cose – precisa Enrico Castelli Gattinara – possono aprirsi ancora a un’utilizzabilità altra, del tutto estranea a quella che le aveva destinate alla fine, eppure intrinseca ad essa. L’artista le usa per quello che sono, per come sono, proprio in quanto non respinti e consumati, vale a dire come cose ultime”. Lo fa così: “Le usa come un materiale quasi grezzo, e le sceglie solo se possiedono questa qualità. Per questo esse non sono ‘qualsiasi cosa’, ogni tipo di rifiuto o di scarto, ma solo quel particolare materiale di scarto, pezzo, residuo o frammento che in qualche modo ancora parla, o colpisce nel segno”. Ecco come li trova: “Li scorge, li raccoglie e li osserva con attenzione, con cura  (la cura che si riserva alle cose fragili), per leggerne la virtualità ancora presente in essi prima di essere definitivamente distrutti”.

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Ma non è una fragilità materiale, essendo duri e resistenti, bensì la fragilità intrinseca di chi è stato abbandonato perché divenuto inutile, quasi in un’antropizzazione degli oggetti inanimati. In fondo ci sembra di ritrovare  Geppetto che dal tronco di legno ricava il burattino che si anima e vive.

Anche gli oggetti recuperati da Pierfranceschi prendono vita dopo il suo intervento alla Geppetto, e come sia altamente nobile, e non soltanto dignitosa questa vita lo vediamo soprattutto dal Catalogo, dove ognuno di loro, a piena pagina, può esprimere appieno una forza espressiva che non appare nella stessa evidenza nella mostra dove sono affastellati numerosi in uno spazio troppo piccolo per valorizzarli come meritano.

C’è un altro aspetto intrigante che può evocare altre situazioni e correlazioni inaspettate, lo sottolinea lo stesso Castelli Gattinara: “Prima delle cose ultime, c’è infatti la loro relazione ancora aperta, la promessa di rapporti insospettabili e inimmaginabili, mai progettati e mai stabiliti: una risonanza e un’assonanza con altre cose  per cui non erano fatte e a cui non erano destinate. Qualcosa di fragile e di potente al tempo stesso, di cui l’artista si fa sensore, interprete e artefice”.

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Tre aggettivi  che  ci fanno sentire le varie fasi interconnesse in cui si svolge la creazione artistica, l’individuazione dell’oggetto, la comprensione del significato che può assumere, l’intervento minimale di adattamento e connessione ad altri oggetti. L’artista, prosegue il critico,  “raccoglie facendosi raccogliere, lasciandosi chiamare da questi oggetti dispersi e ponendoli in relazioni che la loro forma, la loro materia  e la casualità degli interventi subiti richiamano e talvolta pretendono”.

Di qui la presenza di più materiali, negli innesti di residuati diversi che li fanno rivivere in una forma composita nuova e con una funzione rinnovata, anzi rilanciata nell’arte: “Nessuno di questi pezzi era destinato all’altro, eppure adesso sembrano fatti per restare così, insieme in un equilibrio delle differenze e delle possibilità. Tutto si gioca nei punti di appoggio e nel gioco delle forze reciproche, dei pesi e dei materiali”. .

E tutto  avviene – afferma ancora Castelli Gattinara – “senza che prima ci sia stato  un progetto, un’intenzione, una pianificazione strategicamente elaborata”.   La Campitelli aggiunge la sua definizione evocativa di “materiali assemblati sapientemente per comporre un immaginario inedito che permette a chi guarda di proiettarvi le proprie visioni e suggestioni”.

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Forse per questo la serie del 1916 si intitola “Prima delle cose ultime”  senza titoli per le 15 opere che la compongono, se non il numero d’ordine. Vediamo un gancio di ferro arrugginito conficcato in un cuneo di legno poggiato su una lastra di travertino (# 1) e un tubo lungo e contorto di rame innestato su una pietra rotonda (# 2);  un piccolo pezzo di tubo di piombo fissato con un sottile fil di ferro a una base di marmo (# 3), come per un pezzo di legno posto in orizzontale (# 10); una base simile regge un pezzo di legno di quercia in verticale sorretto da un grosso fil di ferro (# 4) e  tiene anche una sorta di nastro metallico che s’innalza a volute (# 5), il pezzo di legno in piedi con il fil di ferro lo troviamo anche su una base di legno (# 11)  e di nuovo di marmo (# 12);  un legno stretto e alto posto in verticale innestato sulla base si ritrova in diverse opere (# 6, 7, 8), ma c’è anche una sorta di lima metallica posta in verticale (# 9);  legno più massiccio in due opere, in una nel blocco ligneo c’è un’apertura (# 13), nell’altra i  pezzi sono uniti da un cerchio metallico su una grossa base lignea ( # 14);  l’ultima opera della serie è una complessa costruzione con colonne di gesso che reggono una ciotola ovale di ferro obliqua, l’artista-architetto è sempre presente  (# 15).

Ci sono altre 11 opere, sempre con assemblaggio di materiali tipo quelli citati, ma con un titolo che questa volta  rimanda al contenuto, quindi ci basta citarlo. Sono  del 2015 “San Sebastiano” e “Paesaggio di sculture”, del 2016 “Urna” e “In colonna”, “Trio”, “Legàmi”, e “Rosa di pietra”, del 2017 “Kronos” e un’altra “Urna”, “Dolmen” e “Albero tra due case”.

Ritroviamo, dunque, anche qui l’albero con cui nel 1985 Pierfranceschi ha iniziato il suo percorso artistico, tornando su questo motivo in modo continuo nella pittura e nel bassorilievo in terracotta.

“Cantore di metamorfosi” lo definisce la Campitelli, e conclude: “Alcuni decenni separano le prime opere dalle ultime realizzate, ma il filo conduttore che le unisce è sempre presente, ed è la ricerca di mettere in luce la capacità della natura, in tutte le sue manifestazioni, di trasformarsi, di dar vita a forme nuove in una incessante metamorfosi”. Ci sembra questo il miglior modo per concludere anche noi la nostra immersione in un’arte così personale ma insieme così coinvolgente.

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Info

Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese. Viale Fiorello La Guardia, Roma. Orario, da martedì a domenica ore 10,00-16,00, sabato e domenica ore 10,00-19,00, lunedì chiuso, ingresso fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel . 060608. www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it. Catalogo “Maurizio Pierfranceschi – L’uomo e l’albero”, Edizioni Solfanelli 2017, pp. 82, formato 24 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri, articoli in questo sito, per gli artisti citati,nel 2013: Nevelson 25 maggio, Deli 26 aprile, Wak Wak 27 gennaio.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al museo Carlo Bilotti alla presentazione della mostra, si ringrazia, per l’opportunità offerta, la direzione del Museo con i titolari dei diritti, in particolare l’artista anche  per avere accettato di farsi ritrarre davanti a una sua opera. In apertura,  “L’uomo e l’albero” 2015, a destra l’autore, l’artista Maurizio Pierfranceschi; seguono il Ninfeo monumentale dell’Aranciera  di fronte all’“Autoritratto con passero” visto dal retro, e “Autoritratto con passero” 2017 visto di fronte in primo piano con dietro “Ninfeo” 2016; poi, “L’uomo e l’albero” 1985 e “Dittico” 2017; quindi, “Vista sui naufragi” 2015 e “Agnus Dei” 2016; inoltre, del 2012,  “Metopa 1″ e “Metopa 4”; ancora, “Metopa 5” e “Metopa 6”; infine, del 2009, “Dopo la battaglia” e “Deposizione”; conclude  uno scorcio dell’esposizione di Sculture 2016-2017, con nella parete il dipinto “Paesaggio di sculture” 2015; in chiusura, “Compianto” 2008.

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Palma Bucarelli, la Collezione donata alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante   

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nella Sala Aldrovandi,  la mostra “Palma Bucarelli. La sua collezione” presenta poco meno di 50 opere da lei raccolte nei quasi 35 anni di soprintendenza alla Galleria cui le ha donate con il lascito testamentario del 1998, alla sua morte. Sono esposte anche circa 10 fotografie in una celebrazione del  ventennale della sua scomparsa che porta a ricostruirne la figura, personale e professionale, nel quadro dei sommovimenti a livello artistico nel dopoguerra, nei quali è stata al centro con il suo spirito combattivo. La mostra è a cura di Marcella Cossu. In significativo parallelo nella stessa sala la mostra, a cura di Barbara Tommasi, “Renato Guttuso. Un uomo innamorato”, ma non di lei, che  apprezzava poco il suo realismo sui temi più scottanti della società rispetto all’approccio disimpegnato dell’astrattismo.

“Palma e sangue freddo”  la definì Marino Mazzacurati, altri “Palma dell’eleganza”,Regina di quadri” è nel titolo della biografia di Rachele Ferrario, “La sua vita e le sue passioni”,  lei amava dire “La Galleria sono io”. Queste definizioni ne riassumono l’immagine e i comportamenti, nel privato e nel ruolo per così dire istituzionale di soprintendente  della Galleria Nazionale d’Arte Moderna per  quasi 35 anni, dal 1941 al 1975. Un periodo lunghissimo nel quale ha potuto mettere insieme le tante opere d’arte lasciate poi alla Galleria Nazionale, che vengono esposte in questa commemorazione del ventennale dalla morte, in una sorta di “summa” delle preferenze con le quali ha orientato la sua direzione con mano d’acciaio nel guanto di velluto della sua raffinata eleganza.

Ma cominciamo dalle due prime definizioni sulla sua personalità e sul suo modo di porsi, che ne riflettono i dati caratteriali. Pur nella sua irruenza nel dare corso alle decisioni senza guardare in faccia a nessuno era fredda e contenuta, come se avesse un temperamento nordico.  

I suoi grandi occhi le davano un innegabile fascino, il pittore Vittorio Bodini li definì “occhi di ghiaccio, simili a quelli di un animale sacro”, avevano quel tanto di algido che ne raffreddava la bellezza. Era questa la sua corazza; , le ha consentito di resistere agli attacchi che da tante parti le vennero per le sue scelte controcorrente, incomprensibili agli occhi di molti perché anticipatrici e ben comprese nella loro importanza decisiva per coloro che erano schierati dalla parte opposta. Il  grande giornalista Vittorio Gorresio evidenziava, della sua anima, “il lato oscuro, spietato, ai limiti della crideltà”.  

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Non si pensi però a una persona scostante, tutt’altro. E qui interviene la sua eleganza sia nell’abbigliamento sia nel portamento. Si impegnava senza risparmio,  non solo nello studio dell’arte fino ad acquisire una profonda competenza, ma anche nel perfezionare la sua presenza pubblica al punto di andare a lezioni di dizione da Andreina Pagnani. Usava il vogatore per la ginnastica casalinga e sapeva sciare e nuotare, per imparare a cavalcare prese lezioni da D’Inzeo, aveva capelli alla Greta Garbo, sulla sua auto scoperta richiamava l’immagine cult della “donna al volante” della De Lempicka.

D’altra parte, è stata direttrice della Galleria Nazionale quando le posizioni di vertice erano soprattutto maschili e doveva resistere in una posizione così esposta, per di più si è trovata nei tremendi anni della guerra a dover prendere delle decisioni gravi e impegnative.

Ma andiamo con ordine nel ripercorrerne la biografia per poi entrare nelle sue valutazioni e orientamenti artistici con i quali ha dato un’impronta ben precisa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che vediamo riflessa nella propria collezione di un sessantina di opere raccolte donate per testamento alla Galleria. Ha inoltre lasciato le carte che documentano i suoi rapporti con artisti, intellettuali, autorità, all’Archivio di Stato  e la propria Biblioteca all’Accademia di San Luca; il suo elegante guardaroba guardaroba con i gioielli al Museo delle Arti Decorative Boncompagni Ludovisi di Roma.

Il percorso professionale e le prime scelte

Fu nominata soprintendente unica alla Galleria Nazionale nel 1941, dopo esserne stata ispettrice dal dicembre 1939 allorché il direttore Roberto Papini fu trasferito a Firenze. Era stata ispettrice alla Soprintendenza del Lazio dall’agosto 1937 e nel 1936 alla Soprintendenza di Napoli dove era giunta dopo tre anni di lavoro alla Galleria Borghese nella quale era entrata a 23 anni come prima destinazione dopo aver vinto il concorso per la carriera direttiva degli storici dell’arte insieme a Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi; nel 1936  nella sua vita entra il giornalista Paolo Monelli, che sposerà molti anni dopo, nel 1963.

I suoi studi si sono svolti a Roma dove si è laureata in Storia dell’Arte con Pietro Toesca e ha frequentato un corso di perfezionamento con Giulio Carlo Argan con il quale ha mantenuto una stretta intesa. Nell’infanzia e adolescenza i  trasferimenti del padre, funzionario prefettizio, le hanno fatto cambiare più volte ambiente, è vissuta soprattutto nell’Italia settentrionale e in Libia a Tripoli.

Scoppiata la guerra dopo la nomina a soprintendente nel 1941,  ha dovuto affrontare la situazione di emergenza dovuta ai fondati timori di bombardamenti, mette in salvo le opere d’arte prima fuori Roma al Palazzo Farnese di Caprarola, poi quando i dintorni della capitale diventano sempre più insicuri le fa riportare a Castel Sant’Angelo sotto la protezione del Vaticano anche dalle mire predatorie dei tedeschi che furono frustrate per i tesori di Montecassino in cui l’evacuazione ad opera dei tedeschi fu scortata dai frati in contatto con il Vaticano.

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Il diario su un  anno cruciale come il 1944, “Cronache di sei mesi”,  è eloquente, anche perché la Galleria riaprì con 11 sale dedicate alle opere di giovani pittori italiani. Tra loro Morandi e Savinio, mancano invece de Chirico e Guttuso, che lei tenderà a trascurare per scelte sempre più orientate verso le avanguardie italiane e internazionali, era una fase in cui si faceva strada l’astrattismo.

Concepisce “il Museo come avanguardia”, per usare il titolo del saggio su di lei di Mariastella Mangozzi del 2009, in occasione di una mostra alla Galleria Nazionale, cioè come un’istituzione avanzata e non conservatrice com’era allora l’immagine museale.

Per essere tale, sostiene  che  il pubblico nel museo deve poter avvicinare e comprendere tutta l’arte, inclusa quella del presente. Ma perché non resti incompresa lei si adopera per svolgere una vera e propria politica culturale con una funzione educativa, tanto che già dal 1946 apre una scuola, con l’aiuto di Lionello Venturi.

Il suo impegno in questa direzione si manifesta soprattutto nelle mostre e nelle acquisizioni di opere d’arte, orientate verso le tendenze più avanzate come l’astrattismo, che mancavano totalmente nella collezione preesistente; l’esigenza di colmare la lacuna diviene presto una scelta definitiva che difese da tutti gli attacchi. Lo fa dando un respiro internazionale all’attività della Galleria Nazionale, stringe rapporti con i maggiori musei del mondo, europei, giapponesi e  americani.   

Organizza due mostre innovative in tre anni, nel 1948 “Arte astratta in Italia”, nel 1951 “Arte astratta e concreta in Italia”, alle quali partecipano Corpora e  Consagra, Dorazio e Scialoja,  Capogrossi e Turcato.

Tra gli artisti internazionali dà spazio a Klee e Picasso, Ernst e Moore.  I suoi  orientamenti  si manifestano anche negli acquisti della Galleria Nazionale, e questo provoca anche l’intervento dei politici che ne contestano gli indirizzi di spesa per opere di cui contestano il valore artistico.

L’escalation nel segno dell’anticonformismo

Si identifica sempre più con la Galleria Nazionale, al punto da trasferire la propria abitazione nel 1952 in un appartamento posto in un’ala dell’edificio della Galleria. Negli anni successivi si susseguono le mostre di artisti di arte contemporanea all’avanguardia per il loro stile astratto e informale, ma non trascura l’aspetto didattico accompagnandole con cicli di conferenze esplicative.

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Eloquenti  le mostre negli anni ’50, da quella sui  “Pittori astratti americani” nel 1950, a  Picasso nel 1953 e a Mondrian nel 1956, a  Pollock nel 1958 e a Burri nel 1959; negli anni ’60 quelle di Moore nel 1961 e Rothko nel 1962, Pascali nel 1969, seguita da quella di Manzoni nel 1971 .

Al centro delle nette contrapposizioni tra astrattismo, realismo e figurativo, ne fu contestata anche la gestione, fino all’accusa di una spesa folle per acquistare il “Sacco grande” di Burri, peraltro avuto gratuitamente.  Giulio Carlo Argan e Lionello Venturi sono dalla sua parte. Entrò in aspri contrasti per l’aperto dissidio con de Chirico e la sottovalutazione di Guttuso.

Negli anni  si fa sempre più evidente la sua dimensione e notorietà internazionale: la vediamo nel 1961 negli Stati Uniti, invitata per un ciclo di conferenze; poi in Canada, Brasile e Giappone. Il presidente della Repubblica Segni  la nomina commendatore.

Il suo anticonformismo nelle scelte artistiche la porta a spingersi sempre più avanti nel fare spazio alle novità anche quando sono contestate, citiamo per tutte che nella mostra del 1971 Piero Manzoni presentò “Merda d’artista”, opera non solo esposta ma anche acquistata dalla Galleria Nazionale.

Naturalmente reagisce da par suo alle accuse dimostrando la propria correttezza, la sua immagine non ne viene di certo appannata, nel 1972 viene  insignita della Legione d’Onore  francese e del titolo di Accademica di San Luca, nel 1975 dell’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica.

E’ stata una lunga vita nel segno dell’arte, è scomparsa a Roma a 88 anni nell’estate1998, le è stata intestata una strada nelle vicinanze della Galleria Nazionale ed è stata posta una targa tra le palme che piantò lei stessa; prima di quella attuale fu organizzata una mostra per lei nel 2009.

Il suo “modus operandi” è stato ricordato dalla direttrice della Galleria Nazionale che ha preceduto quella attuale, Maria Vittoria Clarelli, con queste parole: “Palma sosteneva che  ‘il museo deve esercitare giudizio e critica; non è un arbitro, ma un attore che prende posizione. Lei rivendicava quindi il diritto di scegliere quali artisti e quali movimenti sostenere e comprare». Difendeva le sue scelte in prima persona affrontando le forti polemiche che ne seguivano.

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Particolarmente aspra quella suscitata dalla valorizzazione del pittore e scultore Jean Fautrier, nella quale fu sostenuta da Ungaretti oltre che da Argan, sempre molto vicino a lei. L’artista parigino, autore del ciclo “Ostages” sulle vittime dei lager nazisti, non aveva ricevuto apprezzamenti in Francia, salvo un giudizio di Malraux, mentre lei lo presenta alla XXX Biennale di Venezia e ne acquista un quadro per la Galleria Nazionale.

Il fatto che Fautrier vinse il primo premio a pari merito con Hans Hartung,  indicava che lei aveva visto giusto, ma accese di più gli attacchi, in particolare dall’ “Espresso” con Manlio Cancogni – il giornalista dell’inchiesta dirompente “Capitale corrotta, nazione infetta” – perché fu considerata un’azione con finalità commerciali, in effetti le quotazioni dell’artista salirono notevolmente. Ma sia lei che Argan avevano sostenuto la sua importanza nell’arte informale, e lei lo aveva motivato in una biografia critica su di lui nel 1960. Da allora il suo orientamento in tale direzione si accentuò maggiormente.

Abbiamo citato questo episodio sia perché è stata una polemica particolarmente significativa tra le tante nelle quali è stata coinvolta; sia perché 3 opere di Fautrier e un’opera di Hartung, i due vincitori ex aequo della Biennale veneziana citata, fanno parte della Collezione donata alla Galleria Nazionale e sono esposte nella mostra attuale.

Passiamo dunque in rassegna le 46 opere esposte, di cui 28 astratte, 15 figurative e 3 particolarmente ardite, di quelle che lei accettava volentieri, come era stato per la “Merda d’artista”.

La sezione astratta della Collezione

L’orientamento da lei dato alla Galleria Nazionale negli anni ’50 e negli anni ’60 verso l’informale e l’arte astratta nazionale e internazionale  con le esposizioni  e i relativi acquisti si riscontra nella sua Collezione in una sezione astrattista di 28 opere.

Nello scorrerle tornano alla mente le contrapposizioni tra i  gruppi che si andavano formando e scomponendo, ricordiamo il “Fronte nuovo delle Arti” che cambiò orientamento verso l’informale sorprendendo al ritorno da un viaggio a  Parigi Renato Guttuso, tra i fondatori, il quale non poteva accettare la sconfessione del realismo, creando un rottura insanabile che portò allo scioglimento del gruppo dopo due anni di polemiche.

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Ne facevano parte Birolli e Corpora, Fazzini e Leoncillo, Morlotti e Pizzinato, Santomaso e Viani, Turcato e Vedova. Di Giulio Turcato vediamo esposte 3 opere, 2 degli anni ’40, il “Ritratto di Palma Bucarelli” 1944, e “Rivolta” 1948, e una di oltre un ventennio dopo, “Arcipelago” 1970. Il rapporto con Turcato si protrasse nel tempo come dimostra l’opera del 1970, era tra i giovani artisti delle prime mostre del 1948 e del 1951 dedicate all’arte astratta.

Altri artisti di quelle prime mostre di cui vediamo opere della Collezione esposte sono Toti Scialoja, “Senza titolo” 1954, e due artisti con 2 opere ciascuno: Pietro Consagra, “Plastico in lamiera di ferro” 1949, e “Autoritratto” 1951, Piero Dorazio, “Senza titolo” 1949, e “Nebula” 1962.  Enrico Prampolini è presente con “Dissonanze N. 1” 1955.  

I “Senza titolo” sono caratteristici dell’astrattismo, come possiamo vedere nella Collezione in una serie di opere  non intitolate. Sono le due sculture di Umberto Mastroianni, tra il 1965 e il 1973, e le opere di Vassilij Kandiskij 1939, di Fausto Pirandello 1955-60, e di Mimmo Rotella 1962.

Anche “Senza titolo” le 3 opere del 1957 di Jean Fautrier, la pietra dello scandalo della 30^ Biennale di Venezia, anche se una viene definita “Testa di partigiano” e l’altra “Frog pond”; e anche l’opera del vincitore con lui Hans Hartung 1958. Tra il 1958 e il 1965 l’opera di Antoni Tàpies, “Composizione in nero”.

Di Andrè Masson vediamo esposte 2 opere, “Senza titolo” 1956 e “Passage d’un Chasseur” 1957, così di Nino Franchina, “Senza titolo” 1953-58, e “Orfeo” 1950-60, e Carla Accardi, “Composizione” 1950 e “Frammenti” 1972, in un arco temporale di oltre vent’anni.

Due opere anche per Giuseppe Capogrossi,Superficie 76 bis” 1954-58, e “Superficie 523”,1963, le sue forme caratteristiche sono un sigillo inconfondibile.

L’ultimo autore che citiamo della sezione “astrattisti”  è Dario Cecchi, il suo “Ritratto di Palma Bucarelli” 1946-47 si unisce agli altri due ritratti della soprintendente esposti nella mostra, quello astratto di  Turcato, del 1944, già citato, e quello figurativo di Savinio che citeremo.

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La sezione figurativa

Cospicua anche la sezione figurativa, anche se con un numero di opere pari alla metà di quelle astratte o più avanzate, al contrario di ciò che si può pensare per la predilezione e la promozione degli astrattisti che le ha fatto sfidare i conservatori di un mondo ancora tradizionalista non disposto a fare largo alle avanguardie, e all’arte astratta che si andava affermando sempre più all’estero. Invece è scontata l’assenza nella sua Collezione di opere di De Chirico e di Guttuso, di cui abbiamo ricordato la sottovalutazione unica pecca, a nostro avviso, nella gestione della Galleria Nazionale. 

Due mostre ricompongono, in qualche modo, il rapporto tra questi due grandi artisti e la Galleria Nazionale: quella del 2009, “De Chirico e il museo” che fu parallela alla mostra dedicata allora alla Bucarelli, e l’attuale mostra anch’essa significativamente parallela a questa, “Renato Guttuso, Un uomo innamorato”. 

C’è inoltre un significativo parallelismo tra il lascito testamentario della Collezione da parte della Bucarelli nel 1998 e il lascito di 11 opere nel testamento di Guttuso, destinataria di entrambi naturalmente la Galleria Nazionale. Il lascito di Guttuso fu accolto alla fine degli anni ’80 dal soprintendente Eraldo Gaudioso con parole che sottolineavano la lacuna per la sottovalutazione protrattasi tanto a lungo: “La presenza di Guttuso in Galleria, finora limitata a dipinti di certo notevolissimi ms cronologicamente scalati in un ristretto numero di anni, si dilata a tutto l’arco dell’attività dell’artista e assume un peso pari al reale valore che Guttuso ha avuto nelle vicende dell’arte contemporanea italiana”.

“Reale valore”, dunque, che è stato ignorato per una scelta precisa, quasi di natura ideologica oltre che artistica. Ma la si può capire, tornando alla spaccatura di allora tra artisti e critici, alle polemiche su due fronti contrapposti, in cui entrò anche la politica,  che richiedevano di schierarsi, e una combattente come la Bucarelli non poteva mediare con la sua predilezione chiara come la sua determinazione.

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Comunque, a stare alla Collezione, non sembra esserci stato in lei un ostracismo verso il figurativo, come sembra vi fosse verso la pittura metafisica e il realismo; la sua apertura all’astrattismo non sarebbe dunque esclusivista, se delle 46 opere esposte 15 sono figurative, una compresenza rassicurante sulla rappresentatività di una simile raccolta, De Chirico e Guttuso a parte.

Del resto, il fatto che Picasso alternava nello stesso periodo e non in un processo evolutivo, opere cubiste ad opere neoclassiciste sta a significare che non c’è alcuna contraddizione tra i generi.

Vi sono anche due autori stranieri, mentre tra gli astrattisti ne abbiamo visto 5, Fautrier e Hartung, Tàpies, Masson e Kandinskij.qui  vediamo  Hans Richter,  “Bass + Cello” 1917.

Con un’opera abbiamo Scipione (Gino Bonicchi), “Bozzetto per la copertina di ‘Fronte'” 1931, e Afro (Afro Basaldella) “Ritratto di Leda Mastrocinque” 1941, Filippo De Pisis, “La vecchia alsaziana” 1948, e Mario Mafai, “Natura morta con peperoni” 1951.

Poi tre artisti con più opere, in progressione, Savinio, Mazzacurati e Morandi.

Di Alberto Savinio, “Ritratto di Palma Bucarelli” 1946, e “Ritratto di Paolo Monelli” 1951, la coppia ripresa separatamente ma i due quadri accostati la ricompongono idealmente, lui con l’inconfondibile monocolo, lei i capelli sciolti al vento, come sulla sua spider.

Anche Marino Mazzacurati presenta il suo “Ritratto di Palma Bucarelli”  1952, una testa in cera dall’espressione pensosa ben diversa da quella di Savinio di sei anni prima. Insieme a questo i precedenti “Ritratto di Marino Lazzari” 1944, e “Susanna al bagno” 1946-47.

Citiamo per ultimo, come avviene per l’apparizione della “star” chiamata sul palcoscenico, Giorgio Morandi, presente con ben 5 opere, un nucleo della Collezione che vale come una piccola personale. Due opere hanno il soggetto più noto di Morandi, “Natura morta con bottiglia e brocca” 1915, il più vicino agli inizi, segue “Bottiglie” 1957-59; tra loro “Natura morta” 1956. Poi 2 opere con un altro soggetto “Fiori”  1943-49 e “Vaso con fiori” 1946-48.

Le ultime opere e le immagini fotografiche

Di certo un finale in bellezza con il grande artista il cui figurativo lineare ha sedotto fin dall’inizio chi aveva predilezioni e orientamenti ben diversi; forse perché era avulso dalla realtà scottante che il realismo prendeva di petto, quindi una sorta di astrazione….

Sono esposte altre tre opere di artisti stranieri, ulteriore testimonianza dell’apertura alle innovazioni fino alle provocazioni. Due sono legate alla contestazione del ’68:  Pino Pascali, “Ruderi su prato” 1968, e Christo  (Christo Javacheff), “Ponte Sant’Angelo wrapped” 1969, il ben noto impacchettamento divenuto un’opera d’arte ricordato nella Collezione.   

L’ultima che resta da citare è di Henry Moore, “Mother with Child” 1917, la più antica tra tutte quelle esposte, e anche questa è una notizia.

In una mostra celebrativa del personaggio non potevano mancare delle immagini dirette. La vediamo in veste ufficiale fotografata all’inaugurazione delle mostre di Pablo Picasso nel 1953 con il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, di Piet Mondrian nel 1956 con Alver Aalto, di Jackson Pollock nel 1958 con Carlo Levi, di Alberto Burri nel 1976, quattro artisti che non esitò a promuovere quando non avevano raggiunto l’universale riconoscimento che poi è seguito. Inoltre in un ricevimento al Quirinale nel 1959 in onore dei Reali di Grecia. 

Ed eccola in due ritratti fotografici, uno di Ghitta Carell nel 1943, l’altro del 1957, e infine la vediamo fotografata con il bassotto Ariperto nel 1957, che chiamava Ari. Ha avuto anche il barboncino Donatello, che chiamava Don e lo scottish Michi.

Un video con l’intervista data da lei nel 1963 alla trasmissione della RAI “L’Approdo – settimanale di lettere ed arti”  conclude la ricostruzione a tutto tondo di un personaggio del quale sarà sempre ricordato lo spirito combattivo e innovatore, pronto a cogliere e valorizzare ciò che si muove nell’arte, al di fuori delle cautele e dei formalismi propri della conservazione.

Abbiamo citato quella che, a nostro avviso, è stata forse l’unica pecca motivata dal clima dell’epoca oltre che dalle sue predilezioni. Ma in fondo, nessuno è perfetto.

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 Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFreccia  di Trenitalia.  Il nostro articolo sulla mostra parallela “Guttuso. Un uomo innamorato”  è uscito in questo sito il 16 ottobre u. s.   Per gli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, Guttuso,  sulla mostra al Vittoriano 25 e 30 gennaio 2013, sulla mostra al Quirinale 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, Picasso 5, 26 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  Impressionisti e moderni 18, 27 gennaio 2016, cubisti 16 maggio 2013, Secessione 12, 21 gennaio 2015, Klee  1, 5 gennaio 2013, Mondrian 13, 16 novembre 2012,  Astrattisti  5, 6 novembre 2012, Pollock e altri del Guggenheim, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, De Chirico, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno, 1° luglio 2013; poi, 17, 21 dicembre 2016; sempre su De Chirico, in “cultura.abruzzoworld.com”, 8, 10,11 luglio 2010 De Chirico e la natura”, in precedenza, nel 2009, 27 agosto sui disegni e 22 dicembre sulla mostra alla Galleria Nazionale “Il lato nascosto dell’artista incompreso”, il 23 settembre con altri artisti del ‘900; a stampa in “Metafisica” n. 11-13 del 2013, pp.403-18, e nell’edizione in inglese “Metaphysical Art” 2013. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  direzione della Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura,  Alberto Savinio, “Ritratto di Palma Bucarelli”  1946;  segue, dello stesso Alberto Savinio, “Ritratto di Paolo Monelli”, 1951; poi alternati a 7 opere della collezione, i “Ritratti di Palma Bucarelli” di Giulio Turcato 1944, e Marino Mazzacurati, 1952, in cera, quindi un suo ritratto fotografico; in chiusura Christo (Christo Javacheff, “Ponte Sant’Angelo wrapped” 1969.

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Il ’68 nel cinquantenario, rievocazione e mostra alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

“E’ solo un inizio. ‘68” , così si intitola la mostra alla Galleria Nazionale dal  3 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018 che espone 75 opere simbolo della rivoluzione nell’arte provocata dal sommovimento  sessantottesco e nello steso tempo ha compiuto un’attenta riflessione su un periodo  della nostra vita civile così dirompente e controverso 50 anni dopo. Curatrice della mostra Ester Coen, catalogo Electa-Galleria Nazionale.

Celebrare il  ’68 dopo cinquant’anni con una mostra sembra doveroso ma nel  contempo  poco appropriato. Perché non è stata il campo artistico quello maggiormente investito dalla rivoluzione – o modernizzazione come si preferisce chiamarla – della contestazione studentesca che ha messo in  discussione soprattutto l’esercizio del potere in ogni campo e ad ogni livello, e l’arte non è certo il simbolo del potere, tutt’altro.

Ma la direzione della Galleria Nazionale ha magistralmente superato questa contraddizione affiancando alla mostra d’arte – pur doverosa per  dar conto degli evidenti riflessi sull’arte  in senso liberatorio – una ricognizione su cosa evoca il ’68 oggi presso  alcuni protagonisti e testimoni dell’epoca  e altri interlocutori con interventi e interviste svolte da  Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, Giovanna Ferrara e Mara Chiaretti, Donatella Fumarola e la curatrice Ester Coen. Con questo non intendiamo sottovalutare l’importanza delle 50 opere esposte, al contrario sottolineare l’interesse della riflessione sollecitata dalla rievocazione di ieri nelle valutazioni di oggi.

Il ’68 nella società e nel costume

Cominciamo  dalla rievocazione, partendo dal titolo della mostra  “E’ solo un inizio. 1968”. Ebbene, il suo significato viene visto in modo opposto, come “inizio della fine”  di tanti aspetti negativi della società borghese o, al contrario, della fine “non solo dell’università, delle professioni e di molte altre cose… ma anche dell’arte” nelle parole di Mario Perniola. inoltre viene vista come inizio di una stagione di violenza, da chi, come Andrea Cortelelssa invita a completare  “Ce n’est qu’n début”  “con quanto. sui muri di Parigi, veniva subito dopo : ‘continuons le combat”.  E i qui si fanno partire anche gli anni di piombo.

in queste antinomie una visione che ci è sembrata  appropriata è quella del Ministro  per i Beni e le Attività Culturali” Dario Franceschini, il quale, dopo aver riportato l’intera frase divenuta slogan del 1968 per essere gridata nei cortei e nelle aule e scritta sui muri, ha aggiunto l’altro motto “l’immaginazione al potere” per concludere: “Questi due motti rappresentano le due anime del movimento del 1968, due caratteri originali che avranno destini diversi”. Ed eccoli evocati: “Il primo, più politico, con l’inizio di una lunga fase di contestazioni e di mutamenti sociali; il secondo, più culturale, con una profonda e duratura influenza sulla produzione creativa di tutti gli anni a venire…  Niente  sarà più come prima dopo l’esplosione del 1968, che libererà energie, capacità, volontà fino ad allora inespresse dando il via  a una rivoluzione che ha segnato l’affermazione delle giovani generazioni sulla scena politica e sociale”.

Non sarà apprezzato aver citato come esegeta del ’68 un rappresentante delle istituzioni, quindi del potere borghese che  si intendeva abbattere, ma ci è apparsa la migliore introduzione alla nostra rapida rassegna.

 Consideriamo soltanto alcuni dei 20 personaggi intervenuti nella tavola rotonda virtuale contenuta nel Catalogo – per questo in forma di rivista e non di volume – soffermandoci sui suoi protagonisti.

Mario Tronti, per il quale “è solo un inizio è stato lo slogan più bello del ‘68”,  fa risalire “la spinta al ‘68” agli anni ’50 e ’60 con il  neocapitalismo che ha modernizzato il paese uscito dal capitalismo più arretrato, “l’inizio è la modernizzazione del paese che si trascina dietro le lotte operaie dei primi anni Sessanta”.  Quindi  vede il ’68 come modernizzazione e non come rivoluzione, anche se quest’ultimo termine lo riserva per il costume, “un rovesciamento di usi e costumi” contestati; inoè ltre gli attribuisce il merito di aver preparato l’autunno caldo operaio del ’69.  Ma il giudizio su cosa ne è rimasto non è altrettanto positivo, “il ’68 è stato un potere destituente  e non è riuscito a essere costituente, non è riuscito a creare nuove forme”. inoltre vede nel ’68 l’origine  dell’antipolitica, “il senso comune di massa, il più pericoloso”, e “nel ’68 entrano in crisi i grandi partiti di massa” perché “il partito era visto  come un elemento da battere, distruggere, eliminare”.

Altrettanto per Franco Piperno non fu una rivoluzione. Bensì una “grande trasformazione” in questo senso: “Il ’68 è il primo movimento a fare della creatività uno strumento di lotta… l’immaginazione ha davvero preso il potere?” Inoltre “nel ’68 si è data una momentanea alleanza di lotta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra operai e studenti”.E questo in una situazione del tutto mutata rispetto al passato che aveva portato “alla scomparsa della classe operaia ottocentesca” e rispetto al mondo universitario di cui veniva contestata la frammentazione rispetto all’unità del sapere.

“”Nel ’68 cambia tutto” esordisce Toni Negri e anche lui non parla di rivoluzione: “”Il ’68  è una trasformazione dei costumi talmente radicale  da determinare ovviamente un inizio. Ma è un inizio di rottura.  Si tratta certo anche di modernizzazione, ma è una modernizzazione critica, in qualche modo catastrofica”.  E non solo trasforma radicalmente il mondo dell’università, ma “rappresenta  una grande trasformazione del mondo del lavoro e anche della disciplina sociale”.Più in generale, “è una rottura di potere che emerge immediatamente, e in Italia, dove è stato represso sin dall’inizio, cioè da quando si sono diffuse  le lotte operaie insieme a quelle degli studenti”. E non gli si possono imputare colpe: “Come  si fa a dire che una rivendicazione di libertà ha effetti negativi?”.

Dopo questo tris d’assi dei contestatori di allora, un tris d’assi di politici di sinistra. Per Luciana Castellina  “il ’68 non è stato un improvviso, spontaneo movimento di protesta come spesso erroneamente si dice. E’ stato l’approdo di una riflessione (e di un’esperienza) maturata nel corso dei meravigliosi anni Sessanta”, che hanno segnato un mutamento storico dopo la fase del dopoguerra e della ripresa economica”.  E, usciti dall’arretratezza economica “si comincia a fare i conti con il capitalismo avanzato e le nuove contraddizioni che fa emergere”. Al riguardo rivendica “il nostro incontro col ‘68”, in polemica on il PC proprio “su questa novità”.

Rossana Rossanda formula questo giudizio rispetto allo scontro generazionale: “Non so se sia giusto parlare di una ‘rottura completa’. Si può anche sostenere che il ’68 tenta delle risposte a problemi sollevati dalle generazioni precedenti del ‘900 o di fine ‘800”. Viene gettato subito tutto in politica, sull’atteggiamento del PCI, la cui “repressione ” del movimento “si è espressa soprattutto nel rifiuto di affrontare le questioni che il ’68 stava ponendo”e nell’ “appoggio diretto o indiretto alla critica delle tesi studentesche e della gioventù operaia che ne era coinvolta”.

Il terzo testimone di sinistra, Giacomo Marramao, dalla sua posizione di filosofo, afferma che “il ’68 è stato l’inizio della rottura di un’idea della società moderna neocapitalistica, fondata sulla circolazione e sul consumo, fondamentalmente pacificata”. Anche lui nega di poter usare il termine rivoluzione, perché “la rivoluzione implica un soggetto rivoluzionario” che poteva essere solo “il cosiddetto intellettuale collettivo” ; ma non la considera neppure modernizzazione, bensì una “critica-pratica della modernizzazione” perché “la modernizzazione autoritaria non potrà funzionare, avrà sempre, con il ricambio generazionale, davanti a sé dei soggetti pronti a dire no”.

Concludiamo questa sommaria rassegna con altri due personaggi, che non rientrano nei due gruppi di protagonisti e politici d’epoca ma sono testimoni particolarmente qualificati, di diverse tendenze.

Guido Viale ritiene il ’68 “l’inizio della globalizzazione del conflitto a livello sociale” che ha fatto esplodere  nei settori più diversi e nei vari paesi, con la “lotta alle gerarchie, nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali. Strumento privilegiato per rovesciare i rapporti di forza”in grado di mobilitare, oltre agli studenti e operai, “anche gli altri soggetti vittime di una precisa geometria di poteri”. in che modo? “La libertà che cercavamo non poteva che essere conquistata all’interno di una dimensione collettiva”.

Sul versante ideologico opposto Giuliano Ferrara demitizza con la sua vena graffiante.: “Non era progresso, era uno scombussolamento .dada in ritardo di quasi un secolo, un’insorgenza mondialista che univa i distinti e li fondeva nel fuoco della grande confusione babelica… Era lo spirito santo che soffia dove vuole, era la decostruzione avant la lettre…” E ammette: “1968 è un numero magico. E’ la pietra filosofale, il pensiero de-pensato e non-pensato, il grande nonsense senza ironia ci prese tutti, tutti Alice…”.  Dopo aver affermato che “il numero magico fece tendenza, moda”  conclude: “Quell’inizio fu fatale , Ci ha messo tutti a bagno nella hegeliana pappa del cuore, ha trasformato la sensibilità in sentimentalismo, ha oltraggiato quella base della cultura classica e moderna che è il cinismo epico, la capacità di scegliere il male, se necessario entrarvi, come diceva Machiavelli, ma conoscendo la differenza tra il bene e il male”.

Il ’68 nell’arte

Sul lato artistico si sono pronunciati anche alcuni dei personaggi politici citati. Luciana Castellina sulle arti figurative e il cinema ha detto: “Quanto al loro essere arte se rivoluzionarie o rivoluzionarie solo se arte, si tratta di un dibattito ben lungi dall’essere concluso”, che nel PCI fu molto aspro. E indica come “quadro simbolo” della sua generazione il quadro di Picasso Guernica.

Mentre per Rossana Rossanda  è “meglio non confondere arte e politica, sono due settori totalmente diversi e implicano diversi criteri di misura. Perciò, a un’opera che si dichiara artistica va chiesto soltanto, secondo me, se lo è davvero e secondo quali criteri”.

Giacomo Marramao entra nel tema: “Nel ’68 abbiamo la traduzione in politica di una rottura che era già avvenuta antropologicamente nei costumi, dal punto di vista degli stili espressivi nella letteratura, nella poesia, nella musica”. Parla di arte subito dopo: “L’arte del resto è sempre stata un motore straordinario della coscienza critica e della comprensione del presente… Le poetiche e le arti vengono prima delle politiche, non lo dimentichiamo, la comprensione del presente non passa tanto attraverso il concetto hegeliano, quanto piuttosto attraverso la capacità dell’aisthesis di cogliere i terminali del contemporaneo”.

Ma passiamo agli interventi espressamente centrati sull’influenza del ’68 sull’arte.  Cominciamo con Goffredo Foti che denuncia come “figlio delle nouvelles vacue , il ’68 si affettò a tradirle. I gusti in fatto di arte  dei suoi  leader e ‘quadri’  furono tradizionali, retrogradi, consolatori, consumistici, segnati dal culto della violenza e non da quello della ragione, dalla propaganda e non dalla persuasione”. E precisa: “Nelle arti, insomma, il ’68 più vero è quello che lo preparò, e che riuscì a resistere alle pressioni dei gruppi e alle strumentalizzazioni (anche economiche) che essi fecero degli artisti.

Anche Massimiliano Fuksas è inizialmente scettico: “Ritengo che il ’68 sia la conclusione di un’epoca, non l’inizio di un’altra”.  E lo spiega: “L’immaginazione non ha affatto preso il potere nei successivi anni Settanta. L’immaginazione c’era, era parzialmente integrata e ognuno individualmente se l’è portata dietro. Ma il paese, nel suo insieme, non l’ha assorbita come un fatto sociale”.Per questo “come tutte le cose belle, il ’68 è durato poco”. E’ l’arte che non può venire meno:”L’arte è l’unica cosa necessaria nella vita dell’uomo, o meglio la creatività. Se togliamo la creatività, abbiamo tolto la spinta vitale, la forza per andare avanti”.  Né è venuta meno, tutt’altro: “C’è stato un contributo incredibile in quegli anni, da Beuys all’Arte Povera. Da quel momento si afferma quello che sembra un paradosso, ma è la verità: 5utti siamo artisti, la creazione appartiene a tutti.”. Conclude con un giudizio positivo: E questa è una vittoria del ‘68″.

Positivo  anche Achille Bonitoliva, che rievoca il “proprio” ’68 ricordando  il “dialogo continuo” tra artisti e critici, le riviste e le “mostre epocali”, con il passaggio “dall’astrazione alla figurazione, dal frammento alla narrazione”. E commenta: “Quindi io nel ’68 ho intravisto la ripresa di una libertà: l’arte contro la mercificazione, l’arte contro la poetica a segno unico”. Con questi aspetti: “Gli artisti in America, in Europa e anche in Italia, con Pistoletto, cominciano a svincolarsi dalla produzione organica di un’idea riconoscibile e a operare scelte diversificate che spiazzano il mercato, che spiacciano il collezionista, il gallerista, eccetera”. E sul piano artistico: “In ogni caso, se si parla ancora di ’68, questo si deve all’idea di smaterializzazione che porta al concettuale”. In questo modo: “Smaterializzare significa superare il prodotto, l’opera mercificata, significa sostituire il concetto all’oggetto. A Napoli  si direbbe ‘basta il pensiero'”. Per finire: “Ma tornando al ’68: è una fiammata intercontinentale, che produce rinnovamento da una parte, dall’altra anche risentimento… non credo che dal ’68 provenga una lezione a senso unico”.

Germano Celant ricorda “il fiorire contemporaneamente  di movimenti come la Land Art, la Body Art, l’Arte Povera, la Conceptual Art, la pittura riduttiva e neoespressivista. Tutto è possibile e l’arte ritrova l’onnipotenza di muoversi in tutti i territori, diventare filosofia e botanica, anatomia ed ecologia, senza perdere le sue prerogative tradizionali, quali la pittura e la scultura. Al tempo stesso i materiali che diventano disponibili sono infiniti”.  Con questa conseguenza: “la logica restrittiva che riduceva la Pop Art e la Minimal Art a potenzialità ridotte di un risultato definito, lascia posto all’immaginario totale, senza limiti fissati o definiti, là dove  la rappresentazione è evento totale”.Nel nuovo corso dell’arte “tutto è centrato  sul sentire, pertanto qualsiasi realtà che si pone allo sguardo o al tatto, al pensiero o all’olfatto appare colma di infinite modulazioni e articolazioni, sfaccettature e segreti, tanto da richiedere un approfondimento che non è rappresentativo, come poteva avvenire per la pittura e la scultura, ma osmotico, vale a dire in sintonia concreta con la sua mutevolezza”.  E gli artisti? “Non si sono nascosti nel fare convenzionale e tradizionale del dipingere e dello scolpire, per non restare occulti, ma hanno cercato di stendere tessiture con il mondo della natura e della tecnologia, del comportamento e della comunicazione industriale”. in modo ancora più esplicito: “Da questo momento, dunque, l’arte appare un enorme repertorio di esperienze, tutte equivalenti perché mediatrici della complessità del reale. All’interno di questo è il soggetto, non più l’oggetto a dare impronta alla comunicazione”. La conclusione sull’arte: “Non accetta più i limiti di una codificazione perché nel mondo l’essere umano si può permettere qualsiasi cosa, l’arte diventa pertanto un intermediario dove si possono incontrare o incrociare tutte le intensità e tutti gli impulsi, tutti i moti e tutte le azioni, tutte le idee e tutte le materie, tutti i colori e tutte le tecniche, tutti i linguaggi creativi”.ù

Concludiamo la nostra rassegna con le parole della curatrice Ester Coen. Cominciano con le forme artistiche tradizionali: “Da scavalcare sono i limiti della pittura, di una tradizione che non si smorza in un solo gesto. la pittura non è più il solo atto visivo dell’immagine. Dell’immagine permane il senso morale, la misura, una misura fisica e metaforica”. e ancora: “La scultura allora si reinventa, deduce dalle pure forme della natura i suoi stessi elementi compositivi , dà vita a modi di invenzione, nuove verità tautologiche all’interno del sistema visivo dove il reale si rigenera come forma dell’immaginario. Suggerisce altrove il senso di uno spazio prospettico attraverso materiali  o elementi estranei all’arte ma non alla storia  e al mito, nella misura tangibile dello stesso principio di rappresentazione…”. Più in generale vengono sottolineate “assonanze e corrispondenze stilistiche  di matrice diversa” In Europa e in America, che però “lanciano uno stesso messaggio di sovversione e vitalismo dove i limiti tra oggetto e visione vengono definitivamente spezzati. 1968: inizia una rivoluzione”, termine che vediamo finalmente proposto e non respinto. Con questo giudizio finale: “La miccia accesa nel 1968 brilla per una brevissima stagione e bruciando rischia di consumare le sue premesse… ma niente sarà più lo stesso malgrado i tentativi di restaurazione , la ventata di aria fresca rimarrà come una conquista in ogni campo”. Per concludere: “Una carica esplosiva di dimensioni incommensurabili che getterà i semi per rinnovate utopie e si diramerà con forza straordinaria nelle generazioni a venire”. Ed ecco come si manifesta in  una molteplicità di espressioni: “Nel minimalismo, nel concettuale, nell’arte povera, nella land art, nelle correnti artistiche che in quegli anni emergono fulminee e si propagano alla stessa velocità di onde nello spazio, pur nella diversità di metodi e progettualità, quello che si capta è un progresso collettivo per una rinascita purificatoria, catartica, nello spirito di una dilagante libertà di forme e di costumi”. 

Le opere in mostra a testimonianza del ‘68

Di  queste forme artistiche, e non solo, dà testimonianza la mostra con le circa 50 opere esposte, una galleria variegata per correnti e forme d’arte dell’arco di tempo 1965-70, ma soprattutto del 1968..

Tra le opere del 1968 alcune hanno un messaggio politico esplicito, i titoli descrivono l’immagine: così “Ritratto di Mao con Bandiera Rossa” di Franco Angeli, Planisfero politico” di Alighiero Boetti, di cui c’è anche “Per un uomo alienato”, e “Italia rovesciata” di Luciano Fabro, del quale è esposta pure l’opera “Tre modi di mettere le lenzuola”;  per altri versi, “Monument for V. Tatlin” di Dan Flavin, per un artista russo con la visione del bene dell’umanità, e “Morire di classe” di Carla Cerati,  una serie di foto sull’ospedale psichiatrico di Gorizia. Della stessa Cerati molte altre serie, da “Mondo Cocktail ‘Terrazza Martini'” a “Living Theatre ‘Paradise Now”.

Altre opere recano figure, tra due “dischi di luce” in “Cilindro” di Maurizio Mochetti, due figure  in piedi in attesa su una superficie a specchio in“I visitatori” di Michelangelo Pistoletto, del quale sono esposte anche 2 opere parallele del 1965 e 1966, “Specchio”, “Pozzo specchio” con l’aggiunta “Oggetti in meno”  e “Mica”. Luigi Ontani, con “Bestiario” del 1969, presenta oltre 50 posizioni, le più diverse e acrobatiche, della sua figura in tuta nera.

Di Giovanni Anselmo 3 opere molto diverse, quella intitolata “Direzione” mostra due ali aperte sul pavimento, le altre due instalalzioni di tipologia analoga sono “Senza Titolo”.  Sempre sul pavimento,  “Bachi da seta” di Pino Pascali, definito da Achille Bonitoliva “l’artista determinante degli anni Sessanta, che già scavalca l’Arte Povera”, di lui troviamo anche 2 opere precedenti, “1  MC di terra, 2 MC di terra”, 1967, effettivamente dei cubi di materia, e “Ricostruzione del dinosauro”, 1966, con gli anelli della colonna vertebrale allineati al suolo.  

Il critico definisce “epocali” le mostre di allora di Pascali e Jannis Kounellis, del primo abbiamo detto, del secondo sono esposte 3 opere “Bianco”, “Carboniera” e “Pali rosa”. Altre opere sul pavimento “Il mio letto così come deve essere” di Pier Paolo Calzolari e “Grass grows” di Hans Haackel,7 two part variations on 2 different kinds of cubes”. poi “Fermacarte (con un passo)” di Emilio Prini e “Clear, Square, Grass, Leaning” di Joseph Koauth”.

Di altri due artisti molto rappresentativi sono esposte “”Mile du Val d’Ognes” e “Autoritratto” di Giulio Paolini, e “Festa cinese” di Mario Schifano, di quest’ultimo  anche “Umano non umano”.

 Ci sono altre forme espressive, in  particolare video, del 1968 brevi come “Magnetic Scramble” di Toshio Matsunoto e “Wind” di Joan Jonas, “Touch Cinema”, di Valie Export e  “Beached”  di Lawrence Weiner, lunghi come “Assemblage” di Merce Cunningam & Richard Moore e “Self Obliteration” di Yayoi Kusama, “Plumb Line” di Carolee Schneemann e “Three Frames Studies” di Vito Acconci del 1969-70; dell’inizio degli anni ’70 “Row Flags” e “Three Dance” di Gordon Matta Clark, “Identifications” di  Gerry Schum, “Plumb Line” di Carolee Schneemann, 1968-71.e “Mono Lake ” di Robert Smithson. 1968-2004. .

Tra le opere precedenti il 1968, del 1963-64 di Diane Arbus, Teenage Couple on Hudson Street”, “Bishop Ethel Predonzan, By Sea”  e “Russian Midget Friends in a Living Room on 100th Street, NYC” edi Berbar Venet “Goudron”;  del 1965 “Ultima Cena” di Mario Ceroli, i 12 apostoli in sagome lignee identiche allineate; del 1966 “Living Sculpture” di Marisa Merz del 1966; del 1967, “Ragazza TV (o la ragazza della televisione)” di Giosetta Fioroni , “Tubo” di Eliseo Mattiacci e “Louis  Philippe to Miocene” di Gianfranco Baruchello.

Le opere successive al 1968 esposte in mostra, oltre quelle già indicate, sono: del 1968-70 “Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo”; del 1969 “J’ai jeté 4 dessins dans le torrent Chisone (Turin) destination mer” di Gina Pane e “Bondes” di Daniel Buren; del 1972, “Untitled” di Donald Judd;  del 1961-75“Calendar” di Walter De Maria, del 1976, “Stone Circle” di Richard Long.

L’assortimento è variegato, i diversi stili rappresentati, il ’68 ben coperto con il prevalente numero di opere di quell’anno. Non si può dire, tuttavia, che l’immagine del ’68 sia di tipo artistico, anche se le arti ne sono state investite, per come in esse si riflette la società e il costume, accelerando la liberazione di forme e generi già in atto.

Bene ha fatto dunque  la direzione ad affiancare alla ricognizione artistica quella socio-politica, con i testimoni dell’epoca nelle loro valutazioni di oggi; non solo, ma  li ha invitati a incontrare i visitatori nel “finissage” sulla gradinata della Galleria Nazionale; uno spettacolo nello spettacolo.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Guttuso, un uomo innamorato alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Sala Aldrovandi, dal 3 ottobre al 6 novembre 2017 la mostra “Renato Guttuso, un uomo innamorato”  presenta a trent’anni dalla morte  3 opere espressive di una passionalità dalla quale deriva l’energia creativa e lo slancio vitale propri della fase magica dell’innamoramento nella quale si ha un rapporto speciale con la realtà. Le  citeremo evidenziandole in grassetto per distinguerle dalle oltre opere citate in corsivo per marcare i vari periodi. La mostra è a cura di Barbara Tommasi ed è contestuale alla mostra a cura di Marcella Cossu, dedicata a “Palma Bucarelli. La collezione”, a vent’anni dal lascito della stessa alla Galleria. Un parallelismo significativo perchè anche Guttuso fece l’importante lascito testamentario alla Galleria di 11 opere tra cui la “Crocifissione”, e intrigante dati i rapporti non facili tra l’artista e la direttrice della Galleria per 35 anni che prediligeva l’arte astratta e le avanguardie piuttosto che il suo realismo.  .

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Dopo la  grande mostra antologica del Centenario al Vittoriano nel 2013 abbiamo visto la mostra al Quirinale nel 2015 che ha evidenziato il lato della sua  sensibilità riguardante lo spirito religioso tradotto in un “corpus” di opere sui valori cristiani; la mostra attuale, a trent’anni dalla sua scomparsa, intende sottolinearne lo stretto rapporto con la realtà nelle sue molteplici espressioni, sia in quelle a lui più vicine, sia nelle manifestazioni della società civile e politica da cui si sentiva direttamente investito con un coinvolgimento passionale che non poteva non riversarsi anche nell’arte.

Ma non soltanto come scelta dei soggetti, che lo vedono calamitato a denunciare con dipinti memorabili lo sfruttamento e le guerre, bensì anche come milizia artistica su un fronte, quello del realismo pittorico, che si opponeva alle avanguardie sempre più dominanti nel mondo dell’arte.

Un realismo, il suo, che non si esaurisce nella mera descrizione dei dati della realtà ma vi partecipa passionalmente penetrando oltre l’apparenza per metterne  a nudo l’essenza con un approccio quasi carnale e un’intensa condivisione umana.

E’ un processo insieme fisiologico, fisico e psichico, spirituale e intellettuale, che coinvolge l’intero essere dell’artista, per questo il parallelo con l’innamoramento è quanto mai calzante. Francesco Alberoni  definisce l’innamoramento “uno stato nascente”, con “la formazione di una nuova collettività in cui ognuno vede la possibilità di un mondo nuovo e felice”, processo che “accomuna l’innamoramento alla nascita dei movimenti collettivi”.

In questi movimenti Guttuso è stato inserito realmente e non soltanto idealmente, tanto dal lato artistico che da quello politico, coinvolto e impegnato in prima persona negli eventi storici e civili del suo tempo, da vero combattente.  E poi ha sentito molto l’influsso che gli veniva dalla sua gente di Sicilia e dalla sua terra sentita in modo carnale, calda  e passionale come il suo temperamento, e lo si vede nell’intensità delle opere che ad essa ha dedicato.

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Per questi motivi nel ripercorrere la sua esistenza si rivivono le pulsioni che lo hanno stimolato e si possono sentire le forti motivazioni che ritroviamo nelle sue opere,  quell’innamoramento per una vita nella quale fossero tutelati i diritti inalienabili che lo porta alle denunce scolpite nei suoi dipinti, e anche a esprimere la sua fede incrollabile non solo nei valori collettivi di libertà e giustizia ma anche in quelli individuali legati all’intimità più raccolta, della famiglia come della persona.

Nell’arte questo si traduce nel “realismo ideologico”  e nel “realismo esistenziale” che ne fanno “un testimone del proprio tempo, un tempo collettivo e anche politico” – sono parole di Crispolti – che vuole raccontare con immagini forti in opere di grandi dimensioni, espressioni del suo impegno. Fabio Carapezza Guttuso,l’amato figlio adottivo, ricorda che lui stesso diceva “ho sentito il bisogno di dipingere il mio tempo”, e commenta: “E’  il pittore della narrazione, si avvicina agli scrittori, Moravia, Pasolini, Ungaretti, che hanno raccontato i grandi momenti collettivi”.  E nel suo realismo esprimeva molto di più della realtà che vedeva, la scavava dentro fino all’essenza mettendo in questo tutto se stesso. Come le persone innamorate, lui lo era della realtà più viva. 

La mostra presenta anche alcune fotografie dell’artista ripreso nel suo studio mentre dipinge, davanti a un quadro o con visitatori quali Gassman e Pasolini con Ninetto Davoli; inoltre il video “Incontri con Indro Montanelli; Renato Guttuso”  in cui appare l’impegno civile, sociale e politico alla base della propria arte.

Il primo amore la Sicilia, poi Roma, l’impegno intellettuale  e militante

La Sicilia, in particolare Bagheria, dove era nato il 26 dicembre 1911, è il primo amore di un uomo perennemente innamorato, nell’amato paese natio gli restano ben impresse le immagini realistiche molto colorate, che vedeva dipingere sui carretti siciliani da un pittore di cui frequentava lo studio; il suo sarà sempre un cromatismo intenso, anche violento.

Il nuovo amore diventerà Roma, dopo il viaggio iniziale nel 1924 a 13 anni, la prima mostra collettiva a 17 anni, la prima Quadriennale nella capitale nel 1931 a 19 anni. Con il suo animo polemico e combattivo si impegna in una tenzone artistica contro le tendenze “novecentiste”, e lo fa nella “Scuola romana” cui aderisce aperto ai movimenti collettivi, l’opposto dell’artista nella sua torre d’avorio.

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Essere passato da Bagheria a Roma non gli basta, a Milano per il servizio militare nel 1934 vi resta  fino al 1937  tutto preso dai contatti che ha stretto non solo con artisti come lo scultore Manzù, i pittori Birolli e Sassu, ma anche con scrittori come Gatto e Quasimodo e critici d’arte; questa tendenza a socializzare lo accompagnerà sempre, il suo studio sarà sede di intensi sodalizi culturali, ci sembra di vedere anche qui  l’innamoramento come condivisione di sentimenti di cui parla Alberoni.

Nel 1937 aprì il suo  primo studio romano in un quartiere popolare,  lì inizia l’escalation con la prima mostra personale nel 1938 alla “Galleria della Cometa” dove si radunano artisti quali Afro, Cagli e Savinio e scrittori come Moravia, Vittorini e non solo, tra i 23 dipinti esposti in mostra c’è “Ritratto di Eugenio Montale” del 1938. Fu un vero cenacolo che però ebbe vita breve perché le leggi razziali del 1938  fecero chiudere la Galleria, i proprietari Pecci Blunt e  Cagli ripararono negli Stati Uniti. E’ la fase in cui un artista come Guttuso così aperto al mondo si rinchiuse nel suo studio sfogandosi a dipingere oggetti e paesaggi, oltre a evasioni erotico-sentimentali nei nudi di donne. Vediamo esposto “Figura di donna” del 1939.

Ma non mancano fiammate di ribellione in cui raggiunge il diapason, come appare nel dipinto “La fucilazione in campagna” del 1939, che evoca l’esecuzione di Garcia Lorca, c’è  il disprezzo per i franchisti della guerra civile spagnola e insieme l’ammirata commozione per l’eroismo del poeta martire, del dipinto è esposto anche uno “Studio” preparatorio.

Dello stesso anno “Figure al balcone”  e poco dopo, intorno al 1940, con “La fuga dall’Etna”  la sua vicinanza e condivisione delle grandi tragedie sociali, in un impressionante  affresco di umanità dolente e disperata, è esposto anche il “Bozzetto”; ma anche “Ragazze a Palermo”, una raffigurazione inquieta coni 4 nudi scomposti.  Invece “Ritratto della madre”, dello stesso anno, è  diverso da tutti i ritratti perchè è ripresa nella quotidianità, seduta dietro un tavolino con una candela e due uova, la testa poggiata sulla mano sinistra, serena e in posizione di riposo dopo il lavoro domestico.  

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Il suo innamoramento, però, non ha soltanto queste espressioni collettive, nel 1938 è nato il grande amore per “Mimise, la donna della sua vita”, anche lei è oggetto della sua pittura dopo il rifugio nelle immagini di quotidianità con le fiammate dei quadri di denuncia e ribellione. Delle  numerose raffigurazioni vediamo esposto il “Ritratto di Mimise” del 1947, lo stesso rosso in un volto su cui si aprono occhi che ricordano quelli del suo “Autoritratto” di quattro anni prima,  anch’esso esposto.

Dopo il sodalizio bruscamente interrotto per la chiusura della  “Galleria della Cometa”, il cenacolo si riapre nel 1940 nel nuovo  studio di via Pompeo Magno con il ritorno di Moravia e Vittorini, cui si aggiungono Alicata, Amendola e Trobadori, l’impegno da intellettuale diventa politico con una vera  e propria milizia antifascista. Il  ripiegamento artistico si rivolge alle persone dopo le cose, e alle scenografie teatrali per il Teatro delle Arti, tra i suoi allestimenti quello di “Histoire du Soldat”, coreografo Aurel Milos. L’amore per il teatro non lo abbandonerà nemmeno nelle fasi successive.

Non viene meno l’impegno militante nell’arte, con quello clandestino di tipo politico, collabora alla nuova rivista  “Primato Lettere e Arti d’Italia” e sfida la critica più conservatrice, ma soprattutto Chiesa e regime con una “Crocifissione”  ritenuta così trasgressiva da far chiudere in anticipo la mostra e segnare la fine del Premio Bergamo nel quale si era piazzato al secondo posto.

E’ il 1942, non solo la lotta sul fronte artistico, sul fronte politico crescono i rischi, si moltiplicano le perquisizioni negli studi degli artisti, Sassu viene arrestato e condannato, Carlo Levi inviato al confino, il cerchio si stringe intorno a lui, Alicata fa appena in tempo, prima di essere arrestato con Trombadori, a consigliarlo di lasciare subito Roma avveertendolo che è entrato nel mirino della polizia politica.

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Guttuso approda a Quarto, anche qui  il suo impegno artistico si fonde con  l’impegno civile e politico, e ne enuncia i contenuti nell’articolo “Pensieri della pittura”, dove la scelta del realismo militante contro il disimpegno astrattista è motivata dalla necessità che l’artista “agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione”. Spiega  che all’artista non si chiede di impegnarsi direttamente nella lotta politica né nella milizia rivoluzionaria; ma questo, aggiungiamo, non riguarda un temperamento come il suo, una vitalità come la sua, una forza morale come la sua.

Con la fine del fascismo dall’impegno clandestino passa alla milizia diretta, da Quarto non va al Volturno ma rientra a Roma e fa parte del Comitato di accoglienza degli antifascisti espatriati, incarcerati o al confino, liberi di tornare. E’ soltanto l’inizio, non può bastargli neppure questo, ed eccolo il 10 settembre 1943 a Porta San Paolo contro i tedeschi occupanti, è con lui Trombadori, e poi milita attivamente nella resistenza curando i collegamenti tra il CLN e i partigiani della Marsica.

Tra il 1942 e il 1943 dipinge “Battaglia e cavalli feriti“, ben più di una metafora della grave situazione in quei corpi a terra, e “Trionfo della morte” con una incontenibile carica di drammaticità e disperazione nei due corpi avvinghiati.  Nell'”Autoritratto”, dello stesso periodo, si ritrae con il viso e le braccia di un rosso intenso.

Anche l’arte diventa un’arma da usare in questa lotta o comunque un’irrefrenabile sfogo personale: così crea le 24 tavole di disegni della serie intitolata “Gott mit Uns”,  le tragiche violenze naziste sui prigionieri politici  che si coprono in modo blasfemo col nome di Dio marcano l’abisso sul piano umano tra la brutalità dei torturatori e la dignità delle vittime. Scene agghiaccianti nelle quali si sente la straordinaria forza evocativa del realismo che mette a nudo le aberrazioni disumane.

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La lotta sul fronte dell’arte, realismo contro astrattismo e formalismo

Un’arte così militante deve liberare tutte le sue potenzialità rimossi i vincoli del regime, e lui non aspetta la fine della guerra per manifestare le proprie idee scrivendo sul “Cosmopolita” che da un lato “l’arte non è un’accademia”, dall’altro che “un rinnovamento non può procedere da una ‘tabula rasa’”  ma deve operare “combattendo il vecchio mondo ed aiutando ad edificare il nuovo”.

Questo richiede la stretta aderenza alla realtà che si vuole denunciare o trasformare, una realtà concretamente  impersonata negli uomini ed espressa nella storia. Per affermare questa missione non gli basta enunciarla, lo spirito associativo lo porta a raccogliere altri artisti intorno alle sue idee.  Birolli e Carlo Levi,  Cassinari e Pizzinato, Santomaso e Turcato, Vedova e Viani costituiscono con lui la “Nuova Secessione Artistica Italiana” e firmano il relativo manifesto programmatico.

Non ha perso tempo, siamo nell’ottobre 1946, un anno e mezzo dopo la liberazione del 25 aprile 1945; si bruciano ancora le tappe,  tre mesi dopo, nel gennaio 1947,  il gruppo si trasforma nel  “Fronte Nuovo delle Arti”, con gli artisti romani in maggioranza:  dalla “Secessione” al “Fronte nuovo”, l’impegno è sempre più militante. Conosce  Picasso a Parigi e firma nello stesso mese il “Manifesto del neocubismo” come nuova visione della realtà, ma non rinuncia al realismo pittorico.

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E’ una fase molto inquieta, le avanguardie aggressive, l’astrattismo è sempre più attrattivo al punto che tornato a Roma dopo un breve viaggio a Parigi soltanto due mesi dopo, nel marzo 1947,  trova che artisti del suo gruppo come Turcato, o assidui frequentatori del suo studio come  Ugo e Carla Accardi, Dorazio e Consagra, Guerrini,  Perilli, e  Sanfilippo   hanno aperto la rivista “Forma”  dove definiscono il “realismo spento e conformista” incompatibile con chi è “formalista e marxista”. Di quest’anno così agitato vediamo una testimonianza nell’opera esposta “Il merlo”, l’uccello nero si alza in volo come liberandosi da un viluppo dal cromatismo particolarmente acceso, che caratterizza un’opera dello stesso anno, “Paesaggio di Villa Massimo”, dove aveva lo studio. Caratteristiche analoghe troviamo nella “Natura morta” del 1948.   Naturalmente,  un combattente come Guttuso non rinuncia a replicare con forza a quello che considera un tradimento, ribadisce di essere “antiastratto, antidecorativo, antiformalista”, precisa che l’adesione al neocubismo è “in senso realistico mai in senso astrattista”. La polemica infuria, il  “Fronte Nuovo delle Arti” non si contrappone alle deviazioni formaliste e astrattiste, anzi è spaccato al suo interno in una sorta di guerra civile artistica combattuta da artisti spalleggiati da critici schierati sulle due posizioni, come nei giornali e le riviste, nelle gallerie e nei luoghi di incontro, addirittura a Piazza del Popolo dove  si trasferisce nei due principali caffè, al caffè Rosati gli astrattisti, al Canova i realisti, come ricorda con una nota gustosa Fabio Carapezza Guttuso. 

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Ma non solo,  si estende al piano politico, con l’adesione al fronte del realismo di Palmiro Togliatti in visita alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea del 1948 a Bologna; quasi quindici anni dopo  Krushev assumerà una posizione analoga  nel corso di una visita a una mostra di Mosca nel 1962 con il nuovo “stile severo”, ben diverso dal  “realismo socialista” celebrativo del regime. Il “Fronte nuovo delle Arti”  si scioglie nel marzo 1950, mentre si moltiplicano i gruppi di avanguardie. Lui reagisce con grandi opere, tra il 1949 e il 1951, di forte impatto visivo e intensità espressiva sui temi cruciali del realismo: la visione ambientale con “La pesca del pesce spada” e “Agrumeto sullo stretto di Messina”, una spettacolare quinta arborea con il mare sullo sfondo, l’impegno socialecon “Occupazione delle terre incolte in Sicilia”, una sorta di “Quarto stato” in marcia, e l’affresco storico con “Battaglia di ponte dell’Ammiraglio”  vera e propria pietra miiliare

Tra la dimensione quotidiana, la denuncia sociale e l’impegno politico

Guttuso è sempre in prima fila nella difesa intemerata dalle sopraffazioni e dallo sfruttamento. Contro la sopraffazione aiuta  Pablo Neruda esule dal Cile giunto alla Stazione Termini a evitare l’espulsione della polizia, con lui accorrono in sua difesa Trombadori, Moravia e la Morante; il poeta poi è testimone alle sue nozze con Mimise, e gli dedica la bella poesia “A Gutusso de Italia”.

Contro lo sfruttamento anche minorile dipinge “La zolfatorello ferito” nel 1952, cinque anni dopo il quadro “L’occupazione delle terre”, allora la ribellione vittoriosa, ora invece il trattamento disumano, lo vediamo nel corpo scheletrito che si china sulla cesta in un ambiente livido e inospitale. Seguirà l’anno dopo“La zolfara“, una scena agghiacciante, da girone infernale, non esposta, mentre c’è in mostra “Capra” del 1952, l’eco della sua terra in questo animale ripreso di lato in primo piano. 

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Ma il suo realismo non chiude gli occhi dinanzi alla quotidianità, è la fase tanto attesa della ripresa dopo le distruzioni con i momenti di respiro collettivo, dimensione da lui curata anche negli aspetti positivi, non solo nelle opere di denuncia e di impegno politico, lo ha manifestato già nel 1945 con “Ballo popolare”. Negli anni ’50 “Boogie Woogie” nel 1953 , ballo scatenato ma visi stravolti,   “La Spiaggia” nel 1955, tante figure in costume da bagno, poca voglia di divertirsi,  fino a  “Ragazzi  in vespa”  nel 1958, dopo il film “Vacanze romane”  del 1953 nel quale il giro in scooter per Roma da parte dei protagonisti iniziava dall’edificio di Via Margutta dove lui aveva lo studio, le due figure non sorridono come Gregory Peck e Audrey Hepburn, sono immerse in un rosso intenso.E’ uno dei tanti atelier che si susseguono, ricordiamo quello a  Villa Massimo, poi a via  Santa Maria Maggiore nel 1956 e a via Cavour nel 1960, la dimensione quotidiana entra nell’arte con i “Tetti di via Leonina” e “Tetti di Roma”. Mentre la dimensione politica, dopo la lacerazione creata dalla repressione della rivolta d’Ungheria del 1956 con la quale il comunismo cui aveva aderito aveva schiacciato i moti di libertà, si manifesta nell’album di disegni “Erano veramente colpevoli? Restano solo i morti” in cui esprime la sua profonda inquietudine . Nel 1960 in “Discussione”  rappresenta il confronto democratico con figuire di compagni che discutono in modo concitato.   Ma non mancano temi non politici, come vediamo nelle tavole con cui illustra la “Divina Commedia”.

La dimensione personale si fa sempre più evidente con il trasferimento dalla piccola abitazione alla Suburra alla grande residenza del Palazzo del Grillo, nella quale l’imponenza monumentale data da statue e stucchi viene addolcita dagli oggetti familiari che assiepa nello studio e raffigura in nature morte molto particolari, ricordiamo nel 1959 “Damigiane e  bottaccino”, nel 1961 “Natura morta con fornello elettrico”. Esplicita questo aspetto del suo realismo con le parole: “A me interessa trarre da ciò che vivo giornalmente l’elemento per dire qualcosa sulla realtà nella quale vivo, che mi circonda”; e precisa così il suo imperativo: “Dipingi quello che hai davanti,  con cui sei in intimità, che conosci bene perché ci stai insieme. Negli oggetti, nelle persone, nelle cose, si riflette quello che è il movimento generale della realtà”.    

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Ma si riflette altresì nella memoria e nella storia, anche personale, come negli eventi, con la sua intensa partecipazione emotiva. Ne sono testimonianza quanto mai efficace le opere del 1966,  quali  “Autobiografia” e “Il Padre agrimensore”, “Incendio alla cancelleria apostolica”  e “Paracadutista”, fino a  “Il trionfo della guerra”; dove tra le teste allucinate di cavalli imbizzarriti simili a coccodrilli,  tra gli elmetti bianchi dei nazisti aguzzini spicca la figura inerme del bambino ebreo con le braccia alzate in segno di resa nel calpo di sterminio, ripresa dalla ben nota imamgine fotografica;  le opere del 1968 come “Giornale Murale. Maggio 1968”, un’impressionante accozzaglia di scudi contro le barricate,e  le grandi composizioni degli anni ’70.  Ricordiamo i “Funerali di Togliatti”  del  1972, rappresentati a diversi anni dall’evento con un’attenta ricostruzione dei ritratti contenuti nel grande affresco tra il fiume di bandiere rosse, dopo una ricerca molto accurata che è stata documentata negli interventi di presentazione dell’attuale mostra alla Galleria Nazionale; e“Convivio” del 1973, una variante della “Discussione” in clima conviviale, dove l’aspetto personale prevale. Poi  “Caffè Greco”  del 1976, si riconosce De Chirico frequentatore come lui dalla vicina abitazione di Piazza di Spagna con altre figure, tra cui Buffalo Bill; e la “Vucciria”  del 1974, un grande affresco del mercato palermitano nel quale  venditori e compratori sono circondati dalla merce pittoresca in un’esposizione spettacolare che occupa l’intero dipinto,  ne vediamo esposto un “Bozzetto” particolarmente espressivo. .

Potrebbe sembrare un approdo, ma la sua passione di innamorato della vita e dei suoi valori lo fa penetrare ancora di più nella politica: dalla adesione ideologica alla milizia nel Partito Comunista con il quale entra nelle istituzioni, prima locali come consigliere comunale a Palermo nel 1974, poi nazionali, come senatore in due legislature dopo le elezioni del 1976 e del 1979.  Anche questo suo amore si riflette nell’arte, lo vediamo in particolare nel dipinto “Comizio di quartiere”  del 1975, mentre “Il Muro di Erice” del 1976, l’anno della prima elezione, ci riporta alla sua Sicilia, con le pietre compatte della costruzione senza finestre e una piccola porticina; sole finestre con i relativi balconcini, invece, in “Vecchie case a Palerrmo” del 1978.

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L’epilogo, tra la malinconia e sprazzi di indomita vitalità

I  notevoli impegni su tanti fronti, artistico e sociale, politico e intellettuale, continuano, come prosegue il suo sodalizio con artisti e scrittori quali Trombadori, Bufalini e Sapegno,  incontra anche personaggi ben diversi come Andreotti e il vescovo Angelini.  Nella  sua vita privata a Palazzo del Grillo è impegnato senza sosta nello scrivere la mattina, nel dipingere e disegnare nel pomeriggio.

Non può evitare la malinconia, Fabio Carapezza Guttuso la definisce  “una linfa sotterranea” che ispira le sue letture, il ritorno sugli antichi maestri, e le opere dell’ultimo Guttuso. Lo si riscontra in  “Allegorie” e “Il sonno” del 1979-80, nelle opere cariche di mistero come “La visita della sera” conla tigre che entra nel suo giardino mentre scendono le ombre, e “Sera a Velate” entrambe del 1980; e nelle nature morte allegoriche del 1984, come “Bucranio”, “Mandibola di pescecane”, “Drappo nero contro il cielo”, fino ai nudi “Ginecei” e “Due donne sdraiate” .  Vediamo anche “Garofani” del 1981. 

Del 1985 è esposto il “Ritratto di Sarah Bernhardt”,  raffigurò amici e personaggi fino all’ultimo,; sono di pochi  anni prima il “Ritratto di Giorgio Amendola” del 1979 e il “Ritratto di Moravia” del 1982,  entrambi ripresi a sedere, il primo austero, il secondo pensoso; andando indietro nel tempo, il “Ritratto di Anna Magnani” del 1960, scura e aggrondata com’era, e il “Ritratto di Mario Alicata” del 1955, visto di profilo, fino al già citato “Ritratto di Eugenio Montale” del 1938.

Ma  l’innamorato della vita di cui ha voluto esprimere, con il suo realismo appassionato, tanti aspetti unendo alla narrazione l’indignazione e la denuncia o la pietà e la condivisione, non si arrende alla malinconia. Lo si riscontra nella allegoria in cui la speranza vince la propria stanchezza di “Spes contra spem”  del 1982 e, sull’orlo della vita, in opere come “Angurie” del 1986, un’esplosione di colori, nel sussulto di vitalità di un combattente che non rinuncia alla lotta.   

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“Angurie” è del 1986, il 5 ottobre scompare l’amata Mimise, lui sfoga il suo dolore con la famiglia Carapezza scrivendo:  “Mimise non fu solo mia compagna. Fu una cosa della mia vita, parte della mia carne, della mia mente”, e “della mia cultura”.  L’uomo innamorato cui è dedicata la mostra se ne va, dopo aver espresso tanto amore per la vita, tre mesi e mezzo dopo, il 18 gennaio 1987.

Nelle esequie, le diverse dimensioni del suo impegno artistico, politico e civile vengono celebrate nelle orazioni funebri degli amici intellettuali Carlo Bo e Moravia, e dei vertici del Partito Comunista;  la dimensione religiosa, espressa nella serie di opere su temi della cristianità, dopo  la maturazione spirituale dell’ultimo periodo è riflessa nell’omelia dell’amico cardinale Angelini il quale disse: “L’eternità della sua arte è anch’essa momento e segno dello spirito che accomuna tutti gli uomini e che li predispone al mistero”.

Un riconoscimento per così dire postumo da parte della “Galleria Nazionale”, per tanto tempo scettica verso il realismo, nelle parole del soprintendente Eraldo Gaudioso all’accoglimento del lascito di 11 opere dell’artista: “La presenza di Guttuso in Galleria, finora limitata a dipinti di certo notevolissimi, ma cronologicamente scalati in uno stretto giro di anni, si dilata a tutto l’arco dell’attività dell’artista ed assume un peso pari al reale valore che Guttuso ha avuto nellel vicende dell’arte italiana contemporanea”.  Questo solenne riconoscimento del “valore reale” suona anche come doverosa autocritica.

Ripercorrere la sua esistenza ci è sembrato il miglior modo di inquadrare le opere esposte nella mostra, e le altre citate come riferimenti particolarmente significativi, calandole  nel realismo vitale e non solo artistico di un combattente che si è cimentato in tanti campi quanto mai impegnativi; e lo ha fatto sempre con l’impeto appassionato dell’uomo innamorato della vita nei suoi valori personali e collettivi per i quali vale la pena di mobilitare tutte le forze nel nome dell’umanità.

“Se bruciasse la città, da te, da te, da te io correrei…”, canta una nota canzone esprimendo il massimo di dedizione dell’innamorato. Ebbene, è quello che ha fatto “Renato Guttuso. Un uomo innamorato”: è corso dove “bruciava la città”, cioè dove erano minacciati i valori individuali e soprattutto collettivi nel suo  amore sconfinato per la vita vera e giusta, fino a lottare con l’impeto e la passionalità della migliore indole siciliana, forte della sua arte e della sua indomita personalità.

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFreccia  di Trenitalia.  Il nostro articolo sulla mostra parallela “Palma Bucarelli. La sua Collezione”  uscirà in questo sito il 22 ottobre p. v.   Per le mostre citate nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, per le precedenti mostre di Guttuso,  sulla mostra al Vittoriano 25 e 30 gennaio 2013, sulla mostra al Quirinale 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016; per i cubisti 16 maggio 2013, secessione 12, 21 gennaio 2015, astrattisti  6 novembre 2012, per il “Realismo socialista” nel massimo esponente, Deineka, 26 novembre, 1, 14 dicembre 2012;  in “culturainabruzzo.it” per i “Realismi socialisti” tre articoli tutti il 31 dicembre 2011 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  direzione della Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura,   “Autoritratto” 1943; seguono, “Fucilazione in campagna” 1939, e “Fuga dall’Etna” 1940; poi, “Ragazze a Palermo” 1940, e Battaglie e cavalli feriti” 1942-43; quindi, “Agrumeto sullo stretto di Messina” 1950, e “Trionfo della morte” 1943; inoltre, “Il merlo” 1947, e “Ritratto di Mimise”  1947; ancora, “Zolfatorello ferito” 1952, e “Il muro di Erice” 1976; infine, “La visita della sera”  1980, e “Capra” 1952; in chiusura, “Ritratto della madre” 1939-40.

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